di Fausto Toccaceli –
Sana’a 25-27 agosto
“…non si conquista il presente se non si è dominato il passato.” – Predrag Matvejevic’
Solo tre ore di ritardo, prevedibili, ma quando usciamo dall’aeroporto Sana’a è già al buio. Cerchiamo con lo sguardo il tassista che l’hotel Shamr, – dove da tempo abbiamo prenotato due stanze- avrebbe dovuto inviarci. Un uomo si avvicina, ha una divisa blu, sorride; è sicuramente un addetto dell’aeroporto; ci mostra un foglio con su scritto, a caratteri maiuscoli: Giusy Burattini. Giusy sarebbe arrivata l’indomani da Addis, per unirsi a noi nella visita di San’a; la direzione dell’ hotel, era ben evidente, ci aveva del tutto ignorati. Chiediamo un taxi privato vista l’ora, l’una di notte, siamo stanchi, ed è nostro desiderio andare a dormire il più presto possibile. Un impalpabile, minuto figuro, si avvicina: -Taxi!? – Sì taxi, Hotel Shamr -. Mentre il tassista, ruminando kat, ci sta caricando i bagagli, un altro losco individuo si presenta con il solo dire: hashish!? Bene, penso, cominciamo bene, un caloroso benvenuto con dettagliata presentazione di prodotti locali . Nella penombra del parcheggio –la semplice operazione di caricare quattro valigie, visto lo stato del taxista saturo di alcaloidi, è alquanto laboriosa- mi giro intorno per individuare qualche venditore di fucili automatici o bombe a mano . Nessun’altro però, solo i due, meno male. Mezz’ora dice, ci vorrà mezz’ora per arrivare in hotel. E’ piovuto poco prima, la strada a tre corsie intramezzata di segnali catarifrangenti luccica come una pista d’atterraggio di un aeroporto; i mezzi che superiamo o che ci superano, per lo più, non hanno luci, qualcuno di essi, le ha solo di posizione. Sembra un gioco, un videogame. C’è silenzio in auto e non certo per la stanchezza. Il poverino, ingurgitando kat in continuazione, -ha una bustina vicino il cambio, ogni marcia che scala raccatta un paio di foglie e avidamente le mette in bocca- cerca in un inglese, con chiare inflessioni arabe, di dire qualcosa; nessuno lo comprende: manteniamo il nostro silenzio, mentre increduli osserviamo il zigzagare folle del tossico gnomo ricciuto. L’albergo ci appare luminoso nella sua scritta rosso papavero. Due inservienti ci vengono incontro scendendo le scale dell’atrio; saliamo; sesto piano noi e, Ivana al settimo. Il corridoio, antistante l’ingresso alle camere, è estremamente spazioso e lungo, ci sono poltrone e tavoli sparsi ovunque, deserti. Apro la porta; ciò che si presenta è un incanto, sembra una burla; l’arredamento è scarno essenziale, ma la suite è circa duecento metri quadrati: sala da pranzo, cucina con frigo, bagno ampio, due salotti con comodi sofà e televisore e due camere da letto matrimoniali, il tutto arricchito da un terrazzo che si apre sulla città semideserta –è l’una di notte-. Ci si perde all’interno. ( Il tutto comunque è spiegato: nello Yemen un uomo può avere fino a quattro mogli, non c’è da aggiungere altro sul perché di tanto spazio destinato ai viaggiatori). Realizziamo immediatamente che due suite per quattro persone sono troppe, difatti Ivana, mentre sto per uscire per raccontarle quanto appena visto, è già davanti la porta con le valigie; abbiamo avuto la stessa idea, trasferirci tutti in una sola suite. Giusy arriva in orario la mattina dopo. Scendiamo per la colazione e qui arriva la sorpresa dolente: siamo nel periodo del ramadan e di questo eravamo a conoscenza, ma quello che non sapevamo e che qualsiasi persona, anche se non di fede musulmana, è tenuta a rispettare le regole del ramadan stesso – una tazza di latte con caffè siamo riusciti comunque ad averla-. Anche qui c’è poco altro da aggiungere: trovare qualcosa da mangiare fino al calar del sole sarebbe stata cosa improba; alcolici neanche a parlarne e fumare, ci intima il portiere, è permesso solo nelle stanze d’albergo, lontani da ogni occhio di dio. Integralisti? Sciagurati, aggiungerei, senza indugio. La guida, richiesta la sera prima, si presenta in perfetto orario: il programma di giornata è quello di visitare la periferia di Sana’a il mattino e, la parte vecchia della città, il pomeriggio. Mentre si attraversa la periferia si ha la sensazione di trovarsi nel risveglio di un primo dell’anno, quando i più ancora dormono, dopo i bagordi della nottata di festa; siamo invece al principio di un comune martedì di agosto. Quello che ci è stato annunciato corrisponde per filo e per segno alla realtà; negozi serrati e poca gente in giro, per lo più pastori e commercianti di frutta. Ora le case si diradano e lasciano spazio a petrose colline, anche la strada fino a poco prima asfaltata e spaziosa si trasforma di colpo in una pista, stretta e polverosa. Pochi chilometri, poi il tracciato salendo, si interrompe su un piccolo spiazzo. La guida ci fa cenno che siamo arrivati alla meta; scendiamo dall’auto, e, dopo qualche metro percorso a piedi, ci troviamo sull’ orlo di un baratro profondo alcune centinaia di metri: ciò che appare lì sotto è d’incanto; la distanza della piana sottostante dal punto di osservazione è notevole ma le case con i comuni orli tinti di gesso, su tetti piani e gli innumerevoli alberi da frutto, compongono un paesaggio da ” mille e una notte” ben visibile. La distesa è sabbiosa e arida, sicuramente regno di un lago, qualche migliaio di anni fa; l’aria è tersa, una leggera brezza stempera il calore che risplende sulle pietre tufose. Di lato una panchina, pitta di verde, coperta, è stata istallata per godere il belvedere; dietro di noi, sul profilo delle rocce, si staglia Sana’a con gli innumerevoli minareti che sembrano sospesi in aria. La brezza è tesa, fresca, non concede alcun rumore, anche il falcone posato sulla mano di un bambino che ci ha raggiunti, muovendo le ali per mantenersi in equilibrio, lo fa in silenzio. Rientriamo nell’auto e procediamo per una strada sconnessa che ci porterà nel villaggio sottostante.
L’aria ora è ferma in fondo alla valle, un paio di motorini a scoppio, sottratti a qualche museo, ci superano incuranti, cavalcati da uomini armati di jambiya –la spada ricurva, tradizionale dello Yemen -, gonnellino e coperti da kufia. La guida si ferma e ci indica un castello appeso su un costone: è l’abitazione dell’imam, dice, non è accessibile ai turisti, si può solo osservare dalla nostra postazione; ruderi intorno, case fatiscenti rigorosamente costruite in mattoni e ornate di gesso e d’alabastro, con la comune caratteristica di avere su ogni lato innumerevoli vetrate colorate. Alcuni bambini, scorrazzano lì vicino, alternati da donne di nero vestite, coperte dallo chador: l’immagine di un tutto, di un unico: compendio nell’orbita di occhi neri e abbaglianti. La strada non è più percorribile: una grossa fogna spurga acqua vaio colorata sulla via, rendendola impercorribile; solo un fuoristrada potrebbe osare a percorrerla; noi abbiamo una Toyota berlina non adatta al caso, purtroppo. Si torna, salendo piano, ciò permette di osservare attentamente i vari anfratti, crepacci, creatisi nella roccia che costeggia la pista; purtroppo, alcuni di essi, sono insozzati da residui di plastica colorata, piccole discariche, frequentate da incuranti rapaci e rapidi roditori. Due ore dopo, il contesto della città non è mutato, la periferia è ancora deserta e silente. Un baracchino stracolmo di frutta, multicolore, è aperto; ci fermiamo a prendere uva, mele e banane, non si sa mai, potrebbero essere le sole cose commestibili da lì all’imbrunire. Il portiere, appena arrivati in albergo, ci informa che eccezionalmente, il ristorante dell’hotel può cucinarci del pesce e verdure cotte, anche se di bibite alcoliche non se ne parla, naturalmente. Ci guardiamo increduli e accettiamo l’”invito”. – Le virgolette sono d’obbligo, visto che il pasto ci costerà un occhio della testa-. Dopo un breve riposo, ecco di ritorno la guida: ben vestita, indossa abiti occidentali, viso pulito con pizzetto curato, sguardo intelligente e rassicurante. Si va per la città vecchia, tanto descritta e magnificata.
Old Sana’a – L’Arabia Felix, raggiunta e occupata dai romani, non penso sia stata tanto diversa da quella che ora è sotto i nostri occhi. Mentre ci avviciniamo alla parte vecchia della città, sono le tre del pomeriggio, le strade lentamente si vanno popolando di gente e anche il traffico, insieme ad un gratuito strombazzare di clacson, aumenta di intensità. I palazzi, che mantengono tutti le stesse caratteristiche (sono edificati con mattoni , hanno finestre imbiancate di gesso di un nitore abbagliante, vetri colorati, tetti piatti, con terrazza che occupa l’intera quadratura della casa, all’estremo), si fanno più fitti e preludono alle vecchie mura. Quando nei primi anni settanta P. Paolo Pasolini venne a girare alcune scene del film “Il fiore delle mille e una notte”, subì l’incanto e il fascino di sì tanta magnificenza e bellezza allo stato puro, così che, prolungò il suo lavoro realizzando un documentario: “Le mura di Sana’a”. Il documento fu posto all’attenzione della commissione internazionale per il riconoscimento della città quale patrimonio dell’umanità. Non mi stupisco certo di questo, dopo che anche a me è stata data fortuna di visitare Sana’a, anche se quanto registrato e diffuso dal regista –che poi trascorse alcuni mesi nella città di Zabid, dove ancora molti lo ricordano- ha contribuito in modo decisivo affinché il riconoscimento si concretizzasse. La porta di Bab el Yemen è maestosa; ci passiamo davanti senza poterci fermare –la vedremo dall’interno, ci dice la guida-, visto che, ambulanti non autorizzati hanno occupato tutti gli spazi adibiti al parcheggio delle auto. Proseguiamo lungo le mura, finché la strada scende di alcuni metri e si immette in uno stradone lastricato, sovrastato da due ponti in pietra a due arcate. La guida ci informa che quello stradone non è altro che il letto di un torrente, ora secco; nel periodo delle piogge assume carattere torrentizio, l’acqua raggiunge alcuni metri e non permette di certo la circolazione: trovarsi a passare di lì e sentire questo racconto, conscio del fatto di non saper nuotare…Guardo il cielo terso, mi assesto sul sedile e di nuovo mi immergo nei sogni delle mille e una notte. Una rampa –finalmente fuori dall’alveo- ci immette in un piccolo parcheggio, con vista su uno spiazzo verde, grande quanto un campo sportivo, adibito ad orto. ( E’ quantomeno originale vedere all’interno contadine in chador, rigorosamente in nero, chine sull’insalata). Il campo è circondato da mura alte tre metri, raggiungono il livello della strada che gli gira attorno, sovrastata su tre lati da palazzi di quattro cinque piani.
Ci incamminiamo. I palazzi che ci sovrastano hanno un sapore antico, eterno, che il tempo non ha mutato. I muri delle case sembrano sussurrare una cantilena dolce, come se all’interno, insieme ai mattoni cotti al sole, vi fossero corpi e spiriti celati; scende lentamente sul lastricato questa nenia a confondersi con i lamenti dei muezzin che popolano le innumerevoli moschee, visibili solo per i loro minareti. Ecco l’incantamento che ti viene incontro: qualche Chisciotte oppure Sindbad, ci sarà pure da qualche parte, dietro queste spade ricurve sorrette da cinturoni ricamati ad arte: luccicano, son ben visibili, trasmettono ciò che devono trasmettere: virilità. Ecco poi l’incanto che ti struscia e ti persegue: qualche Dulcinea o regina di Saba ci sarà pure da qualche parte, dietro questi innumerevoli chador rigorosamente neri che non riescono a celare la summa di ciò che è oro: gli occhi; questi tizzi sempre in movimento, all’erta, che parlano, pronunciano lemmi comprensibili, facilmente decifrabili; fiamme di lacrime, baluardi intoccabili. Si è in soggezione, si china il capo, nel momento degli incontri ravvicinati: loro, gli occhi fiorenti rimangono impassibili, penetrano e se vanno; guardo i miei di occhi, riflessi sul vetro di una finestra, poi guardo verso la strada, nel momento in cui un motorino mi struscia e mi fa ondeggiare; chiudo le palpebre per lunghi attimi affinché la “sindrome di Salieri” non mi perseguiti. Le vie sono brevi, si diramano come arterie, si allargano dentro silenziose piazzette per poi subito stringersi; alzando lo sguardo si perde il senso del tempo e dello spazio: vetrate multicolori dove sono appoggiati portelloni in legno decorati che risaltano e si espongono, stringendo ancora di più i vicoli che si susseguono dentro un dedalo inestricabile. La gente aumenta per strada e ciò prelude all’avvicinamento del centro commerciale di Sana’a. Ora la via è spaziosa e diritta, lascia spazio ai lati a venditori ambulanti e all’interno dei piano terra dei palazzi si susseguono i suq, che vendono ogni genere di mercanzia. Il profumo è a momenti greve, aspro: mirra e incensi di ogni tipo sono nell’aria, quasi confondono il pensiero nel momento che la vista si posa sui tappeti stesi a terra. Un ragazzo ne solleva uno: gli orditi sono perfetti, colori tenui si mescolano ad altri più intensi e si concretano in una lieve nuvola che libra leggera. E’ l’ora; le cinque del pomeriggio, la gente si disperde ed entra nelle moschee –noi non ne abbiamo accesso -; i canti si fanno più alti e rimbalzano come palla da ping pong che rimane sul rettangolo e non cade mai a terra. La guida ci chiede il permesso di assentarsi mezz’ora, affinché possa partecipare anche lui al rito pomeridiano. In attesa del suo ritorno ci propone la visita di un palazzo –indicandolo – ora adibito a museo, potremo visitarlo, c’è all’ interno un’esposizione di quadri e inoltre,ci dice, il palazzo rappresenta una tipica abitazione della città. Accettiamo la proposta. All’ingresso sta seduto un uomo che subito ci mostra le cartoline che raffigurano i dipinti che andremo a vedere; l’atrio è buio, di luce naturale c’è solo quella che passa dall’apertura del portone di ingresso, di fronte una ripida scala che porta al piano superiore. La stanza dove stazioniamo è la vecchia stalla, ricovero di capre e muli; la scala ci conduce al piano superiore destinato alle donne: le stanze sono anguste ed ognuna ha una piccola finestra con su murati piccoli riquadri che non permettono alla vista dall’esterno di penetrare all’interno. Ancora una ripida rampa è si è al secondo livello, questo adibito agli uomini. Una terza ci conduce al piano dove sempre e solo gli uomini si incontrano per affari e a prendere il tè; la volta del piano è aperta e comunica con la terrazza sovrastante cinta di merli bianco gesso; vi accediamo, con il fiato che si fa sempre più corto. Sana’a si apre alla nostra vista, il panorama è delizioso, i canti sottostanti rendono l’atmosfera impalpabile: la terrazza è grande, il muro di cinta ad altezza di petto ruota per trenta metri e permettere di scorgere, oltre agli innumerevoli minareti, le terrazze inferiori degli altri palazzi. La moschea principale della città traspare in lontananza: contiene venticinquemila persone con i suoi otto minareti, illuminati anche di giorno; sembrano fari su una scogliera, lampeggiano ad intermittenza per svelare la loro presenza e ad evitare che mezzi alati vi possono finire contro. Si rimane per qualche minuto ad osservare, solo qualche scatto rompe il nostro silenzio; le montagne che coronano la città superano i tremila metri, sono brulle, riflettono gli scarni raggi del sole che si alternano a bigie nuvole che coprono i picchi più alti, sembra una protezione naturale a si tanta magnificenza che regna indisturbata.
Ora gli odori di pesce fritto, cipolla e mescolanze piccanti si uniscono agli incensi, fin quasi a sostituirli del tutto. E’ quasi l’ora, la giornata di digiuno sta per finire. Nel breve le strade si spopolano, la gente, con passo rapido e con in mano cibaglie varie si sta dirigendo verso le proprie case per iniziare l’unico pasto giornaliero. Noi seguiamo l’esempio, chiediamo al nostro uomo di guidarci in un ristorante tipico, dove sia possibile mangiare pesce e pane locale –una specie di piadina sfogliata, ottima a dire il vero -. Il ristorante è immenso; diverse sale si alternano a corridoi angusti, tappezzati di stuoie verdi. Ne visitiamo un decina prima che i camerieri ne individuino una, deserta, all’aperto. “Family?” dice uno dei ragazzi. “ Che significa” chiedo alla guida sghignazzante. “Niente, no, niente”. “Come niente!” – ribadisco -. “Veramente, penso che il ragazzo intenda se voi siete una sola famiglia…Cioè…Se le tre signore che accompagni sono tutte tue mogli…E’ per questo che vi ha condotto in una sala deserta…Intimità, voleva solo concedervi intimità” . L’argomento si è esaurito solo quando il nostro accompagnatore ci ha illustrato le usanze locali: “Ogni uomo nello Yemen può avere fino a quattro mogli…etc…etc…” – E questo sarebbe un popolo retrogrado e noi, candidi europei, un popolo civilizzato!?? – Giusy e Ivana non hanno accettato questa supposizione e per dimostrare che le donne italiane sono emancipate e assolutamente libere e scevre da vincolo alcuno, la mattina seguente, momento dell’abbandono dell’hotel, sono scese nella hall per saldare il conto. Così è stato, ma ahi loro, la ricevuta del pagamento è stata fatta, per tutti e quattro, a mio nome…Non si sa mai, avrà pensato il portiere… “Fosse una family”.
E’ mezzanotte, la guida che ci ha fatto compagnia nei due giorni di visite, si è offerta per accompagnarci all’aeroporto. Arriva, con qualche minuto di ritardo, sotto una sottile pioggerellina; il cappuccio calzato e la penombra della via, lo fanno sempre di più somigliare allo sceriffo di Nottingham. C’è un’altra particolarità: la sua guancia sembra improvvisamente essersi gonfiata, come se un ascesso improvviso gli avesse deturpato il volto; così non è, sono solo un paio d’etti di kat, che lentamente nelle ultime due ore si è messo in bocca. I nostri sguardi si incrociano, turbati, ci chiediamo se il soggetto sarebbe stato in grado di guidare fino all’aeroporto. Si parte, nell’incredulità e nel timore. La via sempre al buio è molto trafficata, le auto e i camion senza fanali. Il folle zigzagando all’impazzata ad una velocità sostenuta impreca contro i mezzi semibui, si attacca al clacson, guarda nervosamente l’orologio. Ridacchi che si sprigionano senza motivo, cercano di stemperare l’alta tensione creatasi nell’abitacolo. Un miracolo, per un puro miracolo, arriviamo nel parcheggio dell’aeroporto; lo salutiamo, – la sua guancia è sempre più gonfia, gli occhi rossi, – con la promessa che ci saremmo rivisti di nuovo. Certo, magari a passeggio nella vecchia, cara, Sana’a.
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Bondì,
a Sana’a, allora yemen del Nord, ci sono stato 18 mesi, dal sett 1979 al magg 1981.
Da come lei dettagliatamente racconta, (molto difficile spiegarlo alla gente), dopo 37 anni sembra sia cambiato poco. Avevo lasciato delle amicizie locali e volevo sempre ritornarci: però e per impegni personali e la maledetta guerra poi, credo proprio che lo Yemen non lo revedrò mai più.
I ricordi sono tutt’ora vivi ed ho sempre creduto che sia l’unico e autentico paese arabo.
Complimenti per il suo ricordo.
La saluto,
Alessandro Brustoloni