di Chiara Milanesi –
Questo non è un diario di viaggio, ma semplici flash. Impressioni e colori di un paese che mi ha sedotto e che non ho capito.
DAMASCO
Vi è sempre, all’inizio di un viaggio, un’immagine che ci si fissa in testa e che poi ci si porta dietro nel ricordo. E’ una sorta di logo. Del viaggio, del paese. A volte un logo di storie. Tante storie. Il logo di questo viaggio è una donna in nero. Una donna in nero che scorgo dietro di me, a Damasco, mentre sto per attraversare l’arteria trafficatissima che mi porta dalla città nuova alla città vecchia.
E’ già sera. Siamo arrivati a Damasco con 12 ore di ritardo. Il volo Alitalia, delle 21h40, invece di atterrare a Damasco cambia rotta all’ultimo momento e atterra a Beirut. “Per causa di nebbia”, annuncia il capitano. Damasco sfavilla di luci sotto di noi.
Da Beirut il volo riparte alle 10 della mattina dopo, il 27 dicembre 2004, senza che la compagnia fornisca ai passeggeri alcuna spiegazione del ritardo. Circolano voci su diritti aeroportuali che Alitalia non avrebbe pagato. I passeggeri stranieri giurano che non voleranno mai più con la nostra compagnia di bandiera. Io mi sforzo di dormire allungata su quattro sedili della sala dei transiti.
La donna è dietro di me. Come me, aspetta che il vigile faccia segno di fermarsi al fiume in piena di taxi gialli che con i loro continui colpi di clacson informano il mondo della loro esistenza.
Di lei percepisco solo una forma. Nera, un velo nero lungo fino ai piedi, ampio sulle maniche, che le copre i capelli, la bocca e il naso. La fessura da cui si potrebbero intravvedere gli occhi e coperta da un paio di occhiali da sole a specchio. Velo e occhiali trasformano la donna in una cosa.
Percepisco che lei mi sta guardando. Anch’io la guardo. Con la coda dell’occhio, la guardo. Ma di lei non vedo nulla.
Lei mi vede, io no.
Mi sento nuda.
La Siria è un paese in cui quello che conta veramente è sempre situato dalle spalle in su. Dalle spalle in giù, si assomigliano tutti. Sacchi informi coprono forme. I colori predominanti sono il grigio, il marrone, il beige, il nero. Raro il bianco. Il rosso è confinato alle kefiah, che uomini di tutte le età indossano sul capo, in fogge diverse, fissate da un cerchio di cordone nero. Un cerchio morbido portato come la corona di spine del Cristo.
Dalle spalle in su si coniugano i segni delle appartenenze. Il velo femminile, per esempio, si esprime in forme molteplici. Corrispondono ai gradi di fede? A questa o a quella corrente scismatica dell’Islam? Mi mancano i codici per capire. Mi limito allora a registrarne le fogge.
Si passa dai veli neri che coprono totalmente il volto e il corpo, senza permettere spiragli di sorta (le mani fuoriescono dai veli, guantate di nero), a quelli che lasciano una fessura per gli occhi, ai foulard legati stretti sotto il collo. Questi ultimi, a volte, sono sovrapposti in maniera civettuola. Uno, due, tre foulard di tinte degradanti, nero, beige, bianco sistemati a correggere le rotondità di un viso, l’ampiezza della fronte. Alcune ragazze portano veli di tessuto elastico, lavorati a maglia, all’uncinetto, che scivolano su una spalla a formare una treccia di lana. Poche le donne svelate. Qualche turista. E le cristiane. Alcune cristiane, mi dicono, portano anche loro il velo. Le altre, quelle che invece esibiscono capigliature striate dai colpi di sole, abbondanti capigliature arricchite da cotonature anni ’60, eccedono pesantemente nel maquillage. Assomigliano alle ragazze dei quartieri popolari di Marsiglia. Non sono belle. Bocche rossissime, occhi bistrati, ciglia finte e chili di monili sberluccicanti. Mi chiedo se, da parte loro, sia una forma di reazione, o se conciarsi in quel modo soddisfi canoni di bellezza mediorientali che prediligono l’eccesso.
Perdo la donna in nero e occhiali fumé in un mare di donne in nero che passeggiano sotto le arcate del souk di Damasco.
Il souk di Damasco assomiglia stranamente alla galleria Vittorio Emanuele a Milano. L’arteria principale che porta direttamente alla grande moschea degli Omayadi, situata al centro della città vecchia, è coperta da un tetto arrotondato in ghisa e lamiera. Di giorno si intravedono dei buchi da cui filtra la luce del sole. Qualcuno mi dice che sono i segni dei proiettili sparati dagli elicotteri quando nel 1982 il presidente Assad fece i raid che in Siria massacrarono più di 35mila persone. Volevano scongiurare il pericolo islamista, mi spiegherà dieci giorni dopo, Abu Jaber, il mio autista siriano. E aggiunge: “Assad, ha fatto bene. Se non l’avesse fatto, la Siria sarebbe diventata come l’Algeria.”
Nel souk alle 8 di sera, chiudono le botteghe e si apre lo spazio dei mercanti selvaggi. Per terra, alla luce delle candele o delle lampade a petrolio, si vendono tute da ginnastica, reggiseni, calzetti cinesi, saponi, olive, pistacchi, portafogli, giubbotti di nylon. Circolano le bicilette degli arrotini e le biciclette, dotate di fornelli, dei cucinatori di arachidi. Da queste ultime, attraverso un altissimo tubo di latta fissato al manubrio, fuoriesce fumo grigio.
La spianata di fronte alla moschea degli Omayadi è vuota, buia e bianca. Alcuni uomini giocano a backgammon seduti sotto il portico riservato ai pellegrini.
Ci perdiamo nel dedalo delle stradine del souk alla ricerca della Jabri House. Che troviamo per caso, dopo mille giravolte.
Sulla guida è consigliata tra i luoghi di ristoro a prezzo medio. Non appena entro decido che sarà quello il mio punto di riferimento damasceno. Un palazzo del settecento con una corte interna. Sembra di stare all’interno di un palazzo veneziano. Si mangia nella corte che in occasione dell’inverno viene coperta da un immenso telone. Una signora senza velo mi consiglia di ordinare la zuppa di ceci all’olio d’oliva. E’ deliziosa. Sul fondo galleggiano pezzi di carne morbidissima, grassa come piace a me.
Non tutti vengono al ristorante per mangiare. Gruppi di amiche velate ci vengono per giocare a carte o a backgammon. Lo stesso fanno le coppie. Cristiani e musulmani. Che pur incrociandosi raramente, visibilmente, si frequentano. Giocano ad una specie di “ciapanò”, le coppie, fumando tabacco aromatizzato alla mela da alti narghilé di vetro colorato. Un ragazzo passa da un narghilé all’altro con un cestino d’argento pieno di tizzoni incandescenti. Utilizzando una lunga pinza, anch’essa d’argento, sistema i tizzoni sul fornelletto del narghilé. Riprende vecchi tizzoni oramai freddi e li sostituisce con tizzoni nuovi. Quello del tizzoniere è un lavoro importante e instancabile. Lui, il tizzoniere, non si ferma mai.
Ai gabinetti, bellissimi, antichi, una ragazzina velata che dice di chiamarsi Hoffa mi offre un asciugamano pulito per asciugarmi le mani. Poi mi prende il viso tra le mani e mi bacia.
Rientriamo lentamente all’albergo nella notte. Ho l’impressione che questo sia un mondo dolce. Dolce e sibaritico.
L’impressione di dolcezza svanisce nella notte alla voce del muezzin. La voce del muezzin, qui, non è una voce registrata. Il muezzin, è un uomo in carne e ossa che prega in diretta. Lo capisco dalla voce. Una voce rauca. Che accenna, a volte, a qualche colpo di tosse. In ogni caso, una voce decisa , esigente. Plana stentorea sulla città e ho l’impressione che si infili nel mio letto. Ho gli occhi spalancati nel buio. Ascolto questa voce/appello con una sensazione di straniamento. Scavo nella memoria e ricordo un’altra notte, tanti anni fa, in cui una voce simile mi sveglia nel buio di una stanza caldissima. Estate 1990, Lombok, Indonesia. Anche là, veli. Tanti veli stretti sotto il mento a formare un triangolo e a incorniciare volti sorridenti di bambine…
Non c’è nessuna dolcezza nemmeno nelle donne sciite che si percuotono il petto e lanciano urla e lamenti di fronte alla tomba di Hussein, all’interno della moschea degli Omayadi. Loro, le sciite, le osservo a lungo indisturbata, seduta sul tappeto che copre interamente il pavimento della stanza dove è sepolto Hussein. Hussein, mi sembra di capire, è il marito di Fatima, la figlia di Alì, considerato dagli sciiti il discendente di Maometto. Forse la storia non è come la racconto, ma è quello che mi spiegano a gesti e in un inglese smozzicato le donne dolenti. Non ho dubbi sull’entità del loro dolore. Piangono veramente, queste donne. Giovani e vecchie, piangono, facendo a gara a chi grida di più, a chi tra di loro fa gocciolare le lacrime più copiose. Mi sembra di assistere ad una sorta di rito isterico collettivo. Gli uomini si colpiscono il petto, pregano ad alta voce, si precipitano contro la grande teca di vetro e oro che protegge la tomba, la baciano, la leccano, la toccano con le mani a piatto, facendosi largo a colpi di gomito. Coperta come sono, da capo a piedi, da un camicione grigio da carcerata irlandese fornitomi prontamente all’ingresso, mi sento come una delle figlie di Maddalena, di quel film di un allievo di Ken Loach che vinse il festival di Venezia due anni fa. Una donna mi intima seccamente di coprire una ciocca di capelli che fuoriesce dal mio cappuccio. Le sorrido, chiedo scusa ed eseguo di malavoglia.
La grande moschea resta in ogni caso un luogo di pace. Il lastricato bianchissimo del cortile interno, i mosaici dei pavimenti, le donne in nero che sembrano fluttuare su un mare bianco, un’eleganza nei gesti che mi sorprende, i grandi tappeti persiani che coprono l’interno della moschea, la cui pianta è esattamente quella della cattedrale bizantina che sorgeva al suo posto e che a sua volte era stata costruita sulle vestigia del Tempio romano di Giove di cui resta una parte del frontone, tutto, nell’insieme, invita alla sosta. Mi siedo per terra contro una delle grandi colonne che sostengono la navata centrale. Famiglie intere, nugoli di bambini rendono omaggio alla tomba di Giovanni Battista, venerato nell’Islam come saggio profeta. Un giovane mullah, in grigio e bianco, occhialini da intellettuale e barba ben curata, tiene una lezione di corano ad un gruppo di uomini inginocchiati attorno a lui che si piegano ritmicamente battendo la fronte contro il pavimento. Dalle grandi finestre colorate filtra una calda luce obliqua.
Potrei restare ore seduta ad osservare questo mondo strano ed invece esco, pentendomi subito della scelta. Mi riprometto di tornare alla moschea.
Al caffé dietro la moschea incontro un mio studente di Scienze Politiche. Sta facendo il suo stage annuale all’ambasciata francese di Beirut ed è in visita a Damasco con alcuni amici. Mi piacerebbe trascorrere più tempo con lui, farmi raccontare della sua esperienza, ma lui è di fretta. La sera ha un appuntamento ad Aleppo. Ci salutiamo.
La pianta del souk di Damasco è logica e dacilmente comprensibile. Riprende la geometria delle strade romane, il cardo e il decumano, su cui si articola. Una strada principale diritta e tanti bracci che si diramano a destra e a sinistra. Tre Bab, o porte di ingresso, ne permettono l’accesso su tre lati.
Nella parte più estrema del souk vi è il quartiere cristiano. Il passaggio dal souk arabo ai quartieri cristiani è sottolineato dalla moltitudine di croci, romane e ortodosse, che ornano i portoncini, sono dipinte sui muri, troneggiano al neon sul campanile delle chiese. Le chiese sono brutte e moderne. Più condomini che chiese, hanno cortili interni cementati e disadorni, qualche altalena ad attirare i bambini, aiuole lasciate andare.
Scendiamo nel sotterraneo della cappella armena dedicata ad Anania. Non so chi è Anania, ma lo scopro presto visitando una galleria di quadretti naif che raccontano la vicenda di Saul/Paolo che ricevette l’illuminazione sulla via di Damasco. La ricevette, ora lo so, da Anania che ponendogli le mani sugli occhi lo liberò dalla cecità. I quadretti sono accompagnati da didascalie ingenuamente antisemite.
Fuori dal souk c’è la città moderna.
La Damasco moderna è un infinita distesa di immbili dall’aspetto precario, ingrigiti dai fumi che fuoriescono dai tubi di scappamento delle automobili. Un parco macchine che farebbe la felicità dei collezionisti d’auto d’epoca. Mercedes, Daimler, vecchie Ford decapotabili si alternano ai taxi gialli di produzione giapponese. Un Hispano Suiza bianca è parcheggiata nel quartiere cristiano. Il giallo dei taxi assieme al rosso bordeaux di molte Mercedes anni 50 costituiscono le uniche dicromie capaci di interrompere il beige/grigio monocromo dell’agglomerato urbano. La collina che sovrasta Damasco è interamente coperta di immobili che hanno l’esatto colore della sabbia di cui è composta la collina stessa. Di notte, sembra la Betlemme dei presepi. Una distesa di lucine che scendono a valle.
PALMIRA
L’autobus che ci porta a Palmira è un autobus di linea lussuoso a suo modo. Oltre al pilota, vi è uno steward indaffaratissimo a distribuire sacchetti per raccogliere il vomito, salviette profumate, bicchieri di carta. Ogni tanto distribuisce ai passeggeri dell’acqua fresca da una tanica di plastica. Sul televisore passa un film, uno di quei film ingenui che guardavo all’oratorio dei frati quand’ero piccola. Non c’è bisogno di capire l’arabo per afferrare la storia: un uomo, accecato dall’ambizione, per raggiungere i suoi scopi schiaccia coloro che gli stanno attorno e per questo alla fine subisce una dura punizione.
Guardo il film e il paesaggio monotono che scorre fuori dal finestrino.
Da Damasco a Palmira sono 3, 4 ore di corriera e il paesaggio resta costantemente lo stesso. Una catena montagnosa sulla destra e uno sterminato deserto di sassi sulla sinistra. Qua e là, le tende dei beduini. Innumerevoli greggi di capre a destra e a sinistra della strada.
Nella corriera nessuno si parla. Regna un ordine giapponese. Niente a che fare col disordine e il vociare del maghreb. I siriani sembrano essere persone estremamente riservate. Claudio sostiene che in una dittatura come quella che vige in questo paese nessuno osa parlare perché non c’è niente da dire. E quello che si vorrebbe dire non lo si può dire.
La presenza costante di spie, descritta nella guida, la sperimento alla stazione delle corriere in partenza da Damasco. Nell’attesa scatto alcune foto. Me le chiedono, le foto, un netturbino, un signore che viaggia con la nipotina e un soldatino. Si mettono sull’attenti davanti all’obiettivo. Io scatto e loro, chissà perché, ringraziano. Neanche un minuto dopo, un uomo baffuto mi fa segno di seguirlo. Faccio finta di non capire. Lui indica la macchina fotografica e ribadisce a gesti il fatto che devo seguirlo. Gli dico di no. Che non lo seguo. Che non so chi è. Che non ha nessun segno distintivo di autorità. E gli giro le spalle sperando che la storia finisca là. Lui discute accanitamente con un capannello di gente che si forma attorno a noi. Se ne va e torna con altri tre uomini. Vedo che indica loro la mia macchina fotografica. Io sorrido ai nuovi arrivati e mostro loro le fotografie che ho scattato sullo schermo digitale. I nuovi arrivati sono più morbidi. Mi intimano di riporre la macchina e mi spiegano a gesti che è vietato fotografare in una stazione delle corriere. Mi scuso. E la cosa finisce là. Lo spione, che soprannominiamo Zecchinetta, come lo spione del romanzo di Sciascia, se ne va scuotendo la testa.
A Palmira, che qui chiamano Tadmor, veniamo scaricati dalla corriera in mezzo ad uno stradone lungo e vuoto che taglia in due il deserto. A qualche chilometro si scorge la città. L’autista della corriera dice che è quella la fermata di Palmira. Poi riparte sgommando. Siamo subito preda di un albergatore solerte (guarda caso la fermata è proprio di fronte al suo albergo, l’unico fuori città) che ci propone i suoi servigi. Camera con vista sulle rovine e prima colazione a 10$. Decliniamo l’offerta più per spirito di contraddizione che per altro e ci incamminiamo verso la città. Un minibus si ferma immediatamente e ci offre un passaggio fino al centro. Non vogliono soldi. Ridono. E ci offrono dei datteri.
La visita alla città morta di Palmira la facciamo in due tappe. Al pomeriggio e l’indomani mattina. Un paio di corriere granturismo scaricano due gruppi di italiani sul sito. Una signora italiana in tacchi alti è scontenta. Dice che di vestigia del genere è piena l’Italia. Penso a mia madre. Sarebbe lo stesso commento che avrebbe fatto lei, penso. Un commento che non può essere dettato altro che dalla gelosia perché Palmira è incredibile. Enorme, estesa e intatta. Percorro la strada romana in mezzo ad alte colonne di granito rosa che portano fino al tempio. Dopo pochi metri il gruppo di turisti è solo un ricordo. Siamo soli al teatro romano, soli al tempio, soli alle tombe che hanno la forma degli ziggurath.
La mattina presto, l’indomani, il cognato dell’albergatore ci trasporta sul cassone di un Ape imbandierato e colorato come se dovesse sfilare a carnevale, in cima alla collina che domina le rovine e su cui Fakhr – en – Din, nel XII secolo aveva costruito la sua roccaforte. Scendiamo a piedi lungo un sentiero. Sotto di noi possiamo capire a che punto questa città persa in mezzo al deserto fosse immensa e importante. Era importante già prima che al potere arrivasse la regina Zenobia. Flavio Giuseppe racconta che l’aveva fondata Salomone. Altri raccontano che Palmira era una babele di lingue. Aramaici, egiziani, ebrei, arabi, greci. Tutti passavano e si fermavano a Palmira per la ricchezza della sua oasi, che vediamo polverosa sullo sfondo, e per i suoi vini, i suoi broccati, i suoi vasi fenici e le sue spezie. Zenobia governa la città nel III secolo, conquista Ankara, Antiochia, apre la città ai cristiani e ne nomina vescovo, Paolo, san Paolo. Così facendo minaccia il potere di Roma che pure l’ha fatta regina…chiede troppo, osa troppo. I tempi di Bisanzio non sono ancora maturi.
E’ Aureliano che la sconfigge e pare che per ritorsione Zenobia abbia dato ordine di bruciare la città. La fine definitiva di Palmira la dobbiamo a Tamerlano che la mette a ferro e fuoco nel 1401.
La Palmira moderna, la città/villaggio che sorge a qualche chilometro delle rovine, non testimonia in nessun modo dell’antico fasto dei luoghi. Una strada dritta, semideserta, nessuna donna per strada. Un villaggio monocromo che sembra abitato unicamente da uomini. Non vedrò mai una donna a Palmira, se non qualche turista occidentale che staziona nel ristorante/bar che si affaccia sulla strada principale. Non è il solo della città, ma il suo proprietario ha capito la mentalità del turista occidentale. Tappeti coloratissimi alle pareti, alcuni computer con l’accesso Internet, cuscini e sorrisi fan sì che tutti gli occidentali trascurino il cupo ristorante di fronte e si ammassino ai tavoli di questo posto che offre piatti semplici a prezzi salatissimi.
Nel retro del ristorante, il padrone tenta di vendermi un biglietto di banca iracheno con l’effigie di Saddam. 2 dollari mi dice, cheap price. Declino l’offerta.
Un ragazzo tedesco pedala verso Istanbul su una bicicletta carica di borse.
Incontriamo due ragazze di Ancona già conosciute sull’aereo. Sono felici, eccitate dal viaggio, già innamorate del paese. Ci salutiamo la sera sapendo che da qualche parte ci ritroveremo ancora.
DER ER ZOUR/DOURA EUROPOS
A Der er Zour, la città dove non c’è niente da vedere, ci arriviamo in corriera il pomeriggio del 31 dicembre. E’ venerdì. Tutte le botteghe sono chiuse e la città è deserta. Facciamo un salto al museo all’ora di chiusura. Dicono che sia uno dei più bei musei della Siria. Ci siamo solo noi. Un signore in djellabah ci accoglie sciabattando. Ci fa capire che è tardi, che lui vorrebbe andarsene a casa visto che non c’è nessuno al museo. Poi accetta sorridendo di farcelo visitare e ci accompagna discreto da una sala all’altra, indicando col dito quelle teche sulle quali, a suo avviso, mi sono soffermata troppo poco. In un’urna funeraria di terracotta vi è lo scheletro di quella che doveva essere stata una ragazza. Attorno alle ossa dei polsi e a quelle del collo, monili in oro. Lui, il guardiano, ci tiene particolarmente a questo reperto. Mi accende la luce perché lo guardi meglio. Mi indica i braccialetti e anche una ciocca di capelli rimasta miracolosamente attaccata alle ossa del cranio. Io mimo stupore estasiato. Sembra contento di avermi mostrato la sua ragazza.
La sera cerchiamo un ristorante al di là dell’Eufrate che taglia in due la città. I francesi ci hanno costruito un ponte pedonale che assomiglia al ponte di Brooklyn. Impieghiamo un tempo infinito a raggiungere il ristorante sull’altra riva dell’Eufrate. Lungo il ponte coppie di ragazzi guardano l’acqua nera che scorre veloce sotto i piloni. Non si riesce a capire quanto sia largo questo fiume finché non si cerca di raggiungere l’altra riva. 500 metri, un chilometro, forse. Ripassiamo più volte sul ponte alla ricerca di un ristorante che non c’è.
Che sia il Mekong, il Nilo, il Mississippi, o l’Eufrate, certi fiumi fanno parte del mio immaginario, quello mitico, quello esotico. E passeggiare lungo le rive dell’Eufrate, l’ultima notte del 2004, mi emoziona.
Der er Zour è una tappa verso la frontiera con l’Irak, verso Mari e Dora Europos. Ci arriviamo con uno dei migliaia di minibus che percorrono in lungo e in largo le strade siriane. Ci si mette sul bordo della strada, si fa segno al primo minibus che passa, si annuncia la destinazione e se il minibus va proprio per di là allora si sale. Accanto a me siede una signora coperta da un lungo velo nero che si mette in bocca senza sosta dei pistacchi e poi ne sputa fuori la buccia. Nel minibus nessuno ci guarda, nessuno sorride, nessuno parla. Dopo circa un’ora la signora accanto a me tocca con la mano il foulard che mi sono messa in testa e mi fa segno di regalarglielo. Mi metto a ridere e le dico di no! Che è l’unico che ho e che serve a me. Un uomo si volta e le fa segno di tacere. Nella frase che lui le rivolge in arabo intuisco la parola “american”. “No american”, facciamo scuotendo la testa. “Noi, Italia!”. Subito l’atmosfera nel minibus è più distesa. A gesti e con qualche smozzicata parola in inglese l’uomo ci chiede dove stiamo andando. Dora Europos, gli dico e mi rendo conto che quel nome a lui non dice proprio nulla. Tiro fuori la carta dallo zaino e gli mostro dove vogliamo arrivare. Allora lui capisce e ci fa segno di non preoccuparci. Quando arriveremo, ce lo dirà lui. La signora vuole vedere la carta. Gliela metto sotto gli occhi. Le indico con le dita Damasco, Aleppo, l’Irak. Lei guarda, non capisce ma fa finta di capire, e quando dico Irak si tocca il petto. “Tu, Irak?” le chiedo. Lei dice di sì. Si tocca il petto più volte, ogni volta pronunciando “Irak, Irak”. L’uomo ride. Le parla in arabo e capisco che la sta prendendo in giro, le sta dicendo che è inutile che lei guardi la carta tanto di carte non ci capisce nulla. Lei non si lascia fare e continua a chiedermi di mostrarle la carta. E ad ogni nome fa un cenno di assenso. Poi guarda dritto l’uomo in faccia con fare sprezzante. Le disegno una carta del mondo sul mio diario. L’Irak, la Siria, la Palestina, il mar Mediterraneo dove ci metto pure una barchetta, e lo stivale dell’Italia. Lei fa sì con la testa, sempre più ignara e sempre più convinta. L’uomo non la smette di ridere. Tutti, nel minibus, ridono. Tutti. Tranne io e la signora.
Lungo la strada che porta alla frontiera con l’Irak non c’è l’ombra di un soldato, l’ombra di un posto di blocco. Mi sembra di scorgere il profilo di alcuni cannoni antiaerei in cima ad una collina. E’ un attimo. La strada svolta leggermente e non li vedo più.
Di colpo, in mezzo al nulla, il minibus si ferma e i passeggeri ci fanno cenno di scendere, sorridendo.
Siamo arrivati. Fermi, a piedi, in un deserto di sassi. Lontano a qualche chilometro individuiamo la sagoma di quello che sembra essere un castello di sabbia. Una castello di sabbia di quelli che i bambini costruivano sulle nostre spiagge. Ci avviciniamo a piedi. Doura Europos, una delle più grandi città dell’antichità. Di Doura, non restano oggi che le mura rosse, coperte fino a metà dalla sabbia del deserto. All’interno indoviniamo i perimetri delle case, dei templi, dei teatri. In piedi, oltre alle mura che chiudono la città, non è rimasto nulla a Doura Europos. Camminiamo in mezzo all’immensa distesa di perimetri rossi rinunciando persino ad immaginare che cosa dovessero essere. A poche centinaia di metri, nell’unico lato privo di mura, scorre l’Eufrate. Lungo le rive, alti canneti. L’acqua scorre lenta. Si cammina su cocci di statuette, di anfore, di vasi di terracotta. Ne raccogliamo qualcuno e ce lo portiamo via per ricordo.
Al ritorno, non appena ci posizioniamo lungo la strada con l’intenzione di fermare un minibus, siamo raggiunti da un beduino che abbandona il suo gregge di capre per darci il benvenuto. Ci chiede, a modo suo, a gesti e a parole smozziche, se siamo americani (questa degli americani capisco che sta diventando un’ossessione). Ci affrettiamo a fare segno di no con la testa e allora lui sorride e fa la V di vittoria con le dita.
Al ritorno a Der er Zour, ci fermiamo a mangiare uno shawarmah in una piccola trattoria lungo la strada principale. I nostri vicini di tavolo, due ragazzi e un bambino, parlano inglese. Ci invitano al loro tavolo e cominciamo a chiacchierare. Mezit, è professore di inglese alle medie. L’inglese lo parla malissimo, ma è contento di averci al suo tavolo. Non mangia. Non mangia nemmeno il bambino e l’altro ragazzo. Ci dicono che è un onore averci al loro tavolo ed è per questo che non mangiano. Per approfittare al massimo del tempo che passiamo con loro.
Mezit vorrebbe partire, mi dice. Vorrebbe andarsene dalla Siria per qualche tempo. Sogna l’Europa, sogna Londra. Gli dico che su Londra vi sono dei voli lowcost e che può tentare di mettere via dei soldi e partire. Lui mi dice che la sua famiglia non sarebbe d’accordo. Che poi, gli inglesi, gli europei, lui lo sa, odiano gli arabi. Che la sua famiglia pensa che lui correrrebbe un rischio immenso ad andare in Europa. Il suo amico mi chiede se secondo me Mezit potrebbe trovare una sposa europea. Mezit si scherna. Mi dice, brutto come sono, e arabo per di più, chi vuoi che mi voglia? Cerco di rassicurarlo. Gli dico che lui assomiglia a mio figlio, il quale è bellissimo e sempre pieno di morose. Lui sorride. Davvero? mi chiede…Lo credi davvero? Poi mi chiede che ne pensiamo di quello che succede in Irak. Ci affrettiamo a rassicurarlo sui nostri sentimenti antiamericani, ma lui ci corregge. Ci dice che sono i governanti in America a comportarsi male. Ma, il popolo, lui dice, il popolo americano non è cattivo. E aggiunge che ogni volta che afferma cose del genere finisce sempre a pugni e lui se le prende regolarmente. Gli lascio il mio mail e il mio numero di cellulare. I suoi SMS affettuosi mi accompagneranno per tutto il soggiorno.
Li ho conservati. Sono nella memoria del mio telefonino. “Have a nice day”, “May i write you a SMS sometimes?”, “I love Italy, I love you both”.
ALEPPO
Il viaggio fino ad Aleppo è lungo. 6 ore nella solita corriera di linea che trasmette i soliti film parrocchiali e dispone del consueto steward che distribuisce acqua dalla consueta tanica nei soliti bicchieri di plastica. L’unica variante è una sosta, all’ora della preghiera, per permettere all’autista e ai passeggeri di compiere il loro dovere di buoni musulmani.
Fuori dal finestrino un paesaggio monotono. Deserto di sabbia e sassi, interrotto da villaggi grigi di cemento con case mai finite. Nessun colore, in Siria, interrompe la monocromia dei grigi e dei beige.
Ci fermiamo nei pressi di un grande caffé disadorno. Molti passeggeri si precipitano a mangiare un piatto di kebab o a bere una tazza di té. Io mi siedo ad un tavolo vicino ad un ragazzino che avevo già notato al momento di salire sull’autobus. L’aveva accompagnato il nonno, un parente, quantomeno, e l’aveva stretto e baciato sul predellino della corriera. Il ragazzino si era schermito, visibilmente imbarazzato dall’effusione.
Mi rivolge subito la parola in un francese perfetto. Sono stupita della padronanza che ha della lingua, ma lui mi spiega che è di origine siriana, per parte di padre, e algerina per parte di madre, ma è nato e vissuto a Rennes. Cosa ci fa in Siria? Studio l’arabo, mi dice. Ho scelto di fare un anno di liceo qui, prima di rientrare in Francia perché non parlo l’arabo, mi ha detto. E voglio conoscere da dove viene mio padre. Poi ride e dice…da dove vengo io. E lei? mi chiede. Come mai in Siria? Non so cosa dire. Mi sembra troppo semplice rispondere: così, tanto per fare un viaggio. E poi non è del tutto vero. La Siria ha sempre fatto parte del mio immaginario. Aleppo che commerciava con Venezia. I commercianti veneziani che rientravano dalle loro scorribande marine carichi “…di sete e di tessuti damascati”…Gli parlo allora di Venezia, di Venezia e l’Oriente, gli racconto S. Marco, gli armeni, e le navi veneziane che a San Giovanni d’Acri attendevano le carovane da Aleppo, Damasco, Bagdad…
L’autista dell’autobus strombazza chiamando a raccolta i passeggeri. Ha pregato, e con lui altri hanno pregato in una saletta appartata sul retro del caffé. Il ragazzino mi dice: peccato, mi sarebbe piaciuto continuare a parlare con lei…se vuole, ad Aleppo, posso darle una mano a cercare il suo albergo.
Lo saluterò appena alla discesa dell’autobus. Lui è fermo sotto la pensilina in attesa di rendersi utile. Gli chiedo se vuole condividere lo stesso taxi che ci porterà all’albergo. Lui ringrazia, sorride, ci augura di trascorrere un buon soggiorno in Siria e se ne va.
Ad Aleppo scegliamo di dormire in un’antica casa damascena all’interno del souk.
La camera è arredata con mobili intarsiati e tappeti alle pareti. Di fronte alla camera un salottino di cuscini e un tavolino con una piatto sempre colmo di datteri freschi.
Il souk di Aleppo è quasi interamente coperto. Si scivola sul selciato formato di larghe pietre nere lucidate dai piedi di chi le ha calpestate per secoli, dagli zoccoli degli asini, dalle ruote dei carretti. Nella zona dove vendono i saponi si scivola ancora di più.
Il sapone di Aleppo è un sapone semplice a base di olio d’oliva e di alloro. I negozianti lo espongono impilando i mattoncini di sapone in ardite piramidi verde-marroni. Assieme ai saponi vendono anche corna di montone, pesci palla, pipistrelli seccati, scheletri di marmotte, e un’infinità di spezie che coprono tutte le tonalità che dal marrone del cumino, passando per il rosso del curry, arrivano al giallo degli zafferani.
Pochi sono i negozianti che fermano il turista per sollecitarlo ad acquistare. Un’atmosfera rilassata, un via vai di donne velate, bambini, uomini in djellabah, un fiume di gente, carretti, asini infiocchettati.
Entro in una boutique per toccare la consistenza di alcune sciarpe colorate e dietro la pila delle sciarpe in questione, incollate al muro, vi sono le riproduzioni di alcune vecchie foto e ritratti di Oscar Wilde. Oscar Wilde, dico ad alta voce, stupita. Il ragazzo di bottega mi guarda, si mette a ridere, poi indica un tipo dall’età indefinita che siede nel negozio bevendo il tè e fumando il narghilè. E’ mio zio, mi dice in inglese. Ed è frocio come una foca. Lui, lo zio, sorride e mi chiede se sono italiana. E’ simpaticissimo. Ha le mossette delle vecchie checche impenitenti. Un sarcasmo feroce. Passa una donna inglese di fronte al negozio. Lui mi strizza l’occhio e mi dice: La guardi…nonostante il restauro facciale assomiglia stranamente a Cossiga…il vostro presidente, mi fa, quello col tic. Poi si dedica a Claudio, gli promette notti sibaritiche, lo vuole iniziare agli amori omosessuali. Ci racconta che Aleppo è una città libera, che più libera non si può. Passa una donna in nero. Per esaminare la merce solleva il velo che le copre gli occhi ed esamina il colore delle stoffe da sotto.
Un pomeriggio lo trascorro interamente all’hammam. L’hammam di Aleppo, uno dei rari hammam riservato per qualche ora alle donne, è superbo. Pare che risalga al XIV secolo e che sia esattamente com’era all’epoca.
Non so come comportarmi all’hammam, ho scordato il costume da bagno. Mi denudo? Mi tengo le mutande, la maglietta? Una ragazza, all’ingresso mi indica un piccolo soppalco che si affaccia sulla prima immensa sala a volta. In mezzo, un’enorme fontana. Tutto attorno alle pareti, divani, cuscini, palchi e palchetti. Donne seminude di tutte le età fumano, mangiano, chiacchierano e bevono il tè, avvolte in grandi asciugamani bianchi. Mi spoglio, resto in mutande e maglietta, e mi avvolgo nel pareo a righe bianche azzurre che mi offre una delle inservienti. In ciabatte e pareo, passo nelle altre sale. Un labirinto di sale, nicchie, salette più piccole, grandi spazi. Più si avanza, più aumenta la temperatura. Nelle ultime sale si intravvedono appena delle sagome che emergono dal vapore. Mi avvicino ad una vasca piena di acqua calda e comincio ad aspergermi con una vaschetta d’alluminio. Dispongo di un sapone, di una vaschetta e di una spugna di crine. Le donne sono seminude. Alcune in sottoveste, altre in mutande, altre ancora in bikini. Chiedo ad una signora anziana se posso spogliarmi del tutto e lei mi dice che il seno lo posso mostrare, ma nient’altro…non sarebbe conveniente, mi spiega a gesti, e poi le altre si metterebbero a sparlarmi dietro. Indovino, da questa frase, un gineceo di pettegolezzi, un mondo a parte, storie.
Pian piano, attraverso il vapore, emergono tavole imbandite di frutta, verdura, carne. Le donne siedono sul pavimento di marmo a mosaico che assomiglia a quello della basilica di San Marco sbucciando mandarini o sgranocchiando pistacchi.
Da una sala all’altra si sente ridere, cantare, gridare. A tratti, qui è la, risuona quel grido strano che fanno le donne arabe e su cui si chiude il film La battaglia di Algeri. Finora l’ho sempre considerato un grido di battaglia. All’hammam assomiglia di più ad un gioioso rito collettivo. Pian piano le donne si avvicinano. Mi offrono mandarini, mi offrono spiedini di carne arrostita. Ringrazio e declino l’offerta. Ma come faranno a mangiare in mezzo a tutto quel vapore? Una ragazza si avvicina e si offre di lavarmi i capelli. Mi siedo a gambe incrociate sul pavimento. Lei si siede accanto a me ed inizia un’infinità serie di insaponamenti, strigliate e risciaqui. Un’altra interviene. Mi massaggio le gambe con la spugna di crine. Me le massaggia forte. Fortissimo. Esco dall’hammam con le gambe tutte rosse.
Nella prima sala, avvolta anch’io in due grandi asciugamani bianchi bevo il tè e mi fumo una sigaretta. Una ragazza che occupa il mio stesso soppalco, una ragazza bionda e dai bei lineamenti alteri, mi racconta che suo padre ha studiato ingegneria a Perugia. Che le insegna ogni tanto un poco di italiano. Mi sciorina tutte le frasi che ha imparato e poi mi dice che lei studia l’inglese ad Aleppo perché spera, un giorno, di poter andarsene via.Vorrebbe studiare all’estero, magari in Italia, mi dice, ma suo padre non glielo permette. Mi dice che loro hanno un’altra educazione. Un’educazione diversa dalla nostra. Che suo padre non si fida di lasciarla andare da sola in Italia. Le lascio il mio mail, dicendole che se vuole posso informarmi sulle borse di studio presso la nostra università. Sarebbe un sogno, mi fa…poi, mentre me ne sto andando, mi bacia leggermente sulla guancia.
Del quartiere cristiano di Aleppo conservo pochi ricordi. Il quartiere è abitato ancora oggi dagli ortodossi, dagli armeni, dai circassi. E’ un quartiere più borghese, nettamente più borghese del souk. In una piazzetta chiusa da edifici che ricorda i campielli veneziani mi faccio lucidare gli stivali da uno sciuscià locale che fa schioccare lo straccio ad ogni colpo che dà sulla scarpa. I migliori ristoranti di Aleppo sono concentrati in questo quartiere. Sissi, per esempio, o la Yasmeen House. A mezzogiorno mangiamo da Al Koumma. Qua e là, salette riservate a gruppi di siriani benestanti in giacca e kefiah rossa che mangiano seduti a terra attorno ad una tavola bassa.
Per onorare una promessa fatta a Patrick, un amico francese,una mattina inizio a cercare la tomba di Jakimanski. Jakimanski è il bisnonno di un amico ortodosso di Patrick. Di Jakimanski so che era stato un diplomatico russo, che aveva vissuto ad Aleppo e che era morto negli anni 30 in questa città. Patrick, a Natale, mi aveva detto che aveva sempre desiderato andare ad Aleppo a cercare la tomba di Jakimanski. La cercherò per te, gli ho detto.
La zona dei cimiteri cristiani non è facile da trovare. I taxisti, che in linea di massima, conoscono pochissimo gli indirizzi e si orientano piuttosto in base a riferimenti eterodossi (il panificio che fa le baguette, la chiesa dove è andato il Papa, il bar dove ci sono i computer) non sanno dove si trovano i cimiteri cristiani. Un taxista più intraprendente accetta di accompagnarci e inizia un’indagine a tappeto fermando l’automobile ad ogni passante che la affianca. Da un cristiano incontrato il giorno prima in un caravanserraglio sappiamo che ad Aleppo tutti i cimiteri cristiani sono concentrati a nord della città. Cerchiamo di indicare al taxista almeno il polo nord, ma la conversazione è praticamente impossibile. Lui ci parla in arabo. Non la smette di chiacchierare nella sua lingua. Io rispondo in inglese, in italiano, in francese. Percorriamo lunghe arterie commerciali tutte uguali divagando tra lingue reciprocamente incomprensibili, costeggiamo alcuni parchi polverosi, l’università, la zona degli uffici governativi, e di colpo ci troviamo in periferia. Una strada lunga che sembra sfociare nel nulla attraversa decine di cimiteri chiusi da alti cancelli di ferro. Il taxista ci scarica di fronte ad uno di questi cimiteri. Un guardiano in djellabah ci apre il cancello e ci indica una zona di tombe dove secondo lui potrebbe esserci lo Jakimanski. Sono tombe ortodosse, con i cognomi scritti in carattere cirillico. Confronto i nomi incisi sulle lapidi con il nome che mi ero premurata di ricopiare in cirillico sul mio quaderno di viaggio. Percorriamo i vialetti che separano le tombe, avanti e indietro. Puliamo le lapidi coperte di terra o di muffa. Non c’è traccia di Jakimanski. Su una lapide una fotografia ingiallita di un ragazzo e una ragazza entrambi con un violino in mano.
RITORNO A DAMASCO
Lasciamo Aleppo la mattina presto di un freddo giorno di pioggia. Abu Jaber ci farà da tassista per tre giorni. Non è semplice, infatti, raggiungere il castello del Saladino o il Krach dei Cavalieri. Ci si inerpica per stradine di montagna senza alcuna indicazione in caratteri latini. In altro, a 1400 metri troviamo la neve. Neve fresca caduta durante la notte.
Di questi tre giorni, più delle imponenti mura delle fortezze crociate, ricordo la città di Apamea, bianca città romana quasi intatta in cima a colline verdi non lontane da un lago artificiale. Passeggiamo lungo il viale romano. Siamo soli. Noi, le capre e un pastorello.
Prima di rientrare a Damasco ci fermiamo al Monastero di Der Mar Mousa. E’ uno strano monastero costruito in cima ad uno sperone di roccia in mezzo al deserto. I monaci hanno costruito dei gradini tagliati nella pietra che permettono di accedervi facilmente. Dal basso si sentono delle voci. Sulla terrazza antistante il monastero quattro o cinque ragazze nordiche con i capelli legati in treccine strette prendono il sole leggendo. Ci raggiunge Frédérique proponendoci un té. Frédérique è un bellissimo ragazzo francese di Lione. Alto, biondo, sorride con dolcezza. Sono due anni che vive al monastero. E sei anni che ha preso gli ordini. Ci racconta che il monastero lo ha fondato una decina di anni fa un gesuita italiano, Paolo. No, loro non sono gesuiti, mi dice, ma Uniati. Possono sposarsi, specifica, ma dipendono sempre dal Papa di Roma. La loro presenza vuole essere testimonianza, continua. Testimonianza della possibilità di convivenza tra le religioni. Loro, ad esempio, praticano il ramadan, assieme ai fratelli musulmani, dice. È una pratica ben vista e ben accetta dalle popolazioni di qui.
La cappella all’interno del monastero è splendidamente affrescata. I colori sono vivaci. Ocra, gialli, rossi. Per terra tanti tappeti, come nelle moschee. Un signore se ne sta disteso accanto ad una stufetta che riscalda la cappella. E’ un fratello malato, ci dice Frédérique. Il signore sorride mestamente. Quando Claudio e il monaco escono dalla cappella mi fermo a chiacchierare con lui. Parla bene l’italiano perché ha trascorso due anni in un non ben identificato monastero di Perugia. E’ la seconda volta che tenta di farsi accettare a Der Mar Mousa. Ci aveva già tentato una prima volta, tre anni prima. Ma Paolo, il priore, aveva deciso che lui non era ancora pronto. E’ libanese, mi dice. E non crede che Paolo lo accetterà nemmeno stavolta. Lo dice come se tra il fatto di essere libanese e il fatto di non essere accettato vi sia un legame che non riesco ad afferrare. Faccio una battuta e gli dico che, magari, Paolo, i confratelli, li sceglie in base alla simpatia, al feeling e che le convinzioni personali forse contano poco. E` esattamente così, mi confida sottovoce. Lo saluto con l’impressione che quest’uomo scontento cerchi un rifugio, un modo di espiare antichi peccati.
Da Melloula, il paese dove si parla ancora l’aramaico e dove avremmo dovuto fermarci per la notte, fuggiamo dopo neanche un’ora. Le piccole suorine del Monastero di Santa Tecla ci avrebbero ospitato. Avevano voluto la prova che fossimo sposati, inquiete del fatto che nessuno di noi portava la fede. Ma la cella che ci è destinata è gelida, il villaggio spento. Su tutto aleggia un’aria funerea. Riprendiamo in fretta gli zaini e partiamo sul primo minibus che si dirige verso la capitale.
La notte del 10 gennaio riprendiamo l’aereo per rientrare a casa.
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