di Fausto Toccaceli –
Sana’a 25-27 agosto
“…non si conquista il presente se non si è dominato il passato.” – Predrag Matvejevic’
Solo tre ore di ritardo, prevedibili, ma quando usciamo dall’aeroporto Sana’a è già al buio. Cerchiamo con lo sguardo il tassista che l’hotel Shamr, – dove da tempo abbiamo prenotato due stanze- avrebbe dovuto inviarci. Un uomo si avvicina, ha una divisa blu, sorride; è sicuramente un addetto dell’aeroporto; ci mostra un foglio con su scritto, a caratteri maiuscoli: Giusy Burattini. Giusy sarebbe arrivata l’indomani da Addis, per unirsi a noi nella visita di San’a; la direzione dell’ hotel, era ben evidente, ci aveva del tutto ignorati. Chiediamo un taxi privato
L’aria ora è ferma in fondo alla valle, un paio di motorini a scoppio, sottratti a qualche museo, ci superano incuranti, cavalcati da uomini armati di jambiya –la spada ricurva, tradizionale dello Yemen -, gonnellino e coperti da kufia. La guida si ferma e ci indica un castello appeso su un costone: è l’abitazione dell’imam, dice, non è accessibile ai turisti, si può solo osservare dalla nostra postazione; ruderi intorno, case fatiscenti rigorosamente costruite in mattoni e ornate di gesso e d’alabastro, con la comune caratteristica di avere su ogni lato innumerevoli vetrate colorate. Alcuni bambini, scorrazzano lì vicino, alternati da donne di nero vestite, coperte dallo chador: l’immagine di un tutto, di un unico: compendio nell’orbita di occhi neri e abbaglianti. La strada non è più percorribile: una grossa fogna spurga acqua vaio colorata sulla via, rendendola impercorribile; solo un fuoristrada potrebbe osare a percorrerla; noi abbiamo una Toyota berlina non adatta al caso, purtroppo. Si torna, salendo piano, ciò permette di osservare attentamente i vari anfratti, crepacci, creatisi nella roccia che costeggia la pista; purtroppo, alcuni di essi, sono insozzati da residui di plastica colorata, piccole discariche, frequentate da incuranti rapaci e rapidi roditori. Due ore dopo, il contesto della città non è mutato, la periferia è ancora deserta e silente. Un baracchino stracolmo di frutta, multicolore, è aperto; ci fermiamo a prendere uva, mele e banane, non si sa mai, potrebbero essere le sole cose commestibili da lì all’imbrunire. Il portiere, appena arrivati in albergo, ci informa che eccezionalmente, il ristorante dell’hotel può cucinarci del pesce e verdure cotte, anche se di bibite alcoliche non se ne parla, naturalmente. Ci guardiamo increduli e accettiamo l’”invito”. – Le virgolette sono d’obbligo, visto che il pasto ci costerà un occhio della testa-. Dopo un breve riposo, ecco di ritorno la guida: ben vestita, indossa abiti occidentali, viso pulito con pizzetto curato, sguardo intelligente e rassicurante. Si va per la città vecchia, tanto descritta e magnificata.
Old Sana’a – L’Arabia Felix, raggiunta e occupata dai romani, non penso sia stata tanto diversa da quella che ora è sotto i nostri occhi. Mentre ci avviciniamo alla parte vecchia della città, sono le tre del pomeriggio, le strade lentamente si vanno popolando di gente e anche il traffico, insieme ad un gratuito strombazzare di clacson, aumenta di intensità. I palazzi, che mantengono tutti le stesse caratteristiche (sono edificati con mattoni , hanno finestre imbiancate di gesso di un nitore abbagliante,
Ci incamminiamo. I palazzi che ci sovrastano hanno un sapore antico, eterno, che il tempo non ha mutato. I muri delle case sembrano sussurrare una cantilena dolce, come se all’interno, insieme ai mattoni cotti al sole, vi fossero corpi e spiriti celati; scende lentamente sul lastricato questa nenia a confondersi con i lamenti dei muezzin che popolano le innumerevoli moschee, visibili solo per i loro minareti. Ecco l’incantamento che ti viene incontro: qualche Chisciotte oppure Sindbad, ci sarà pure da qualche parte, dietro queste spade ricurve sorrette da cinturoni ricamati ad arte: luccicano, son ben visibili, trasmettono ciò che devono trasmettere: virilità. Ecco poi l’incanto che ti struscia e ti persegue: qualche Dulcinea o regina di Saba ci sarà pure da qualche parte, dietro questi innumerevoli chador rigorosamente neri che non riescono a celare la summa di ciò che è oro: gli occhi; questi tizzi sempre in movimento, all’erta, che parlano, pronunciano lemmi comprensibili, facilmente decifrabili; fiamme di lacrime, baluardi intoccabili. Si è in soggezione, si china il capo, nel momento degli incontri ravvicinati: loro, gli occhi fiorenti rimangono impassibili, penetrano e se vanno; guardo i miei di occhi, riflessi sul vetro di una finestra, poi guardo verso la strada, nel momento in cui un motorino mi struscia e mi fa ondeggiare; chiudo le palpebre per lunghi attimi affinché la “sindrome di Salieri” non mi perseguiti. Le vie sono brevi, si diramano come arterie, si allargano dentro silenziose piazzette per poi subito stringersi; alzando lo sguardo si perde il senso del tempo e dello spazio: vetrate multicolori dove sono appoggiati portelloni in legno decorati che risaltano e si espongono, stringendo ancora di più i vicoli che si susseguono dentro un dedalo inestricabile. La gente aumenta per strada e ciò prelude all’avvicinamento del centro commerciale di Sana’a. Ora la via è spaziosa e diritta, lascia spazio ai lati a venditori ambulanti e all’interno dei piano terra dei palazzi si susseguono i suq, che vendono ogni genere di mercanzia. Il profumo è a momenti greve, aspro: mirra e incensi di ogni tipo sono nell’aria, quasi confondono il pensiero nel momento che la vista si posa sui tappeti stesi a terra. Un ragazzo ne solleva uno: gli orditi sono perfetti, colori tenui si mescolano ad altri più intensi e si concretano in una lieve nuvola che libra leggera. E’ l’ora; le cinque del pomeriggio, la gente si disperde ed entra nelle moschee –noi non ne abbiamo accesso -; i canti si fanno più alti e rimbalzano come palla da ping pong che rimane sul rettangolo e non cade mai a terra. La guida ci chiede il permesso di assentarsi mezz’ora, affinché possa partecipare anche lui al rito pomeridiano. In attesa del suo ritorno ci propone la visita di un palazzo –indicandolo – ora adibito a museo, potremo visitarlo, c’è all’ interno un’esposizione di quadri e inoltre,ci dice, il palazzo rappresenta una tipica abitazione della città. Accettiamo la proposta. All’ingresso sta seduto un uomo che subito ci mostra le cartoline che raffigurano i dipinti che andremo a vedere; l’atrio è buio, di luce naturale c’è solo quella che passa dall’apertura del portone di ingresso, di fronte una ripida scala che porta al piano superiore. La stanza dove stazioniamo è la vecchia stalla, ricovero di capre e muli; la scala ci conduce al piano superiore destinato alle donne: le stanze sono anguste ed ognuna ha una piccola finestra con su murati piccoli riquadri che non permettono alla vista dall’esterno di penetrare all’interno. Ancora una ripida rampa è si è al secondo livello, questo adibito agli uomini. Una terza ci conduce al piano dove sempre e solo gli uomini si incontrano per affari e a prendere il tè; la volta del piano è aperta e comunica con la terrazza sovrastante cinta di merli bianco gesso; vi accediamo, con il fiato che si fa sempre più corto. Sana’a si apre alla nostra vista, il panorama è delizioso, i canti sottostanti rendono l’atmosfera impalpabile: la terrazza è grande, il muro di cinta ad altezza di petto ruota per trenta metri e permettere di scorgere, oltre agli innumerevoli minareti, le terrazze inferiori degli altri palazzi. La moschea principale della città traspare in lontananza: contiene venticinquemila persone con i suoi otto minareti, illuminati anche di giorno; sembrano fari su una scogliera, lampeggiano ad intermittenza per svelare la loro presenza e ad evitare che mezzi alati vi possono finire contro. Si rimane per qualche minuto ad osservare, solo qualche scatto rompe il nostro silenzio; le montagne che coronano la città superano i tremila metri, sono brulle, riflettono gli scarni raggi del sole che si alternano a bigie nuvole che coprono i picchi più alti, sembra una protezione naturale a si tanta magnificenza che regna indisturbata.
Ora gli odori di pesce fritto, cipolla e mescolanze piccanti si uniscono agli incensi, fin quasi a sostituirli del tutto.
E’ mezzanotte, la guida che ci ha fatto compagnia nei due giorni di visite, si è offerta per accompagnarci all’aeroporto. Arriva, con qualche minuto di ritardo, sotto una sottile pioggerellina; il cappuccio calzato e la penombra della via, lo fanno sempre di più somigliare allo sceriffo di Nottingham. C’è un’altra particolarità: la sua guancia sembra improvvisamente essersi gonfiata, come se un ascesso improvviso gli avesse deturpato il volto; così non è, sono solo un paio d’etti di kat, che lentamente nelle ultime due ore si è messo in bocca. I nostri sguardi si incrociano, turbati, ci chiediamo se il soggetto sarebbe stato in grado di guidare fino all’aeroporto. Si parte, nell’incredulità e nel timore. La via sempre al buio è molto trafficata, le auto e i camion senza fanali. Il folle zigzagando all’impazzata ad una velocità sostenuta impreca contro i mezzi semibui, si attacca al clacson, guarda nervosamente l’orologio. Ridacchi che si sprigionano senza motivo, cercano di stemperare l’alta tensione creatasi nell’abitacolo. Un miracolo, per un puro miracolo, arriviamo nel parcheggio dell’aeroporto; lo salutiamo, – la sua guancia è sempre più gonfia, gli occhi rossi, – con la promessa che ci saremmo rivisti di nuovo. Certo, magari a passeggio nella vecchia, cara, Sana’a.
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Bondì,
a Sana'a, allora yemen del Nord, ci sono stato 18 mesi, dal sett 1979 al magg 1981.
Da come lei dettagliatamente racconta, (molto difficile spiegarlo alla gente), dopo 37 anni sembra sia cambiato poco. Avevo lasciato delle amicizie locali e volevo sempre ritornarci: però e per impegni personali e la maledetta guerra poi, credo proprio che lo Yemen non lo revedrò mai più.
I ricordi sono tutt'ora vivi ed ho sempre creduto che sia l'unico e autentico paese arabo.
Complimenti per il suo ricordo.
La saluto,
Alessandro Brustoloni