di Marco Santamaria –
No, questa non e’ la storia di un gruppo di ladruncoli e tantomeno la celebrazione di uno dei più bei momenti del cinema neorealista italiano. E’ il racconto di un viaggio a Saigon, ora ribattezzata Ho Chi Minh City in omaggio al grande leader vietnamita, lo ‘’zio Ho’’ come lo chiamano affettuosamente i suoi connazionali, alla scoperta dei radicali cambiamenti che uno sviluppo economico sostenuto ha imposto alle abitudini e allo stile di vita degli abitanti della megalopoli asiatica.
Ma andiamo con ordine. Ho Chi Minh City era la tappa iniziale di un lungo viaggio in Vietnam, una città dove trascorrere due o tre giorni e organizzare un percorso verso il nord del Paese che mi avrebbe portato fino ai confini con lo Yunnan, nella regione di Sapa, dove sopravvivono intatte le tradizioni delle tribù di montagna.
La mia idea di Saigon era legata ad una fotografia in bianco e nero. Non ricordo dove e quando la vidi, sono passati certamente degli anni: in primo piano una giovane donna con il classico cappello a cono vietnamita in sella ad una bici e sullo sfondo, lungo la strada, leggermente sfocata, una moltitudine di ciclisti che riempiva per intero lo spazio della carreggiata. Era una vecchia idea del Vietnam, quella di un popolo che si sposta in bicicletta, ma era un’ immagine romantica che mi piaceva conservare.
Le suggestioni della fotografia svaniscono definitivamente quando, usciti dall’aeroporto, dopo alcuni chilometri di strada veloce ci si addentra nella immensa periferia di Ho Chi Minh City. Sta albeggiando, rare auto, alcuni camion, ma nella prima luce del giorno si intravedono numerose persone in sella alle ‘’due ruote’’. Il sole si alza in fretta ma ancora più velocemente si materializza una moltitudine di motociclisti, i veri padroni delle strade vietnamite, un esercito rombante senza regole e senza limiti, capace di “manovre” degne di un equilibrista… o di un pazzo. Quattro milioni di moto in una città di nove milioni di abitanti significa che le due ruote a Saigon non sono soltanto un modo per spostarsi ma il mezzo per trasportare merci da un capo all’altro della metropoli. Non pensate al sottosella o al bauletto dei nostri scooter, ho visto trasportare anche l’intrasportabile su una sola moto: decine di bottiglie d’acqua, caschi di banane, corone mortuarie, gabbie stracolme di papere, quantità di giocattoli capaci di riempire una bancarella, cartoni di uova, e anche due grandi maiali vivi.
E così, scooterista incallito da anni abituato a sfidare il traffico di una delle più caotiche città d’Italia, in un mix di ammirazione e sconcerto non riesco a staccare lo sguardo da questa enorme giostra su due ruote fin quando il tassista richiama la mia attenzione per avvisarmi che siamo arrivati all’albergo che avevo prenotato on line dall’Italia sul sito di Accor Hotels.
Dopo 18 ore di volo, un paio di scali, un’ora buona impiegata per ottenere il visto in aeroporto posso finalmente decidere se sprofondare nel letto per un meritato riposo o farmi tentare da una locandina in bella vista nella hall: “20$ per 120 minuti di massaggio al corpo – 10$ per un’ora di massaggio plantare”.
Scelgo invece di uscire immediatamente e mi dirigo verso uno dei luoghi simbolo della città, il mercato di Ben Thanh quello che i francesi chiamavano Les Halles Centrales, un grande edificio con tanto di torre e orologio all’entrata dove, specialmente nelle prime ore del mattino, si commerciano mercanzie di tutti i tipi. L’area del mercato alimentare è un susseguirsi di banchi di frutta tropicale, verdure di cui non avrei mai sospettato l’esistenza, gamberi e pesci essiccati, granchi vivi, ostriche, vongole, rane, frutta secca e candita, anacardi e noccioline, banconi stracolmi di enormi buste di caramelle, caffè, thè verde, montagne di riso bianco, nero, verde, il tutto inframezzato da numerosi chioschi che servono il Pho, la classica zuppa di manzo con tagliatelle di riso che i vietnamiti consumano per colazione.
A poca distanza la Cattedrale di Notre Dame e l’edificio delle Poste centrali progettato da Gustave Eiffel ricordano i fasti del colonialismo francese. Un grande ritratto a mosaico di Ho Chi Minh, che occupa tutta la facciata centrale dell’edificio, celebra l’indipendenza dell’Indocina.
Le suggestioni della vittoria dei Vietcong sull’esercito del presidente Diem appoggiato dagli Stati Uniti si rivivono visitando il Palazzo della riunificazione. Una delle foto simbolo del conflitto è stata scattata in questo luogo all’alba del 30 aprile del 1975 quando i carri armati dell’esercito del Nord entrarono a Saigon, sfondarono i grandi cancelli di ferro all’entrata del palazzo Governativo e misero fine al conflitto con la riunificazione del Vietnam e la proclamazione della Repubblica.
A Cholon, nel quartiere cinese di Saigon, la vita scorre intorno all’animato mercato di Binh Tay ma nelle sue strade ci si imbatte in numerosi templi e pagode, fra tutte quelle di Thien Hau e di Quan Am, meta di fedeli buddisti e taoisti e preziose oasi di spiritualità al riparo dal caos del traffico cittadino.
Dopo una notte di meritato riposo arriva il momento di “scendere in pista” a bordo di uno xe om, il mototaxi, una moto di piccola cilindrata 110 o 150 cc il cui conducente, dopo averti fornito di un casco modello “berrettino da spiaggia”, è ben felice di dimostrarti la sua perizia di centauro e condurti nel più breve tempo possibile a destinazione.
La destinazione è il distretto di Cu Chi a circa 50 chilometri dalla Capitale, luogo simbolo della tenacia del popolo vietnamita. In quest’ area rurale i contadini dei villaggi organizzarono forme di resistenza all’esercito statunitense che prevedevano l’utilizzo di una complessa rete di gallerie sotterranee. Decine di chilometri di cunicoli che permettevano ai vietcong di portare rapidi attacchi agli americani e ‘’scomparire’’ letteralmente dopo l’azione. Le entrate della rete di gallerie erano accuratamente mimetizzate e la foresta in superficie disseminata di rudimentali ma efficaci trappole realizzate con canne appuntite di bambù. Su Cu Chi gli statunitensi riversarono tonnellate di bombe, defoglianti chimici e Napalm, distrussero decine di villaggi. Ancora oggi nella foresta sono visibili i crateri delle bombe sganciate dai B52 e le carcasse dei tank americani messi fuori combattimento dalle mine artigianali dei vietcong.
Ma la Repubblica socialista del Vietnam è terra di contrasti e contraddizioni. Basta percorrere ancora una ventina di chilometri e, giunti nella città di Tay Ninh, ci si imbatte nel Grande Tempio Cao Dai, la cosiddetta Santa Sede del caodaismo. L’edificio, caratterizzato da una cupola che vuole simboleggiare il paradiso e al cui centro è raffigurato l’occhio divino, è davvero singolare. Ma ancor più singolare e’ la filosofia di questa setta religiosa che venera e riconosce quali profeti del Divino, Confucio, Buddha, Maometto, Gesù e Mosè e il cui clero si tiene in contatto, tramite sedute spiritiche con gli spiriti di Giovanna D’Arco, Lenin, Shakespeare , Victor Hugo ed altri ‘’grandi uomini’’.
Ma a tanta confusione di profeti e di spiriti fa da contraltare un’organizzazione quasi maniacale e militaresca delle funzioni religiose. I fedeli ammessi a pregare all’interno del tempo, sono rigidamente divisi per sesso e censo e disposti, secondo un ordine prestabilito, in grandi quadrati.
Tanto ordine, troppo. Non percepisco la spiritualità di molti altri luoghi sacri che ho visitato in giro per il mondo.
Esco in fretta, felice di immergermi di nuovo nel caos del traffico vietnamita.
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