di Paola Zuliani –
Quattordici giorni prima avevo già la valigia pronta.
Era il viaggio che avevo sognato da bambina. In Africa ero già stata molte volte nel corso degli anni, ma si trattava sempre di paesi del nord del continente, a pochissime ore di volo dall’Italia.
Molto belli, per certo, affascinanti e profumati, almeno per i miei sensi, pieni di colori e di suoni, ma non era certo l’Africa di cui leggevo racconti antichi, romanzi moderni, lettere di persone che avevano vissuto o che continuavano a vivere in un’Africa che m’immaginavo con altri suoni, con altri colori e con volti neri e occhi vivaci.
Ed ecco che mi trovavo sull’aereo pronta ad assaporare e a fare miei panorami di una terra che m’immaginavo piena di fascino nonostante i problemi sociali in cui si dibatte tutt’ora il paese.
L’attesa e l’ansia non potevano e non andarono deluse.
Mi avevano raccontato cose terrificanti sulla difficoltà che era vivere a Port Elizabeth e nelle altre città : bianchi blindati nelle loro case, tecnici che andavano nelle fabbriche scortati dalla polizia, negri in agguato ad ogni angolo delle strade. Non so se ho fortuna nella vita, se qualche spirito protegge i miei passi. Di certo è che nonostate gli avvertimenti, i consigli su come andare in giro per la città nascondendo perfino la macchina fotografica benchè spesso in buona compagnia, il mio vagabondare nelle strade è stato all’insegna della più assoluta tranquillità. Certamente non sono stata in quartieri rischiosi da sola e di notte. Devo dire comunque che durante il giorno e anche nel tardo pomeriggio bisogna fare altrettanta attenzione come in qualunque altra città della vecchia e “tranquilla” Europa.
La popolazione negra che vive e lavora regolarmente nelle città ha adottato lo stile di vita dei bianchi ma senza perdere la propria identità e senza dimenticare le proprie radici di cui vanno giustamente orgogliosi. Lo Zulu è il gruppo etnico più numeroso, assieme ai Ndebele, presente in Sud Africa. Il loro passato storico è un lungo racconto di lotte contro le invasioni dei bianchi siano essi boeri o inglesi, lotte mirate a mantenere il proprio territorio e a difendere la loro libertà e le loro tradizioni. La lingua zulu, caratterizzata da suoni dolci e musicali, è altrettanto ufficiale che l’afrikaans e si emette perfino un telegiornale in “nguni”.
Se la lingua risulta melodiosa, l’artigianato zulu e ndenbele soprende per la vivace policromia dei tessuti e dei lavori con le perline colorate. Sarebbe impossibile ammirare tali lavori se fossero presentati su una pelle bianca. La vivacità e l’allegria dei colori di cui sono dotati bracciali, collane, ornamenti cerimoniali risaltano e prendono quasi vita sull’ebano vellutato della pelle scura.
Se al nord del paese il panorama si avvicina più a quello che immaginiamo sia la natura selvaggia africana, quella sulla costa tra Port Elizabeth e Città del Capo è tra le più verdi e rocciose che si possa incontrare in Africa e dove è lontano l’immagine di gialle savane aride abitate da pericolosi felini e da aggressivi mammiferi. Ci sono vari parchi naturali proprio a ridosso del mare, che permettono la formazione di lagune dalle mille sfumature dall’azzurro intenso al bianco della spuma. Tra tutti questi il Tsitsikamma, che in lingua koishoi vuol dire “luogo dalle mille acque”, è forse il più famoso per la ricchezza della vegetazione e la possibilità di passeggiare per i suoi sentieri e arrampicarsi sulle rocce per osservare il mare che qui sfuma dal verde pallido al turchese scuro. Oppure navigare tra le alte fenditure che ricordano piuttosto i fiordi del nord Europa, ma rallegrati da una folta e rigogliosa vegetazione.
La costa è ricca di insenature, di rientranze, di rocce e pietre che si addentrano nell’acqua, lucide di luce rossastra e vellutate di alghe verde smeraldo e che in molti punti riporta alla memoria la dolce e verde Irlanda. Witsand e il Breede River mouth situato presso il Cape Aguhlas ( la punta della costa africana geograficamente più a sud e più vicina all’Antartide) è il luogo ove il ricordo del nord Europa si fa più vivo e dove ci si può veramente dimenticare di essere in Africa. Le lunghe lingue di spiaggia color avorio si addentrano in una laguna placida e ricca di fauna che poi si apre sull’oceano le cui acque nei mesi dell’inverno boreale si ravvivano e s’increspano al passaggio delle balene in cerca di temperature più tiepide. Pace e tranquillità, acque distese che lambiscono la sabbia senza travolgerla: ecco il contrasto con uno dei punti della costa tra i più temuti dai naviganti di epoche passate: Capo di Buona Speranza. Rocce interminabili che sembrano manciate di sassi gettate nell’acqua e sparse da una maligna volontà per impedire navigazione e approdo a coloro che passavano nella speranza di terre e vie di comunicazioni migliori e più rapide per lo progresso commerciale e scientifico.
Le alte pareti di roccia e le coste frastagliate si affacciano minacciose sulle acque dei due oceani, uno di storiche conquiste e l’altro di esotici ricordi, le cui correnti si mescolano provocando cambi repentini di clima e di improvvisi accumuli di nubi e di nebbie, cortine impenetrabili per marinai di altri tempi. Di tanto le grandi formazioni rocciose si addolciscono scendendo e ammorbidendosi in spiaggie bianchissime di arena a grani piuttosto grandi, animate da voli di gabbiani e rossastre per la presenza di innumerevoli specie di alghe, piatte, larghe, a forma di foglia, di cespuglio e altre che sembrano lunghi tubi di gomma per innaffiare.
Tutta la grande riserva naturale del Capo di Buona Speranza pullula di vita di animali invisibili, ma una vasta e incontrollabile colonia di babbuini spadroneggia sulla zona, onnipresente sui tetti dei veicoli parcheggiati, in attività frenetica ai bordi delle strade, dilagando sull’asfalto incuranti, tanto gli adulti come i piccoli, della presenza delle macchine che devono pazientemente attendere che essi siano attratti da qualcosa di più interessante e si allontanino per poter riprendere a camminare. Ê comunque uno spettacolo indimenticabile vederli liberi, attenti a curarsi l’uno con l’altro, teneramente materni verso i propri piccoli tanto indifesi e felici quanto aggressivi potrebbero essere gli adulti se qualcuno osasse farsi avanti o scendere dalla macchina. Lasciando la riserva del Capo e risalendo verso Città del Capo per poi girare verso destra, ci si addentra in una zona di vigneti i cui nomi ci riportano di nuovo a ricordi della “Mitteleuropa”.
Stellenbosch è il capoluogo di tale regione, una cittadina deliziosamente tranquilla, dove perfino le macchine sembra non facciano troppo rumore, dalle vecchie case coloniali i cui portici, decorati con merlettature di legno, ricordano quelle di New Orléans. In tutta la zona risuonano nomi come Morgenhof e Delheim, Lanzérac e Verdun accanto a nomi afrikaans e dove si coltivano Pinot grigio, Cabernet Sauvignon, Chardonnay e Merlot. Ogni vigneto offre ai visitatori la possibilità di degustare il vino, di fermarsi a mangiare nei piccoli ristoranti all’aperto, di godere di tranquillità e di panorami incredibili: la vista si perde su verdi e rigogliosi orizzonti limitati dai profili frastagliati delle montagne dell’entroterra africano dove nei secoli passati trovarono rifugio mercenari tedeschi in fuga e disperati Ugonotti in cerca di pace e di un luogo ove credere senza temere selvagge persecuzioni.
Il clima di tale pace agreste e indubbiamente fuori dal comune in altre provincie africane, contrasta con quello più cittadino e frenetico di Città del Capo. Pur non essendo la capitale, Cape Town è forse la più internazionale e più famosa delle città sudafricane, piena di vita nelle strade dalle facciate vivacemente colorate o fiancheggiate da edifici modernissimi e stilizzati sede della vita economica della città.
Al pomeriggio le strade si svuotano, il traffico si perde verso la periferia di Città del Capo, ma l’area del porto dedicato alla regina Vittoria e a suo marito Alberto si anima per la presenza di una multitudine di persone che viene qui per andare ai cinema, per visitare i grandi centri commerciali di notevole lusso e buon gusto o per affollare i numerosissimi ristoranti dove è impossibile, durante il fine settimana, trovare posto senza previa prenotazione.
Nella bella stagione neri, bianchi, indiani, la cui mescolanza in un’area relativamente ristretta era un fatto impensabile e preseguibile penalmente fino a solo otto anni fa, condividono le tavole dei ristoranti, si siedono gomito a gomito sulle gradinate per ascoltare i concerti all’aperto, o assistono ai vari spettacoli che organizzano funamboli, gruppi di ballerini e cantanti di folklore, musicisti che suonano ai vari angoli per il puro piacere di esibirsi diffondendo per la zona una piacevole dissonanza di tamburi, clarinetti, canti zulu o più orecchiabili gospels.
Se i locali e i marciapiedi sono dominio delle persone, le acque del porto e i moli sono affollati da una numerosa colonia di foche. Sono ovunque sulle passerelle di legno, riposano sulle proe delle barche, dormono sotto i pontili emettendo di tanto in tanto un grunito non si sa se di piacere o per mantenere lontani i curiosi che tentano un approccio amichevole almeno con gli esemplari più piccoli.
Alle spalle del porto e ovunque lo sguardo si posi, domina la Mountain Table, la grande montagna piatta simbolo della città e ultimo baluardo davanti al quale l’oceano riporta l’eco della grande distesa ghiacciata dell’Antartide.
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