di Diana Pasetti –
Guerra!
E’ scoppiata una guerra in Medio Oriente, E’ una terribile, improvvisa e violenta guerra tra l’Iraq, invasore del Kuwait, e gli Stati Uniti d’America, alleati con il resto quasi totale del mondo. Anche noi italiani siamo degli alleati e quindi complici delle atrocità di fine secolo. “La guerra del Golfo! La guerra del petrolio” così gridano i titoli dei giornali, che già da soli, stanno seminando, anche da noi, lo smarrimento.Lo urlano a caratteri cubitali, neri e cupi, che solo a vederli fanno salire l’angoscia a chi si ferma per leggere. Tutte le televisioni del pianeta, inoltre, trasmettono senza sosta sui loro monitor immagini terrificanti. Un getto continuo e terribile, spande negli animi visioni di morte e distruzione.
Domani potremmo essere anche noi sommersi dalla paura? Il panico va formandosi nella mente di troppe persone, come per scavare un’inutile trincea dove non sarà possibile difendersi. Le notizie delle T.V locali, mostrano i miei connazionali correre freneticamente per i corridoi dei supermercati e riempire carrelli con ogni sorta di cibarie e abbigliamento. Per le strade gli uomini assaltano le stazioni di servizio muniti d’ogni genere di taniche che riempiranno di benzina…..una corsa caotica e senza senso, come un formicaio disturbato e ora brulicante d’ insetti impazziti.
E’ un terrore collettivo raramente vissuto prima in un paese libero e pacifico.
Noi, Walter ed io, nella nostra “privata disperazione” ci apprestiamo a partire, allontanarci da tutto questo caos, concedendoci una tregua chiamata vacanza, staccandoci dal martellamento inneggiante all’orrore.
Una decisione penosa e drastica la nostra, certamente non una fuga. Semplicemente uno sradicarsi difficile alla ricerca dell’oasi più lontana possibile, materializzata in un’isoletta sperduta nell’Oceano Indiano. Cambiare aria per un po’ e se questo,in qualche modo poteva apparire una fuga era solo un fuggire da noi stessi.
Ho dovuto perciò compiere un grande sforzo per abbandonare il letto, nel quale ho passato la maggior parte del mio tempo, negli ultimi mesi, in un quasi totale oblio, soggiogata dall’effetto di farmaci.
Ora, preparando un unico bagaglio, per reazione, mi lascio trasportare da una crisi isterica trasformata in pianto. La valigia è aperta davanti a me che vi butto dentro, con rabbia, tutto ciò che mi capita a tiro, principalmente oggetti inservibili. Nascondo poi le poche cose di valore nei posti più ovvi. Il loro possesso infatti mi lascia totalmente indifferente. Tutto questo avviene imprecando. Bestemmio con la furia di uno scaricatore di porto tirando su il naso e le lacrime. Me la prendo con Cristo, sempre così prodigo, che ci ha mandato dolore in abbondanza. Me la prendo con Dio per ciò che ci ha così crudelmente tolto, come se non fosse stato già abbastanza occupato a spargere sangue ovunque, senza sosta, compresa questa guerra gratuita! Impreco con l’impegno passionale dettato dalla disperazione, aumentando di tono, pensando al particolare periodo dell’anno in cui ci troviamo. Si dovrebbe infatti, festeggiare il Natale dedicando questi giorni al ricordo di una nascita. Una nascita di cui molti avrebbero fatto volentieri a meno.
Walter è sconcertato dal mio comportamento, così violento e sconosciuto, e farebbe di tutto per farmi smettere.
“Senti, facciamola finita. Torniamo a prendere i nostri cani lasciati in pensione questa sera stessa e non andiamo da nessuna parte!”
Mi viene una grande voglia di accettare, ma come mi sentirei poi domani se lo facessi sul serio? Cercherei nuovamente rifugio in un angolo buio della casa lasciandomi cullare nel personale tormento, aspettando forse con impazienza l’inizio di una guerra globale e augurandomi di essere tra le prime a scomparire.
Così vado a dormire, imbottita dai soliti tranquillanti . La valigia è stata chiusa, e posata in attesa, dietro l’uscio. I documenti sono pronti sul tavolo per essere controllati un ultima volta domani mattina prima della nostra partenza.
E’ già molto tardi.
Ed eccoci all’aeroporto intercontinentale di Fiumicino. Un aeroporto semideserto eppure super controllato da funzionari di polizia. Sono terrorizzati e armati fino ai denti. Ogni persona è un possibile attentatore. Ogni bagaglio potrebbe essere una riserva di dinamite.
La grande lavagna elettronica posta in alto, al centro della sala, non fa che elencare nuovi voli cancellati. Nomi di destinazioni vi rullano di continuo, si annunciano solo per scomparire. Leggendoli, mi pare che le città vengano inghiottite nel nulla portandosi dietro, insieme al loro nome, anche le case, i parchi, gli abitanti, le abitudini e le stesse loro ragioni di essere. “E tu dove vai?” mi sento chiedere “Non lo sai che siamo in guerra?”
Mi stupisco alla domanda. E dove dovrei andare? A scavarmi un bunker nel prato di casa, dopo essere stata anch’io nel più fornito dei supermercati a fare incetta di cibo? O forse dovrei essere in un posto qualsiasi di Roma aspettando la catastrofe finale che avrebbe cancellato anche il suo nome dalla lavagna aeroportuale, scomparendo dal pianeta Terra insieme alle altre città, invece di essermi sforzata per trovarmi qui?
“In vacanza! Vado in vacanza. E se l’aereo deciderà poi di cadere per ragioni sue non me ne importerà un fico secco” rispondo indispettita, tirando per l’ennesima volta su il naso e bloccare così l’ultima lacrima.
“Tranquilla, via. Viaggerai con una compagnia australiana” continua colui che sembra essere un impiegato della linea aerea, seppur mimetizzato in abiti civili. Controlla i nomi sui nostri biglietti, pensando forse di aver a che fare con i soliti privilegiati in fuga.
“Gli australiani sono estranei al contesto di questa guerra e saranno i soli a decollare oggi” si sente in dovere d’aggiungere, uno dei pochi uomini rimasti sul posto di lavoro.
“Già ed io non vedo l’ora di essere in alto, il più vicina possibile a Dio per riprendere a discutere con lui sulla sua universale ingiustizia!” dico, ormai rivolta soltanto a me stessa, mentre Walter mi trascina oltre la dogana.
Ci hanno assegnato i posti in una delle file centrali del Jumbo jet, dove sono cinque i sedili allineati. Ci troviamo così, stretti tra un emigrato di ritorno a Sidney e due libanesi dalla faccia cretina. Che siano terroristi? Incominciamo anche noi a vedere fantasmi. Guardiamo nella carlinga. Ai lati dei due corridoi tutte le file con due poltrone sono occupati, ma in fondo in fondo, proprio vicino ai bagni e alla “cucina” nascosta da una tenda, vediamo due file completamente vuote.
L’aereo si appresta a partire. Le nostre cinture sono allacciate. Tutte le sigarette si spengono. La musica filo diffusa tace. Il carrello rulla sulla pista, si ferma quasi, prende la rincorsa e decolla. L’apparecchio vira sulla destra e salendo veloce lascia che un’ala penda in verticale permettendole quasi di toccare l’acqua del nostro mare in un estremo saluto.
I reattori fanno un rumore d’inferno…le orecchie si otturano, i timpani fischiano. Un bimbo a bordo piange…
Finalmente siamo in perfetto assetto di volo e la voce del comandante ci augura un “Buon Viaggio”. Sarà un lunghissimo viaggio su un aereo che, per le vie del cielo, ci porterà verso un altro clima, un altro continente, un altro mondo, lontani, lontanissimi da casa. La nostra destinazione è Bangkok, capitale di una Thailandia molto amata.
Le cinture possono essere slacciate adesso, le sigarette riaccese.
“Pardon. Scusate. Ci sediamo in fondo così staremo tutti più comodi”.
Raccogliendo i nostri effetti personali, mio marito ed io, spostando i nostri corpi per andarli a depositare in coda del velivolo, sulla penultima delle file.
L’equipaggio di bordo è già occupatissimo in una più che cordiale ospitalità. Vengono offerti dei liquori, bevande, salviette profumate, sigarette, giornali e cuffie per poter sentire la musica in stereo.Il pannello centrale della cabina, là dove verrà poi proiettato un film, si illumina. Appare una carta geografica dell’Italia. Il nostro stivale, per tre quarti circondato da un mare irreale è sorvolato dalla sagoma di un piccolo aereo in movimento, si direbbe una mosca. Sarà nostro compagno di viaggio. Ci indicherà sempre, su carte geografiche diverse, il punto esatto nel quale ci troveremo, fino a destinazione, Roma si trova alle nostre spalle da qualche minuto soltanto e sulla carta appare la Baia di Napoli con il Vesuvio. Incollo il viso all’oblò per controllare. Eccolo infatti, sotto di noi quel cono asciutto e grigio che già si sta allontanando.
La giornata si presentava grigia e fredda alla nostra partenza. Una giornata cupa tipicamente invernale. Roma sa anche essere incredibilmente malinconica a volte e può trasmetterti una triste sensazione di angoscia.
R O M A
Nostra nuora è venuta a salutarci alla partenza. Era così bella nei suoi vent’anni, con i pantaloni stretti stretti e la figurina alta e slanciata. Quanta tristezza vederla sola. Salutare lei sola.
A bordo l’aria è piacevolmente tiepida. Si sta bene anche con le maniche corte. Il pannello indica invece – 63 gradi centigradi fuori dalla carlinga, alla nostra altitudine attuale di ben 10.670 metri sul livello del mare. La velocità del velivolo è di 886 Km. orari. Ci stiamo dirigendo verso Belgrado, Yugoslavia. Sarà un lungo giro nello spazio questa volta. Una rotta più lunga e del tutto nuova, dato che sui cieli Medio Orientali lo spazio aereo è chiuso. Riesco a rilassarmi un poco e intanto passano un paio d’ore. Ora, sulla terra sotto di noi c’è Budapest, Ungheria…
B U D A P E S T
Si era in pieno inverno, anche allora. Ci trovavamo all’aeroporto di Vienna, prossimi alla partenza per Budapest, Walter, io ed il nostro bambino, ma l’aereo non voleva saperne di decollare, lasciare Vienna. Troppa nebbia sulla pista. Da un altoparlante, una voce metallica riunì tutti i passeggeri che dovevano prendere il volo. Coloro che intendevano comunque partire, furono raggruppati su un pulmann, onde poter raggiungere la destinazione via terra. Una ventina di noi si trovò così sommersa dai propri bagagli nel gelo di un autobus, poco meno che scassato, rumorosissimo per giunta. L’autista, un ometto dai lunghi baffi neri, promosso sul campo, si trovò così oltre che alla guida anche a capo di un gruppo eterogeneo di persone parlanti le lingue più diverse, nessuna delle quali era peraltro da lui condivisa.
Fu così che in una notte fredda,la variazione sul tema, l’incognita dell’avventura, la Pusta selvaggia che presto ci avrebbe avvolti, mise a tutti noi una grande allegria.
Gli scossoni erano tanti. Ad ogni buca una risata, ed il bimbo, unico tra adulti si rivelava sempre più ardente, più frizzante. La distanza tra Vienna e Budapest non era poi molta. Quattro ore di viaggio circa. Alcuni di noi, avevano comperato dei liquori all’aeroporto e ora incominciavano a passarsi le bottiglie tra un sedile e l’altro. Una pulitina al collo della bottiglia con il palmo della mano per poi mandar giù il liquido a scaldare la gola e le vene. Il semplice “Thanks” divenne passaparola e passa bottiglia e in tutti la risata si alzava più facile, la mimica si mostrava più sciolta.
Tra noi, un passeggero, uomo robusto di mezz’età, era ormai bello che partito. Si era seduto vicino allo sportello e si lamentava: “Pissa, pissa” prima in sordina, poi sempre più forte. Il bimbo rideva gioioso, commentando la scena con i suoi gridolini rendendo il poveraccio sempre più nervoso, finché questi decise di alzarsi, traballando al ritmo di una strada dissestata, per andare a tirare i baffi al nostro autista e urlargli all’orecchio: “Pissa…” affinché capisse la sua urgente necessita e si fermasse. Imperterrito il pulmann continuava a macinare chilometri. Eravamo in guerra anche allora. Era chiamata “Guerra fredda”. Ogni gesto, se captato poteva essere mal interpretato, figurarsi quindi un bus carico di stranieri fermo nella notte. La frontiera tra Austria e Ungheria era ormai prossima. Già si intravedevano, alla luce dei fari, uomini in divisa con le armi pronte ad intimarci l’alt, vicino ad un capannone. Il pulmann si fermò ed il nostro amico corse giù, una mano alzata e l’altra già sulla zip dei pantaloni.
L’allegra comitiva sconcertò i funzionari della dogana, quel tanto per far capire loro che era tutto a posto. Questo il nostro ingresso in Ungheria.
Passammo i giorni seguenti alla scoperta di Buda e di Pest divise tra loro dal bel Danubio blu. Restammo sorpresi nel vedere delle tubature di scarico uscire, senza regole e da qualsiasi altezza dai muri di vecchi caseggiati, erano sfoghi per delle stufe arrangiate, assolutamente necessarie per molte famiglie.
Ci siamo commossi ascoltando la musica triste dei violini tzigani suonati da vecchi senza tempo. Inteneriti nell’avvicinare dei bimbi dalle guance rosse come ciliegie in primavera. Lasciati coinvolgere dalla loquacità, incontrando delle donne basse e grassottelle con le teste coperte da fazzoletti multicolori. Erano tutte “nonne” che, nell’incrociarti, ti donavano una carezza e la dolcezza di un sorriso antico, piccolo mio…e come ti piacevano le cioccolate calde ricoperte di panna consumate in poveri posti di ristoro…
Mancano dieci ore e 37 minuti al nostro arrivo a Bangkok. Continuo a guardarmi intorno. Dall’altra parte del corridoio aereo, un uomo è disteso, immobile su un lettino pensile. I parenti si alternano a turno al suo capezzale offrendogli da bere o semplicemente per accarezzarlo. E’ la prima volta che incontriamo un invalido a bordo in tanti viaggi. Ripenso a mio padre e al suo ultimo volo nella terra di origine, l’America. Era già completamente cieco…ma perché mai la mente non trova riposo? Perché devono sempre attraversarla dei pensieri tormentosi?
Fuori dalla carlinga la temperatura è di 63 gradi sotto lo zero: Ho sentito dire che su Marte scende anche a 100 sotto lo zero. Qui si sta bene. Walter ha bevuto un wiskey e tende all’allegria. Io solo acqua minerale e ho fame. Dalla “cucina” posta dietro di noi, già si sente odore di cibo riscaldato. Tutte le vivande precotte sono state preparate a terra.
Stiamo attraversando un nuovo confine che divide la Polonia dall’ Unione Sovietica.
A Roma sono le quattro del pomeriggio. Qui in alto è solo l’imbrunire. I passeggeri chiacchierano, camminano avanti e indietro nei corridoi della carlinga, cercano di fraternizzare tra loro. Le comunicazioni umane sono più facili nello spazio.
La velocità è di 883 km. orari. Abbiamo raggiunto gli 11.120 metri di altezza.
I miei occhi non si staccano dal pannello centrale. La carta geografica continua nei suoi mutamenti e il piccolo aereo a muoversi su di essa. E’ l’ombra esatta del nostro Jumbo. Se dovessimo cadere ora, sapremo esattamente dove stiamo cadendo! Fuori dall’oblò è gia buio.
Stanno servendo la cena: tacchino, crocchette di patate, fagiolini, frutta secca, insalata e dolcetto…
Il pannello s’interrompe adesso, per lasciare posto alla proiezione del film. Si spengono anche le luci. Tramite la cuffia mi sintonizzo sul doppiaggio in italiano. Mi accomodo sulla poltrona con le gambe incrociate sotto il sedere. A noi il cinema è sempre piaciuto molto.
Ricordi piccolino quando ci dimenticammo di portare il tuo cuscino a bordo? Era la tua “copertina di Linus”, il tuo “Ninna nanna” e mai ne avresti fatto a meno. Io, distratta lo avevo infilato nella valigia e stava viaggiando con noi, ma nel cargo. Impossibile andarlo a prendere. Anche allora eravamo diretti a Bangkok e con te,in un lungo viaggio verso i tropici.. Eravamo su un Jumbo anche quella volta, e tu, com’eri bello nel tuo pigiamino di bimbo.
Si, persino l’aereo, era per te “casa”. Le abitudini le stesse che a casa. Quante volte lo abbiamo ripetuto questo stesso viaggio? Quasi uno per ogni anno della tua vita.
Ti eri accoccolato lungo disteso sulla moquette del corridoio, tra due file di passeggeri. Mancava il cuscino sotto la testolina. Le hostess te ne portarono a decine. Si viaggiava in pochi allora e tu accentravi sempre l’attenzione. Erano cuscini della stessa misura del tuo, ma non erano il “tuo”. Allora li facevi volare sulle poltrone vuote con un capriccio infantile, fino a calmarti e decidere di metterteli “tutti” sotto la testa. Anche in quell’occasione un film stava per iniziare. Si trattava di una delle prime avventure dell’ “Agente segreto OO7 ” e chissà per quale malefica sorte il caso ha voluto che anche questa sera la serie continui.
Il film è terminato lasciando libero il pannello per poter far muovere ancora la miniatura del nostro aereo sulla sua geografia.
“Alla prossima, caro James Bond, per una volta ancora hai vinto tu!”
Cerco Walter nella semioscurità. Lo vedo seduto poco distante da me nella sezione “fumatori” Accanto a lui si alternano altri viziosi della sigaretta, che accendono una dopo l’altra, scambiandosi quattro chiacchiere, per far trascorrere questa notte nel cielo.
Fuori dall’oblò si sta spargendo un mare di corpi celesti. Stiamo nuotando tra le stelle! Sotto l’aereo c’è un abisso di stelle, sopra di noi un infinito composto da stelle, tutto ciò che ci circonda è un formarsi di stelle. Ce ne lasciamo a centina dietro, e migliaia ci aspettano al nostro passare.Siamo sommersi tra gli astri. Che spettacolo straordinario! Voglio imprimermelo forte e profondo nella memoria in modo che mi sia nuovamente compagno nei futuri momenti di difficoltà…
…Stiamo sorvolando Mosca.
M O S C A
Eri il più piccolino tra i giovani e adulti di un gruppo organizzato, in partenza per l’Unione Sovietica. Avevi dodici anni e un portamento già molto fiero Ti sentivi felice,come sempre quando ti trovavi in viaggio. Come sempre quando eri con noi. Una notte buia ci avvolgeva quando scendemmo la scaletta dell’Aeroflot, provenienti da Roma. A Mosca faceva un gran freddo, ma tu eri ben protetto ancora prima dell’aprirsi del portellone, imbacuccato nella tutina azzurra, la sciarpetta cadente sulla spalla, il berretto tirato sugli occhi.
Stavamo vivendo con te, l’intensa emozione di trovarci uniti per conoscere un nuovo paese, in special modo questo, giacché molti ne parlavano con sospetto. Era quindi intrattenibile la gioia d’averlo potuto raggiungere, malgrado i tanti consigli ricevuti affinché non tentassimo troppo la sorte, che il nostro arrivo a destinazione ci sorprese, per la prima volta un po’ impacciati. Ti stavo stringendo forte la mano, avviandoci all’ ingresso dell’aerostazione, il che non ti impedì di scivolare lungo disteso in terra, trascinandomi al suolo con te e questo ci fece, scoppiare insieme, in un’eclatante risata per poi alzare gli occhi e trovarci in quell’assurda posizione proprio ai piedi delle “Guardie Rosse”. Erano uomini imponenti, immobili come statue , austeri con i loro colbacchi di pelliccia nera sulla testa su cui fiammeggiava una stella rossa, pronti a darci il benvenuto…Per fortuna non mostrarono, per me, la pur minima attenzione,ma guardando te, così tenero e piccino si lasciarono sfuggire un sorriso e riuscirono furtivamente a sfiorarti il viso accennando una carezza.
E l’indomani, quanta allegria nel nostro correre collettivo sulla Piazza Rossa, nel tuo zigzagare tra la neve che continuava a cadere copiosa. E i nostri inesauribili lanci di palle bianche e fredde da un’estremità a l’altra di uno spazio troppo ampio tra un San Basilio e una tomba di Lenin.
Poi nei giorni che seguirono, il tuo instancabile confusionare insieme ad altri bimbi dall’idioma sconosciuto, scambiando gomme americane per medagliette di latta, penne a sfera per pesanti cinture con fibbie ove erano scolpiti emblemi di falce e martelli. Nei ristoranti poi, quel tuo accomodarti ai tavoli vicini, mischiarti a giovani allegri che ti chiamavano. Ridevi ai loro scherzi diretti a te piccolo straniero, per poi accettare l’offerta di una mela rossa, pulita da una manica di camicia sconosciuta e subito amica….
Ci stiamo dirigendo verso Volgograd. La velocità di crociera è di 887 km. Orari. L’altezza di 12.500 metri. Sono riuscita a dormire un poco, allungata su due sedili. Adesso sono in piedi nel corridoio e cerco di sgranchirmi le gambe.
E’ bellissimo guardare fuori dagli oblò da entrambi i lati dell’aereo in questo momento tutto speciale. Si scorge abbastanza chiaramente la sfericità della terra dall’altezza in cui ci troviamo. Ovest, si trova alla mia destra dove i finestrini si affacciano su una notte ancora fonda, mentre quelli di sinistra, aprendosi a Est mi mostrano un’alba dai colori infuocati. Scelgo la parte dove la terra sta per risvegliarsi per rimettermi seduta e ritornare al mio passatempo preferito: guardare fuori, nello spazio cercando di rituffarmi ancora nel sogno! Tra poco voleremo sul Nepal…intanto la luce abbagliante del primo mattino sfiora, i picchi montani ancora oscuri, per allargarsi sempre più, con il diffondersi di una magica scia che dona loro il chiarore più prezioso di ogni eterno mattino.
Mi lascio immergere anch’io nel suo stesso incantesimo, per sentire il tepore del primo sole che nasce, e lasciando che mi riscaldi un poco l’anima concedendo una pur minima tregua al subbuglio dei miei sentimenti confusi.
K A T M A N D U
Katmandu si estende ai piedi dei bianchi Titani eternamente ghiacciati: i picchi della catena Himalayana. E’una valle di dannati, di folli e di inestimabili sognatori. Vi si respira un’atmosfera speciale insieme all’aria rarefatta, si vive un miscuglio emotivo esilarante che oscilla continuamente tra il sacro ed il profano. Ci si sofferma in entrambe le sensazioni disperandosi per un incontro tremendo o esultando alla visione di ciò che può essere solo beatitudine. Katmandu è l’ultimo dei confini tra sogno e realtà, l’ultima scelta dell’anima tra inferno e paradiso.
Nella città predominano ovunque templi di legno cadente. Sono edifici colorati di verde, di blu, scolpiti con figure allegoriche oscene inneggianti al kamasutra. Vi si fondano culture indiane e cinesi in un miscuglio grottesco. Le case, tutte affacciate su strade polverose, sono ormai ridotte ad ammassi confusi di legno tarlato.Ovunque errano esseri umani incuranti dello scorrere del tempo. La giornata che per loro si sta svolgendo è l’unica ad avere importanza.
Il viaggio si stava prospettando un’ interminabile camminata, per il compagno della mia vita e per me, un muoversi continuo, lasciandoci lacerare dentro, morire per poi risorgere e perdersi in gioie esaltanti.Un susseguirsi continuo tra visite negli inferi e un abbracciare i cieli più puri… Abbiamo cercato la divinità vivente nella lontana periferia di Katmandu e abbiamo trovato una bambina, sporca e lacera affacciata al balcone di un tempio, intenta a guardare dei suoi coetanei, luridi, scalzi e seminudi giocare nel cortile sottostante, a rincorrere dei ratti, acchiapparli e stringerseli al petto.Al più veloce, più scaltro lei offriva un’applauso battendo insieme le mani aperte come fanno tutti i bambini.
La piccina aveva cinque anni, sei forse ed era stata scelta tra le tante figlie dei dignitari del paese per essere rinchiusa fino alla pubertà, nella solitudine quasi totale, custodita solo da sacerdotesse acide e vecchie. Sarebbe potuta uscire dal tempio solo una volta all’anno, portata in processione, per le vie della città, seduta su un baldacchino, essendole vietato di poggiare i piedi su una terra calpestata dai suoi sudditi. Quel giorno sarebbe stata vestita riccamente e ornata con ori e gioielli, troppo pesanti per lei tanto magra e gracile.Sarebbe stata acclamata, toccata, stordita da una folla osannante e pazza, lei così timida e impaurita, così schiva. Per un giorno solo le sarebbe stato permesso di guardare le case, le vie polverose, passare davanti a templi meno importanti del suo, non importava se cadenti, tarlati o mostranti oscene figure. Troppa luce l’avrebbe disturbata quel giorno, il sole accecata, e l’aria fatta sentire male. Ma avrebbe potuto guardare a suo piacimento le alte vette della catena Himalayana, e chiudersele dentro per poi poterle rivedere con la mente, quando quel giorno di gloria popolare sarebbe infine terminato. E l’indomani qualcuno di passaggio, come noi, l’avrebbe potuta ancora vedere mentre affacciata al balcone, guardava con invidia altri bambini, con i quali non avrebbe mai potuto giocare, giù nel cortile, mentre per lei il tempo doveva passare , solo passare..e tutto ciò per essere Dea. L’unica vivente in tutto il mondo! e noi continuavamo le esplorazioni camminando in lungo e largo per la cittadina, tra viottoli polverosi che collegavano assurdi ripari chiamate abitazioni, illogici mercati dove non c’era niente da comprare, angoli appartati dove si nascondevano vagabondi, erranti e esseri accucciati su sudici giacigli persi in un irrecuperabile oblio.
Ai margini di un fiume abbiamo assistito ad una cremazione. La cremazione di un povero! La pira di legno acceso su cui il suo corpo posava, era ben poca cosa. Lo spazio appena appena sufficiente per contenere il solo busto mentre le estremità del corpo pendolavano fuori di esso. I resti di un essere, che era pur stato un uomo, giacevano totalmente nudi e bruciavano lentamente, troppo lentamente, mentre i suoi famigliari raccolti intorno si dividevano gli stracci che lo avevano avvolto in vita.Il tutto tenendo d’occhio le misere fiamme e non far disperdere nemmeno un tizzone, e rimboccando le carni fino alla loro totale trasformazione in cenere che sarebbero poi stata gettate nelle acque del fiume e affidate ad una corrente stanca. Lo stesso fiume dove ci stavamo trovando seduti, combattuti tra il restare o lo scappare, a debita distanza, sul più alto gradino di unica scalinata che scendeva fino a lambire l’acqua, là dove la vita continuava a svolgersi nella sua quotidianità.La scena nel suo insieme appariva come l’inneggiare profondo dei sacri rituali, espresso con movimenti umili e semplici. Splendide ragazze si immergevano completamente, scherzavano tra loro, si lavavano reciprocamente. Si insaponavano il corpo insieme alle vesti, ed infine s’insaponavano con maggior cura i lunghi capelli neri.Altre donne sciacquavano i panni inginocchiate sulla riva,mentre gli uomini, immersi fino al bacino erano intenti a interminabili abluzioni e il nostro sostare, distesi sull’ultimo lembo di prato rimasto verde, prima di cedere il passo agli scalatori diretti in alto verso le nevi perenni e vette troppo spesso invalicabili Nei pressi c’era l’unico casermone costruito con pietre , dimora di un campo stabile . Un funzionale punto d’emergenza e soccorso diretto da membri volontari delle nazioni unite. Così ci sdraiammo parlando alle cime del mondo,in un contatto reciproco e rispettoso, dato che noi, non avremmo mai osato violarle.
E poi il mischiarci nuovamente tra la gente locale di un mercato assai lontano. E anche qui l’inferno ci riprende per mano facendoci incontrare dei genitori europei venuti fin quaggiù, solo per mostrare a più gente possibile una fotografia sgualcita che da giorni stringevano tra le mani e porgendo a chiunque incontrassero sempre la stessa domanda trasformata ormai in litania:
“Lo hai visto?”
“La conosci?”
…ed infine, si infine il trattenerci tra i mitici sherpa. Parlare con loro. Popolo di eterni sognatori, guardiani dei ghiacciai e del cielo. Si lasciavano spesso alle spalle le mandrie di hyak, le loro donne, i loro figli per trasformarsi in uomini guida, caricarsi come muli, e concedersi nell’accompagnare altri idealisti verso l’alto. Sempre più in alto, fino a toccare l’intoccabile, in un baratto continuo della loro stessa vita.
La catena dell’Everest,la stessa ammirata alzando gli occhi quando eravamo in terra, si delinea sotto di noi adesso. Il Kanchenjunga, il Dhaulagiri…e, avvolta ancora come sono nella magia, mi pare di vedere da quassù, anche i nostri amici sherpa mentre avanzano. Avanzano sempre. Li vedo curvi, li sento stremati, mentre procedono imperterriti verso un alba che si sta aprendo gloriosa. Rabbrividisco, e mi viene da pensare, in un attimo strano, tutto mio, al volo che si sta svolgendo, come se mi trovassi finalmente nel mio vero habitat, come se fossi nata e vissuta sempre quassù, mentre fuori dagli oblò si estende lo spazio con la terra. E la terra potrebbe essere uno dei tanti luoghi dove, a noi,curiosi, piace recarci di tanto in tanto in vacanza per poi ritornare quassù a “casa nostra”.
Stiamo sorvolando Rangoon, Birmania, Estremo Oriente. Evviva! La temperatura esterna sta salendo. -52 gradi. Ci stiamo avvicinando al caldo tropicale. Alle nostre spalle abbiamo lasciato 7.828 km. Davanti a noi ancora un’ora e 18 minuti di volo.
A bordo ci stanno servendo la colazione, le luci sono accese, mi feriscono gli occhi per quanto sono forti. Walter è tornato a sedersi vicino a me. M’informa che il malato, immobile nel lettino pensile, è stato colto da una trombosi mentre si trovava in Italia. Adesso ritorna a casa sua a Sidney in Australia. Ha 70 anni.
“70 anni terreni o spaziali?” domando.
Davanti a noi, su poltrone tutte in disordine quattro rompiscatole vocianti fanno confusione da ore. Ma cosa avranno mai tanto da ciarlare?
Omlette, caffè, succo d’arancia, salsiccette, ancora piselli, dolcetto, cornetto…Non si fa che mangiare a bordo.
Instancabile, il piccolo aereo è ancora in movimento sulle sue carte geografiche, come noi, da ore ormai senza scalo. Lui costretto sul pannello, noi inscatolati e in movimento nello spazio.In questo momento, stiamo volando in simultanea, sull’Oceano Indiano in direzione Thailandia. Abbiamo appena superato Rangoon, rotta Bangkok. 8.322 km. dalla partenza, 0.52 minuti all’arrivo…0.35 minuti all’arrivo…
BANGKOK
“Parto, vado a Bangkok” ci dicesti deciso, pochissimo tempo fa, ormai grande, indipendente, con noi nel pensiero come sempre. Con te, immutato l’amore per la Thailandia ed il ricordo di un infanzia felice.
“Voglio sapere se mi emozionerò ancora scendendo la scaletta dell’aereo a Don Muang. Voglio vedere se è ancora bello sentire i peli che si drizzano sulle braccia per il troppo caldo e se i pantaloni si appiccicheranno ancora alle gambe per l’umidità. Voglio godermi i sorrisi di quel popolo, la bellezza delle ragazze!”
Le cinture sono nuovamente allacciate a bordo. Le sigarette spente. Ormai è giorno pieno. Sotto di noi si distinguono perfettamente le estensioni delle risaie, i moderni grattacieli, i ricchi templi dorati e la lingua grigia della pista d’atterraggio dell’aeroporto di Don Muang. La discesa ha avuto inizio. Le orecchie si otturano, i timpani fischiano. Il bimbo a bordo piange… IMPATTO! TERRA!
Tra poco anche i peli delle nostre braccia si drizzeranno con il caldo tropicale di questa nuova giornata sulla terra.
Tra poco cammineremo per le strade di Bangkok, papà ed io, sui tuoi stessi passi. Noleggeremo una Hang Yao, la piroga dalla lunga coda. Navigheremo sul fiume Chao Phraya, la “grande madre”. Partiremo poi per il Sud. Andremo a nuotare ancora nel Golfo del Siam…
…e decideremo se vale ancora la pena di vivere!