di Pino De Seta –
Insieme a Roger Ivan, tecnico agronomo del Progetto Agros, si parte alle 5 del mattino, destinazione San Juan de Rio Coco, nella parte nord – ovest del Nicaragua a circa 80 chilometri dalla frontiera con l’Honduras. Ci fermeremo due giorni, nei quali si effettueranno indagini del suolo da destinare alla coltivazione biologica del caffè. Il cielo è nuvoloso, cade una leggera pioggia, llovizna la chiamano da queste parti. Superata la bellissima valle di Sebaco, una tra le più fertili del Nicaragua, imbocchiamo la Panamericana, la principale via di comunicazione, che collega Panama con il sud del Messico.
Tutt’intorno si vedono i campi di riso inondati, e stormi di garzette che sembrano enormi nuvole bianche che sfiorano la terra. Sono 170, i chilometri che ci separano dalla nostra meta, dei quali 60 in strada sterrata.
Prima tappa del nostro viaggio, per fare carburante, Estelì città simbolo della rivoluzione ed importante centro abitato del nord nicaraguense, con circa 100.000 abitanti. Estelì ha una bellissima architettura, un pò degradata. Mi dice Roger Ivan che da queste parti ci sono le più belle donne del Nicaragua. Non posso verificarlo, dobbiamo proseguire in fretta.
Dopo circa due ore di viaggio si arriva al bivio di Palacaguina, dove imboccheremo la strada non pavimentata che ci porterà a San Juan de Rio Coco.
Attraversiamo paesaggi e zone climatiche molto differenti.Si inizia con il tropico secco, dove la vegetazione è bassa, rada, con rari alberi alti non più di 4/5 metri.
Dopo un violento ed improvviso acquazzone, il cielo si apre facendo apparire un sole abbagliante e cocente.
La strada comincia a salire, si tocca in pochi minuti quota 1000 sul livello del mare, si intravedono i primi pini, delle conifere molto simili ai nostri pini d’Aleppo, ma più alti.
La specie più rara a causa dell’eccessivo disboscamento, è il Pino Oocarpa, che in alcune zone si trova associato al Pino Caribe, la conifera più frequente.
Giunti al culmine della strada, sotto di noi scorgiamo la sagoma sinuosa e lucente del fiume più lungo del centro america: il Rio Coco, siamo vicini alle sorgenti di questo bellissimo corso d’acqua, che, secondo testimonianze riportate su alcuni vecchi libri, era navigabile fino a 1700.
Si dice infatti che il pirata Morgan lo risalì fino in prossimità di San Juan de Rio Coco, percorse quindi tre quarti dei suoi 680 chilometri.
A prima vista il Rio Coco, che scorre parallelamente alla nostra strada, sembrerebbe una delle nostre grandi fiumare, alveo largo, quasi secco, con tanto materiale roccioso. Ma continuando il viaggio mi accordo che assume forme e caratteristiche differenti dai nostri fiumi.
Attraversiamo piccoli villaggi, nei quali spiccano in mezzo alle basse casette, delle chiese bianchissime, e mi pongo una domanda: ma come avranno fatto i conquistadores a trovare questi luoghi così impervi, visto che anche con un mezzo potente come il fuoristrada non è facile arrivarci?
Riprendiamo il percorso il salita, si iniziano a vedere le prime piantagioni di caffè, il cafeto, all’ombra di banani o grandi acacie, ad un certo punto, dopo una curva, si apre davanti a me uno scenario mozzafiato: il Cerro Majaste ed ai suoi piedi il piccolo centro di San Juan de Rio Coco.
Il Cerro Majaste, con le altre cime formano un cerchio, ciò è quello che rimane di un antico vulcano, uno dei tanti che si possono trovare in Nicaragua.
Si fa uno spuntino, prima di iniziare il lavoro: tortillas, gallo pinto (fagioli, riso e cipolla il tutto saltato in padella), platano fritto.
Raggiungere la cima della montagna non è facile, la strada, anzi la mulattiera è disastrosa, pur avendo una macchina sicura, si procede con molta prudenza, le scarpate sottostanti incutono un pò di timore.
Prossimi alla meta, la jeep si ferma, il differenziale si è bloccato in una buca profonda ma stretta.
Con Roger Ivan, ci armiamo di vanghe e zappette e tanta volontà ed iniziamo a spalare per poter far poggiare tutte le ruote della macchina sul terreno. Un’ora e mezza dopo, siamo fuori dall’impiccio, si riparte ed appena percorsi tre chilometri, abbiamo di nuovo uno stop inatteso, ma questa volta risolviamo tutto con più semplicità.
La fatica è tanta, siamo completamente bagnati e pieni di fango, ma arrivati a destinazione, a quota 1424 metri sul livello del mare, posso godere di uno spettacolo unico al mondo che mi ricompensa di tutte le fatiche. Ho davanti a me uno dei pochi lembi di bosco tropicale vergine d’altura del Nicaragua, chiamato da queste partinebliselva, in quanto si forma una densa nebbia che persiste per diversi giorni.
Il Cerro Majaste è ricoperto da una fittissima vegetazione formata da alberi altissimi, con le tipiche radici alate, le buttresses, che fungono da sostegno.
Una tenue pioggia cade su di noi, facendo apparire tutta la foresta, come un luogo surreale, è la terra del finimondo come definisce il grande scrittore Jorge Amado la selva tropicale.
L’altezza media e di 15/20 metri, si notano: il guanacaste bianco e nero, l’inga, vari ficus, pini, acacie di ogni tipo, caoba, pochote, il famoso mogano. Sugli alberi cresce rigogliosa la tipica vegetazione epifita, cioè piante che vivono attaccate ad altre piante; si notano i ciuffetti del Polipodium, le larghe foglie della Billbergia, e varie specie di felce e le meravigliose orchidee. Riesco a vedere qualche uccello volare da un albero all’altro, sembrerebbero pappagalli, ma non sono sicuro. In seguito ho saputo che in questa zona vivono l’Aquila Arpia, uno tra i più grandi rapaci del continente, ed anche il bellissimo Quetzal, uccello dal piumaggio coloratissimo venerato dai popoli nativi. Si ascolta una infinità di voci nella foresta: squittii, fischi degli uccelli dalle modulazioni straordinarie ed il “ruggito” delle scimmie urlatrici.
Mi sembra di vivere in un sogno.
Roger Ivan, mi riporta alla realtà, dice di seguirlo, dobbiamo andare nelle piantagioni di caffè per fare i rilievi del terreno, ed abbiamo poco tempo in quanto presto farà buio. Lo seguo mentre racconta i fatti accaduti da queste parti durante le incursioni dei contrasche venivano dall’Honduras. Accadimenti atroci, che vanno dal saccheggio, alle devastazioni ed agli incendi di case; rubavano di tutto, anche il caffè appena raccolto, ed ancora oggi, qualche poveraccio si nasconde tra queste fitte foreste, e credendo ancora di combattere per una libertà lontana, assalta le poche auto ed i mezzi pesanti che passano, solo per rubare qualche sigaretta o un pò di soldi per comprarsi una bottiglia dell’ottimo rum nicaraguense.
Le piante di caffè che si trovano da queste parti, sono bellissime, arbusti alti anche 2 metri, con foglie più larghe rispetto a quelle che si trovano al centro – sud del paese. Le piantagioni sono tutte all’ombra dei grandi alberi del bosco, in quanto sono importanti regolatori di molti fattori fisici legati alla crescita del caffè e perché, allo stesso tempo, si tutelano grandi aree di territorio perché non si utilizzano pesticidi e fitofarmaci, i quali potrebbero provocare gravi danni al suolo.
Alle 19, siamo già a cena con altri amici nicaraguensi in un locale di proprietà della famiglia di Ivan, il tecnico che segue il progetto, in questa zona.
Mangiamo dell’ottimo pollo e platano fritto, non possono mancare il riso ed i fagioli.
Una leggera e fresca brezza, ci accompagna durante una passeggiata nelle stradine deserte e quasi buie del paesino, prima di crollare sul letto dalla stanchezza.
La mattina sveglia alle 6, abbondante colazione, per poter affrontare meglio la giornata, a base di uova fritte, fagioli e riso naturalmente, succo di ananas ed arancia e si ritorna in cima al Majaste per riprendere le rilevazioni del terreno.
Passiamo l’intera giornata sul monte, tra le piantagioni di caffè ed enormi sterlizie che da queste parti hanno il loro habitat naturale.
Al centro di quello che doveva essere il cratere dell’antico vulcano, scorgo un fabbricato con delle grandi vasche e delle attrezzature arrugginite, con Roger andiamo giù a vedere meglio.
Troviamo un campesino, intento a recintare un piccolo campo di fagioli, in quanto, ci spiega, potrebbero entrarci gli animali selvatici e distruggere tutto.
Quel vecchio fabbricato è un beneficio abbandonato, nel quale si depositava, in apposite vasche, il caffè appena raccolto, per farlo essiccare e sottoponendolo successivamente al lavaggio.
Ad un certo punto lo sguardo si posa su alcuni alberi di mandarini, sono simili ai nostri, ma più piccoli.
Il contadino accorgendosi di questo nostro interessamento, ci invita con estrema gentilezza a raccoglierne qualcuno per assaggiarlo.