di Eno Santecchia – Soggioni in Kenya.
Con alcune pennellate di colore un viaggiatore amante dell’Africa ci dipinge degli scorci del Kenya, dove ha soggiornato a lungo.
Nel 1983 Franco arrivò in Kenya per un viaggio di piacere di due settimane.
Messi i piedi a terra si sentì pervaso da una forte energia positiva, quella sensazione lo accompagnò per tutto il viaggio: un susseguirsi di emozioni. Come una mattina, durante un safari sulla savana dell’Amboseli Park alle falde del Kilimangiaro, quando fu svegliato da un elefante che curiosava al vetro della finestra del Lodge.
Quel viaggio fu talmente emozionante che alla fine disse a sua moglie: “Vorrò morire sotto una palma, in Kenya”.
Poi trascorsero trent’anni senza tornare in Kenya; il timore inconscio era che, se fosse tornato in Africa, avrebbe fatto molta fatica a rimpatriare.
Nel 2013 fu invitato ad un viaggio in Kenya; aveva raggiunto un’età che gli avrebbe permesso di restarci.
Scendendo la scaletta dell’aereo si sentì di nuovo pervadere dalla stessa energia positiva. Precisa che anche altri viaggiatori provano la stessa sensazione: uno svuotamento totale di tutte le preoccupazioni (anche se successivamente ritornano). Franco crede che questa energia positiva sia dovuta al fatto che il Kenya è attraversato dall’equatore.
Vivere in un paese con cultura, tradizioni, usi e costumi diversi comporta una preparazione e lui si è documentato. Conosce qualche frase di swahili, dice una lingua che si legge come si scrive.
L’Intervistato ricorda una frase diventata famosa con il film animato “Il re leone” “akuna matata”: nessun problema.
In Kenya nessuno conosce Franco, tutti lo chiamano Masai, perché al primo viaggio aveva i capelli rasta e vestiva da Masai.
Il Kenya è una terra fantastica dai colori incredibili; nella fascia di savana al confine con la Tanzania il terreno è rosso; i colori sono gli stessi che si possono ammirare nel grande parco del Serengeti, in Tanzania.
Un giorno, durante un safari nello Tsavo Est Park, erano scesi tutti dai fuoristrada per una sosta quando hanno assistito in diretta e da vicino un ghepardo che inseguiva una lepre. Rimasero tutti affascinati dalla scena.
Prima di arrivare a destinazione nella contea di Kilifi, a ovest lungo la costa delloceano Indiano, seguendo la strada principale si attraversano villaggi autoctoni con scene di quotidianità: una donna che lava i piatti in un catinella con pochissima acqua, bambini che giocano spensierati, le capre e le galline che vanno e vengono. Le donne trasportano taniche d’acqua in testa o un fascio di legna sulla schiena, ciò non inficia il loro portamento elegante e altero. Sin da piccole vengono abituate a quel lavoro, che le abitua ad avere le mani libere per difendersi dagli attacchi …
Esse portano il bambino sulla schiena avvolto in un pareo (simile a quello che le nostre nonne chiamavano fazzoletto della spesa). Il piccolo è rassicurato dal contatto con il corpo della madre e a lei restano le mani libere per lavorare.
Nella contea di Kilifi l’alimentazione quotidiana dei locali è costituita da polenta (ungani) e fagioli per 364 giorni all’anno, a Capodanno mangiano carne di capretto. La farina di mais utilizzata è bianca e non troppo cotta, per risparmiare legna. Per la sopravvivenza è importante riempire lo stomaco, più che il gusto, o dare sfogo a capricci.
Vivere in Africa comporta anche il piacere di poter dare sostentamento a una o più persone. Gli europei che hanno una casa, di solito, si avvalgono di collaboratori domestici, che sono felici della presenza del turismo.
Nonostante molti abitanti dei villaggi lavorino presso le case degli europei, osservando agi e comodità che loro non possiedono, la mattina dopo ritornano sempre di buon umore. Non è nella loro cultura invidiare ciò che possiedono gli altri. Ciò che a noi occidentali non capita: più si ha, più si vorrebbe avere. Per questo Franco, in Kenya, ha ritrovato una realtà che fa bene a ridimensionare quelle che sono le nostre esigenze.
Durante un pasto Franco disse al ventenne Willy: “Mangia!”. Lui rispose: “Papa (signore), io non posso mangiare tanto, perché quando tu partirai il mio stomaco avrà dei problemi”.
Oggi le condizioni di vita locali sono leggermente migliorate: a quei tempi le capanne erano di fango che si deteriorava velocemente con le piogge monsoniche, il tetto era in makuti (le foglie della palma da cocco), con cera il letto, l’acqua, l’energia elettrica, ecc. Oggi le capanne sono di mattoni e il tetto è di lamiera ondulata zincata.
In Kenya i musulmani ed i cristiani convivono serenamente e pacificamente. Il classismo e il razzismo importato dagli europei sono molto evidenti. I commerci, importanti per la sopravvivenza, sono svolti da una tribù indiana portata dagli inglesi al tempo della colonizzazione. Grandi allevamenti e fattorie sono in mano ai musulmani sunniti. La gente di colore svolge lavori umili, non gestisce altre attività.
Il Kenya è il terzo produttore mondiale di tè e tra i più importanti di rose recise.
L’economia della Rift Valley si sviluppa nel centro-nord e un PIL pro capite in crescita è in mano alla tribù dei Kikuyu.
La città di Lamu (XIV sec.), sull’omonima isola, è stato il primo insediamento arabo, l’architettura è un connubio tra le costruzioni arabe e quelle africane.
La conosciuta e antica tribù Masai vive al confine con la Tanzania sulla savana sotto il Kilimangiaro. Essi si occupano di pastorizia e di caccia. Gli uomini e le donne sono alti e prestanti.
Le donne hanno corpi statuari; i loro capelli ricci sono difficili da districare. Anche nei più piccoli villaggi si vendono capelli sintetici al costo di pochi scellini per avere una pettinatura decente, coi loro capelli altrimenti impossibile.
Dobbiamo precisare che la viabilità è molto difficoltosa, con le piogge le piste di terra battuta diventano impraticabili. Franco dice che la prima banca completamente online si chiama Mpesa (pesa = soldi) è stata creata in Kenya nel 2007 sulla rete mobile di “Safaricom”. Consentendo scambi di denaro tra i cellulari di qualsiasi località del Kenya (anche nei piccoli agglomerati cè un punto di riscossione) è stata la soluzione a molti loro problemi, con costi accessibili: una operazione costa circa un centesimo di euro, per le piccole somme non ci sono commissioni.
Mediamente Franco trascorre in Kenya otto-nove mesi. Il periodo durante il quale è molto difficoltoso viverci va da aprile a giugno: le piogge monsoniche allagano le strade. Lui ritiene che il periodo migliore sia da luglio a ottobre, quando la temperatura diurna è buona (intorno ai trenta gradi), la notte scende di circa dieci gradi, consentendo di dormire bene. Franco non usa zanzariere, né ha fatto vaccinazioni per la febbre gialla; della malaria dice che è stata debellata.
Il colore del cielo è di un azzurro profondissimo. L’orario dell’alba (ore 6.00) e tramonto (18.00) è una costante, le ore di luce sono sempre dodici di giorno e dodici di notte.
Per comprendere come l’inquinamento luminoso ci ha precluso uno spettacolo notturno Franco dice: “Si hanno delle conquiste ma se ne perdono altre”. In Kenya di notte i cieli stellati sono poesie assolute, si possono trascorrere ore e ore ad ammirarli senza stancarsi.
Gli abitanti locali hanno la sensazione dello scorrere del tempo ridotta al minimo, non hanno l’esigenza di calcolare il tempo e sono pervasi da ingenuo fatalismo. Si aspettano che qualche eroe giunga da fuori per salvare l’Africa. Franco ha cercato più volte di spiegare, sensibilizzandoli sul fatto che non sarebbe arrivato nessuno a salvare il loro continente: l’Africa devono salvarla gli africani.
Un grande problema africano sono gli scontri tribali: molti hanno seri problemi di accettazioni con i simili.
Franco ritiene sia maturo il tempo di parlare del futuro dell’Africa. Bisogna smetterla di denigrarla parlando della povertà, degli scontri tribali, ecc. È ora di pensare al futuro di questo grande continente dalle ingenti risorse, dalla popolazione giovane e in aumento. Dice: “Facciamo crescere e diventare responsabili ed autonomi gli africani”.
La grande frattura, che secondo i geologi porterà a staccare un pezzo di continente africano e farne un’altra grande isola nell’oceano Indiano, per ora è solo una ferita.
Lo scrittore Alberto Moravia aveva viaggiato in Tanzania, Burundi, Ruanda, Zaire, Gabon e Zimbabwe, ed era legato da un rapporto importante di amicizia con Dacia Maraini e Pier Paolo Pasolini; viaggiavano spesso insieme. Franco ricorda di aver letto che Alberto Moravia, durante un viaggio con Pasolini e Dacia Maraini, ha scritto che i Paesi dell’Africa subsahariana non hanno avuto storia e sono passati dalla preistoria al futuro: non hanno goduto del sedimento delle antiche culture e civiltà.
Gli occidentali hanno la presunzione di esportare il loro stile di vita, ritenendo sia il miglior modo possibile di vivere, creando serie difficoltà a chi non ha seguito tutti i passaggi di civilizzazione necessari.
Alberto Moravia, nel suo libro “Passeggiate africane”, ha scritto: “Tutti gli altri paesi del mondo hanno una storia; l’Africa, lei, ha invece un’anima che tiene il luogo della storia. Cosicché la storia dell’Africa, alla fine quando tutto è stato detto, è la storia della sua anima”.
L’albero che i locali chiamano frangipane (plumeria o fiore del paradiso) è un alberello di medie dimensioni, ha dei grandi fiori bianchi che emettono un profumo inebriante, più forte del nostro gelsomino.
Il baobab è chiamato anche “albero a rovescio” perché, quando i suoi rami sono spogli sembrano radici. Resta senza foglie, per assenza di piogge, circa sei mesi l’anno; fiorisce ogni 50 anni con un fiore di una bellezza unica.
Nei villaggi ci sono sempre alberi con la grande chioma che regalano ombra e frescura; sotto il loro ombrello si svolge gran parte della giornata.
Alla fine Franco mi saluta con: “Jambo rafiki” (ciao amico). Mi ritengo e spero di essere un vero amico dell’Africa, di cui scrivo con molto piacere.
Eno Santecchia
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