di Riccardo Sganga –
Le cose che un racconto non dice sono necessariamente più numerose di quelle che dice
e solo una speciale aureola intorno a ciò che è scritto
può dare l’illusione che stai leggendo qualcosa che non è scritto.
(Italo Calvino)
Nell’estate del 1998, mentre mezza Italia stava ritornando a casa dalle vacanze di Agosto, decisi di andarmene un po’ in Grecia. Indossavo semplici abiti estivi e portavo sulle spalle un vecchio zaino militare appositamente trasformato – con alcuni disegni – in civile. Agganciato allo zaino pendeva un sacco a pelo. All’interno dello zaino erano accuratamente sistemati tre pantaloncini, alcuni jeans, sei T-shirt di vari colori e disegni, sufficiente biancheria, due asciugamani, un telo-mare, un libro, una macchinetta fotografica, un diario, un miniregistratore, tante altre cose e, occultate in due portafogli diversi in fondo allo zaino, una dozzina di banconote da centomila lire. Le due tasche anteriori contenevano invece panini, biscotti, nutella, marmellata, fette biscottate, caramelle, pacchetti di chewing-gum, integratori, caffè, acqua e altre cose da consumare durante il cammino.
Avevo attribuito particolare importanza a quel viaggio ed ero intenzionato a parteciparvi con tutta l’anima. Avevo necessità di farlo e certezza di ritornarne in qualche modo rinnovato. Da Frasso fin laggiù il viaggio è lungo, forse troppo lungo per un soggiorno di solo tredici giorni. Si passa, attraversando parecchi paesi e città, dalle verdi montagne del Taburno alle splendide rive del Mar Egeo. Dopo una sosta piuttosto lunga al Porto di Brindisi in attesa della partenza della nave, sulle onde del mare ebbe inizio la parte più avventurosa del viaggio. Mentre si allargava la distanza tra la nave e il porto, molte persone presenti a bordo e a terra continuavano a salutarsi. Io ero solo, ma riuscii a mantenere un apprezzabile contegno lasciando la gente a terra a fissare la parte dell’imbarcazione ancora illuminata dal sole. La nave mi stava trasportando in Grecia, allontanandomi dal mondo di tutti i giorni. La mia casa e Frasso erano assai lontani. Fino al giorno prima ero stato immerso nella solita cerchia di amici e di pensieri, avevo riflettuto sul recente passato, su un esame fatto all’università e sull’immediato futuro, ma avevo sorvolato su quei giorni di vacanza.
Mentre mi chiedevo con ansia cosa avrei fatto laggiù, osservavo e annotavo contemporaneamente tutto ciò che mi era consentito vedere e sentire. Il ponte della nave era affollato di turisti. Tra i viaggiatori alcuni tedeschi, molti inglesi, francesi, scozzesi, olandesi, pochi greci, e gli immancabili italiani. Tra questi ultimi, dall’accento riuscii facilmente a distinguere un gruppo di napoletani, alcuni toscani, diversi romani, qualche ligure e non pochi veneziani.
Alle prime luci del giorno mi ritrovavo con la nave che stava passando tra due enormi isole: era la Grecia. Mentre alcuni continuavano a dormire comodamente nel sacco a pelo, altri erano pronti a godersi il sorgere del sole. Il panorama era stupendo: a sinistra e a destra montagne ricoperte da alberi verdissimi si levavano verso un cielo azzurro. Lontano, in avanti, uno stormo di uccelli pareva indicare il percorso da seguire; indietro, la scia bianca sembrava tenere legata la nave al suo punto di partenza. Accanto a me avevo un libro di Ignazio Silone, intitolato L’avventura di un povero cristiano, che all’inizio del viaggio avevo incominciato a rileggere e che in quel momento invece stava là abbandonato. Intorno alle sette del mattino gli altoparlanti annunciarono l’apertura del bar. Pochi vi entrarono per la colazione: quasi tutti tirarono fuori qualcosa dallo zaino. Arrivati al porto di Patrasso due poliziotti greci controllarono velocemente i documenti. Molti, continuando a scendere per le scale della nave, spostarono le lancette dell’orologio un’ora avanti. Lo feci anch’io. Una volta a terra, cambiai duecentomila lire italiane in dracme al più vicino ufficio di cambio e m’incamminai per la fermata dei pullman in partenza per Atene. Nelle vicinanze vidi la stazione ferroviaria. Pur sapendo dell’arretratezza delle ferrovie, attratto dalla curiosità di sperimentare di persona la vita nei treni greci, cambiai immediatamente decisione. Era quasi mezzogiorno e il primo treno per la capitale partiva intorno alle quattordici, ora locale. Non mi dispiacque affatto aspettare. Anzi, approfittai dell’occasione per darmi una ripulita, comprarmi una bottiglia d’acqua fresca, scambiare un paio di parole in inglese con qualche turista e, ovviamente, scrivere sul diario le mie prime osservazioni dopo lo sbarco.
All’interno della piccola stazione, seduti su panchine di legno o distesi in vario modo, sostavano molti turisti arrivati al porto con altre navi. Si trattava perlopiù di francesi, argentini, spagnoli. In disparte, nell’angolo più fresco della stazione, una giovane coppia australiana riconoscibile per la scritta Australian e il disegno della loro bandiera sulle bandane, era seduta sopra agli zaini. Appollaiati su binari abbandonati, con abiti molto sporchi, stavano invece alcuni albanesi. Da un piccolo treno merci fermo sul secondo binario, alcune persone scaricavano sacchi pieni di lettere e motorini di fabbricazione italiana, nuovi e usati, i cui modelli risalivano almeno a una decina di anni addietro.
Con alcuni minuti di ritardo rispetto all’orario ufficiale arrivò il treno tanto atteso da parte di tutti, greci compresi. Aiutato dal controllore trovai subito una sistemazione. Il misero panorama interno al treno contrastava con gli affascinanti scenari marini che s’incontravano durante il percorso.
Circa un’ora prima di Corinto salirono in treno tre trentine e due spagnole. Le aiutai a sistemare gli zaini e ci presentammo. Una delle trentine, Manuela, studiava Sociologia all’Università di Trento; un’altra, Serena, studiava Giurisprudenza; la terza, Erica, era diplomata e lavorava in non so quale azienda. Entrambe le spagnole, Alicia e Teresa, invece erano laureate in “Lingua e letteratura inglese e danese”. Alicia era anche insegnante di ballo. Qualcosa in questo piccolo incontro mi mise assai di buonumore; la gentilezza per la quale ero stato ringraziato e l’attenzione che mi era stata offerta in cambio fecero sì che in qualche modo mi sentissi straordinariamente incoraggiato circa l’avventura che mi attendeva nei giorni a venire. Proseguimmo il viaggio insieme fino ad Atene discutendo della Grecia, di Trento, della Galizia, delle importanti cause politiche sostenute da Peter Gabriel e del suo contributo alla Word Music, di Paul Simon, delle Forche Caudine, di Roma, di Napoli, di Sting, di cinema e di numerosi altri argomenti.
Per noi tutti la Grecia significava non solo mare assolato, profondo e pulito; un’infinità di isole, spiagge, scogli, grotte da esplorare, paesi e villaggi con case bianche, strade strette ed ombrose, ma anche l’eredità di una civiltà remota nel tempo e nello spazio che sentivamo appartenerci e che affiorava con straordinaria suggestione in un tempio a picco sull’acqua o immerso in un mare di ulivi. Convenimmo tutti che i miti greci, come quelli romani, <<costituiscono una componente essenziale del nostro patrimonio culturale sviluppatasi in passato in risposta a un gran numero di differenti necessità sociali e psicologiche>>. I miti greci e romani furono inventati, infatti, per spiegare fenomeni naturali in un mondo prescientifico, per descrivere luoghi, riti, nomi i cui significati originali erano andati perduti, per giustificare usanze e istituzioni, per attribuire agli dèi personalità e gesta drammatiche, per esaltare nazioni, tribù, stirpi e gerarchie politiche o sacerdotali, per gonfiare la storia antica, per indulgere ad una consapevole incredulità con racconti d’avventura e d’eroismo; e talora semplicemente per divertire, intrattenere, ingannando le lunghe ore d’oscurità, o il tedio di un viaggio polveroso, o la tensione di una burrascosa traversata. Certo, ciò che ci raccontano non è verità storica, ma una profonda rivelazione sull’universale condizione umana i cui effetti stimolanti sul pensiero e il comportamento dei Greci e dei Romani sembrano essere stati significativi quanto quelli della loro storia, della quale andavano tanto orgogliosi.
Prima di arrivare ad Atene salirono in treno alcuni promoters che, con abilità linguistica e buone maniere, ci indicarono dove alloggiare. Non erano greci, ma perlopiù giovani studenti del nord Europa che lavoravano in Grecia per procurarsi denaro da utilizzare per viaggi da portare a termine in terre più lontane. All’improvviso il treno si arrestò davanti ad una casetta bianca con accanto un piccolo pozzo. Rimanemmo fermi per una mezzora; poi il treno ripartì aumentando progressivamente la velocità. Giunti ad Atene, tutto sembrava contrastare con lo stile di vita cui eravamo abituati, con i viali illuminati, le moderne auto silenziose, con i ricchi e luminosi magazzini delle metropoli, con le ampie vie di comunicazione, con le piazze larghe, gli immensi alberghi, le lunghe gallerie, e con quei treni sfavillanti; ma ci accorgemmo presto che era soltanto una falsa impressione. La capitale greca in seguito si presentò, infatti, piena di contraddizioni.
Pensammo di sistemarci tutti nell’ostello proposto da un promoter olandese. Alcuni cani randagi seguivano ad opportuna distanza il nostro cammino. Arrivati a destinazione, chiedemmo di vedere le camere: non ci soddisfecero. Ci dirigemmo quindi verso l’albergo proposto dal promoter francese. Dopo essere passati vicino ad un enorme palazzo abbandonato e crivellato da una miriade di finestre entrammo in una pensione. Fummo accolti amichevolmente, ma anche qui le camere non ci piacquero. Stavamo per andarcene quando il direttore ci propose di dormire all’aperto, sul terrazzo del palazzo, per 1000 dracme (circa seimila lire). Il posto era pulito e già occupato in parte da altri turisti che, come noi, avevano preferito le stelle d’Atene al caldo afoso delle camere maleodoranti dell’albergo. Era tardi, e per mille dracme non si poteva pretendere di più. Accettammo. Dopo esserci opportunamente sistemati, concludemmo la serata in un ristorante. Gli unici prodotti occidentali presenti al suo interno erano la Coca-Cola e la birra Amstel. Per poco più di mille e trecento dracme a persona mangiammo con gusto Greek Salad, Souvlaki, Tzatziki, Moussaka, pane, acqua e birra. A tavola parlammo di prodotti tipici spagnoli, psicologia, balli, moda e di un particolare metodo di guarigione naturale diffusosi in occidente a partire dagli anni 80: il Reiki. Fu Erica, che da poco aveva finito di seguire un corso, a spiegarci bene che il Reiki <<è una tecnica di guarigione naturale che utilizza l’Energia Vitale e che non presuppone l’esistenza di una divinità né prevede modalità o dogmi per stabilire una relazione con essa. E nemmeno si pone in contrasto con qualsivoglia professione di fede>>. <<Personalmente ritengo – continuò Erica – che se Dio esiste, è lo stesso Dio per tutto l’Universo e per tutti gli uomini […] La maggior parte delle guerre sono motivate da contrasti religiosi: Cattolici e Protestanti, Musulmani ed Ebrei, Induisti e Pakistani, e purtroppo molti altri popoli o etnie si uccidono gli uni gli altri in nome di
Teresa, appropriatasi di nascosto del mio miniregistratore, registrò tutto quello che era stato detto durante il “simposio”. Riascoltammo ripetutamente e con divertimento le nostre voci, poi, dopo aver pagato il conto, uscimmo dal locale. Volevamo telefonare alle rispettive famiglie, ma l’unica cabina telefonica presente nell’arco di cinquecento metri era guasta. Rientrammo in albergo verso le due della notte. Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si è giovani. Il cielo era pieno di stelle e così luminoso che Serena giustamente ci chiese: <<È un sogno?>>.
Alle sette del mattino del giorno seguente, io, Alicia ed Erica eravamo già svegli, ma dopo cinque minuti e qualche parola scambiata in inglese ci riaddormentammo. Alle otto tutti avevamo finito di fare colazione. Il costo della colazione superò di poco quello dell’alloggio: milleduecento dracme. La giornata si preannunciava lunga e calda. Uscimmo tutti insieme. Al mercato principale comprammo della frutta e scattammo alcune foto di gruppo.
Continuammo poi il cammino verso l’Acropoli, passando per gli incantevoli negozi di Piazza Omonia. Il panorama della città visibile dalla collina che domina Atene è incantevole. Nel V secolo a.C. Pericle vi fece costruire il più importante insieme di monumenti dell’antica Grecia. L’Acropoli, sovrastata dal Partenone, divenne una città di marmo innalzata per rendere gloria agli dei e per fungere da simbolo della grandezza di tutta la Grecia. Fidia fu l’interprete privilegiato del pensiero politico e dell’ambizione artistica di Pericle, l’artista che seppe tradurre in immagini di eccezionale forza suggestiva i significati politici, etici e religiosi del Partenone. Per realizzare tutto il complesso egli si valse dell’opera di un gruppo di numerosi collaboratori. A nord del Partenone, le Cariatidi – sei bellissime donne di marmo – sostengono il porticato dell’Eretteo, tempio nel quale era conservata la statua lignea di Atena. Dopo la visita al vicino e bellissimo museo, le ‘in’- solite fotografie di gruppo e una seconda visita al Teatro di Dioniso, trovammo un posto all’ombra per mangiare.
Rimanemmo stupiti dall’esatta riproduzione scultorea delle forme umane, dalla razionalità delle opere, dalla ricerca dei caratteri specifici delle divinità e degli uomini e dal gusto per i temi erotici. Tutto ciò fece emergere in noi l’idea di un mondo instabile, tormentato, talora inquieto. Erica ci fece notare che <<esistono molte religioni che riflettono l’inquietudine degli uomini, la loro paura della morte e della natura. La religione dei greci era priva di demoni ossessivi e terrificanti. Essi immaginavano gli dei con un corpo simile a quello umano, ma immortale. Queste divinità manifestavano gli stessi bisogni e gli stessi sentimenti umani: l’amore, la gelosia, l’odio, la collera, l’invidia, la gioia, la fame, la sete ecc. I Greci attribuivano ad essi tutti i fatti e i fenomeni che non erano in grado di spiegarsi>>. Manuela poi chiarì che <<gli dei avevano origine dalla divinizzazione dei fenomeni naturali>> e Serena aggiunse che <<questo processo riguardava anche alcuni uomini ai quali veniva attribuito un carattere semidivino: gli eroi>>. Le loro gesta possono essere interpretate come lo sforzo dell’umanità per migliorare e progredire continuamente. Comprare delle cartoline ci fu facile, non altrettanto acquistare dei francobolli e trovare una buca per le lettere. Percorrendo lentamente la via del ritorno, dopo aver acquistato lampade e oggetti vari nei bellissimi negozietti orientaleggianti, ci fermammo a mangiare Gyros Pitas in una rosticceria. Sfiniti, qualche ora dopo eravamo già in albergo.
Poco prima della mezzanotte uscimmo nuovamente per incamminarci verso Piazza della Plaka, un posto ricco di caratteristici caffè e ristoranti. I Greci la sera escono. Cantano e ballano, sempre. La gente va nei locali per ricrearsi, come i loro progenitori. Le strade di Atene quella sera presentavano un’animazione fuori del consueto. Gruppi costituiti da persone che parlavano tutte insieme a voce alta s’incontravano, si salutavano. Non vi era nessuno tra noi che non si sentisse dell’eccitazione addosso, una voglia di muoversi, di fare un po’ di baccano. Entrammo in una tavernetta. Nelle taverne del Pireo, come in qualsiasi altro dei mille locali di Atene dove si balla e si canta, ancora oggi – nonostante l’elettronica sottragga agli artisti la possibilità di far vivere quelle piccole imperfezioni umane che fanno la vera perfezione – il Sirtaki di Theodorakis si presenta come un filo tortuoso di note, fasti, emozioni, che ha la magia del folklore antico delle città greche d’Oriente ed un cuore etnico che smuove le pietre. In patria o fuori, si ricorre spesso al Sirtaki per dire, cantare, affermare: Grecia. Un po’ come avviene per gli italiani con la canzone napoletana: dappertutto vuol dire Italia. Ma c’è una differenza fondamentale tra le serate turistiche a ritmo di Sirtaki, e il momento della verità che questo ballo significa per i marinai e per i pescatori. Questi ultimi lo ballano fra loro al porto, dopo un piatto di pesce fritto e parecchi bicchieri di ouzo. Hanno alle spalle una giornata di lavoro, la famiglia da mantenere, forse problemi d’amore, amicizie tradite, un rivale da esorcizzare, la paura della vecchiaia e della morte… Al ritmo di quelle note semplici, archetipiche, gli uomini del mare ballano, allacciati per le spalle; poi uno di loro si stacca, guadagna il centro e, incurvato verso la terra, danza da solo, con le braccia larghe, i salti a tempo. Gli altri battono le mani cadenzando i movimenti del protagonista, alcuni inginocchiati intorno a lui. Al Pireo come in ogni piccolo porto di Grecia.
Soddisfatti di quanto avevamo visto uscimmo dalla taverna facendo un po’ di baccano. Dopo aver bevuto tutti insieme una <<botella de vino blanco>>, alle tre della notte ritornammo in albergo. Ad attenderci vicino all’entrata trovammo alcuni gattini bianchi.
Dopo una notte insonne per le zanzare riprendemmo il nostro viaggio in direzione di Delfi. Sul treno incontrammo una coppia italo-americana proveniente dalle Cicladi e diretta al Monte Olimpo, dove, secondo la tradizione, si trova la dimora degli dei. In questa regione, la Tessaglia, tra boschi, gole e paesini pittoreschi spuntano le Meteore, monasteri bizantini costruiti su grigi rupi scoscese. Ai piedi delle Meteore, la cittadina di Kalambaka è famosa per le sue Chiese bizantine.
Mentre il treno viaggiava faticosamente, l’italo-americano ci rammentò qualcosa sul Monte Athos (la Santa Montagna, situata nella Penisola Calcidica): <<Avvicinabile solo dal mare, il Monte Athos dà il nome a una repubblica autonoma sotto sovranità greca abitata solo da monaci ortodossi. È uno Stato nello Stato greco, come Città del Vaticano è uno Stato nello Stato italiano. La capitale è Karyai, un piccolo luogo di preghiera e di penitenza in cui le automobili non esistono e le donne sono considerate impure e bandite […] Anche gli animali devono essere solo maschi. Ai monaci è proibito tagliarsi i capelli, farsi la barba, sposarsi, fumare […] I monaci passano la maggior parte della loro vita pregando, lavorando e studiando. Tutti conducono un’esistenza improntata alla più rigida austerità: obbediscono come soldati, alla disciplina imposta dal superiore e si nutrono molto poveramente. […] I monasteri sono ricchi di capolavori di oreficeria, vasi, reliquari, crocefissi […] Chiese e biblioteche abbondano di preziosi manoscritti>>. Intanto proseguivamo il nostro cammino. I greci presenti sul treno erano pochi e per la maggior parte anziani. Ci addormentammo tutti e così, all’improvviso risveglio, dopo aver salutato gli italo-americani, scendemmo alla stazione successiva a quella prevista. Dopo aver aspettato a lungo il treno che ci riportò indietro, prendemmo un primo autobus per il centro del paese e un secondo che ci condusse a Delfi. Le trentine, stanche del viaggio, preferirono prendere il taxi. A Delfi, come da appuntamento, ci rincontrammo tutti al Camping Apollon dove il responsabile, offrendoci da bere, ci accolse cordialmente salutandoci in italiano. Sistemammo le tende in un ampio spiazzo e andammo a darci una ripulita. Le trentine, già pronte per uscire, mi avvertirono che si sarebbero avviate un po’ prima. Uscii dal camping insieme con le spagnole qualche ora dopo. Non incontrammo le trentine. Le strade principali che portavano al centro erano due e, probabilmente, quando noi eravamo in una loro erano
Per le sue ricchezze, la città fu spesso attaccata da parte di popolazioni straniere. Dopo la conquista romana della Grecia, e soprattutto con il diffondersi del cristianesimo, gran parte dei suoi tesori fu confiscata e lo splendore di Delfi cominciò a declinare.
Dopo aver passeggiato ancora per un po’ facemmo ritorno al camping per la cena. A servirci fu un’albanese che lavorava lì con suo marito per l’intera stagione. La giovane signora gradì molto parlare con noi, anche se capiva e parlava stentatamente l’italiano e conosceva solo qualche parola inglese. Intorno <<medianoche>> ce ne andammo a dormire.
Al risveglio la colazione era già pronta. Per mille dracme ci portarono un caffè-latte, delle vaschette di marmellata, alcune morbidissime fette di pane, una porzione di dolce con mandorle e noci e un bicchiere d’aranciata simil-Fanta. Le trentine furono costrette a fermarsi qualche giorno in più a Delfi perché Manuela aveva la febbre. Io e le spagnole – che avevano i giorni contati per le vacanze – salutammo tutti, albanese compresa, e uscimmo dal camping.
Chiamammo un taxi. Dopo quasi venti minuti si presentò un anziano signore con una Mercedes d’altri tempi, messa anche male. Ci accordammo con il tassista pagando in anticipo ottomila dracme per Livadia, sede dell’Oracolo di Zeus, dio supremo del mondo greco, massima divinità dell’Olimpo e protettore dei viaggiatori stranieri. La vecchia auto circolava effettuando le curve come un compasso, arrampicandosi con fatica sulle salite e correndo a tratti con incredibile velocità sulle strade ben asfaltate. Di lì a mezz’ora si fermò alla stazione ferroviaria. Dovevamo proseguire per Larissa, ma dato che il treno che andava in quella direzione era già passato, saltammo come cavalli impazziti su un altro treno in partenza per Atene.
Sul treno alcuni greci ci scrutavano con uno sguardo da detective. Mentre Teresa dormiva, Alicia mi chiese di leggere qualcosa dal mio diario. Io acconsentii. Offrii alla spagnola alcune caramelle, accettate con piacere anche dalle persone greche sedute accanto a noi. Mentre meditavo su alcune simpatiche frasi che la spagnolita aveva scritto sul mio diario, una madre, stanca del viaggio, nel tentativo di allattare il proprio bambino con un biberon si addormentò. Il bebè, che nel frattempo aveva smesso di succhiare, non lamentandosi, sembrava essere comprensivo nei confronti della povera madre, ma ad un certo punto stava per cadere. Mi alzai di scatto avanzando verso di lui, stavo per chiamare la madre, ma mentre cercavo le parole, la signora parve ridestarsi: in pochissimi secondi si guardò attorno, tornò padrona di sé, abbassò gli occhi e accarezzò il suo dolce figlioletto. Il controllore – come ogni uomo felice che non ha né amici né buoni conoscenti e che in un momento di gioia non sa con chi condividerla – fischiettando, passava continuamente per i vagoni per controllare i biglietti delle nuove persone salite, interrompendo la sua performance soltanto per intonare ad alta voce il nome della più vicina stazione d’arrivo. Accanto a noi, due anziani greci fumavano come turchi. L’odore di quel fumo si mescolava con gli altri odori provenienti da zaini, borse, valige e persone formando un miscuglio sgradevole che, trasformato in tante piccole nuvolette, lottava con la polvere proveniente dall’esterno per uscire dai finestrini. Dietro di noi due belle ragazze nordiche, dagli occhi di un azzurro intenso, parlavano fra di loro con voci melodiose.
All’interno della stazione di Atene approntammo il pranzo con quanto era rimasto nei nostri zaini: fette biscottate, nutella, marmellata, panini, sardine, tonno, acqua, biscotti. Giunti a Patrasso ci informammo sulla nave in partenza per Corfù. Le spagnole – come tanti altri giovani turisti che avevano l’Interail – non trovarono posti disponibili e, pertanto, avendo i giorni contati, furono obbligate a partire il giorno dopo direttamente per l’Italia (dovevano ancora fare tappa a Venezia). Io sarei potuto partire immediatamente, ma era tardi e mi dispiacque lasciare le mie compagne d’avventura da sole a quell’ora della notte. Nelle stessa situazione erano altri italiani. Ci accampammo tutti all’interno del porto di Patrasso. Al mattino seguente girammo un po’ per le chiese della città; poi, intorno alle tredici, ci salutammo come amici di lunga data.
Proseguii da solo il mio cammino per la mondana, sofisticata e frequentatissima Corfù, la più settentrionale delle isole Ionie, situata in prossimità della costa greca e albanese. La nave della Strintzis lines partì con un’ora di ritardo, ma era molto bella. Al suo interno c’erano: un casinò, una sala da lettura, una sala da tè, un’agenzia viaggi, un cinema, un ristorante, un self-service, un ufficio cambi e alcuni bar. Il mare era calmo e il cielo sereno. Molti prendevano il sole sui bordi della piscina situata al centro della nave. Alle ventuno in punto facemmo scalo ad Igoumenitsa. Il panorama notturno non era bello, ma non era neanche tanto brutto. Come previsto, le persone che vi si fermarono furono pochissime e la nave si riempì di altri turisti.
Arrivai finalmente nella lussureggiante isola di Corfù, gioiello dell’arcipelago ionico, ultima tappa di Ulisse nel viaggio di ritorno da Itaca. Era notte. Mi guardai intorno, raggiunsi una pensione, affittai una camera e mi misi subito a dormire. Non appena si levò il sole mi alzai dal letto per mangiare qualcosa, poi mi rimisi a dormire fin quasi le nove. L’aria che si respirava era diversa da quella dell’interno della Grecia. L’influenza occidentale si avvertiva in modo netto, soprattutto nell’architettura. La miseria dell’interno della Grecia sembrava essere improvvisamente scomparsa. Le insegne in lingua inglese sopraffacevano quelle in greco moderno. Elementi del tutto disparati, testimonianze di civiltà diverse, costituiscono l’omonima città capoluogo: piazze larghe; vicoli selciati; case con portici e volte; palazzi signorili inglesi; monumenti veneziani; chiese bizantine; balconi con ringhiere di ferro battuto.
Il giorno dopo salii sull’autobus per Paleokastritsa, una località piena di coste frastagliate e d’italiani. Immagino fossero da poco trascorse le dieci quando scesi dall’autobus per avventurarmi sulla strada. Passeggiai ripetutamente lungo una deliziosa riva, ma non mancai di visitare un bellissimo monastero situato in cima a una collina. Dopo qualche ora trascorsa a parlare con alcuni italiani all’interno di un ristorante me ne ritornai a prendere un po’ di sole in spiaggia. Mi tuffai nel mare da un piccolo scoglio e ci rimasi a sguazzare per un bel po’ di tempo. Da un gruppo di ragazze siciliane di Militello, paese natio di Pippo Baudo, ottenni alcune utili informazioni per visitare l’isola. Mi annotai di passare per Ipsos, località ricca di locali notturni, ottima per i giovani. Il pomeriggio passò così, sotto il sole, serenamente. Ritornando alla fermata dell’autobus, numerose volte mi girai a guardare dietro di me e ogni volta mi fu restituito lo spettacolo del sole che tramontava sul mare. Forse avrei fatto bene ad alloggiare lì per qualche giorno in uno dei tanti piccoli alberghi bianchi ricoperti di fiori rossi le cui insegne pubblicizzavano non soltanto camere pulite ed accoglienti, ma anche birre e dolci, e in cui spesso ragazze belle e sorridenti servivano ai tavoli.
Verso sera ero nuovamente a Corfù. Il “centro” era pieno di piccoli negozietti caratteristici, dove con molta facilità si trovavano anche profumi e altri oggetti falsificati. Visitai un castello medievale e il Museo d’arte asiatica. Girando per i suoi tanti vicoletti mi fermai in una chiesa in cui si stava celebrando un matrimonio. Alla fine della celebrazione un corteo d’auto accompagnò gli sposi in giro per la città a colpi di clacson, proprio come in Italia. Decisi poi di entrare in un vicino locale. Vi erano cinque o sei clienti tutti raccolti intorno al bancone. A parte costoro il locale era vuoto. Dopo aver ordinato un boccale di birra, mi accomodai ad un tavolo un poco discosto con l’intenzione di raccogliere le idee su quanto era accaduto durante la giornata.
La mattina del giorno seguente ero a Sidari, altra amena località dell’isola. Avevo camminato per molto tempo con lo zaino sulle spalle, tanto che, secondo la mia abitudine, avevo finito di non saper più dove mi trovavo. All’improvviso mi resi conto che ero arrivato alla Baia dell’Amore. Non provavo stanchezza, camminavo da solo e in pace, rallegrandomi della bellezza della natura, ma le persone che mi passavano accanto sembravano guardarmi con tanta compassione che parevano sul punto di salutarmi. Il mare era agitato e alcune grosse nuvole si stavano avvicinando con rapidità alla spiaggia. Dopo una sosta di un paio d’ore decisi di ritornarmene a Corfù. Lì il tempo era bello, come al solito. Rifeci il giro per il “centro”, pranzai e intorno alle quattro del pomeriggio ero pronto a ripartire in autobus per Ipsos. Mi mossi attraverso taverne, birrerie, pub, sala-giochi. Alla fine, non sapendo più cosa fare, cominciai a girare a zonzo per le strade. L’aria era tiepida e una luna a metà splendeva nel cielo. All’improvviso udii un rumore di voci e uno scalpiccio di passi sulla strada davanti a me. Rimasi per un po’ in ascolto: era il vociare di alcune persone. Avanzando di pochi metri, accanto ad alcune auto ferme vicino ad un gruppo di donne “molto avvenenti”, riconobbi una discoteca. Proseguii dritto, continuando a vagabondare per più di due ore. Non mi fu difficile ritrovare la strada del ritorno, ma ormai non sentivo più il ritmo dei miei passi. Alle quattro della notte feci ritorno a piedi a Corfù.
Trascorsi ancora alcuni giorni in giro per l’isola visitando altri luoghi, dormendo nelle stazioni o all’aperto e incontrando altre persone, poi (ironia della sorte) provando un dolore sempre più intenso al tendine di Achille, decisi di ritornarmene in Italia. Dopo aver acquistato il biglietto per Brindisi, mi avviai in direzione dell’Achilleon, residenza della Regina Elisabetta di Baviera, Imperatrice d’Austria e d’Ungheria, meglio conosciuta col nome di Sissi. L’autobus, poco affollato, passò vicino al piccolo aeroporto della città. Comprai i regali alle mie sorelle e ai miei genitori e me ne ritornai nella zona del porto per il check-in.
Poco lontano da un’agenzia incontrai alcuni ragazzi campani, molto delusi dell’albergo in cui avevano alloggiato, con i quali mi misi a chiacchierare per un’oretta. Avevano acquistato un pacchetto-vacanza di quindici giorni in un’agenzia del casertano. Uno di loro, residente a Gioia Sannitica, era stato spesso sulle <<verdi montagne di Frasso>>. Ci avviammo insieme verso il porto. La loro nave partì prima della mia. Nell’attesa, una bella ragazza di Cremona, cui pochi minuti prima avevo impedito di imbarcarsi con tutta la sua famiglia sulla nave sbagliata, vedendomi scrivere sulla mia piccola agenda – scherzando – mi paragonò a Bruce Chatwin, uno stravagante scrittore britannico che <<si manteneva scrivendo libri e articoli per i giornali…diventato simbolo della voglia istintiva di spostarsi della natura umana, dell’impulso al movimento>>. La ragazza aveva un corpo perfettamente abbronzato e splendente, i capelli lunghi e neri raccolti sulla testa, e la sua bocca era come una mela rossa che chiunque passando avrebbe voluto assaggiare. Sedemmo allo stesso tavolo per bere un caffè e scambiarci quattro chiacchiere. Ascoltando la sua voce pensai di trovarmi di fronte a una donna dotata di grande sensibilità. Il suo atteggiamento mi sembrò irreale, tant’è che quando si alzò sciogliendosi i capelli, il suo sguardo cancellò in me ogni pensiero. Presto però le strade si divisero perché i suoi parenti – la madre e la nonna, smemorate fino all’inverosimile – avevano dimenticato di ritirare i biglietti in agenzia.
La nave attraccò al Porto Nuovo di Brindisi con pochi minuti di anticipo rispetto all’orario previsto. Una navetta mi riportò gratuitamente al Porto Centrale, da dove proseguii per la stazione ferroviaria. Dopo essermi aggiornato gratis su quanto stava accadendo in Italia leggendo le prime pagine dei giornali esposti dalle edicole, ripresi il viaggio in direzione di Foggia. Guardai a lungo attraverso i finestrini del treno: campi separati da alberi e siepi dominavano quasi ovunque. Viti, olivi, pomodori, ortaggi, si alternavano a numerose piccole aziende, a Dolmen, Menhir, Trulli e a paesaggi marini non meno incantevoli di quelli greci. Il treno era pieno di studenti universitari e di professionisti che ritornavano dal lavoro. Il vociare continuo, alternato al gesticolare delle mani delle persone che chiacchieravano, contrastava nettamente con la vita silenziosa e controllata dell’interno di alcuni treni greci.
A Foggia presi l’ultimo treno per Telese Terme. Ero oramai nel Sannio. I paesaggi si facevano gradualmente più montuosi, meno pittoreschi, ma sempre più familiari. Arrivato a Benevento (Maleventum), mi venne in mente ciò che una delle trentine mi aveva detto di Pirro: <<Abile e valoroso condottiero greco dell’Epiro (l’odierna Albania), giunto in Occidente per riunire sotto di sé tutte le colonie greche dell’Italia meridionale e della Sicilia>>.
Alla stazione di Telese Terme il capostazione allontanò la gente dai binari e tra la gente vidi i miei familiari cercarmi con gli occhi pieni di attesa. Ci salutammo, caricammo lo zaino in auto e ci avviammo verso casa. Telese Terme, Amorosi, Melizzano, Solopaca, S. Salvatore Telesino, Puglianello, S. Lorenzo Maggiore, Castelvenere, Faicchio, Cerreto Sannita, Cusano Mutri, Pietraroia, Guardia Sanframondi, S. Lorenzello, Massa di Faicchio fanno tutti parte, insieme con Frasso, della Valle Telesina. Antiche dimore a palafitta, fossili, castelli medievali, resti di vita romana, testimonianze della civiltà sannitica, abbondano in questa vitale parte del Sannio. Proseguendo il viaggio in macchina ad andatura contenuta, passando per Solopaca, mi fu possibile rivedere la seicentesca Chiesa del SS. Corpo di Cristo con il suo maestoso campanile e, adagiato sulla montagna, il Santuario della Madonna del roseto. Un paio di chilometri più avanti, nel comune di Melizzano, spicca il Santuario della Madonna della Libera. Avvicinandomi al mio paese con l’aiuto della memoria riscoprii anche i luoghi del Monte S. Angelo, un tempo mete d’esplorazioni per me e per i miei amici. Quando arrivai a Frasso era buio. A tavola mangiai tutto con soddisfazione, raccontando, di tanto in tanto, qualcosa della mia vacanza in Grecia. Quella sera non volli vedere altro che la casa paterna, per il resto ci sarebbe stato tempo. Così dopo il caffè e un po’ di musica (Bach, Vivaldi, U2, Marillion, RAF, Stadio, Sting) andai a dormire.
Quando uscii, alle dieci del mattino del giorno seguente, il cielo era zebrato. Tutto mi sembrò rimpicciolito, e le distanze contratte. Camminando lungo il “Viale” del paese guardai con attenzione le abitazioni. Ciascuna di esse mi veniva incontro, mi guardava da ogni finestra. Tra le preferite, una era in cura da un architetto. Non ritrovai più la strada di prima, in quanto la lucentezza policroma di carrozzerie di ogni tipo ammucchiate ai lati del marciapiede, incuneate fra gli alberi, era scomparsa. Nelle ore calde del pomeriggio c’era soltanto un gran silenzio in quella strada lunga e vuota e nella piazza principale. Nessuno con cui poter scambiare qualche parola o cui chiedere informazioni.
Ma Frasso è un paese completo, con i suoi quartieri, le sue piazze, le sue strade, i suoi palazzi, le sue chiese; un paese dove tutti – o quasi tutti – si conoscono e sanno tutto – o quasi tutto – degli altri e dove vecchi o giovani, saggi o stupidi, desiderano essere visti, ascoltati, discussi, approvati, rispettati dalle persone che li circondano e che conoscono. Frasso è un paese tranquillo, che si muove lentamente, dove l’aria è cristallina e spesso fredda come le sorgenti che alimentano le sue tante fontane. Se qualcosa si tramuta in delusione nel paese, il dolore viene riassorbito dalla vicinanza dei monti e dall’atmosfera tranquilla e gioiosa che avvolge i suoi vicoli. A Frasso è ancora possibile rilassarsi ascoltando il cinguettio degli uccelli o la pioggia che cade sui vetri delle finestre e sulle foglie degli alberi o facendosi accarezzare dolcemente dal vecchio Eolo che – senza farsi vedere – sfiorando case e monti, porta con sé il fragrante profumo dei fiori del Taburno, ma anche pioggia e sereno, freddo e caldo, e tante altre cose.
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