di Pietro Tartamella –
22 giorni
* dal 14 agosto al 4 settembre 2002
* Kilometri totali 5.350
* 2.750 kilometri in Danimarca
* autocaravan
Tre, cinque, trentasette, trentasette, quaranta, cinquantaquattro, cinquantaquattro, ottantuno. Non sono numeri del lotto, anche se, volendo, qualcuno potrebbe giocarli su due ruote per scaramanzia così non si sa mai. Sono gli anni dei componenti l’equipaggio di questo viaggio in Danimarca. Tre anni Shayela occhi grandi, figlia di Reno. Cinque anni, Yuma, col codino, figlio di Reno. Trentasette anni Reno, cantautore meccanico tuttofare artista di strada con tatuaggio di viso cheyenne sul braccio destro e due delle sue chitarre appresso. Trentasette anni Annette, tedesca, traduttrice, vive a Torino con quaranta, Antonio, attore cabarettista suo ragazzo; hanno affittato una casetta sulla costa occidentale dello Yutland per trascorrere una settimana di vacanza tra i silenzi e i riposi delle dune. Loro due non sanno ancora che passeremo a trovarli con sorpresa. Cinquantaquattro anni il sottoscritto raccontastorie con jembè a seguito. Cinquantaquattro Anna, mia moglie, insegnante di scuola elementare con un sacco di perline colorate che si porta sempre dietro per trasformarle in graziosi monili, cavigliere, pendenti, collane, bigiotteria in genere. Nel camper abbiamo dovuto trovare un posto anche per il suo telaio a mano. Ottantuno, nonna Incoronata, madre di Anna. È lei che ha curato l’orto di Cascina Macondo. Merito suo sono i pomodori, le carote, i cetrioli, le pere e i fagiolini che ci portiamo dietro come provviste. Nonna Incoronata non viene fisicamente con noi, ma è verduralmente presente.
Partiamo con il nostro camper, un Elnagh Big Marlin sette posti Ducato 2.800 turbo diesel acquistato solo in aprile. Con già una sua storia alle spalle a solo un mese dall’acquisto: rottura improvvisa del parabrezza, per fortuna in garanzia, difetto di fabbricazione riparato prontamente. Furto con scasso in Toscana di una mia borsa con tutti i documenti, quaderni con indirizzi, appunti, annotazioni, e qualche libro di racconti.
Reno viaggia con il suo camper Riviera GT Ducato 2.500 turbo diesel sette posti.
Non partiamo insieme a causa di sfasature nei giorni che abbiamo a disposizione. Ci diamo appuntamento fra tre giorni alla stazione ferroviaria di Viel, in Germania.
Annette e Antonio vanno in treno sino ad Amburgo dove affittano un’auto targata HH per spostarsi in Danimarca.
Ottantuno resta a casa.
Tra le provviste una bella quantità di cipolle di Tropea da mangiare crude ghiottonerie con aceto balsamico olio e sale. Nonché una grande quantità di depliants di Cascina Macondo con le nostre proposte didattiche per l’anno 2003 che durante il viaggio, nei ritagli di tempo, dovremo piegare per averli pronti e poterli imbustare e spedire al nostro ritorno diretti alle scuole. Il nostro tipo di lavoro ci obbliga spesso a portarci dietro un po’ di carta da piegare durante i viaggi e le vacanze. Una cartina geografica, una guida della Danimarca, un dizionarietto.
Ci fa compagnia anche un libro di massime vichinghe. In realtà non lo abbiamo ancora con noi alla partenza. Lo acquisteremo il 22 agosto nel museo di Lindholm Høje nei pressi di Ålborg ( la Å col cerchietto si legge in danese come una “o” molto larga, più larga del suono aperto che noi usiamo in italiano nelle parole “buòno”, “òrto”. Nei cartelli stradali e nelle insegne di alcuni negozi lo stesso suono lo abbiamo incontrato scritto con due aa consecutive “AAlborg” che è il segno grafico più antico per indicare lo stesso suono. La Ø sbarrata di Høje si legge invece più o meno come la eu francese di peu = poco. La H si pronuncia aspirata come nel tedesco haben = avere, o nell’inglese home = casa).
A Lindholm Høje ci sono i resti di una necropoli vichinga che si suppone fosse attiva dal 400 all’anno mille dopo Cristo. Centinaia di pietre disposte in cerchio, a triangolo, a forma di barca, a definire lo spazio entro cui deporre i morti su pire di fuoco. Nel museo attiguo abbiamo trovato questo libretto di detti vichinghi tradotto in lingua italiana da Paolo Maria Turchi per le edizioni Gudrun. È una piccola raccolta di saggezza popolare tratta dall’ Hàvamàl il più popolare dei poemi eddaici. Hàvamàl significa letteralmente “Le parole dell’Eccelso”. L’Eccelso non è altri che Odino, il più potente dio dell’olimpo pagano nordico simile al nostro Giove romano o allo Zeus dei greci antichi. Sarebbe dunque stato Odino in persona a dare agli uomini queste perle di saggezza, affinché potessero vivere meglio e nel giusto. Il poema dell Hàvamàl ha per i nordici lo stesso valore che l’antico libro cinese del Tao può avere per gli orientali. Dà consigli su come trattare gli ospiti, l’amicizia, il potere, il viaggio, la felicità, la prodigalità, il buon senso, la gentilezza, e molto, molto altro ancora. È scritto in un metro antico chiamato Ljóðahàttur (metro poetico). Una stanza del poema è composta da 6 versi divisi in due terzine. I due primi versi di ogni terzina contengono una allitterazione (successione di parole che cominciano o terminano con la stessa lettera o sillaba, es. casa/cane, venuto/sentito), o un’ assonanza (rima imperfetta ottenuta con la ripetizione solo delle vocali a partitre dalla vocale accentata sino alla fine della parola es. càso/càro, rósso/rótto). Nel terzo verso vi è una nuova allitterazione, o un’assonanza. La terzina successiva ripete lo stesso schema con una allitterazione nei primi due versi e una nuova allitterazione nel sesto verso. Tutte le parole dell’antico norvegese sono accentate sulla prima sillaba, ed è questa sillaba accentata a produrre l’allitterazione o l’assonanza. Nella lingua italiana, avendo sillabe accentate dislocate in punti diversi della parola, è possibile la rima. Nell’antica poesia norrena la rima era sconosciuta. Non si ha certezza dell’esatta provenienza geografica dell’ Hàvamàl. Gli studiosi propendono per Norvegia o Islanda, altri per le Isole Britanniche. Si pensa sia stato composto nel periodo che va dal 700 al 900 dopo Cristo, o poco dopo. Lo spirito del poema è fortemente influenzato dalla cultura e dalla mentalità dell’era vichinga del periodo 800/1000 dopo Cristo.
Un’esempio dunque di versi Ljóðahàttur che mi invento così su due piedi per darne all’incirca un’idea potrebbe essere il seguente:
1) Nella stanza (1 e 2 verso allitterazione)
2) nera di fumo
3) cuoce da cinque ore (assonanza)
4) selvaggina di bosco (4 e 5 verso allitterazione)
5) sepolta da aromi.
6) Bicchieri pieni di birra in tavola. (nuova allitterazione)
Pur non avendolo ancora, questo libro di detti vichinghi già ci accompagna nel viaggio.
Chiusa la casa. Dato da bere alle piante e ai fiori con la pompa. Raccolto frutta e verdure dall’orto. Preparato le scatolette di cibo che Maria, la nostra vicina, gentilmente provvederà a razionare tra i gatti che bazzicano nel nostro cortile. Riempito il serbatoio d’acqua del camper. Scritto su un foglio i punti di riferimento del viaggio: Como – Lugano -Bellinzona – Lucerna – Basilea – Karlsruhe – Francoforte – Kassel – Hannover – Amburgo -stazione ferroviaria di Kiel dove alle ore 12.00 del giorno 17 abbiamo appuntamento con Reno che parte da Rimini.
Sono le ore 23.30 di mercoledì 14 agosto. Si parte finalmente.
La prima tappa è l’autogrill di Crocetta Sud in provincia di Asti sull’autostrada Torino-Piacenza, a soli 45 chilometri. Ci fermiamo a dormire. E anche a ridere un po’ per questa prima sosta così vicino casa. Ma siamo molto stanchi, è tardi, non me la sento di guidare. Però, comunque, ormai, siamo partiti.
Alle ore 2.45 la polizia ci bussa in pieno sonno. Ci consiglia che sarebbe meglio se ci mettessimo più vicino al bar, sotto la luce, per via dei ladri che spesso visitano l’ autogrill durante la notte. Ormai siamo svegli. Ci spostiamo. Anche un altro camper che sostava vicino a noi fa manovra verso la luce. Anna ha le braccia e le cosce doloranti per via dei lividi che si è fatta il giorno prima cadendo da una scaletta mentre stendeva la biancheria nel retro della casa. Ho teso io stesso i fili da un palo all’altro della tettoia. Ma troppo alti per lei. Persino in camper, per poter aprire gli sportellini del mobilio, accedere alla dispensa, ai piatti, all’oblò, Anna ha bisogno di un rialzo imbarazzante. Insomma, è così bassa che quando piove è sempre l’ultima a saperlo.
Finalmente riusciamo ad addormentarci. Ormai siamo entrati nell’alba di ferragosto. L’autostrada non è trafficata, i rumori delle auto che sfrecciano sono radi e lontani. Distesi sul letto della mansarda, stretta e bassa da sentirsi soffocare quando fa troppo caldo, ascoltiamo il silenzio della notte. Lo sguardo si posa su tutti gli angoli e gli spazi interni di questa piccola casa viaggiante. Un ultimo pensiero rivolto al viaggio, ai pericoli, alla prudenza, un pensiero rivolto alle figlie, uno agli amici, uno al lavoro, un pensiero alle rate del camper, uno all’Hàvamàl vichingo.
Ben pulito e sazio
si rechi l’uomo in visita
benché l’abito non sia elegante.
Ma delle scarpe e delle brache
nessuno si vergogni,
e neppure del cavallo
anche se non buono.
Ascoltando l’eco lontana di questi versi ci viene nostalgia del nostro vecchio furgone Iveco fenestrato che avevamo attrezzato per poterci dormire e viaggiare lontano. Ci ha fatto compagnia per migliaia e migliaia di chilometri, in giro per l’Italia a lavorare, e per diporto. Ora giace derelitto tra gli ammassi dello sfasciacarrozze aspettando di essere demolito. L’avrei tenuto ancora se il bollo e l’assicurazione non fossero costati così cari. Anche se la carrozzeria era una ruggine sola, anche se l’acqua filtrava persino dai vetri chiusi e dal parabrezza e dagli sportelli, anche se il predellino non c’era più e la marmitta era saldata e i buchi sotto si erano fatti ormai grandi e neri come tunnel e le tendine azzurre scucite qui e là. Ma il motore! Per il motore l’avrei tenuto ancora, e per tutte le cose che avevamo visto e fatto insieme.
Come dicono i versi citati dell’Hàvamàl davvero non ci siamo mai vergognati di un simile cavallo sgangherato. Un desiderio inconfessato mi diceva che il camper nuovo era troppo nuovo e bianco per noi. Per sentirlo nostro doveva essere vissuto.
LAGHI E TUNNELL
Il secondo giorno di viaggio percorriamo 485 chilometri. Una telefonata a Bruno vecchio amico di infanzia che vive a Chiasso che ormai vedo di rado ma almeno un caffè un’oretta insieme mi sarebbe piaciuto passarla con lui. Risponde la segreteria telefonica. Non c’è. Chissà, forse al ritorno, se passeremo ancora di qui.
Superiamo il passo e la galleria del S. Gottardo lunga 17 chilometri. Zona di laghi da Bellinzona a Lucerna con squarci bellissimi di paesaggio che svaniscono in fretta lo sguardo inghiottito da nuove gallerie lunghe nel ventre delle montagne. Dopo Basilea l’autostrada in pianura percorre l’Alsazia. Qui e là qualche rallentamento per lavori in corso. Il paesaggio è una gran noia sempre uguale e monotono un nastro di asfalto grigio in mezzo a due file interminabili di alberi. A Ovest la catena montuosa dei Vosgi, a Est la Foresta Nera. Da qualche parte scorre il fiume Reno. Ma le due fila interminabili di alberi non consentono di vedere nulla, sino a Strasburgo, quasi sino a Francoforte. Però tanti comodi spazi per la sosta con bagni forniti di carta igienica e panchine verdi pic-nick nella Svizzera italiana e tedesca, e in Germania. È la prima cosa che si nota confrontando i servizi dell’autostrada straniera con quelli offerti in Italia. Ci fermiamo a dormire in un grande autogrill pieno di alberi, molto grande, decine di camper in sosta. I camionisti tirano fuori da sotto la fiancata del loro camion una specie di tavolino, e mettono a bollire qualcosa per la cena. Poi si siedono a mangiare con il viso rivolto al camion. Osservandoli mi sembrano poco dignitosi. Il tavolino ribaltato da sotto la fiancata dovrebbe consentire al camionista di mettersi con le spalle al camion, il viso rivolto ai passanti, apertamente. Mostrarsi più che nascondersi. Anche se piccolo, basso, adiacente alla fiancata, tra odori di olio, diesel e gomme ancora calde di asfalto, un ripiano imbandito e disposto così, con l’omino che a fronte alta guarda dinanzi a sé, sarebbe più bello è più dignitoso a vedersi.
FERROCALVARI
Il terzo giorno viaggiamo per 430 chilometri. Dopo Francoforte l’autostrada si snoda finalmente in una serie di curve, discese, salite che rendono vario il paesaggio con squarci di colline e campi di grano tagliato. Nei pressi di Kassel incontriamo i primi ferrocalvari. Ne incontreremo moltissimi in tutta la Danimarca. Paesaggio usuale ormai in Olanda, Danimarca, Germania e credo anche negli altri paesi del Nord Europa. Io li chiamo ferrocalvari. Sono quegli alti e grossi pali di ferro con tre eliche bianche braccia spinte dal vento a produrre energia elettrica. Di solito posti su un rialzo o su un’altura. Se li guardi a tre a tre sembrano proprio i corpi tristi e dolenti di cristo e dei due ladroni con la testa pendente da un lato inchiodati alle croci sul Golgota. Metalli biancofreddi pilastri in mezzo ai prati e all’erba verde. Sofferenti creature di ferro messe in croce. Niente a che vedere con i vecchi mulini a vento di legno e tetti di paglia di un tempo.
Ai bordi dell’autostrada ogni tanto carcasse spiaccicate di lepri, volpi, ricci sventrati dalle auto in corsa. Un’auto gialla tedesca ci sorpassa. Così veloce che non faccio in tempo a clacsonarla per informarla che sta viaggiando con il cofano posteriore aperto bagagli in bilico a vista stipate valigie e una manica di giacca in continuo tremolìo di vento. Davanti a noi, già lontana. La ritroveremo dopo qualche minuto ferma a una piazzola di sosta con due giovanotti a sistemare tutte le cose che per fortuna non avevano perso. Non così si può dire dello sconosciuto furgoncino che ha seminato sull’asfalto sprizzi di pomodoro rosso con decine di pizze e focacce ridotte a brandelli dalle sopraggiunte auto in corsa odori di forno a legna nell’aria.
Al tramonto ci fermiamo in un autogrill per cenare e trascorrere la notte. Siamo a circa 40 chilometri da Kassel. Parcheggiato il camper facciamo una piccola passeggiata a piedi tra le zanzare sino a un paesino che si scorge laggiù a circa un chilometro. Non finirà di stupirci questa possibilità di uscire ed entrare quando si vuole dalle autostrade tedesche, olandesi, danesi senza dover pagare nulla e senza trovare code a quelle mostruose barriere del pedaggio che chiamiamo caselli in Italia. Questa possibilità di lasciare l’automezzo parcheggiato nell’autogrill e farsi una passeggiata a piedi tra i campi. Il paesino che visitiamo è Knüllwald-Oberbeisheim. Piccolo, pulitissimo, ben curato. Tendine di pizzo alle finestre. La legna per l’inverno accatastata con ordine. Mucche ben nutrite nei recinti. Cortili e stradine sinuose senza una macchia bianca di carta, messe in risalto dall’imbrunire. Orticelli ben tenuti intorno alle case basse le cui pareti sembrano da lontano dipinte con strisce nere verticali, orizzontali e oblique che formano triangoli e quadrati sulle facciate. In realtà, guardandole da vicino, scopriamo che non sono strisce dipinte, ma travi di legno. È una tecnica di costruzione: la struttura portante della casa è fatta di travi di legno che formano una intelaiatura lungo tutto il perimetro nei quattro lati della casa. Gli spazi vuoti compresi tra le travi vengono poi riempiti di mattoni. L’effetto è molto tipico e decorativo. Vecchie case così ce ne sono ovunque in Germania, in Danimarca, in Olanda. La piccola visita a Knüllwald ci fa capire che siamo già entrati in un altro mondo e in un’altra cultura. Si sta facendo buio e le zanzare si fanno più numerose e pungenti. È meglio tornare al camper.
Le nostre soste per la cena, il pranzo, le pause pomeridiane per il caffè, sono lunghe e tranquille. Tanto che abbiamo impiegato tre giorni per giungere a Viel. Questa breve sortita dall’autostrada per visitare un paesino tedesco è l’unica sortita che abbiamo fatto.
Anna avrebbe voluto uscire più spesso dall’autostrada per visitare alcuni paesi. Io in verità avevo voglia di sperimentare e vivere con calma il camper per conoscerlo nei dettagli.
In fondo era il nostro primo viaggio in camper. Provare la doccia, come si trova un posto per scaricare la vaschetta Thetford, liberarsi delle acque grigie, le biciclette, la cucina, il frigo, le bombole del gas, aprirle, chiuderle, il boiler, e tutto il resto. Volevo sentirmi in vacanza. Leggere nelle pause qualche pagina di un libro, qualche racconto, sfogliare il dizionarietto danese e la guida. Ma sapendo che Reno ci avrebbe raggiunto fra tre giorni, chissà, inconsapevolmente, l’andare piano era forse come un aspettarlo.
Sono le ore 22.00, squilla il telefonino.
È proprio Reno appena entrato in Svizzera. Ha una ruota ovalizzata e il camper sbanda.
È costretto a fermarsi in autogrill. Tenterà domani, con la luce del giorno, di cambiarla.
Sullo sfondo le voci di Yuma e Shayela.
Credo che la mia poca voglia di uscire dall’autostrada derivi anche dal fatto che ogni volta che faccio un viaggio dimentico, dopo qualche mese, ogni nome di paese o piazza o evento che ho visto. Spesso confondo i luoghi addirittura. Così tanto che a volte mi chiedo a cosa mi serve viaggiare se un campanile che ricordo di aver visto in Svizzera era in realtà ad Amsterdam e se un albero maestoso visto in un giardino di Copenaghen era in realtà un albero incontrato a Ginevra. Quindi in realtà nel viaggio di andata non volevo uscire dall’autostrada per non rischiare di accavallare immagini e ricordi della Germania che avrebbero finito col confondermi. Volevo ricordare quell’anno come l’anno del viaggio in Danimarca. Senza equivoci, fin dove era possibile. Squilla di nuovo il telefonino. Sono le ore 24.00. È ancora Reno. Ha cambiato la ruota ovalizzata senza aspettare il giorno, e si è rimesso in marcia.
Sullo sfondo il silenzio dei bambini che dormono.
IL PRIMO SILENZIO
Sabato 17 agosto. Tragitto di 609 chilometri. Nei pressi di Amburgo spazi di brughiera con campi di erica viola. Sotto il Tunnel dell’Elba, ad Amburgo, una voce femminile in altoparlante: “Achtung! Achtung!” e una serie di altre parole tedesche che non capisco. È la prima volta che sento una voce in altoparlante dentro una galleria.
Altra telefonata di Reno. Gli è scoppiata una gomma nei pressi di Basilea! Non ha più gomme di scorta ora. È fermo sul ciglio dell’autostrada nella corsia di emergenza. La polizia svizzera è stata gentile. Ha chiamato qualcuno del soccorso stradale. Reno aspetta ormai da un paio di ore con i bambini che si comportano benissimo e non frignano più di tanto.
Salta l’appuntamento delle ore 12.00 alla stazione ferroviaria di Viel. Ci sentiremo fra qualche ora per comunicarci le nostre nuove posizioni e un luogo nuovo per l’incontro.
Io e Anna arriviamo intanto a Flensburg. Poco dopo superiamo la frontiera abbandonata della Danimarca. Ci fermiamo a festeggiare la meta raggiunta ordinando un caffè danese al primo autogrill che incontriamo dopo un paio di chilometri. Sono le ore 19.00. Vicino al distributore di benzina una montagnola di piccoli sacchi pieni di ciocchi di legno e sacchetti di carbonella per barbecù ammassati su pancali. Questi sacchetti li incontreremo in tutti i supermercati e negozi della Danimarca come se la carne o il pesce o le verdure alla brace fossero per i danesi un piatto nazionale. Il caffè all’autogrill lo fanno con una macchinetta da ufficio. Ci rinunciamo. Ne facciamo uno in camper con la nostra moka. Chiamo Reno per sentire a che punto è con il suo problema della gomma scoppiata. Un meccanico del soccorso finalmente lo ha raggiunto. Il guasto è stato riparato. Reno ha acquistato una gomma nuova. Il tutto, fra soccorso, gomma, e materiali, gli è costato 500 euro. Una bella sberla imprevista insomma. Inoltre una striscia sfilacciata di copertone scoppiato, che ha continuato a girare prima che Reno potesse fermarsi in una piazzuola dell’autostrada, gli ha mangiato il fondo del camper, proprio sopra la ruota posteriore, in corrispondenza del letto dove dorme Yuma. Si è formato un buco da cui entra aria. Se piove entrerà acqua. Lavoro urgente da farsi subito appena torna a casa. Gli costerà altri 250 euro. Ma Reno è di buon umore. Ci tiene troppo a questo viaggio che desiderava da tanto tempo, e già si è rimesso in marcia cantando.
Speriamo che non piova.
Anna ed io siamo impazienti di vedere la Danimarca. Preso il caffè ci avviamo verso la prima uscita dell’autostrada, sulla statale 8 in direzione Kruså.
È un villaggetto di poche case. Proseguiamo per Sønderborg.
Per raggiungere Sønderborg si passa su un alto e suggestivo ponte che con una grande arcata supera il fiordo dell’ Als Sund. Sullo sfondo barche a vela macchiettano di bianco l’azzurroscuro del mare. Lungo la strada i diversi ingressi a Sønderborg sono indicati con le lettere dell’alfabeto C, B, Ø. Tutte le città in Danimarca hanno gli ingressi contrassegnati da lettere dell’alfabeto, anche S, N, V. Forse corrispondono al nostro Torino Nord, Torino Sud, Torino Est. In danese Est= Øst, Ovest=Vest, Sud=Syd (la Y si legge Ü, tranne dinanzi ai gruppi nd, nn, nt, ng, nk, kk, st, nel qual caso si legge Ö come nelle parole tynd (tön) = magro, lyst (löst) = voglia). Forse le lettere rappresentano le iniziali dei punti cardinali. Ma è solo una supposizione. Per tutta la nostra permanenza in Danimarca mi sono riproposto di chiedere conferma e spiegazioni a un danese, ma alla fine me ne sono dimenticato. L’inizio di ogni paese è indicato con un cartello rettangolare su cui sono stampate in nero i profili e le sagome di cinque case stilizzate, compreso un campanile. Lo stesso cartello, sbarrato in diagonale da una striscia rossa, indica che il paese è finito.
Entriamo a Sønderborg. Sono le ore 20.00. Il nostro primo impatto è con il silenzio.
Un silenzio assoluto regna nei paesi danesi, anche in quelli abbastanza grandi. Il centro storico di Sønderborg è deserto. Tutti i negozi chiusi. Pochissima gente per strada. Un impressionante silenzio. Tanto che scendendo dal camper il piccolo toc metallico della chiusura degli sportelli ci sembra un grande rumore. Ci sorprendiamo a parlare a bassa voce, a camminare con passo felpato per non violare la quiete assoluta di quelle vie deserte.
Le pareti delle case rimandano di ogni suono o voce una breve eco. Pochissime auto. Le piazzuole delle aree di sosta quasi tutte libere. Libere nel senso di non a pagamento e libere nel senso di vuote. Due ragazze bionde con seni grandi attraversano a braccetto la piazza ridendo. Le loro risate squillanti sembrano propagarsi per tutto il paese. Sono questi silenzi e questa pace dei paesi la cosa che più ci ha colpito della Danimarca. All’inizio sembrandoci assurdo esagerato noia. Ma dopo soli venti giorni abbiamo assimilato e capito quel ritmo, quella quiete. I negozi al mattino aprono verso le 10. Fanno orario continuato sino alle ore 17.00. Chiuse le serrande la gente sparisce dalle strade e cala un silenzio da coprifuoco. Se arrivi la sera in un posto ti chiedi sé è abitato. Sembra che non ci sia nessuno e ti chiedi dov’è finita la gente, cosa fa, se è chiusa in casa a guardare la televisione, se è in qualche ritrovo di cui non sei a conoscenza. I danesi sono gentilissimi, rispondono ad ogni richiesta di informazione. Nessuno tenta di passarti davanti nelle piccole code alle casse dei supermercati. Se ad un incrocio sei indeciso nessuno ti suona il clacson, nessuno ti soprassa infastidito. Sono guidatori eccellenti e rispettosi dei limiti di velocità. I ciclisti e i pedoni sono tenuti in grande considerazione e a loro gli automobilisti riservano ogni precedenza agli incroci. Non abbiamo mai assistito a litigi, a gesti di aggressività, di insofferenza, di astio, di fretta, anche nelle feste, dove abbondano le bevute di birra e tutti finiscono col camminare barcollando. Dopo una settimana di lavoro i danesi si concedono al venerdi e al sabato sera il diritto di perdere un po’ il controllo con bevute di buona birra. C’è una sorta di inconfessata benevolenza nei confronti degli occhi lucidi di birra e di coloro che camminano leggermente andati. Come se fosse socialmente riconosciuto e accettato. Se i negozianti aprono le loro botteghe alle dieci del mattino ciò significa che hanno tempo per occuparsi dei figli, accompagnarli a scuola, stare con loro. Dopo la chiusura dei negozi alle cinque del pomeriggio hanno altro tempo, per leggere, per passeggiare, per riflettere, per riverniciare le finestre di casa. Quando siamo rientrati in Italia, ritrovando gli infiniti rumori delle auto, le voci sregolate, le chiacchiere a voce alta, l’arroganza degli automobilisti, i sorpassi a tradimento, i venditori asillanti e i mille altri suoni ultra decibellati compresi i cinguettii acuti e snervanti degli uccellini di plastica, oggi di moda in Italia, poggiati su piccoli fintitronchi in bella, plurima, petulante mostra sui banconi degli autogrill, siamo rimasti letteralmente storditi. Intensa allora più volte è affiorata la nostalgia della Danimarca.
Sono ormai le 21.30. Serpeggia un po’ di appetito. Ma dobbiamo anche trovare un posto buono per dormire. Sulla guida che abbiamo con noi leggiamo che in Danimarca è vietato fermarsi a dormire col camper nelle vie o nei parcheggi. Occorre andare nei parcheggi appositi o nei campeggi. Siamo indecisi sul da farsi. Perdiamo quasi un paio di ore a cercare un campeggio per sentire i prezzi. Ne troviamo uno dopo esserci perduti in stradine secondarie, ma all’accoglienza non c’è nessuno ed è già chiuso. Ormai si è fatto buio. L’appetito si sta trasformando in nervosismo e fame. Concludiamo che per quella notte è meglio ritornare in autostrada e dormire in autogrill. Riattraversiamo l’alto ponte sull’ Als Sund, superiamo il piccolo paesino di Kruså, e ci immettiamo di nuovo nell’autostrada E45 in direzione Nord, verso Kolding, per fermarci a dormire al primo autogrill.
Lo incontriamo dopo una quarantina di chilometri. Ci sono solo un camper, una macchina con roulotte, un camion. Il parcheggio è poco illuminato. Ci infiliamo tra il camper e la roulotte. È mezzanotte. Mangiamo un boccone, e siamo già addormentati.
Sono le 2.30 di notte, quando Anna, che ha il sonno leggero, mi sveglia scuotendomi:
“C’è qualcuno, ho sentitio un rumore” sussurra.
Tendo l’orecchio assonnato. Sì, c’è proprio qualcuno che armeggia alla portiera. Dal finestrino della mansarda posso vedere fuori. Mi avvicino di più appiccicandovi il naso. Lascio sempre qualche spiraglio che consenta la vista fuori quando mi fermo a dormire. Non mi piace chiudermi completamente senza poter vedere cosa succede fuori. C’è un uomo. Un giovanotto sui trentanni. Nel buio riesco a distinguere una camicia quadrettata, capelli corti, carnagione scura. Sta lavorando con alcuni attrezzi alla serratura della portiera. Non ha i caratteri somatici del danese. Non mi ha visto. Restiamo in apnea pensando al da farsi. Schiaccio infine il pulsantino rosso dell’antifurto. Le luci del camper lampeggiano tre volte. È sufficiente per disorientare il ladro che si dà alla fuga dileguandosi nei campi. Accendiamo le luci. Usciamo a vedere. La serratura della portiera era già aperta! Ci chiediamo perché il ladro si sia messo a lavorare a quella portiera, proprio sotto il finestrino della mansarda i cui scuri non avevo abbassato. Probabilmente perché da quel lato, parcheggiando vicino alla macchina con roulotte, si era formato un corridoio molto stretto che poteva meglio nasconderlo alla vista di un eventuale passante. Un furto già subito in Toscana e un tentativo di furto sventato per un pelo, proprio la prima notte del nostro arrivo in Danimarca! Fatalità o sventura? L’idea di un ladro e dei pericoli che si possono incontrare viaggiando ci mette un po’ di ansia. Non riusciamo più a dormire. Sposto il camper in un’altra zona dell’autogrill, proprio sotto un lampione, in una posizione forse non troppo ortodossa. Ma più sicura. Da quel giorno abbiamo preso l’abitudine di tendere, quando ci fermiamo a dormire, una cinghia fra le due maniglie delle portiere. E di metterci sempre là dove c’è più luce. Leggiucchiamo qualcosa per calmarci e riprendere sonno. Solo verso l’alba riusciamo ad assopirci. Con in testa l’eco lontana di alcuni versi dell’Hàvamàl:
Le tue armi
non dimenticare
quando esci di casa.
Difficile è sapere
quando nel cammino
avrai bisogno di usarle.
IL CASTELLO IN FONDO ALLA VIA
È domenica. Ci svegliamo un po’ tardi dopo la notte insonne. Colazione veloce, e si parte verso Haderslev che si trova nelle vicinanze.
Di nuovo silenzio nelle vie, tranquillità assoluta. Un po’ di vai e vieni vicino al piccolo bar sulla sponda del grazioso laghetto dove sguazzano anatre e cormorani. Una ragazza legge un libro seduta su una panchina, la bicicletta in piedi al suo fianco. Il sole sui capelli. Una donna anziana porta a spasso un cane nero. Un giardino verde intorno al lago. Un sentiero. Un ponticello di legno. Il centro storico. Da una chiesa evangelica proviene un canto. Entriamo. Alcuni ci salutano con un sorriso. Il coro è proprio all’ingresso in piedi su panchine di legno uomini e donne una dozzina vestiti di azzurro e foulars intorno al collo cantano fogli in mano. Una bimba piccola con un disegno tra le dita si aggira nell’atrio facendo avanti e in dietro tra la mamma bionda e il coro. L’aria fresca. Nude le pareti della chiesa, pochissimi gli addobbi. La gente canta.
Continuiamo la passeggiata sino al porto dove c’è l’ufficio turistico che troviamo chiuso. Compriamo al supermercato un pane. Sono le 12.30. Il giro ci riporta al camper. Lo vediamo laggiù a un centinaio di metri con la voce del suo allarme che si è messo a suonare da solo all’improvviso una corsa per bloccarlo. L’antifurto è così, ha una sua personalità. Suona quando vuole e tace a volte quando occorre. Dobbiamo farlo rivedere dalla ditta Grosso di Cuneo dove lo abbiamo acquistato. Non può fare le bizze in questo modo! Squilla il telefonino. Reno è a pochi chilometri dalla frontiera. Non ce lo aspettavamo così vicino! Ha viaggiato la notte mentre i bimbi dormivano. Ci diamo appuntamento al primo autogrill subito dopo la frontiera. Il colmo? Beh, noi avevamo un vantaggio di tre giorni su Reno, ma all’appuntamento è lui che arriva per primo e ci aspetta per una mezzoretta! Finalmente gioia generale. Bacio ai bimbi e abbraccio. Pentola sul fuoco per un piatto di spaghetti con sugo di noci. Bottiglia di vino. Cartina stradale. Itinerari. Luoghi da vedere. Caffè. Dopo il caffè convoco una riunione generale sul camper di Reno. Tutti seduti intorno al tavolo. “Ascoltatemi bene -esordisco rivolgendomi anche ai bambini sorpresi di questa riunione così solenne e ufficiale – Dobbiamo passare le vacanze insieme qui in Danimarca. Cerchiamo di andare tutti d’accordo, di stare bene insieme e divertirci. Non bisogna rompere le scatole, né bisogna frignare per delle sciocchezze. E quando c’è da camminare si cammina, e quando c’è da giocare si gioca, e quando c’è da dormire si dorme. Ci sono tante cose da visitare e da vedere e il tempo che abbiamo a disposizione è poco. Non bisogna sprecarlo con capricci e litigi, altrimenti mi arrabbio. Sono stato chiaro?”.
Il tono è solenne, austero, recitato, con pause espressive e messa in rilievo di alcune parole. Anna e Reno, stando al gioco, confermano la giustezza e la saggezza delle mie parole. I bimbi con gli occhi sbarrati e attenti, come se ascoltassero una fiaba. Shayela che aggiunge: “e quando c’è da mangiare il gelato si mangia il gelato”.
Naturalmente.
Si parte per Augustenborg.
È una cittadina del sud est, dopo Sønderborg, con piccolo porto sull’ Als Fjord. La nostra guida ci segnala che lì c’è un posto, nei pressi del castello, dove i camper possono parcheggiare. Ci fermeremo lì a dormire. Poi si partirà per Legoland.
Ad Augustenborg troviamo un grandissimo campo di grano tagliato. Ci sono centinaia di auto parcheggiate sotto il sole. Che sia questo il posto nei pressi del castello dove i camper possono fermarsi a pernottare? Un po’ squallido. Forse i danesi non sono poi così diversi dagli italiani. Intorno non c’è nessuna traccia del castello. Da un parco proviene la musica di un concerto all’aperto. Forse c’è una festa. Lasciamo i camper in quel grande campo assolato e ci dirigiamo verso il luogo da dove proviene la musica. Le stoppie pungono le caviglie. Strada facendo chiediamo ad un passante dov’è il castello please where is the castle?
È laggiù, in fondo alla via. Arriviamo in fondo alla via. Del castello nessuna traccia. Esploriamo i dintorni. Niente castello. Consulto il dizionarietto. In danese castello si dice Slot. Entro in un bar e chiedo Slot, where… is… Slot. Il barista non mi capisce, alza le spalle dispiaciuto. Chiedo a una signora please the Slot. Niente da fare. Anche la terza persona, e la quarta, non mi capiscono. Per un attimo si affaccia alla mia mente un veloce pensiero: forse i danesi sono un po’ tonti? Solo l’ennesimo interpellato riesce a capirmi: laggiù – risponde – in fondo alla via. Finalmente è tutto chiaro. Scopro che il suono dolce della “S” come nell’italiano “rosa” non esiste in danese. La S ha sempre suono sordo come in “sole”, “sedia”. Pronunciavo dunque la parola Slot come nell’inglese “slot machine”, con la esse dolce. Avrei dovuto dirla con la esse sorda. La pronuncia esatta diventa allora Silot. Bastava questa piccola differenza di suono per non essere capito. Ma non conoscendo assolutamente il suono dolce della esse, era davvero difficile per i danesi decodificare la parola nel modo come io la pronunciavo.
Il castello era proprio in fondo alla via. Forse i danesi hanno pensato che fossimo noi un po’ tonti, per non essere capaci di trovare un castello in fondo alla via. In realtà noi ci aspettavamo un castello di quelli classici, con le torri a punta, le mura, i merli, il fossato intorno, il ponte levatoio. Si trattava invece di una grande costruzione, una specia di villa costruita con mattoni rossi a vista, cortili interni e un grande prato di erba tagliata corta e pettinata. Anche quello chiamavano Slot i danesi con la esse sorda. La musica del concerto non si sente più. Da una lunga muraglia di alberi vediamo riversarsi verso di noi una marea di gente che esce dalla boscaglia con seggioline in mano o a tracolla, cesti da pic-nic, tavolini da campeggio. In silenzio, e ordinatamente, la marea di gente invade le vie diretta alle auto parcheggiate nel campo di grano. La festa è finita. Tutti stanno tornando a casa. Sono solo le sei del pomeriggio. Andiamo contro corrente curiosi di scoprire che cosa ci siamo persi. Sbuchiamo in un grande prato costeggiato da un laghetto. Un grande palco da un lato. E ancora decine di persone sedute, chi sulla terra nuda, chi sull’erba, chi sulle coperte, chi sulle sedie intorno ai loro tavolini con bicchieri di birra panini thè aranciate. Era una grande festa del volontariato con concerto e pic nic all’aperto fin dal mattino. Ognuno si era portato la propria sedia come si faceva un tempo, e ancora si fa qualche volta, in alcune feste del nostro meridione. Una bellissima atmosfera. La gente cordiale. Una grande famiglia che si era data appuntamento dietro il castello di Augustenborg.
Averlo saputo si poteva venire qui a mangiare nel prato con loro e a sentire il concerto. Non è la prima volta che arriviamo tardi in un luogo perdendoci tutto ciò che di interessante era successo prima. Facciamo fatica ad assimilare gli orari della Danimarca. Questo loro aprire i negozi alle dieci del mattino e chiuderli alle diciassette è un ritmo che ci sballa. In molti luoghi siamo arrivati intorno alle 17.30 e tutto era già finito: manifestazioni, musei, dimostrazioni, feste. Più volte Anna Reno ed io e Yuma e Shayela, guardandoci negli occhi e lasciando cadere le braccia verso il basso, abbiamo dovuto commentare: anche questa volta siamo arrivati in ritardo!
A Lindholm Høje nella necropoli vichinga dove approderemo fra qualche giorno c’è un libro che ci aspetta sugli scaffali del museo. È il libro dell’Hàvamàl.
Troppo presto
arrivai in molti luoghi
o troppo tardi in altri.
La birra era già bevuta
oppure non era pronta ancora.
Di rado l’intempestivo giunge al momento giusto.
Per consolarci non ci resta che andare a prendere un caffè in un bar di Augustenborg.
Sulla soglia squilla il telefonino. È Paolo della Sorrisirandagi Srl che ci conferma il contratto per un nostro intervento con la Tenda Indiana il 14 settembre in Piazza Crispi a Torino. Buona notizia. Prendiamo tre tazzoni di caffè seduti al tavolo. Søren, il barista, è molto simpatico. Offre persino due chupa chupa ai bambini. Chiediamo a Søren se conosce luoghi o situazioni in Danimarca dove si possano vedere danze popolari. Siamo interessati a questo argomento e ci piacerebbe scoprire e imparare i passi di alcune delle loro danze tradizionali. Søren ci pensa un po’ toccandosi con le dita la radissima barbetta sul mento. Fa un cenno di diniego. Passa la domanda a un cliente seduto al banco con boccale di birra in mano. Anche da lui un cenno di diniego. Søren conosce una grande festa a Tønder, un paese vicino al confine tedesco, a pochi chilometri dalla costa del mare del Nord. Ma è una festa di musica, non di danze popolari. La fanno ogni anno in questo periodo. Prendiamo nota dell’informazione. Approfittiamo della disponibilità e della simpatia di Søren per capire il fenomeno dello Stød danese.
Lo Stød è un modo di usare la voce. Una sorta di vibrazione delle corde vocali immediatamente seguita da una interruzione e, subito dopo, da una continuazione o un’eco dello stesso suono appena interrotto. Lo si trova solo in sillaba accentata e solo dopo vocale lunga o consonante sonora. Non c’è un segno grafico che lo segnala nella lingua scritta. È un suono particolarissimo che si trova solo nella lingua danese. La parola hus (casa) si pronuncia con lo Stød facendo vibrare le corde vocali sulla u e, dopo una brevissima interruzione, si riprende il suono della stessa u (hu(u.)s. Søren ci fa sentire questa pronuncia in diverse parole. La parola anden ha significati diversi a seconda se si pronuncia con lo Stød o senza. Con lo Stød (vibrazione della a-brevissima interruzione-ripresa con eco della stessa a) vuol dire anitra. Si leggerà quindi a(a)nen. (La d dopo le consonanti n ed l non si pronuncia).
Letta normalmente, senza lo Stød, la stessa parola anden (anen) vuol dire altro. La parola vild (selvaggio) si pronuncia con lo Stød: vi(i)ll. (la d dopo la l, e spesso in fine di parola, non si pronuncia). A Søren chiediamo per favore di ripetere più volte le parole con lo Stød.
I nostri tentativi di riprodurre quei suoni risultano davvero maldestri. Persino una comitiva di uomini e donne seduti a un tavolo con birre piene partecipa alle risate generali che suscitiamo. Infine immortaliamo Søren in una foto con noi.
Ormai è l’imbrunire. Ci avviamo verso i camper per la cena. Tutte le auto che erano parcheggiate nel vasto campo di grano tagliato non ci sono più. Apparecchiamo fuori con sedie e tavolini, vicino a una montagna di trucioli di legno. Ne erano stati sparsi molti per terra per impedire alle stoppie di pungere. Ne raccogliamo due sacchetti per il barbecu, nel caso fra qualche giorno ci venisse voglia di fare un po’ di carne alla brace. Yuma e Shayela giocano con la montagna di trucioli. Rotolano. Gridano. Le loro grida ci sembrano corpi estranei nel silenzio che regna intorno a noi.
“Non gridate, altrimenti la gente che abita laggiù nelle case viene a sgridarci e ci manda via”.
“È vero, non si urla – risponde Shayela tre anni – altrimenti si svegliano tutti quelli che dormono. Anche i poveri che dormono stretti stretti”
Poi rimangono incantati a guardare il sole all’orizzonte. Mentre Anna prepara con spicchi d’aglio una minestrina abbondante di cui siamo tutti ghiotti, noi restiamo con i bambini a guardare il tramonto e i cambiamenti di colore del cielo. Yuma e Shayela sono sorpresi e affascinati di vedere il sole scomparire a vista d’occhio pian piano; e fanno il gioco di risalire il campo verso l’ altura con la speranza di vederlo ancora.
È quasi buio quando all’unanimità decidiamo freneticamente di spostarci di lì. Le zanzare ci sono piombate addosso come aerei in picchiata. Sbaracchiamo di corsa rovesciando persino bicchieri. Andiamo a parcheggiare in una piazzetta vicino al castello. È un buon posto per dormire. Ci sono anche i bagni. Ne approfittiamo per fare rifornimento d’ acqua.
Al mattino un salto al supermercato per comprare un po’ di pane. Anna compra anche un barattolo di marmellata di arance e carote. Prendiamo una bottiglia di olio di oliva. Il colore non è bello scuro come quello del nostro olio exstravergine. Non avendo scelta ci accontentiamo di quel colore chiaro. Il sapore non è granché. Credevamo fosse olio di oliva. Solo dopo aver mangiato diverse insalate scopriamo alla fine che era olio di semi. Olio di semi di uva! Un salto all’ufficio turistico per prendere depliants e chiedere notizie sulle danze popolari. Le ragazze addette non sono al corrente di manifestazioni con danze tradizionali danesi. Scopriamo però che il Festival di Musica Folk a Tønder è il 22, 23, 24 agosto. Scopriamo anche che a Ribe, una cittadina non molto lontano da Esbjerg, a sud-ovest dello Yutland, c’è ogni sera, puntualmente alle ore 22.00, il rituale dell’accensione dei lampioni.
Un uomo in costume fa il giro della piazza accendendo i lumi, canta antiche canzoni e narra delle storie. Eccitati dalle molte cose che ci sono da vedere ci mettiamo subito in marcia verso Billund per andare a visitare la famosa Legoland. Yuma e Shayela eccitatissimi al pensiero delle giostre. Ma anche noi.
CON UN LIBRO IN MANO ANDERSEN CI GUARDA
Venti euro l’ingresso. Nel biglietto sono compresi anche i giri sulle diverse giostre e attrazioni del parco. Scattiamo subito una foto ricordo con la testa appoggiata sulla spalla dell’omino fatto di pezzettini di Lego colorati che dorme e russa su una panchina all’ingresso. Impressionante la sua immobilità, e quell’ inquietante russare registrato che proviene dalle sue viscere come avvolto da un’eco di caverna. Personaggi di guerre stellari in Lego. Decine e decine di case, chiese, aereoporti, palazzi in miniatura che riproducono squarci di diverse città del mondo tutti fatti con pezzettini di Lego. Un museo all’aperto del Lego. Persino la montagna con i volti dei quattro presidenti americani scolpiti in Lego. E la statua di Cavallo Pazzo in Lego. Il parco pieno di gente. Molti gli italiani. Nel prato dove abbiamo parcheggiato c’erano altri otto camper tutti italiani. Sembrava ci fossimo dati appuntamento lì. Mezza giornata abbiamo trascorso a Legoland cercando di fare giri in tutte le giostre. La prima è stata l’alta torre con una cabina girevole che sale e poi ridiscende ruotando. Dall’alto si vede tutto il parco con le diverse attrazioni, i sentieri, i villaggi in miniatura.
Non possiamo non sperimentare la caduta con la canoa. C’è una lunga coda alle canoe. Un serpentone di mamme papà e bambini. Saliamo su una canoa, io davanti, con Yuma seduto dinanzi a me. Gli passo il braccio sotto l’ascella tenendogli il petto con la mano per proteggerlo nella discesa. Il suo cuore batte fortissimo. Dietro di noi Reno e Shayela. Anna ha preferito restare a terra. La canoa sale lentamente, sale, sale. Ed ecco che inizia la breve velocissima corsa in discesa. Quando lo scafo con violenza colpisce l’acqua in pianura del piccolo fiume che stiamo navigando, schizzi d’acqua ovunque. All’uscita scopriamo che una macchina fotografica nascosta ha scattato delle foto proprio nel momento in cui la canoa tocca l’acqua. Tutti e quattro immortalati con una espressione di tensione e riso. Beh, abbiamo comprato una foto ciascuno a 5 euro che ti mettono in una busta colorata.
Ora siamo in una barca che lungo un fiume sotterraneo ci porta nelle viscere di una caverna, nel ritrovo segreto dei pirati. Luci e tesori nascosti, briganti con benda nera sull’occhio, tavole imbandite con selvaggina, pane, frutta, boccali di vino, zingare danzanti e musicisti, cannoni che sparano. Tutto rigorosamente costruito con pezzi di Lego. Anna rimasta a terra con il suo improvviso mal di testa.
Poi è la volta della giostra con barche rotonde a forma di tazza e una vela abbozzata che su un piano girevole rotondo ti sballotta in diverse rotazioni da una parte all’altra della pista. Produce una sorta di euforia, una leggera ubriacatura da sballottamento morbido con vuoto allo stomaco sopportabile. Scendendo da quella giostra continuiamo incontenibilmente a ridere senza motivo. Anna che era rimasta a terra ci guarda un po’ stranita.
Nel serpente volante con discesa ad alta velocità sale anche Anna. L’ingresso è sotto il castello medievale dove ci sono nicchie vetrate che espongono scene di vita sempre fatte con il Lego. In questa giostra il vuoto allo stomaco è più forte. Ma tutto dura solo un minuto.
Divertente la galleria dei minatori che esploriamo seduti sui carrelli del carbone che viaggiano tra esplosioni di grisù e lavoratori con picconi. Sempre rigorosamente in Lego.
Poi c’è il trenino che fa il giro panoramico. La ruota verticale per i bambini dove salgono soltanto Yuma e Shayela. Le automobiline per i bambini che viaggiano nella foresta incontrando elefanti, tigri, scimmie, pantere, coccodrilli, tutti costruiti in Lego. Vi saliamo anche noi senza pudore. Il piccolo villaggio indiano con due tepee montati, un bel fuoco acceso, e un signore che vende bandane e piume. Un paesino del West con saloon, banca, bar, ristorante, cartoline. Il gioco dei cercatori d’oro. Per cinque euro bambini e adulti con setacci e mani immerse in vasche d’acqua pescano sabbia e granuli dorati che simulano l’oro. E quando ne hai raccolto una manciata vai in banca a consegnarli. Due ragazzi li pesano per finta e li trasformano in un ciondolo dorato che i bambini portano al collo. Ora anche Yuma e Shayela ne hanno uno ciascuno pendente sul petto con la scritta Legoland.
La pausa per il gelato sotto il sole caldissimo inusuale in Danimarca di questi tempi. E poi di nuovo a camminare. Cammina, cammina, cammina, giungiamo all’uscita all’ora di chiusura e non ci reggiamo in piedi. Ci siamo divertiti però. Anna un po’ meno per l’improvviso mal di testa. Avrei voluto che facesse un giro con me nella giostra con le barche a forma di tazza, quella che ci faceva ridere senza motivo con una sorta di ebbrezza. Ma non è voluta venire. Ho anche insistito. All’uscita, mettendole una mano sulla spalla, non ho potuto esimermi dal rimproverarla affettuosamente: “Questa me la Lego al dito” le ho detto.
I bambini rivolgendo l’utimo sguardo al parco salutano sventolando le braccia:
“ciao Legoland, ciao Legoland”. Dinanzi a noi la statua in Lego di Andersen che tiene un libro in mano ci guarda. La statua di Andersen è una delle statue più diffuse in Danimarca. Ce n’è una in ogni paese. Se non è una statua è un busto, una via, una piazza, un locale dedicati ad Andersen. Un po’ come Dante Alighieri in Italia. Solo che Andersen scriveva favole per bambini.
Restiamo a dormire nel parcheggio prato verde vicino a Legoland. Per tutta la notte ci fanno compagnia a intervalli quasi regolari i rombi degli aerei che atterrano o decollano dal vicino aeroporto di Billund.
NEGOZI DI PIETRE
Martedì 20 agosto. Ci dirigiamo a Ovest, verso le coste del mare del Nord, per andare a trovare Annette e Antonio che hanno affittato una casetta di legno tra le dune a forma di “L” col tetto di paglia, a 500 metri dal mare, a Bjerregård un paesino tra il mare e il Ringkøbing Fjord, a nord di Esbjerg. L’indirizzo esatto è Juliane-vej, 29.
Abbiamo invitato Yuma a salire sul nostro camper, per distrarlo un po’ dai litigi con sua sorella. Sia Shayela che Yuma vogliono viaggiare sul sedile a fianco di Reno che guida, posto ritenuto privilegiato e d’onore, carico di significati affettivi vicino al loro papà, e ogni volta nessuno vuole stare dietro. Stanno vivendo un momento di forte nostalgia della loro mamma rimasta a casa. È un continuio pari e dispari e tocca a me e tu ci sei già stato vero papà diglielo mi ha tirato un pugno babbo Shayela mi dà i pizzicotti dai Yuma vai a provare il camper di Pietro. Povero Reno. Yuma alla fine si è convinto, ed ora fa un pezzo di strada con me ed Anna. Di tanto in tanto Reno ci sorpassa, così i bimbi si salutano sbracciando, piccolo diversivo per distrarli dalla noia del viaggio e dalla mamma..
Lungo la strada ci fermiamo a visitare Varde. È un grazioso paesino. È qui che vediamo per la prima volta un negozio di pietre.
È uno strano tipo di negozio, più o meno simile al nostro marmista, ma con qualcosa di diverso, almeno nell’atmosfera che emana. Le pietre sono esposte all’aperto, decine di grosse pietre, chiare, scure, ovali, oblunghe, tonde, piatte, tutte ben allineate e pulite. Sono pietre da giardino o pietre per le tombe. La pietra in Danimarca ha un uso diffuso, la si trova dappertutto. Grosse pietre con inciso sopra il nome del proprietario e un numero civico si possono trovare all’ingresso di una casa. Una grande pietra la si può incontrare ad un incrocio con sopra inciso il nome di una via. Pietre giganti sono poste lungo le strade nel centro delle rotonde. Pietre davanti ai negozi, ai bar, ai supermercati. Una pietra sul ciglio della strada può indicare una locanda, un parco, un fiume. Non marmi luccicanti, ma semplici pietre, a volte grezze, nei cimiteri con incisi i nomi dei defunti. I negozi di pietra sono sparsi ovunque in tutta la Danimarca. Varde è particolarmente piena di panchine e di pietre. Le pietre sono scolpite e raffigurano animali, orsi, elefanti, gatti. I negozi hanno tutti la merce esposta fuori all’aperto. Sembra un mercato, da cui spuntano tra un banco e l’altro animali di pietra. Aquistiamo un rullino per la macchina fotografica. Visitiamo la bella chiesa evangelica mattoni rossi. Una capatina all’ufficio turistico ci fa scoprire che non molto lontano c’è un borgo vichingo. Partiamo senz’altro per Bork Vikingehavn. (All’inizio di parola, e nella maggior parte dei casi, la “v” si pronuncia in danese come la nostra “v” italiana. Vind (vento) si pronuncia vinn (con lo stød sulla “i”). Dopo vocale breve ha un suono quasi come una “u”, havn (porto), si pronuncia haun; lov (legge) si pronuncia lou. La v non si pronuncia in alcune parole di uso comune che terminano in “lv”, sølv (argento) si pronuncia söl; gulv (pavimento) si pronuncia gol (con lo stød sulla o). La vocale “u” si pronuncia normalmente come in italiano, ma in sillaba chiusa è quasi come una “ó” stretta: nul (zero) si pronuncia nól; gulv (pavimento) si pronuncia gol (con lo stød sulla o.) Davanti ai gruppi consonantici ng, nk, gt, la vocale “u” si pronuncia come una “ò” larga: frugt (frutta) si pronuncia fròkt.
Percorriamo la statale 181 in direzione Nord, sino a Tipperne la punta estrema della piccola penisoletta che entra nel Ringkøbing Fjord, avvicinandoci così a Bjerregård dove Annette e Antonio hanno affittato la loro casetta col tetto di paglia. Durante il viaggio gli occhi attenti come saette a individuare le margherite.
Ci rendiamo conto improvvisamente che lungo tutte le strade danesi, non soltanto in autostrada, ma persino nelle strade provinciali e in quelle comunali, sono dislocati molto frequentemente spazi per la sosta, con bagni forniti di cartaigienica, panchine, ombra. Durante la guida non passano cinque minuti senza aver incontrato una di queste piazzole per la sosta. Credo che non dipenda solo dalla particolare configurazione geografica della Danimarca che è tutta pianura e ondulate colline le cui altezze raggiungono al massimo i 170 metri, tanto che i danesi hanno costruito, in alcuni luoghi, torri panoramiche da cui poter vedere dall’alto il paesaggio. Le torri sono segnalate col simbolo della margherita che indica un luogo interessante da visitare: può essere un museo, un parco, un giardino, un monumento, una scuola, un agriturismo, un lago, una torre panoramica. Durante gli spostamenti i nostri occhi sono sempre attenti a individuare queste margherite, e a volte, incontrandone una, si cambia improvvisamente direzione per andare a curiosare e scoprire cosa c’è dietro quella margherita segnalata, sballando così, spesso e volentieri, la nostra tabella di marcia per addentrarci in itinerari estemporanei. La costruzione di tante piazzole di sosta bene attrezzate lungo tutte le strade, e così frequenti, le autostrade gratuite, la grande quantità di punti TRANSPORT CENTER e TOILET KØMNING, dove i camper gratuitamente possono scaricare le acque grigie e quelle nere, e rifornirsi d’acqua potabile, l’autodisciplina con cui guidano i danesi, la loro cortesia, il loro rispetto della velocità nei centri abitati, nelle statali, nelle autostrade, il loro rispetto per la distanza di sicurezza e dei semafori, la loro attenzione ai pedoni e ai ciclisti, e tante altre cose che abbiamo visto, penso abbiano a che fare con un modo di pensare, una filosofia, una concezione del mondo, della vita, del servizio. Un’attenzione così particolarissima verso coloro che viaggiano a noi sembra un segno di civiltà. Lungo le strade non si incontra un cartellone pubblicitario. Tutto è essenziale, ordinato, pulito. Il silenzio nei paesi, gli orari dei negozi, i cimiteri che sorgono di solito intorno alle chiese e sono come giardini dove persino vengono piantate le fragole e dove non si incontrano tombe di famiglia che sembrano villette, ma solo pietre con inciso il nome del defunto e la data, le tombe delimitate da un rettangolo di siepe verde e bassa, le chiese spoglie e semplici, le case di dimensioni quasi standard con le tendine alle finestre e i fiori sui davanzali, e persino l’aria pulita e fresca con quel costante e perenne venticello che soffia a volte leggero, a volte a refoli, ci fanno capire che siamo di fronte a un altro modo di pensare, a un altro modo di vivere.
A Tipperne c’è un grande parco naturale. Un gran silenzio. Gruppetti di appassionati qui e là lungo il ciglio della strada non asfaltata con cannocchiali osservano gli uccelli della palude. Quaglie, anitre selvatiche, gazze, (quelle che abbiamo visto noi ad occhio nudo), ma senz’altro anche cormorani, gabbiani e chissà, forse anche cicogne e martin pescatori. Costante il vento soffia col suo suono tra i cespugli e le canne.
PANE VICHINGO
Ci spostiamo verso Bork Vikingehavn che è poco lontano. È un piccolissimo borgo di quattro case in legno costruite secondo lo stile antico delle originali abitazioni vichinghe.
Un piccolo veliero, a remi e a vela, ormeggiato su un pontile di tronchi. È possibile per i turisti fare un giro con l’imbarcazione vichinga lungo i canali del Ringkøbing Fjord. Alcuni totem sono eretti qui e là. Sotto alcune tende ci sono artigiani: bigiotteria, cuoio, incudine e mantice con fabbro. Sono vestiti con abiti medievali vichinghi. C’è anche il museo. Parcheggiamo nel prato verde e ci affrettiamo per visitare eccitati il piccolo borgo. Accidenti, stanno per chiudere! Ci ricordiamo all’improvviso degli orari danesi. Sono le 17.00. L’uomo addetto all’ingresso legge il nostro dispiacere negli occhi. L’ingresso costa 50 corone a persona (una corona vale circa 250 lire), quindi 6,4 €. Guarda l’orologio. Ha deciso di posticipare per noi la chiusura. Con 6,4 euro entriamo tutti. Ci dirigiamo verso la prima abitazione per visitarla. Scoppiamo a ridere quando ci rendiamo conto che per distrazione abbiamo imboccato la porta dei bagni, che non sono medievali, né vichinghi, ma normali bagni moderni con water e lavandino e sapone per le mani.
La vera abitazione vichinga è la costruzione più avanti. Familiarizziamo con Vivian una ragazza che lavora lì in abito medievale tutto il giorno. Una cintura di macramè con grosse chiavi di ferro pendenti sul fianco. Zoccoli di legno ai piedi. Ci mostra l’interno della casa vichinga. Un grande braciere rettangolare in pietra con il fuoco acceso. Travi di legno a vista e un buco sul tetto per il fumo del focolare. Un letto con pelli di animali. Trecce di fili per tessere e ricamare che sembrano lana, ottenuti lavorando erbe che crescono nei campi. È proprio Vivian che raccoglie quelle erbe nei campi e le trasforma in fili colorati, usando le stesse tecniche di produzione e di tintura degli anichi vichinghi. Un telaio in un angolo. Panche di legno per sedersi. Un lungo tavolo grezzo un po’ in bilico con sopra vasi e coppe di terracotta. Una signora anziana, in abito medievale con cuffia-cappellino in testa, sta finendo di impastare una massa bioncogiallastra di farina di granoturco. Su un tavolino candele attorcigliate fatte con la cera d’api. In vendita a 30 corone. Costa invece 5 corone fare il pane vichingo. Ci mettiamo all’opera per fare il nostro pane. Anche Yuma e Shayela. La donna anziana ci mette nel palmo della mano una pallottolina molle di farina impastata. Cominciamo a batterla e schiacciarla sul tavolo con il palmo sino ad appiattirla sottile come una cialdina. Farina di granoturco, sale, acqua, miele, uva passa. Un pane dolce dunque. Mettiamo la cialdina sopra una specie di padella piatta con lungo manico e ci sediamo intorno al bellissimo focolare di pietra mettendo la padella nera sulla fiamma. Cuociamo il pane e lo assaggiamo. Buono. Yuma e Shayela non lo mangiano tutto, nemmeno io. Nemmeno Reno lo mangia tutto. In fondo volevamo solo assaggiarlo, provare il piacere di farlo con le nostre mani e cuocerlo sul fuoco in una casa vichinga. Gli avanzi li mangia tutti Anna. Ne avrebbe mangiato ancora. Buongustaia di sapori primitivi e grezzi, Anna mangia persino le mele cotogne acerbe, i cachi che allappano, le bacche selvatiche, e tutto ciò che è erba, frutta, verdura, pianta, fiore. Per la carne ha meno trasporto.
Visitiamo le botteghe degli artigiani. Camminiamo sul bellissimo ponte di tronchi vicino al porticciolo dove è ormeggiata l’imbarcazione vichinga. Peccato non poter fare un giro lungo i canali. I totem sono in legno scolpito. Ci sono teste e pelle di capra e di cavallo appesi in cima a pali di legno. Sembra un selvaggio accampamento di guerrieri. Il tutto, a dire il vero, risulta alla fine un po’ kitch, se pensiamo che è fatto per la curiosità dei turisti, se pensiamo che alcune famiglie vivono lì tutta l’estate vestite con abiti medievali a mostrare ai turisti il pane vichingo, a vendere ciondoli e borse di cuoio. Ma forse perché ormai il cielo andava colorandosi delle sfumature del tardo pomeriggio, forse per quel vento che sempre ti arrotola i capelli in Danimarca, forse per gli occhi di Vivian così belli e accoglienti, forse la gentilezza del custode che ha ritardato la chiusura per noi, forse i tetti di paglia di quel borgo… non so, ma l’atmosfera era piacevole e rilassante.
Di nuovo in strada con i camper, con Anna che ancora mangiucchia gli ultimi pezzettini di pane vichingo e commenta che dobbiamo assolutamente ricordarci degli orari danesi se vogliamo vedere qualcosa nei posti in cui arriviamo.
Ci dirigiamo intanto verso Tarm distante pochi chilometri. Una breve sosta in una piazzetta per un caffè e una merenda ai bimbi. Il paese non ci sembra granché. Non perdiamo tempo a visitarlo. Si riparte subito alla volta di Bjerregård per far visita ad Annette e Antonio. Arriviamo a Nørre Nebel, Nymindega, Bjerregård. Dopo Bjerregård entriamo nella Holmsland Klit, la regione delle dune. Una striscia di terra, larga un paio di chilometri, che chiude a Ovest il Ringkøbing Fjord. Ma le dune sulla costa del Mare del Nord continuano per decine di chilometri con le Husby Klit, sino alle Bøvling Klit che chiudono il Nyssum Fjord. Da quattro giorni ormai siamo in Danimarca. Abbiamo esplorato la parte Sud. Il paesaggio sempre uguale: colline ondulate, campi, boschi, fattorie, allevamenti di bovini, cavalli, maiali, laghetti. Niente di straordinario. Cominciavamo ad essere un po’ delusi del paesaggio. L’Olanda, visitata due anni prima, ci era apparsa decisamente più bella. Forse perché il primo impatto era stato con i laghi, i fiordi, i canali, le alte maree, i paesini dello Zeeland, così piccoli e diversi uno dall’altro e squisti con le pareti delle case tutte storte e colorate.
Dopo Bjerregård il paesaggio sembra riscattarsi. Qui è davvero caratteristico, molto diverso da quello incontrato finora nel Sud. È una zona selvaggia piena di alte dune su cui sono cresciute fitte macchie di cespugli ed erica viola. Solcata da sentieri e stradine di sabbia finissima che portano al mare. Di quella sabbia Anna ne avrebbe raccolto una paio di buste piene da usare nel suo laboratorio di ceramica a Cascina Macondo. E una busta ci saremmo portati a casa piena di pietre dalle mille forme e colori, raccolte sulla spiaggia. Altri sentieri e stradine attraversano la Holmsland Klit parallelamente alla spiaggia. Di qua l’erba, gli arbusti, le basse e vaste macchie di erica, e dall’altra parte, oltre le dune, la grande spiaggia del Mare del Nord, deserta, senza un ombrellone, una cabina, una sedia a sdraio, un bar, una discoteca, per chilometri e chilometri. Tutta spiaggia libera e gratuita. Solo il rumore delle onde e della risacca, gli uccelli, i gabbiani. Certo, anche mosche, zanzare e tafani, ma il paesaggio incantevole. Sulla destra l’altra acqua del Ringkøbing Fjord. Lungo la strada provinciale si affacciano gli imbocchi delle diverse vie che portano alle dune. In quella zona ci sono i campeggi, i bungalows, e le centinaia di casette col tetto di paglia affittate ai turisti. Sono ben distanziate una dall’altra e ognuna di esse ha uno spazio di cespugli verdi intorno. È una zona fatta apposta per il riposo, la tranquillità, una zona di passeggiate in bici, a piedi, a cavallo. L’aria ha un profumo intenso di sale.
LA CASETTA COL TETTO DI PAGLIA
La via di Annette e Antonio, Juliane-vej, dovrebbe essere una di queste vie.
La imbocchiamo finalmente, pregustandoci la sopresa di Annette e Antonio che non sanno che stiamo arrivando. Stiamo cercando il numero civico 29, quando improvvisamente ci sbuca davanti una donna che corre a piedi. È proprio Annette! Ha appena iniziato il suo giro serale di jogging. Quando ci riconosce ha uno sguardo sbalordito di contentezza. Ci saluta sventolando le braccia. Non si ferma, fa dietro front e continuando a correre torna verso casa da cui era appena uscita. Con la mano ci fa segno di seguirla. Ci porta sino al numero 29. Ci fa segno di entrare nello spazio recintato della loro casetta affittata. Scendo dal camper per valutare lo spazio e le manovre. Un abbraccio intanto.
Anche ad Antonio a dorso nudo che nel frattempo è sbucato dalla casetta con la sua andatura da clown. Sì, riusciamo a starci. Il passaggio per entrare è giusto giusto, ma con un po’ di attenzione i nostri camper ci passano. L’aria è elettrica per l’inaspettato incontro e il piacere di vederci. Così elettrica che entrando nel cortile non mi accorgo, proprio all’ingresso, sul lato sinistro, del muretto di pietre nascosto dai cespugli. La fiancata laterale, per fortuna la parte bassa, proprio l’orlo, sfrega contro le pietre con un lamento di lamiere. Non è la prima volta che nelle manovre faccio cilecca e danno. La ripariamo subito con oculate martellate e leve di cacciaviti e ferri. Il camper comincia davvero ad avere un’aria vissuta. Fra qualche mese, ne sono convinto, avrà così tante cicatrici da mostrarsene fiero. Come un guerriero che ha combattuto mille battaglie viaggerà mostrando con orgoglio i segni delle sue imprese e del suo valore. “Ecco – dirà silenziosamente a chi lo guarda – quell’ammaccatura che vedi in alto sulla scaletta d’alluminio che porta al tetto me la sono fatta a Vinadio, sottovalutando in una marcia indietro il ramo sporgente dell’albero sotto cui volevo annidarmi all’ombra; e quella striscia laterale, ad altezza d’uomo, sullo sportello del portabagagli, è ciò che resta di Prato, mentre in una viuzza di campagna, nel mese di maggio, cercavo di entrare nel cortile dell’agriturismo dove gli organizzatori della fiera per cui lavoravamo (che ancora devono pagarci) ci avevano ospitati a dormire. Quel dannato palo sino ad allora invisibile, come un nemico appostato a delimitare il confine del campo, era uscito dall’ombra scura della notte con la sua spada per colpirmi a tradimento su un fianco. Ho curato la ferita con un po’ di vernice bianca per impedire col tempo il formarsi di una ruggine sanguinante. E quel bollo ammaccato in alto a sinistra è il colpo mancino di un cartello stradale in una curva stretta di Venaria. Questo lungo segno di muro a secco, fiancata sinistra in basso, ha accompagnato il mio ingresso entusiasta nel cortile della casetta di paglia affittata da Annette e Antonio a Bjerregård in Danimarca nella lontana estate dell’anno 2002. Qui è il fico del mio cortile. Lassù ho colpito rasente l’orlo troppo basso di un arco di pietra. Sì, il camper cominciava davvero ad avere un’aria vissuta. Cominciava a collezionare imprese e storie da raccontare. Il suo colore bianco splendente stava cominciando a svanire, cotto dal sole e dalla polvere, solcato da sottilissime righe leggere tele di ragno ricamate dai rami e dai cespugli,.
SI RIDE E SI RIDE
Un caffè insieme ed acqua fresca con Annette e Antonio.
La loro casetta è abbastanza grande, una quarantina di metri quadri. Graziosa, a forma di “L” ammobiliata. Un ampio salotto, il cucinino, il bagno, la camera da letto, uno sgabuzzino, il tetto di paglia, l’ampio spazio intorno con un muretto di pietre nascosto dai cespugli. L’hanno trovata attraverso internet. L’affitto, per una settimana di vacanza, escluso il consumo dell’elettricità, è costato 250 euro. I prezzi variano da 200 a 300 euro a seconda se è compresa l’antenna parabolica, il telefono, o altri servizi. L’agenzia tedesca (www.novasol.com, sito in lingua inglese) presso cui l’hanno affittata si è dimostrata molto seria e puntuale.
Propongo un piccolo programma, se Annette e Antonio sono liberi, e se sono d’accordo. Ceniamo insieme la sera. L’indomani si potrebbe fare un bel giro in bicicletta per quei sentieri che costeggiano le dune, con pic-nic sulla spiaggia e bagno. E nel pomeriggio noi si riparte, perché vogliamo vedere più luoghi possibili della Danimarca. Programma accettato all’unanimità. Annette propone ora, prima che faccia buio, di andare a vedere la spiaggia e il tramonto sulle dune. Ci incamminiamo con una torcia a pile. I bambini appresso. Shayela socializza con Antonio che la porta sulle spalle ed elargisce smorfie, battute, storielle e un repertorio di mimiche buffe che catturano Yuma e Shayela. Rane che saltellano sulla sabbia. I piedi nel mare del Nord. Reno si tuffa nell’acqua gelida, anche se dell’acqua ha sempre avuto paura.
Cena a lume di candela nello spazio sul retro della casetta. Un sogliola gigante con patate al forno. Anguilla, salmone ed altro pesce affumicato che Annette aveva comprato al mattino. Noi contribuiamo con verdure e cipolle di Tropea. Un’insalata mista di pomodori, cetrioli, formaggio e pere del nostro orto. Reno con il vino. Crollano infine i bambini. Se ne vanno a letto rimboccati dal babbo. Continuiamo sino a notte fonda con la chitarra e le canzoni di Reno. A turno inventiamo frasi nonsense spiritosaggini estemporanee cazzate che cantiamo perfino. Si ride, e si ride. Per il piacere del vino e di stare insieme si ride. Anna offre un liquore alla rosa che avevo acquistato una ventina di giorni prima a Vinadio, in provincia di Cuneo, una domenica di montagna. Era un mio piccolo pensiero per il suo compleanno. Anche se il suo compleanno è il 18 novembre. Tiriamo fuori la pipa, le miscele di tabacco. Il caffè. Pezzetti di dolce danese che Annette aveva in frigo. La luna piena. Il cielo stellato. Una splendida serata tra amici.
SI PARTE IN BICI
Al mattino prepariamo le bici con i seggiolini per Shayela e Yuma, gli asciugamani, lo zainetto con l’acqua e il pranzo. Shayela la porto con me sulla mia bici. Yuma con Reno. Anna con lo zainetto in spalla. Annette e Antonio partono una mezzoretta dopo, con la macchina: appuntamento al supermercato un paio di chilometri più avanti dove lasceranno l’auto per affittare due biciclette. Il cielo azzurro e pulito, già un bel sole caldo, il venticello fresco. Il buon umore. Facciamo un pezzo di stradina fra i cespugli e la macchia, poi la strada asfaltata sino al supermercato. Compro un tubetto di antizanzara stick mettendo in piedi un improvvisato spettacolo mimico di fronte alla ragazza che mi guarda immobile. Tenendo le punte unite del dito indice e del pollice fingo di avere in mano un piccolissimo oggetto: muovo le dita a pinza disegnando nell’aria tragitti circolari, a otto, a curve, per simulare il volo di una zanzara. Inserisco il sonoro: Zzzzzzzz zzzzzzz Zzzzzzz. Dalle labbra della commessa esce un filo di voce: myk. Quel volo finisce diritto in picchiata sul mio braccio. Una smorfia di dolore indica che sono stato punto. Poi mi gratto il braccio. La ragazza immobile. Io mi sto divertendo. Ora fingo di spalmarmi qualcosa sul braccio. Faccio di nuovo la zanzara con la punta delle dita e simulo un volo che pian piano si allontana. La ragazza va a uno scaffale e torna con un tubetto. È proprio lui: antizanzara stick. Il sorriso della ragazza è appena abbozzato. Il mio è molto aperto e compiaciuto. Ma ancora per poco. Compro le sigarette. Pago. La mia stecca di provviste MS Extra Lights era finita. In Danimarca non ci sono le MS, sono costretto a comprare un’altra marca. Scelgo le Prince Extra Lights. Costo 33 corone, pari a euro 4,26, insomma 8.250 lire! L’antizanzara stick, un tubetto piccolo, un normale, innocente tubetto di antizanzara… 16.000 lire! Alle mie orecchie più dolorante della puntura di cento tafani. Le Camel che fuma Reno costano 9.500 lire a pacchetto! (475 lire una sigaretta!). Davvero esagerato. Un occhio della testa. Scoprirò in seguito le North State a 28 corone, 5.420 lire, le più economiche. Ricordatevi dunque, fumatori, di portarvi in Danimarca sigarette e antizanzara sufficienti al vostro fabbisogno. Ho pagato con una banconota da 100 corone. In mano un resto solitario di tre corone col buco. Mi era un po’ passata la voglia di fare teatro mimico nei supermercati.
Myk è la parola danese per indicare la zanzara. Si pronuncia mük.
IL BAMBOLOTTO PERDUTO
Ci avventuriamo nelle stradine fra le dune. Una passeggiata di una decina di chilometri. In uno spiazzo d’erba lasciamo le bici coricate e legate per terra con un filo d’acciaio di sicurezza, anche se il luogo è deserto. A piedi superiamo un’alta duna per scendere al mare sulla spiaggia. Una grande spiaggia di sabbia finissima. Facciamo il bagno. Passeggiamo raccogliendo piccole pietre nere dalle forme strane da portarci a casa come ricordo, abitudine ancora non tramontata alla nostra età. Ce le mostriamo a vicenda quasi facendo a gara a chi trova le forme più curiose e i colori più belli. Venti chili di pietre nei sacchetti. Solo alla partenza ci decidiamo a fare una cernita delle più interessanti. Poi il pic nic con frutta, cetrioli, formaggio, affettati e pesce affumicato. Ci scottiamo la pelle sotto il sole diventato caldissimo. Antonio si rotola nella sabbia giocando con i bambini. Anna fa qualche ripresa con la telecamera. Di tanto in tanto il tasto di avvio della cinepresa si blocca. Bisogna armeggiare con un movimento appropriato, forzare un po’, incastrarlo nella sua guida. Bisogna fare sempre così da quando una ventina di giorni prima mia sorella Lina era venuta a farci visita da Ventimiglia e Ferruccio, suo marito, entrando in casa era andato a sedersi direttamente sul divano sopra la cinepresa.
Il sole sempre più caldo. Il ritorno si trasforma in fatica. Ci siamo allontanati troppo. Quando al mattino sei fresco e riposato e pieno di energie una distanza ti sembra normale. Ma dimentichi che esiste il ritorno. E quel nostro ritorno in bici non finiva più, accaldati sotto il sole del pomeriggio con il fiato che si rompeva nelle salite e le gambe che si scioglievano e tremolavano ad ogni sosta. Lo stomaco appesantito dalla digestione. Un filo di sonnolenza che ti sbarrava la vista. Erano anni che non faceva così caldo in Danimarca. Sembrava che tutto il sole si fosse concentrato su questa terra. Nel resto dell’Europa era pioggia e alluvioni ovunque. La Germania devastata dai nubifragi. Praga allagata con molti quartieri evacuati. Pioggia fitta e ininterrotta in Italia. Solo in Danimarca il sole. Shayela sul seggiolino viaggia con gli occhi chiusi presa da un sonno ingannatore che le fa perdere il bambolotto che stringe nella mano. Più volte fermandoci a raccoglierlo per strada. Fa sforzi enormi per stare sveglia, ma ogni tanto il capo le crolla da un lato, e la mano allenta la presa intorno al bambolotto di pezza che cade per terra in preda ad un attacco improvviso di nostalgia della mamma. Shayela vuole salire sulla bici del suo babbo. Ma Yuma non vuole saperne di cederle il posto. Un po’ di pianto. Antonio convince Shayela ad andare con lui. Facciamo il cambio delle bici per non smontare il seggiolino che avevamo avvitato sulla mia mountan byke. La bici di Antonio è troppo alta per me. Un gran fatica a starci sopra. Sono costretto ad allungarmi oltre le punte delle dita dei piedi per stare sul pedale piegando ora da un lato ora dall’altro tutto il corpo sbilanciandomi, col rischio di cadere per tutto il peso delle pietre ricordo. Dopo un paio di chilometri sono costretto a fermarmi e riprendere la mia bici con Shayela. Non era il caso di raccogliere ora la sabbia che Anna voleva portare a Macondo per il suo laboratorio di ceramica.
Il sudore grondande. La gola secca. Il sole come una padellata in testa. Non si arriva più. Procediamo lenti e distanziati come un esercito in disfatta. Solo l’ombra della casa, le abbondanti bevute di acqua fresca e un caffè triplo, ci hanno rimesso in sesto.
Ma a pensarci è stata una bellissima giornata.
Approfittiamo dell’acqua della casa per riempire i serbatoi dei camper. Resto con il tappo del serbatoio in mano, a pensare dove poggiarlo, un posto vicino, a vista, per non rischiare di dimenticarlo, ché prima o poi, sono sicuro, anche di questo segno finirà col fregiarsi un camper vissuto. Lo poggio su una pietra tra i cespugli di erica viola. Reno non ha questo problema: il suo tappo del serbatoio è legato con una catenella alla fiancata del camper. Non rischia di dimenticarlo da qualche parte. Quando lo svita per aprire il serbatoio il suo tappo nero resta lì penzolante attaccato alla fiancata con la sua piccola catenella, semplicemente.
Ci facciamo una doccia. Risistemiamo e puliamo i camper. Ricarichiamo le bici, i tavolini, la chitarra, le pietre ricordo. Un abbraccio ad Annette e Antonio.
Si parte. Occhio al muretto di pietre nascosto dai cespugli all’ingresso.
Sono le cinque del pomeriggio, ora di chiusura dei negozi in Danimarca. Chissà, forse l’abitudine di questi orari dipende dalle stagioni. In inverno il sole sorge alle 8,45 in Danimarca, e tramonta alle 16.00. Forse i danesi iniziano e finiscono le loro attività lavorative seguendo i ritmi della luce invernale. Ed essendo l’inverno lungo, quei ritmi, entrati nel sangue e nella consuetudine, se li portano dietro anche d’estate.
Un’ultima voce di clacson ad Annette e Antonio che sulla soglia della loro casetta di paglia sventolano il braccio, e si parte davvero sulla statale 181 diretti a Nord alla volta di Lemvig, sul Nissum Bredning. La meta finale è Skagen Grenen, la spiaggia a Nord, sulla punta estrema della Danimarca.
A Lemvig sostiamo per la notte in un parcheggio vicino al piccolo Sø (lago) dove sguazzano oche e germani. Centinaia di persone corrono lungo la via che costeggia il parcheggio. Stanno concludendo una gara podistica. Facciamo una passeggiatina intorno al laghetto a vedere i cigni, le oche, i germani. Ma il prato è pieno di cacca di gabbiano e di cane. Ci rinunciamo, per non impiastricciarci le scarpe e sporcare i camper. Una bella minestrina calda per cena. Infine una passeggiata in paese verso le 22. Reno non viene, perché i bimbi si sono addormentati. Lemvig è deserta, silenziosa. Un centro storico con negozi eleganti. Qualche birreria aperta. Le vie piene di statue e sculture di pietra. Pochi lampioni e poca luce. Le gambe sentono ancora il peso della lunga biciclettata e del gran calore del giorno. Muscoli indolenziti. Un bel desiderio di sonno. Ripensiamo alla bella giornata sulle dune passata con Annette e Antonio. Pensiamo a Yuma e Shayela che dormono in camper. A Reno, che è rimasto con loro, e forse sta suonicchiando la chitarra o leggiucchiando qualcosa.
Nel silenzio della sera deserta, avvolti Anna ed io da quella fievole luce di lampioni, tra le sculture di pietra delle vie di Lemvig, echeggiano nel nostro cuore come portate dal vento le parole antiche dell’ Hàvamàl:
Tortuosa è la strada
verso un cattivo amico,
benché abiti sulla strada maestra.
Ma verso il buon amico
agevole è il cammino
benché molto lontano dimori.
SEPPELLITE IL MIO CUORE A LINDHOLM HØJE
Giovedì 22 agosto. Alla fine di questa giornata abbiamo percorso 323 chilometri, sino a Skagen Grenen, la punta estrema nel nord della Danimarca dove arriviamo la sera. Ma lungo la strada ci fermiamo a visitare Lindholm Høje, vicino a Nørresundby, nei pressi di Ålborg.
Ci arriviamo percorrendo la statale 11, passando per Struer e Thisted.
Strana, evocativa, solenne, è l’atmosfera che si respira nel cimitero vichingo di Lindholm Høje. Simile un po’ all’atmosfera che si respira nella necropoli di Filitosa, in Corsica, dove il vento, anche lì, dimora perenne tra le pietre. Lindholm Høje sorge su un’altura, una specie di ondulata collina. Entrando nella necropoli anche Shayela e Yuma restano in silenzio e parlano a bassa voce. Prima di arrivare alle tombe un boschetto di alberi. Negli spazi verdi, a ridosso del museo, pascolano montoni e capre dal pelo nero. Le tombe crematorie hanno forme circolari, ellittiche, triangolari, a forma di barca, delimitate da grosse pietre (cromlech). Un vento incessante soffia su quelle pietre. La diversità delle forme si suppone indichino il sesso dei defunti. Le tombe con le pietre disposte a formare un perimetro circolare, o ellittico, erano per le donne. Le pietre che disegnano un perimetro triangolare, o a forma di barca, erano le tombe degli uomini. Il contenuto ritrovato nelle tombe, molti oggetti di uso quotidiano e perfino una spada, e perfino i resti di un cane, portano i segni del forte calore sprigionato dalle pire. La necropoli fu scoperta nel 1889, ma gli scavi per portarla alla luce furono eseguiti solo negli anni 1952/1958. Lo strato di sabbia che la ricorpiva era alto quattro metri. Se non fosse stato per tutta quella sabbia accumulata dal vento le pietre sarebbero state sicuramente rimosse dai contadini per poter coltivare la terra. Dopo gli scavi tutta la collina fu seminata a erba. Impressionante, girando lo sguardo, vedere all’improvviso Anna vestita di nero che si è distesa per terra, con le braccia aderenti al corpo, il viso rivolto al sole, proprio vicino a una delle tombe delimitate dalle pietre. Anche Reno ha immaginato una pira di fiamme che se la portava via lentamente crepitando. Scherzo da prete. La necropoli si suppone fosse attiva intorno all’anno 400 dopo Cristo, sino a poco prima dell’anno 1000. Sono tombe crematorie dove i morti venivano cremati sul posto durante il rito funebre. Nel 1989, in occasione del centenario della sua scoperta, la fabbrica di cemento Ålborg Portland ha donato al comune un nuovo edificio per ospitare il museo di Lindholm Høje. È in quell’edificio, all’interno del museo, che abbiamo trovato sul banco, e acquistato, il libro dei detti vichinghi, la saggezza di Odino che ci accompagna da alcuni giorni ormai. Abbiamo visitato attentamente il museo con i suoi vasi di terracotta e i monili ritrovati nelle tombe. Anche la spada annerita dal fuoco. Uno schema a sezione verticale mostra la tecnica di costruzione delle navi vichinghe con gli incastri delle tavole ben visibili, la formazione della carena, il posizionamento dell’albero maestro, il formarsi della curvatura dello scafo.
Un grande carro con ruote di legno esposto in un angolo. Non si tratta di un vero ritrovamento, ma di una ricostruzione. Anche l’abbozzo di una casa, ritrovata a Lindholm Høje, è una riproduzione. Ispirandosi a questo modello è stata costruita l’abitazione vichinga di Bork Vikingehavn, quella dove abbiamo cotto il pane di farina, miele, uva passa, dove lavorava Vivian.
Protetti da una parete di vetro nel museo ci sono dipinti sul muro che mostrano come probabilmente si svolgeva il rito funebre nella necropoli. Sullo sfondo la parete del muro affrescata, ma in primo piano sono stati sistemati oggetti reali, ciocchi di legno e manichini, che producono un effetto di grande realismo tridimensionale. All’ingresso del museo vendono le foto a colori di quella specie di quadri, e sembrano proprio le foto vere di un rito funebre vichingo ripreso dal vivo. Pur essendo un posto interessante da visitare, Lindholm Høje resta nel nostro cuore soprattutto per il ritrovamento inaspettato dei versi dell’Hàvamàl. Aprendo il libro in una pagina a caso, proprio lì, vicino al banco dove l’avevo appena acquistato, nel Museo di Lindholm Høje, dopo aver visitato le tombe della necropoli, sono usciti questi versi:
Lo zoppo va a cavallo,
il monco guida il gregge,
il sordo combatte da eroe.
È meglio esser cieco
che morto e sepolto.
Il cadavere non giova a nessuno.
UN MAZZO DI PIUME COME FIORI
Facciamo tappa ad Ålborg per una breve visita al suo centro storico. Cittadina vivace, piena di gente in bicicletta e Mac Donald. C’è una via piena di pub e birrerie. Al centro di una piazzetta una scultura in metallo nero rappresenta un uomo, una donna, un bambino che camminano per strada. Sembrerebbe un monumento dedicato alla famiglia. Le case di Ålborg hanno strutture architettoniche diverse. Ce ne sono di quelle tradizionali con le strutture portanti in travi di legno che lasciano sulle pareti un motivo decorativo fatto di quadri, rettangoli, triangoli. Altre case sono più moderne. Convivono alternandosi e mescolandosi nel centro storico. Tanti negozi popolari. Tantissima gioventù e belle ragazze. Pieno di biciclette-taxi con piccola carrozza dietro, su cui puoi sederti e un ragazzo forte, o una ragazza, ti portano in giro per la città. Le biciclette-taxi sono diffusissime in tutta la Danimarca.
L’imbocco per l’autostrada E45 è poco lontano. Seguiamo le indicazioni fino ad incontrarla. La percorriamo verso nord sino a Frederikshavn. È una zona piena di ferrocalvari, molti con sostegno a traliccio. A Frederikshavn l’autostrada finisce. Ci immetiamo nella statale 40 che costeggia, distante pochi chilometri, le coste dell’ Ålbæk Bugt (Baia di Ålbæk, nord-est della Danimarca).
Da Frederikshavn a Skagen il paesaggio è molto bello, un po’ meno selvaggio di Bjerregård, ma molto interessante. Si alternano dune di sabbia con estese coltivazioni di pini, rose canine, abeti. Zona di grande produzione ed esportazione di abeti destinati a diventare alberi di Natale nelle case danesi olandesi e tedesche, e chissà, forse anche italiane. In questa zona i paesi sono piccoli e i filari di case hanno architettura omogenea. Curioso incontrare nelle rotonde degli incroci grandi totem naif di legno dipinto. Come se fossero stati colorati dai dambini. Tutta questa zona sembra dedicare una particolare attenzione all’infanzia. Le sculture in legno nelle rotonde si susseguono con lo stesso stile naif. Poco prima di Skagen un mulino a vento. Ne abbiamo incontrato sei in tutto in Danimarca. Un grande faro spento, forse in disuso, ci preannucia che siamo vicinissimi a Skagen Grenen, la punta estrema della Danimarca. Forse non troveremo niente di speciale, ma raggiungere il punto estremo di un paese dà un’idea di finitezza, di viaggio compiuto. Il punto estremo ha valore di meta raggiunta, come se meglio nella mente si potesse contenere un paese.
Skagen Grenen è una grande spiaggia sabbiosa. Una lunga lingua di terra che entra nel mare. Centinaia di gabbiani volteggiano nell’aria. Il parcheggio è pieno di auto e caravan. Moltissimi i turisti. Il sole è quasi all’orizzonte. Ci affrettiamo a camminare piedi nudi sulla sabbia sino alla punta laggiù. È un luogo suggestivo per i colori e la luce tenue del tramonto, per i gridi dei gabbiani, per le casematte di cemento armato residui della guerra disseminate qui e là, per le canne, per i cespugli di rovi e rose canine che crescono fitti sino a un certo punto prima che inizi la distesa di sabbia che si perde nel mare. Suggestivo, ma sporco. Carcasse di pesci venuti a morire sulla spiaggia, centinaia di meduse morte sulla riva o mollemente galleggianti sull’acqua, mosche, tafani, zanzare. Anche sacchetti di plastica e lattine. Strano questo sporco in Danimarca, e proprio in una zona così visitata. Ma forse dipende proprio dal fatto che è così visitata. Scattiamo le foto, filmiamo. Ci bagniamo i piedi proprio sulla punta estrema della spiaggia. Ai bambini fa impressione, dopo aver viaggiato per giorni, sentirsi dire “ecco bimbi, qui, proprio qui vedete, qui dove mettiamo i piedi, finisce la Danimarca”. Shayela e Yuma si mettono al nostro fianco con le gambe divaricate, i piedi nell’acqua, e allargando le braccia ripetono “sai babbo qui finisce la Danimarca, proprio qui sai”. E mostrano il piede che spingono e avvitano nella sabbia. Anche gli altri turisti hanno lo stesso pensiero. Glielo si legge negli occhi. Guardano la lingua di sabbia che si affaccia sui mari. A destra lo Skagerrak, a sinistra il Kattegat. Le loro acque si mescolano proprio dinanzi alla lingua di terra di Skagen Grenen.
Molte sono le coppie che porgendoci la loro macchina fotografica, ci chiedono per favore di scattare una fotografia per avere il ricordo di una foto lei e lui insieme. La spiaggia, già avvolta dall’imbrunire, è un continuo luccichìo di flash. Sulla sabbia piume di gabbiano e di altri uccelli disseminate ovunque. Ne raccolgo un mazzo che regalo ad Anna come fiori. Anche i bimbi raccolgono le piume di gabbiano, selezionando le migliori. Ritorniamo ai camper con una collezione di piume di gabbiano raccolte a Skagen Grenen. Ma prima qualche minuto fermi su un’altura a vedere il sole che tramonta.
Su una grossa pietra una rosa dei venti in ferro cementato nella roccia indica il nord e le altre direzioni. Il sole tramonta proprio a Ovest, come indica la rosa dei venti. Peccato che da quell’altura il sole è mezzo coperto dal ristorante costruito a ridosso delle dune.
Ora che il sole è scomparso l’assalto dei tafani e delle zanzare si fa massiccio. Così pungenti che sembrano tafane e zanzari. In una sola serata abbiamo consumato tutto l’antizanzara che avevo acquistato a Bjerregård, più quello che ancora aveva Reno di scorta stick solido e liquido. Per la cena ci tappiamo nel camper tutto chiuso e sprangato grattandoci ovunque dalle caviglie ai colli. Prurito che durerà qualche giorno. Finito di sparecchiare mettiamo un braccio fuori del camper come sonda. Dobbiamo subito rientrarlo per l’attacco pungente di quegli insetti che ancora ci assediano e sibilano nell’aria. Mettiamo in moto e ci allontaniamo da quel parcheggio infestato diretti a Skagen. Sono le ore 22. Il grande faro che ci era sembrato in disuso, è invece perfettamente funzionante. Il suo lungo fascio di luce ruotante ci illumina a tratti. Parcheggiamo in una piazzuola vicino al centro di Skagen. I bimbi in quel tragitto di soli cinque chilometri si sono addormentati. Andiamo a bere all’aperto una birra seduti a un tavolo di bar. Sporgendo la testa possiamo dare un’occhiata ai camper.
Skagen è un bellissimo paesino. La via centrale, Havnevej, è leggermente sinuosa, con bellissime case che la costeggiano ai lati alte due piani. Sembra una paesino del West. Molti i ristoranti italiani. I negozi sono chiusi, ma illuminati, e non hanno serrande! Le case senza balconi. Anche Skagen ha il suo negozio di pietre in periferia. Seduti al bar, ritrovo serale per la gioventù di Skagen, nel centro storico, davanti a una birra bionda, respiriamo un’aria di vacanza. Freschissima. Qui non ci sono, o almeno non ci sono più a quest’ora, le zanzare. Ogni anno nel mese di giugno a Skagen c’è un importante festival di cantastorie. Peccato non poterlo vedere. La ragazza che serve ai tavoli è davvero carina. Seduti al tavolino progettiamo l’itinerario di domani. Reno è un po’ nervoso. I suoi pochissimi giorni a disposizione passano veloci. Ha voglia di vedere Copenaghen. Anche noi in verità. Però Anna ed io siamo molto interessati al Festival di Musica Folk di Tønder. Per arrivarci dobbiamo tornare in dietro, verso sud-ovest. Se andiamo ora a Copenaghen ci perdiamo il festival. Preferiamo prima vedere il festival di Tønder e poi Copenaghen, anche se vuol dire farsi un bel po’ di chilometri in più. Non è razionale come itinerario, ma siamo obbligati, perché la manifestazione di Tønder c’è solo il 22, 23, 24, 25 agosto. Non vogliamo perderla. Reno ha gli stessi desideri, ma pensando ai pochissimi giorni che ancora ha a disposizione, pensando alla gomma ovalizzata in Svizzera, all’altra gomma scoppiata, alla batosta dei 500 euro, per non rischiare un altro contrattempo che avrebbe potuto impedirgli di arrivare a Copenaghen, preferisce andarci subito. Dopo Copenaghen per lui inizia il viaggio di ritorno a casa. Io e Anna abbiamo invece qualche giorno in più a disposizione. Ci separiamo insomma. L’appuntamento è fra tre giorni, il 25 agosto, alle ore 18.00, davanti all’ingresso del parco Tivoli, difronte alla stazione di Copenaghen.
Ritorniamo a Skagen Grenen per dormire. Lego la solita cinghia tra le maniglie delle portiere. Avvio il funzionamento a gas del frigo. Controllo che tutto sia a posto. Le zanzare non ci sono più. Sveglia alle 6.00. Un’ultima sigaretta.
Per tutta la notte con cadenza regolare il faro illumina la piazzuola e i camper con la sua pennellata di luce.
TRA LE NUVOLE CON ALI DI LEGNO
È venerdì 23 agosto. Il festival di Tønder è iniziato da due giorni. Abbiamo calcolato di arrivarci nel tardo pomeriggio dopo 374 chilometri di autostrada e di statali. Resteremo a Tønder la sera del 23, e tutto il giorno del 24. Ci siamo lasciati Reno alle spalle.
A Frederikshaven prendiamo l’autostrada E45 diretti a sud. Colline e laghetti intorno. Un altro mulino a vento. Abeti. Grano. Grano. Ci chiedevamo quando avremmo incontrato un vigneto. Durante il nostro giro di 2700 chilometri per tutta la Danimarca non abbiamo mai incontrato un vigneto. Né un vigneto, né un frutteto. Grano. Grano. Mucche al pascolo nei prati. Mucche. Cavalli. Mucche. Fattorie. Maiali. Erika. Mucche. Mai un vigneto. Ad Ålborg improvvisamente un grande banco di nebbia. Il sole, il cielo azzurro, gli abeti, i laghetti, spariti d’un tratto. Si è abbassata la temperatura. Attraverso quella porta di nebbia sembra di essere entrati nell’inverno. Un banco durato mezzora a 110 chilometri orari sull’autostrada. Dopo mezzora avevamo l’impressione che l’estate non ci fosse più. Così come improvvisamente eravamo entrati nella nebbia, altrettanto all’improvviso ne usciamo ritrovando il sole e il cielo azzurro. Randers, Århus, Skanderborg, Horsens, Vejle con il suo grande e lungo ponte sul Vejle Fjord. Ci fermiamo in autogrill per il pieno di gasolio. Qualcuno alle spalle ci suona il clacson. È Reno che ci ha raggiunto! Incontro casuale allo stesso autogrill! I bambini contenti di vederci. Festeggiamo con un caffè.
Prima di Kolding le nostre strade si dividono di nuovo. Reno sull’autostrada E20 verso Est, Odense, Copenaghen. Noi proseguiamo sulla E45 sino a Kolding e poi ci immettiamo sulla statale 25 diretta a Tønder. Un’improvvisa margherita incontrata nei pressi di Jels ci fa fare marcia in dietro per andare a visitare il posto segnalato. È così che scopriamo il piccolo laghetto di Nedersø. È proprio un piccolo grazioso laghetto circondato di alberi alti. Un parco accogliente con panchine, prato verde, sentiero lungo il lago. È deserto e tranquillo a quell’ora del pomeriggio. Ci sono pochissime macchine. Uno spazio di giochi per bambini costruiti con tronchi d’albero. Un grande tronco disteso per terra trasformato in drago. Uno sconosciuto falegname vi ha intagliato, con sega elettrica e colpi di accetta, grossi denti sporgenti dalla bocca, ha modellato occhi di fuoco, sagomato una testa, una schiena, la coda, dando vita a un grezzo drago sulla cui groppa i bimbi salgono a giocare. Un’altalena bellissima con struttura di tronchi verticali e orizzontali, e corde pendenti che finiscono in un disco di legno che fa da sedile. La superficie di un grande quadrato delimitato da tronchi è stata ricoperta non con sabbia o ghiaia, ma con trucioli di legno. Una capanna su un albero. Un tavolo un po’ sbilengo, largo, spesso, lunghissimo, ricavato da un tronco gigante tagliato a tavole più volte longitudinalmente. Una rete di corda spessissima e un po’ lenta legata a un quadrilatero di pali dove i bimbi si lasciano andare sballottando il proprio corpo in ogni direzione senza cadere. Un altro tronco d’albero ha la forma di un aereo con grandi ali per giocare. Un albero alto, probabilmente marcito in più punti, è stato spogliato dei rami, e nel nudo tronco rimasto è stata intagliata una figura di cavaliere. Un tronco reciso, con le radici ancora piantate nella terra, trasformato in gufo. Altri tronchi tagliati raso terra sono diventati funghi. I colpi di accetta e di scalpello sono grezzi e approssimativi. La caratteristica di questo bellissimo parco per bambini sulle sponde del Nedersø è proprio la figura abbozzata degli animali, la loro non rifinitura, la voluta imprecisione con cui sono stati realizzati. Semplicità e infanzia volutamente insieme. Ci dispiace che Reno e i bambini non siano qui con noi. Lo avrebbero apprezzato moltissimo, specialmente Yuma e Shayela. Nel lago una piccola barchetta. Procedendo lungo il sentiero si scopre dietro gli alberi e i cespugli un ristorante. Un giardino di pietre ne delimita l’ingresso. Seduti fuori a un tavolino una coppia di anziani al sole con libro in mano. Gli occhiali sul naso. Specialità del ristorante, il pesce.
Si sente ancora un ottimo odore di frittura.
LO STESSO FURGONE ROSSO?
Sentiamo la musica provenire da diversi punti del centro storico. A Tønder c’è gran movimento. Troviamo per fortuna un parcheggio gratuito proprio dietro la palazzina della polizia, vicinissimi al centro. Una pettinata con veloce lavata di faccia per toglierci di dosso i 374 chilometri percorsi, e scendiamo nelle strade. Arriviamo nella piazzetta centrale dove c’è un concerto jazz-blues. Centinaia di persone affollano la piazza con boccali in mano. Ovunque chioschi che distribuiscono birra. La gente allegra. Un bel clima davvero. Arriviamo in fondo al paese dove c’è un’alta torre. Seguiamo il flusso di gente che va in quella direzione, oltre la torre. Arriviamo un un campo vastissimo dove sono stati eretti enormi tendoni da circo: la sera vi saranno concerti. Ristoranti, chioschi con birra, panini, salsiccia alla brace, hamburgher, pesce. Oltre la zona dei grandi tendoni si estende un’altro enorme campo messo a disposizione dei visitatori: centinaia di tende, piccole e grandi, camper, furgoni, roulotte, belle donne, macchine, tamburi, flauti, cornamuse, sacchi a pelo. Giovani e anziani venuti da ogni parte della Danimarca, ma anche dall’ Olanda, dalla Germania, dall’Inghilterra. Non abbiamo visto, nei due giorni che siamo rimasti a Tønder, né una macchina, né un camper targati Italia.
Nel parcheggio a ridosso delle centinaia di tende un furgone rosso davvero originale. Sul portabagagli è stato appoggiato un ripiano di tavole. Per tutto il perimetro del pavimento di tavole scorre un recinto di legno con tanto di paramano e cancelletto. È stata ricavata una vera veranda con vasi di fiori e piante. Sotto un ombrellone, seduti intorno a un tavolino bianco, proprio sopra il tetto di quel furgone rosso, una famiglia di una certa età capelli lunghi e bottiglie di birra chiacchiera e fa salotto. Trentasei anni fa, ai tempi in cui viaggiavo in autostop per l’Europa, ricordo di aver visto un furgone simile, rosso anche lui, che viaggiava sulle strade della Francia del Nord con veranda e salotto di fiori sul tetto. Chissà se erano le stesse persone!
Il cielo si è rannuvolato. Minaccia pioggia qui e là. Qualcuno già passeggia con l’ombrello appresso. Ci sediamo su una panca di legno di fronte a uno dei tanti ristoranti, proprio dinanzi a un tendone da circo dove fra alcune ore ci sarà un concerto di musica folk. Il biglietto di ingresso costa 200 corone (50.000 delle nostre vecchie lire). Tra i molti gruppi e i personaggi importanti che suoneranno nelle diverse serate: Runrig (Scozia), Donovan (Scozia), TimO’Brien (Usa), AllanTaylor (Gran Bretagna), ChuckBrodsky (Usa), Dervisch (Irlanda).
Assaggiamo finalmente lo Smørrebrød (letteralmente pane imburrato). È il saporito piatto nazionale dei danesi, quintessenza della semplicità. Un po’ come la nostra pizza o i nostri spaghetti, ma decisamente più semplice e veloce. Si tratta di una banalissima tartina di pane, imburrata, guarnita con diversi tipi di contorni, i più vari, secondo libertà e fantasia di ciascuno. Può esserci una fetta di prosciutto, o salame, o salmone, foglioline di insalata, olive, acciughe, maionese, cipolla. Quella che ci servono al festival di musica folk di Tønder è di dimensioni normali, un tipo di pane un po’ scuro, con un insaccato simile al Würstel, foglioline di insalata, fettine di cetriolo, cipollina, maionese, e una striscia di gelatina di pesce. Molto buona. Ne prendo una seconda porzione. E un’altra birra. Abbiamo assaggiato lo Smørrebrød in altre parti della Danimarca, ma non lo abbiamo mai ritrovato buono come quello di Tønder. Il cielo sempre nuvoloso, ma non piove. Passeggiamo dopo cena nella via centrale. Giocolieri, musicisti, gruppi folk, one-man-band, sax solisti, cornamuse, violini, fisarmoniche, organetti, ritrattisti, manipolatori di capelli e treccine, venditori di orecchini a forma di cuore che si illuminano a intermittenza. Birra. Birra. Bancarelle. Bigiotteria. Birra. Musica ovunque. Venditori di cappelli peruviani, suonatori del Perù, bambini musicisti, pensionati sotto un arco con fisarmoniche e leggii. Tutti con dinanzi un cappello recipiente in cui versare una offerta libera. I negozi aperti con esposte fuori le loro merci. Giovani e anziani con bottiglia in mano sbandano camminando. Sono tutti un po’ brilli insomma. Il cielo che pensa di mandare giù acqua da un momento all’altro. Anch’io cammino un po’ sbandando per le due birre bevute. Ma è solo una leggera ebbrezza, una piacevole rilassante ebbrezza. Non si vede nessuno ubriaco. Non si sente nessun litigio, nessuna prepotenza, nessuno che alza la voce, che ce l’ha con qualcuno, non c’è aggressività, malgrado i fiumi di birra. Non abbiamo visto polizia in giro, almeno in divisa. Solo un gruppo di donne e uomini tute gialle che fanno avanti e indietro tra la folla con un carro, svuotando cestini pieni e bidoni, raccogliendo carte e bottiglie lasciate ovunque. Centinaia di persone sedute per terra, uomini, anziani, donne frikkettone famiglie intere senza remore abbandonati sui gradini delle case a godersi la birra e la temperatura tiepidissima della sera malgrado le nuvole e i tuoni lontani.
È davvero una bella festa, peccato che Reno e i bimbi non siano con noi.
Reno avrebbe potuto mettersi a cantare in strada con la sua chitarra.
L’atmosfera è un misto tra i nostri Busker’s Festival di Ferrara, Pistoia Blues, Pelago On The Road, Mercantia di Certaldo. Ma qui a Tønder c’è qualcosa di più, o di diverso, non so. Intanto non ci sono le decine di poliziotti e camionette in assetto di guerra a piantonare vie e ingressi strategici come a Ferrara. Non ci sono gruppi venuti a contestare, o a invadere le strade preoccupando casalinghe e commercianti. Non ci sono le decine e decine di cani, sciolti o al guinzaglio, che nelle nostre feste invadono le strade a volte azzuffandosi. (Pochissimi sono i cani incontrati in Danimarca). La birra che scorre al Festival di Ferrara, a Pelago, a Pistoia Blues, a Certaldo non è nulla a confronto di quella che scorre nelle feste danesi. Eppure in Italia si assite spesso a litigi, prevaricazioni, aggressività, dispetti, bestemmie, vaffanculo, fatti i cazzi tuoi, c’ero prima io, che minchia fai, e scazzottature a volte. Non è quindi la birra a fare la differenza, ma la cultura, l’indole, il carattere, l’ottusità, la vanagloria, e chissà quant’altro.
È ormai l’una di notte. Le strade sono ancora strapiene di gente. Non meno di diecimila. La musica continua in molti angoli e piazzette. L’indomani mattina fin dalle ore 9.00 il centro è pieno di gente, i gruppi suonano per le vie, nei locali, nelle piazzette, nei tendoni da circo, e tutti passeggiano già con la bottiglia di birra in mano sino a notte inoltrata, per quattro giorni consecutivi. I giovani venuti da lontano coi sacchi a pelo scaricano dai loro furgoni oltre agli strumenti musicali anche le cassette di birra che hanno acquistato a buon prezzo nei supermercati. Abbiamo fatto chilometri e chilometri a piedi passando e ripassando per le stesse vie sostando qui e là ad ogni spettacolo, ad ogni performance.
È proprio il caso di fare una pausa gelato adesso.
Esauritasi finalmente dinanzi a me la coda nell’unica gelateria della via centrale di Tønder ordino un cono con tre palline: crema, nocciola, cioccolato. In Danimarca vendono il gelato a palline, e a prezzo scalare, nel senso che un Kugle (pallottolina) costa 10 corone, 2 Kugler 14 corone, 3 Kugler 21 corone. (Per fare il plurale i danesi aggiungono una “r” alla fine delle loro parole). È il gelato più buono che abbiamo mai mangiato, in assoluto. Anche più buono di quello di Fiorio a Torino, e di quello prodotto dall’Agrigelateria San Pe’ di Poirino. Nessuna pallina di gelato mangiata negli altri paesi della Danimarca eguaglierà il sapore e la bontà di quel cono di Tønder. A Tønder scopriamo da un manifesto appeso al muro che sulle spiagge sabbiose dell’isola di Rømø, a Nord Ovest di Tønder, dal 6 al 7 settembre c’è il Festival degli Aquiloni. Peccato, per quella data saremo già a Torino. Nel centro est dello Yutland, a Horsens, tra Århus e Vejle cè invece un grande festival medievale vichingo il 30 e 31 agosto. Forse questo riusciamo a vederlo, prima di tornare a casa. Sono le due, noi ce ne andiamo a dormire adesso. La notte è piovuto.
URLA DI GIOVANI SULLA TESTA
Partiamo da Tønder alle 15.30 del giorno 24, sabato. Ci avviamo con calma verso Copenaghen all’appuntamento con Reno, con l’intento di fermarci a visitare qualche paese lungo la strada. Deviamo un poco sulla statale 11 per fare un salto a Ribe. Vi arriviamo alle ore 17.00 e scopriamo che il mercato vichingo aveva appena smontato le sue bancarelle. Un mercato che fanno ogni giorno dalle 11 alle 16. Ce lo siamo perso insomma. Solita questione degli orari. Ribe è la più vecchia città del Nord Scandinavo fondata nel 948 dopo cristo. Da qui partirono i vichinghi per conquistare l’Inghilterra nell’anno mille. È una bella cittadina che ha, poco lontano dal centro, un grande parcheggio riservato ai camper.
Molte case, a uno o due piani, storte come quelle d’Olanda, sono costruite con travi di legno che lasciano decorazioni quadrate e triangolari alle pareti. Le finestre sono munite di specchietti retrovisori che consentono a chi si trova all’interno di vedere fuori e riconoscere chi passa nel vicolo o chi bussa alla porta. Anche in altri paesi della Danimarca c’è l’usanza di apporre questi specchietti alle finestre. Tra i filari di case scorrono i vicoli e i carrugi medievali. Davanti ai portoni ogni tanto un carretto con sacchettini di patate, cipolle, verdura. Chiunque passando può prenderne uno, lasciare il danaro corrispondente in una ciotola, e andare via. Non c’è nessuno a vendere. Carretti simili, che possono essere carriole o altri tipi di ripiani, si trovano ovunque in Danimarca. La gente ha fiducia nel prossimo.
La grande cattedrale in mattoni rossi costruita nel 1.117. Il cimitero, semplice ed essenziale. Il Museo Vichingo. Il Museo dei giochi e delle bambole. La ruota di un grande mulino. Sui tetti delle case alcuni ripiani di legno messi apposta con fuscelli intrecciati, abbozzati nidi per accogliere le cicogne di passaggio.
Le tre palline di gelato prese al chiosco della piazzetta centrale non sono buone come quelle di Tønder. Ci sarebbe piaciuto fermarci sino alle 22 per vedere l’accensione dei lampioni e sentire le storie e le canzoni del cantastorie in costume. Ma avremmo fatto tardi. Proseguiamo il viaggio per 207 chilometri facendo tappa a Odense. Siamo già nell’isola di Fyn.
Una telefonata di Reno ci informa che l’attraversamento del lungo ponte sullo Storebælt (specchio di mare che separa l’isola di Fyn dall’isola Sjælland, dove si trova Copenaghen) costa 50 euro! È vero che le autostrade in Danimarca sono gratuite, ma il costo per attraversare quel ponte se le ripaga tutte.
Odense ha un grande centro storico con grande isola pedonale. La visitiamo di notte al buio con tutti i negozi chiusi. Il bar nella piazza centrale è aperto e pieno di gente. Il centro è una specie di labirinto dentro il quale ci siamo un po’ persi. A Odense il 6 settembre c’è una grande manifestazione: Cultur Nat, un grande festival di poesia e musica che si riversa nei locali e nelle strade per tutta la notte. Purtroppo non potremo vederla. Dormiamo in un parcheggio vicino al centro. Rivisitiamo Odense di giorno facendo colazione con un caffè lungo nel bar del centro. Una famiglia fa colazione al tavolo vicino, con un bimbo di pochi mesi seduto su un seggiolino di legno messo a disposizione dai gestori del bar. La città è deserta. Il solito religioso silenzio che regna nei paesi. Agli incroci un suono acuto intermittente accompagna il rosso dei semafori. Allo scattare del verde il suono acquista una intermittenza più ravvicinata. Possono udirlo i ciechi.
Vicino a Odense visitiamo la chiesetta e il cimitero di Højbe. I cimiteri danesi sono semplici ed essenziali come quelli dell’Olanda. Un segno tangibile del loro modo di pensare e sentire. Le tombe non hanno marmi preziosi. Non esiste la concezione di “tomba di famiglia” con lussuose cattedrali a testimoniare la ricchezza o il benessere economico del defunto. Solo pietre nude e grezze con il nome del defunto e la data della morte incisi. Ogni tomba delimitata da una piccola siepe sempreverde. Poche le fotografie. Non tutte hanno una croce. I piccoli sentieri coperti di sassolini o trucioli di legno. In Olanda i sentieri sono lastricati di conchiglie spezzettate. Un giardino insomma, normalmente intorno ad una chiesa, cosicchè la domenica la gente che va a messa può passeggiare tra le tombe e portare un saluto o una preghiera ai defunti. Di fronte al cimitero di Højbe, dall’altra parte della strada, una donna taglia i capelli al marito seduto su una sedia con tovaglia bianca intorno al collo. Capita spesso di vedere in Danimarca le donne dinanzi all’uscio di casa tagliare i capelli o fare la barba ai loro uomini seduti e immobili su una sedia. Sembra di essere nel nostro sud di un tempo.
A Nyborg il ponte sospeso lungo 19 chilometri che attraversa lo Storebælt e porta a Korsør, nell’isola di Sjælland, costa proprio 50 euro. Siamo sull’autostrada E20 diretti a Copenaghen. È meglio svuotare il serbatoio delle acque grige e la vaschetta Thetford, e fare il pieno di acqua, prima di arrivare a Copenaghen. I bagni che si trovano nelle piazzole di sosta hanno rubinetti strani: o troppo attaccati alla parete, o direttamente cadenti sul lavandino, o con larga apertura, dove non è possibile attaccare una pompa, né mettervi sotto una bottiglia di plastica. Così siamo spesso costretti a fare rifornimento riempiendo a più riprese bacinelle d’acqua che versiamo direttamente nel serbatoio scoperchiato togliendo il cuscino dal sedile.
Arriviamo con una mezzoretta di ritardo all’appuntamento con Reno dinanzi all’ingresso del Tivoli Park. Reno avrebbe dovuto aspettarci lì con la bicicletta, e avrebbe dovuto farci strada sino alla via dove aveva parcheggiato il camper. Ma al nostro arrivo non lo troviamo.
Non essendoci spazio per fermarci con il camper, faccio il giro del parco, sostando con le luci di sicurezza davanti a un altro ingresso. Anna va a piedi all’appuntamento. Io resto solo in camper ad aspettare, fumando una sigaretta. A tratti mi giungono ondate di voci. È il primo impatto con Copenaghen. Sono le urla dei giovani che proprio sulla mia testa vengono schizzati in alto dall’ Otto Volante del Parco Tivoli che li fa ruotare e li capovolge a testa in giù. Le urla si avvicinano e si allontanano. Altre urla giungono da coloro che salgono sull’alta torre e ridiscendono a forte velocità piombando nel vuoto. Non è come la torre di Legoland che sale e ridiscende lentamente ruotando su se stessa. Questa ti porta su, su, su, per oltre cinquanta metri come minimo, su una piattaforma dove stai seduto con le gambe penzoloni nel vuoto, e all’improvviso ti fa precipitare in basso a velocità così elevata da produrre un tale vento di tramontana capace di spingerti in alto i capelli diritti e verticali. Sono grida che mettono allegria. È strana quest’idea di un parco divertimenti nel cuore della città, di fronte alla stazione centrale, ad un passo dal centro storico. Un grande rettangolo di giostre e curiosità chiuso da mura di cinta, delimitato da vie trafficate di auto, gente a piedi, gente in bicicletta. Il Parco Tivoli mi appare come un’unica grande bocca da cui scaturiscono urla e grida di coloro che provano brividi di alture, vuoti allo stomaco, capovolgimenti. Quel primo approccio con Copenaghen al limitare del parco mi mette allegria. Ho una gran voglia di provare quelle emozioni di vuoto e lanciare grida anch’io.
Anna ritorna. Cè anche Reno in bicicletta. Sahyela sul seggiolino davanti, Yuma dietro. Ci aveva visto arrivare lungo la strada e aveva sbracciato, ma non l’avevo proprio visto. Ci conduce in una via poco lontano dove ha parcheggiato il camper. Parcheggio il mio Big Marlin al suo fianco, ponendolo in modo tale che gli ingressi siano uno di fronte all’altro. Altri camper sono parcheggiati lì, tutti italiani. I Parcheggi vicinissimi al centro storico costano, dalle 8 del mattino alle 18 di sera, 20 corone l’ora (5.000 lire). Lì dove noi ci siamo fermati il costo è di 7 corone. Per un giorno spenderemo 17.500 lire. Sempre meno del parcheggio che abbiamo incontrato lungo la strada, a un paio di chilometri, in un luogo assolato, sulla via Bernstorffsgade, appositamente riservato ai camper. È vero che là ci sono i servizi e la possibilità di carico e scarico dell’acque, ma costa cinquantamilalire al giorno. Diecimila, se vai solo a scaricare le acque nere e grigie. Se non ci saranno problemi resteremo qui. Occorrerà procurarsi la moneta. Su tutti i parchimetri di Copenaghen è stampigliata la scritta:
“Tøm bilen
før tyven gør det”
(svuota l’automobile, prima che i ladri lo facciano loro)
È un avviso che ci ricorda che siamo in una grande città, con tutti i rischi e i pericoli delle grandi città. Qui a Copenaghen non c’è il silenzio che caratterizza tutti gli altri paesi della Danimarca. Le diverse etnie che si incontrano, la gran quantità di gente di passaggio, rendono credibile la scritta di quel cartello. Non bisognerà dimenticarsi di mettere l’antifurto, di tornare ogni tanto per un’occhiatina di controllo, di mettere di notte la cinghia alle portiere, di stare attenti insomma.
DIPINTE E ILLUMINATE DI VIOLA
Tenendo i bambini per mano ci incamminiamo a piedi lungo la via Bernstorffsgade verso il centro storico di København (con la “v” che si pronuncia “u”) come chiamano i danesi la loro capitale. Dinanzi alla stazione centinaia di biciclette parcheggiate con la ruota anteriore incastrata nelle apposite forcelle di ferro nero. Reno, che da tre giorni si trova in città, ci fa da guida. Al Parco Tivoli dal 28 agosto al 1° settembre, grande festa della birra. Ma noi saremo già partiti, Reno verso casa, Anna ed io per la festa medievale vichinga di Horsens.
È una bellissima città Copenaghen, animatissima, simile ad Amsterdam, piena di colori e movimento, ma con una sua particolare fisionomia e atmosfera. Intorno alla stazione i palazzi sono costellati di cartelloni pubblicitari e insegne. La pubblicità che non abbiamo mai incontrato lungo le strade della Danimarca sembra essersi concentrata tutta qui.
Le auto, i pedoni, le biciclette hanno un ritmo particolare. C’è velocità, ma non fretta.
Ai semafori rossi i fiumi di auto e biciclette si fermano all’improvviso. Per qualche secondo tutto è immobile. Anche i pedoni. All’apparire del verde il fiume di auto e biciclette si rimette in moto velocissimo e silenzioso. Non si sentono clacson. Dopo qualche secondo ecco di nuovo l’immobilità. Questo ritmo nello scorrere del traffico, con l’alternarsi di velocità e immobilità, non l’ho mai visto in nessuna città, è proprio una caratteristica di Copenaghen. Piena di turisti e caffè stracolmi di chiacchierìo. Macchine fotografiche. Dato un colpo all’interruttore della nostra telecamera per disincepparla, facciamo qualche ripresa anche noi. Dalla piazza Rådhuspladsen, dove sorge il Municipio, e dove un peruviano con guance di eolo soffia continuamente, per dimostrazione, dentro palloncini colorati che sgonfiandosi velocemente fanno volare elicotteri di plastica sopra le teste dei turisti, si vede laggiù il grande complesso del cinema Palads, con le pareti esterne dipinte e illuminate di viola rosa giallo, da sembrare proprio il luogo delle fate e della fantasia.
Ci addentriamo nell’isola pedonale imboccando la via principale del centro storico, la Strøget-Østergade. È un passeggio fitto e continuo, un brulichìo di umanità. Artisti di strada agli angoli, con chitarra, o violino, o fisarmonica, e cappello aperto per terra. Statue viventi immobili che quando metti un’ offerta libera nel cappello si muovono rivelando che sono artisti e non statue. Un giovanotto nordafricano lancia piccoli omini di plastica colorata contro un muro su cui rimangono appiccicati per qualche secondo, e poi ridiscendono lungo la parete facendo capriole come se fossero omini arrampicatori al contrario. Sedute ai tavoli dei bar molte ragazze sole, o gruppi di sole ragazze bionde. Spesso in tutte le città della Danimarca abbiamo incontrato ragazze che escono la sera in compagnia di altre ragazze. Gruppi di due, tre, quattro belle ragazze: nei bar a bere una birra, nelle trattorie a gustare uno smørrebrød, a passeggiare per la strada con un gelato, a chiacchierare su una panchina.
Le vetrine delle librerie illuminate. I libri sono davvero carissimi in Danimarca, come le sigarette. Un libro normale di narrativa con tante pagine quante quelle di Cent’Anni di Solitudine, del Deserto dei Tartari, di Tre Umini in Barca, costa 70/80/90 mila lire!
Nei negozi di abbigliamento, di scarpe, di casalinghi, di stoffe, di guanti e cappelli, di corsetteria e lingeria (dove usualmente si trovano le misure large, ché spesso le donne danesi sono molto rotonde con culo e tette grandi bassopendenti) campeggiano a vista cubitale i cartelli con la scritta UDSALG (saldi). Molti i negozi di antiquariato seminascosti in un vicolo, o con locali sotto il piano della strada a cui si accede scendendo gradini.
Negozi di ceramica Raku.
In via Købmagergade il Museo dell’Erotismo. Pochi metri più avanti, nella stessa via, il rinomato locale Long John dove ogni giorno alle ore 17.00 c’è sempre musica jazz dal vivo. Molta gente in piedi che si saluta fitta rete di strette di mano segno che quando passiamo di lì il concerto è appena finito.
Nella Casa dello Studente altre feste e altri concerti annunciati.
L’alta torre rotonda della chiesa Trinitatis Kirke.
Seduta ai tavoli con libro in mano e tazza di caffè fettine d’arancia sull’orlo degli aperitivi color rosa alla Libreria-Caffè volute di fumo dalle pipe la gente legge romanzi da settantamilalire.
Piazza Kultorvet, dove un signore dall’aria italiana suona la fisamonica ai tavoli del bar all’aperto.
Un negozio dove tutto costa 10 o 20 corone.
Un altro negozio dall’aria rovistata, con scatoloni per terra e ammassi di biancheria sparsi ovunque, con il cartello all’ingresso “Udsalg”, sta effettuando una grande svendita. Vi acquistiamo un kit di 3 asciugamani grandi a 60 corone, e un kit di 6 asciugamani piccoli a 20 corone.
La piccola e graziosa Galleria Jorcks Passage con negozi di porcellana e oreficeria, attraverso cui si sfocia in una via con ristorante italiano e pizza.
Le insegne dei Mc Donald.
Le vie lastricate con cubetti di porfido scuro e lastre di pietra grigia, dove Yuma e Shayela si rotolano giocando e inseguendosi e facendosi sempre più nere le mani e i vestitini.
Chiese e campanili.
Ogni giorno alle ore 12.00 il cambio della guardia a Palazzo Reale.
Gruppi di scolaresche delle elementari sparsi ovunque per la città a visitare musei, piazze, monumenti. A volte i ragazzi stanno in gruppo compatto intorno alla maestra, altre volte diluiti a due a due lunga fila ondeggiante con appendice di coppia ritardataria che corre per riguadagnare distanza tenendosi per mano. La scuola inizia verso metà agosto in Danimarca, e finisce a giugno. Trovo interessante che le maestre inizino l’anno scolastico con una visita alle bellezze della propria città.
In piazza Nytorv, dove prendiamo un gelato nel chioschetto antico e ce lo andiamo a mangiare seduti sui gradini della fontana rotonda nel mezzo della piazza con nostalgia del cono di Tønder, una ragazza spagnola gonna lunga a spacchi e pelle scura vende collanine disposte a terra su un tappeto. Toltasi la maglia, reggiseno nero a vista e pelle scura.
I negozi di frutta vendono le mele, le pere, le arance, non soltanto a chilo, ma a unità: una mela, una pera, una banana. Anche le sigarette dovrebbero venderle a unità in Danimarca: una camel 475 lire, una North State 271 lire, una Prince 412 lire.
Al di là dell’isola pedonale i suoni acuti delle autoambulanze e delle sirene della polizia.
Un manifesto pubblicitario ci informa che a Valby Hallen, il 6-7-8 settembre, c’è una Convention del Tatuaggio e del Body Percing danese vichingo con musica, concerti, spettacoli e birra.
Verso il fondo della via Strøget-Østergade il Museo dei Guinnes Mondiali. Le riproduzioni delle cose più grandi vengono presentate al pubblico. All’ingresso, sulla strada, c’è il manichino dell’uomo più alto del mondo in scala reale; tre metri e dieci d’uomo con gli occhiali, ombrello e libro in mano.
In Piazza Kongens Nytron una esposizione di statue scheletriche di metallo nero poggiate su piedistalli raffigurano uomini donne e bambini dell’Africa. Fanno da manifesto a una raccolta di fondi per la fame nel mondo. Dietro le statue il palazzo che ospita il Museo dell’Ambra.
Per 50 corone il giro in battello lungo i canali di Copenaghen.
Genitori che trasportano bambini in una specie di carrozza attaccata alla bicicletta.
Le bici-taxi parcheggiate nelle piazze pronte a portarti a spasso.
In una viuzza parallela alla via centrale, poco visibile, si apre all’improvviso un cortile con un bellissimo ristorante italiano: “La Bella Notte”. I tavoli rotondi messi in fila. Il cortile è così stretto che due tavoli affiancati non ci stanno. In alto uno scorrere grazioso di minuscoli balconcini con ringhiera. Un grande portone verniciato di marrone scuro. Candele accese. Un tocco di genialità i panni messi ad asciugare pendenti ad arte dai fili stesi.
Uno squarcio di paesaggio bellissimo che sembra un quadro dipinto.
Una fontana zampillante dove Yuma e Shayela possono lavarsi le mani e ripulirsi un po’ prima di avviarci ai camper. Hanno camminato tantissimo.
Una cena leggera. Racconto una storia a Yuma e Shayela che vanno a dormire. Pieghiamo un po’ di volantini. Reno suona la chitarra e canta. Ancora una birra seduti fuori intorno al tavolino, ed è già notte fonda. Grossi topi di fogna attraversano la strada dinanzi a noi. Sostano sotto i camper. Poi fuggono tra un camper e l’altro sotto le macchine verso i tombini maleodoranti.
SAY NO TO HARD DRUGS
L’indomani mettiamo altre 17.500 lire nel parchimetro. Le bici sono pronte. Si parte di nuovo alla scoperta di Copenaghen. Un salto in banca prima. Finalmente a Reno sono arrivati i soldi che Elena gli ha spedito dall’Italia. Ora è più tranquillo anche per il ritorno.
Ne spendiamo un po’ seduti a bere birra e caffè in un bar all’aperto della Højbro Plads dove una simpaticissima orchestrina suona musica Dysneland. Nelle vicinanze scalpitìo di cavalli legati a una carrozza. Una selva di biciclette intorno alla fontana. Poi la pioggia improvvisa. Noi al riparo sotto l’ombrellone biancocrema del bar.
Il Wax Museum (museo delle cere) al Louis Tussaud’s del Tivoli Park.
Bellissima pausa, dopo il lungo giro in bicicletta, all’ Ørsteds Parken, vicino ad una scuola superiore, con cigni, gazze, anatre, colombi e sorbo rosso.
Una visita all’ Holmens’ Kirgegård, che incontriamo per caso, con il cimitero senza cipressi, discreto, fatto di nude pietre, i sentieri di trucioli di legno, alberi di specie diversa, persino fragole coltivate all’ingresso.
Via Nyhavn, lungo il canale, piena di bar, ristoranti, ombrelloni bianchi, dove c’è un gabinetto pubblico, e dove si prende il barcone per visitare via-acqua la città.
Il Battello Teatro, ormeggiato nel canale con un fitto cartellone di appuntamenti e spettacoli.
E finalmente siamo all’ingresso della piccola libera repubblica di Cristiania.
È una comunità di un migliaio di persone nata ai tempi dei figli dei fiori. Sopravvive ancora con i suoi negozietti, le sue officine, le bancherelle di hashish e marjuana e le sue stranezze offerte ai turisti. È una zona franca, anarchica, un po’ fuori del tempo. Il territorio di Cristiania è un parco pubblico delimitato da mura di cinta e siepi, probabilmente conquistato con una occupazione intorno agli anni sessanta. È un segno concreto di tolleranza civile e convivenza possibile tra due mondi diversi. Convive perfettamente con la classica Copenaghen che gli pulsa intorno. Colpiscono subito i due cartelli posti all’ingresso di Cristiania, il primo posato orizzontalmente come una trave che delimita la parte alta dell’ingresso:
“BENVENUTI A CRISTIANIA TERRA DI LIBERTÀ”.
E il secondo cartello, subito dopo, a grandi lettere:
“SAY NO TO HARD DRUGS”
(dì no alle droghe pesanti).
Potendo dalla strada sbirciare all’interno di Cristiania si ha subito l’impressione che quello è un posto inconsueto. Entriamo con le biciclette spinte a mano che andiamo a parcheggiare in un angolo, legate strette con un filo d’acciaio ed un lucchetto. Un altro cartello, ripetuto più volte in più luoghi: “NO FOTO”.
Europei, africani, giapponesi, sudamericani vivono a Cristiania. Un vasto assortimento di caratteri somatici si incontrano passeggiando per le sue vie e le sue piazzette. Capelli lunghi, vestiti colorati, barbe, tatuaggi, volute di fumo azzurrognolo, profumo di marjuana fumata. Una piazzetta e una via sono piene di bancherelle che vendono droghe leggere di ogni tipo. Un gran caos di bidoni dell’immondizia ancora da svuotare.
Nella piazzetta dei bar e dei ristoranti centimetri di cicche con filtro giallo sulla ghiaia.
Distesi su gradini alcuni ragazzi si stanno gustando la tranquillità e il torpore di una canna. Mosche. Un’officina meccanica. Dietro una maschera una ragazza tatuata salda pezzi di lamiere. Espongono e vendono oggetti artigianali costruiti col ferro: sculture, candelabri battuti, tavolini con gambe ritorte, cornici, specchi.
Un enorme capannone da cui proviene un buon profumo di legno ospita una falegnameria con macchinari di ogni tipo. C’è perfino un teatro dove alcuni ragazzi stanno preparando una scenografia e sistemando sedie per lo spettacolo. Fanno musica e concerti a Cristiania.
La sera probabilmente viene un mucchio di gente.
Un bel giardino con una grande pietra in mezzo su cui c’è scritto qualcosa con segni grafici scopliti in una lingua che non so. Tavolini di legno lasciati a lungo alle intemperie senza manutenzione né impregnante. Carte per terra. Cartaccia. Bancherelle di bigiotterie.
Acquisto un paio di pantaloni rossi e decorati da usare come costume nei miei interventi di raccontastorie con la Tenda Indiana.
All’estremità del parco le case dove vivono gli abitanti di Cristiania. Vasi di fiori. Tavole da muratore, mattoni, tegole rotte, macerie accumulate in ogni angolo. Alcune baracche fatte di tavole inchiodate. Un uomo con lunga barba bianca sta versandosi un minestrone fumante nel piatto. Ci salutiamo con un buon appetito passando.
Decine di cani vivono liberi a Cristiania gironzolando tra i rifiuti, le cicche, la ghiaia dei bar. Facciamo pranzo anche noi seduti all’aperto sulle panchine, ordinando qualcosa al bar.
Con un po’ di titubanza in verità. Il disordine e le cartacce e alcuni angoli così derelitti ci hanno messo qualche dubbio sull’opportunità di mangiare lì, specie quando due grossi cani sbavando si azzuffano all’improvviso proprio vicino a noi. La comunità si anima d’un tratto: c’è chi si alza dalle panchine per vedere cosa sta succedendo, chi trattiene con uno strattone il proprio cane tenuto al guinzaglio che attratto dai ringhi freme. Una dozzina di cani sciolti si riversa nel luogo della feroce zuffa. Sono proprio morsi furibondi. I proprietari dei cani, preoccupati, riescono finalmente, a colpi di strattonate e voce grossa, a separarli. Il cane che ha avuto la peggio ora è seduto sul tavolo del bar (non sulla panchina, sul tavolo) di fronte a noi. È ansimante e sbava. Il padrone tatuato lo accarezza per calmarlo. Lo smørrebrød che ho già addentato non ha il gusto di quello di Tønder. Forse dipende dalla vista di quel cane e di quelle bave sul tavolo. Una vaschettina di patatine fritte. Anna ha preferito un trancio di pizza che sono andato a prenderle nella piazzetta del mercatino. Ma non credo se la sia gustata.
Una birra, una cocacola. Succo di frutta ai bambini. Passerotti vengono a posarsi sui tavoli vicinissimi ai nostri piatti becchettano le briciole non volano via spaventati. Decine di passerotti su tutti i tavoli azzurre vernici screpolate.
Un gruppo di ragazzi seduti sopra il tetto del bar a passarsi una canna.
Con tanti ombrelloni che c’erano ci siamo seduti al sole. Ora fa caldo. Troveremo ancora le nostre biciclette? Laggiù c’è una bellissima grande pietra. Mi arriva all’ombelico. Nel centro della pietra è stato fatto un buco entro cui è inserita una spada di ferro, forse costruita dalla ragazza che saldava in officina. Un pezzo di lama e una grande elsa sporgono slanciate verso l’alto. La tentazione di impugnarla per provare ad estrarla dalla roccia è stata forte lo confesso. Poco più in là un folto ciuffo di bambù con aiuola circolare delimitata da sassi. Un albero scolpito a forma di chitarra, così alto che sembra un totem posto all’ingresso del giardino.
Un grande elefante scolpito nella pietra.
Un uomo un po’ barcollante con occhi oblunghi da eschimese, lucidi di birra e marjuana, il viso paonazzo, viene a socializzare con la mia barba toccandola e solleticandola con le dita. Mi sorride. Ci salutiamo porgendoci le mani a braccio di ferro serrando forte le dita.
Anche molti visitatori seduti ai tavoli dei bar si fanno una canna. Noi ci facciamo viola. Scoperto un maestoso albero di gelso nero carico di frutti maturi che cresce proprio a ridosso dei bagni pubblici di Cristiania, non abbiamo resistito alla tentazione di assaggiarli. Grossi, maturi, dolci, sapore squisito. I rami stracarichi. Anna, io, Reno, Shayela, Yuma, palato, dita, labbra, tutti viola. I frutti neri e bianchi del gelso hanno per noi un sapore d’infanzia. Ne mangiavamo molti da bambini. Ora è difficile incontrare una pianta di gelso. Quando ci capita si mettono in moto dentro di noi voglie antiche, e una mano si solleva irresistibilmente ad afferrare il primo frutto. Poi anche il secondo. E se sono maturi e dolci come questi di Cristiania anche il terzo, il quarto, il quinto, il centesimo, con tutte e due le mani, fino ad arrampicarsi in alto sul tronco. Parte del nostro tempo a Cristiania lo abbiamo trascorso sotto quell’albero maestoso. Molti frutti erano caduti e marciti per terra. A Cristiania non li raccoglievano. Le cime dell’albero erano così stracolme da poterci confezionare centinaia di vaschettine che noi, se fossimo stati abitanti di Cristiania, avremmo senz’altro venduto in un banchetto esposto nella piazzetta, magari mescolati a collanine, poesie, ciondoli, libri, terracotta, orecchini. Evidentemente ai danesi non piace così tanto il gelso. Chissà, forse non sanno nemmeno che si mangia. Non mi meraviglio più di niente ormai, da quando anni or sono ho incontrato alcuni napoletani di vent’anni che non avevano mai visto le fave e non sapevano davvero cosa fossero. E altri adulti toscani che non sapevano cosa fosse un fico d’india e non l’avevano mai visto e tantomeno mangiato. Niente di strano dunque se così tanti buoni frutti di gelso nero venivano abbandonati a se stessi e fatti marcire per terra.
Le nostre biciclette c’erano ancora. È un posto interessante Cristiania. Se andate a Copenaghen visitatelo senza timore. Vale sempre la pena vedere gente che tenta l’applicazione di una filosfia di vita diversa, pur con tante contraddizioni e cose che potrebbero non piacerci. Raggiunta l’uscita con il cartello “say no to hard drugs” ci ritroviamo nella strada trafficata di auto. Un’ultima occhiata di addio al cartello posto come insegna all’ingresso: “benvenuti nella libera terra di Cristiania”, e siamo di nuovo ritornati nel mondo “civile”.
Mentre ci allontaniamo si ha la sensazione che Cristiania è come un’isola circondata di strade, un mondo a parte, una parentesi tonda, un confronto, una riflessione.
QUATTRO CANNONI NERI
Abbiamo costeggiato il grande canale. Ora siamo al porto di fronte alla Sirenetta la famosa statua tra gli scogli dedicata ai marinai, simbolo di Copenaghen. Decine e decine di turisti sono di fronte alla Sirenetta. Scattano foto a ripetizione. Una ragazza scende tra gli scogli e abbraccia la Sirenetta per la foto. Un’altra poggia la sua borsetta a forma d’orsacchiotto di peluche nel grembo della Sirenetta, e presa la statua a braccetto ecco un’altra foto. Ognuno si inventa una posizione, un sorriso, un abbraccio, una smorfia, un atteggiamento, per essere immortalato in una foto con la Sirenetta nera.
Dato il solito scappellotto all’interruttore inceppato della nostra telecamera, facciamo qualche ripresa. È una piccola statua la Sirenetta. In verità una statua qualunque. Ma ci dice quanto può diventare forte e potente e significativo un simbolo che si diffonde. Questa piccola statua è conosciuta in tutto il mondo. Ci sono più turisti qui al porto venuti per vederla, che non al Museo dei Guinnes Mondiali sulla Strøget-Østergade.
Dalla Sirenetta al Churchillpark. Nella piccola chiesetta di pietra bianca e grigia una donna africana con foulard a fiori in testa, con carnagione lucente color noce scuro, è così immobile, così fissamente immobile, che al primo sguardo, entrando in chiesa e vistala a sinistra seduta sulla panca a pregare con le mani giunte, io, Anna e Reno l’abbiamo scambiata per una bellissima statua di legno.
A ridosso della chiesetta una grande fontana senz’acqua (forse per lavori di ristrutturazione) con più vasche a discesa e un carro enorme di pietra trainato da grandi buoi di pietra. Una donna di pietra con frusta a guidarlo.
La grande caserma con tante palazzine rosse, parco pubblico. Superando una breve salita si giunge a una sorta di altipiano con prato verde grandissimo al centro del quale campeggia maestoso un vecchio mulino a vento. I bambini, superato l’orlo della salita e approdati nel prato, alla vista del grandioso, suggestivo spettacolo del mulino a vento con le sue pale di legno che si stagliano nel cielo come ali di Icaro, esclamano con gli occhi dilatati dalla meraviglia: “Guardate ci sono uno, due.. tre, quattro cannoni!”.
C’erano infatti alle estremità di quel quadrato di campo quattro vecchi cannoni neri.
Il mulino non l’avevano visto.
PANTALONI AZZURI E SCIABOLA PENDENTE
È mercoledì 28 agosto, dieci del mattino. Sono già tre giorni che siamo a Copenaghen. Per Reno è arrivato il momento di partire. Ci separiamo di nuovo. Vediamo il camper allontanarsi con i bambini un po’ tristi che salutano dal finestrino. Anche la rossa bandierina danese con strisce bianche a croce orizzontale, comprata a Legoland, saluta dall’ antenna sventolando. Ciao Reno, a presto.
Facciamo l’ultimo giro nel vie del centro di Copenaghen. Anche noi cominciamo a sentire l’atmosfera del ritorno. Ogni volta che siamo in vacanza ci dimentichiamo che in verità le vacanze finiscono sempre quattro giorni prima. Nel senso che a quattro giorni dalla fine la testa ricomincia a pensare alle cose che ti aspettano a casa, cominci a pensare al lavoro, agli impegni, alle cose da fare, e cominci a non essere più troppo presente nei luoghi dove ti trovi.
Al mattino il centro storico di Copenaghen è pieno di automezzi che scaricano merci. I negozi hanno appena aperto e si attrezzano per il lavoro della giornata. Casse di bibite, verdura, frutta, pane, vengono scaricate dai furgoncini in sosta. Passa il camion della nettezza urbana a svuotare cestini e bidoni dell’immondizia e a ripulire le vie. Prendiamo un lungo caffè danese seduti al bar sotto il tepore del sole.
Anna eccezionalmente scrive una cartolina a un’amica a cui forse l’ha promessa. Io approfitto di quella tranquillità per aggiungere qualche riga ai miei appunti di viaggio. Ma ecco all’improvviso la banda musicale. La sua musica ci fa scattare in piedi. Il conto era già pagato (normalmente in Danimarca si paga subito al cameriere quando ti porta al tavolo le ordinazioni). Anche noi ci mettiamo a seguire la banda accodandoci al già folto numero di persone che la segue. È la banda musicale dei cadetti diretti alla piazza ottagonale del Palazzo del Re, per il puntuale e quotidiano cambio della guardia. Pantaloni azzurri con striscia bianca laterale, ciberna di cuoio bianco a forma di x sulle spalle che termina con una valigetta nera sui lombi, sciabola pendente sul retro, baionetta, fucile automatico, grande colbacco di pennato nero, giacca blu, guanti bianchi. Procedeno segnando il passo scortati da vigili gentilissimi sino alla grande Piazza Ottagonale dove c’è il monumento di Federico Quinto a cavallo. Il traffico rallenta formandosi una coda di auto, biciclette, carrozzine. Gente affacciata alle finestre sino al quarto piano a guardare la banda che passa. Alla telecamera devo dare questa volta più di uno scappellotto perché si metta a funzionare. Anche il pubblico che segue è tentato di accordare il suo passo al ritmo della musica e inconsapevolmente marcia con brio. La pavimentazione della Piazza Ottagonale è fatta di porfidi grigi rettangolari spezzati da linee di porfido nero che delimitano lo spazio al di là del quale deve stare il pubblico. Centinaia di persone con macchine fotografiche ogni giorno alle ore 12.00 vengono a vedere il cambio della guardia al Palazzo del Re. I vigili controllano che nessuno del pubblico sorpassi la linea nera di porfidi. Ogni tanto una vecchietta o un giapponese tentano di avvicinarsi per vedere meglio i dettagli del cambio della guardia rompendo la perfezione del quadrato formato dal pubblico assiepato dietro la linea nera dei porfidi. I vigili pronti a rimetterli al loro posto, con un sorriso, una battuta, con una mano sotto il gomito sospingendoli. Dopo una mezzoretta è tutto finito: il pubblico rompe le linee e si riversa in piccoli rivoli in ogni direzione. Ritorniamo nel centro storico. Pranziamo in un locale con un piatto di Shawarma e Shish Kebab libanese. I ristoranti che vendono Kebab sono diffusissimi in Danimarca, più diffusi dei ristoranti cinesi. Ne trovi immancabilmente uno in ogni paese. Come i musei. Ogni paese della Danimarca ha il suo piccolo museo che raccoglie oggetti, fotografie, attrezzi, ricordi della sua storia passata. Può essere piccolo quanto una sola piccola stanza, sempre situato lungo la via principale, o nel centro storico, ma un museo della memoria non manca mai nei paesi, anche in quelli più piccoli e sperduti.
Partiamo da Copenaghen alle 15.30 con un po’ di nostalgia. Ci eravamo abituati alla sua atmosfera, ai suoi canali, alle sue piazze, al suo traffico di biciclette e di pedoni. La prossima tappa è la festa medievale vichinga di Horsens, nello Yutland. Ma abbiamo ancora un po’ di tempo. Facciamo dunque un giro più lungo per poter vedere qualcos’altro dell’isola Sjælland.
Køge, a sud di Copenaghen, è un grazioso paesino con belle casette del ‘600, cortili, giardini e bar nascosti. C’è una grande chiesa di mattoni rossi. Sulla via principale, dietro la chiesa, un platano enorme. Il museo, che troviamo chiuso perché sono passate le cinque del pomeriggio, non riusciamo a vederlo. Non siamo mai riusciti a vedere un museo, se non sbirciando all’interno dalle finestre. Anche a Køge un negozio di roba usata. Nella grande piazza Torvet un monumento a Frederik VII, il cinema Bio, un caffè, vari negozi.
Subito dopo Køge, procedendo verso sud, c’è il Vallocamping, un campeggio grandissimo immerso nel verde con alberi, prati, centinaia di bungalows di legno, tende, camper, roulotte. Dall’altra parte della strada un fitto bosco e, subito dopo, la spiaggia.
Procediamo sulla statale 281 in direzione Støre Heddinghe, Højerup, sino alle Stevens Klint. In danese esiste il genitivo sassone indicato con una “s”, come nell’inglese, solo che gli inglesi mettono sempre un apostrofo prima della “s”. I danesi legano invece la “s” direttamente alla parola, tranne quando una parola termina per s, z, x nel qual caso anche i danesi usano l’apostrofo. Gli inglesi avrebbero dunque detto: Steven’s Klint. I danesi dicono Stevens Klint – Le Scogliere di Steven, Møns Klint – Le Scogliere di Møn, pigens dukke – la bambola della bambina.
In questa zona incontriamo estese coltivazioni di cavoli e carote.
A Stevens Klint cè un ampio parcheggio. Un parco giochi per bambini con tronchi d’albero scolpiti a forma di drago e di animali. Per sabbia uno strato di trucioli di legno. Due chiesette con cimitero. Una trattoria con alcune persone sedute ai tavoli. Pensiamo di cenare lì fra un’oretta per assaggiare finalmente qualche specialità di pesce. Una palazzina con lo Stevenson Museum, che puntualmente troviamo chiuso, data l’ora. Un laghetto con grandi ninfee verdi. Un bosco con stretti sentieri, bivacchi spenti. Ci incamminiamo lungo il sentiero d’erba per riprendere dall’alto con la cinepresa squarci di scogliera e precipizi. Piccole insenature e angoli di spiaggia si intravedono laggiù in fondo. La visuale della scogliera è coperta dalle piante e dai cespugli. Sono pochi in questo tratto di collina i luoghi da cui si può vedere interamente la scogliera. Occorrerebbe scendere giù con la scala di legno che abbiamo intravisto nei pressi della trattoria. Ma si sta facendo buio ed è meglio non avventurarsi. Anche le zanzare. A quest’ora umida del tramonto escono dai loro nascondigli e dalle loro trincee per attaccare chiunque incontrano sulla loro strada. Con passo veloce ci dirigiamo verso la trattoria per una cena a base di pesce. Beh, sarà per un’altra volta. La trattoria è ormai chiusa con tanto di orario appeso ad un cartello.
È troppo isolato e buio per fermarci a dormire qui.
Ceniamo in camper e verso le 22 partiamo per Kakse dove ci fermiano a dormire nel parcheggio di un supermercato, di fronte all’Ostello Internazionale, a due passi dalla fontana con cavalli e cavalieri di pietra e alti zampilli d’acqua.
Al mattino una telefonata di Reno. Il viaggio di ritorno procede senza problemi. Solo un rallentamento di un paio di ore nei pressi Kiel, in Germania, a causa di una nuvola sterminata di zanzare che a milioni si sono abbattute sulla zona spiaccicate contro i parabrezza impedivano la visibiltà. Si è formata una lunga colonna di automezzi che per un paio d’ore ha dovuto procedere lentamente, con i finestrini ben chiusi. La gente, immersa in quella fitta nuvola di zanzare aggressive, si è guardata sul parabrezza il film puntinato dei loro schianti fitti sul vetro. Per sottofondo il sonoro del tergicristallo in azione.
IL BOSCO DEGLI INNAMORATI
Da Kakse a Præstø, con pausa pisciatina sulle canne del bellissimo Præstø Fjord.
A Kalvehave passiamo sul ponte che attraversa lo Stege Bugt, e siamo sull’isola di Møn. Porticciolo di Stege, e finalmente siamo vicini alle Møns Klint. Intorno a Stege ci sono tanti negozi di ceramica e antiquariato, coltivazioni di barbabietole, moltissimo verde e filari alberati. Le Møns Klint sono un luogo affascinante. Per arrivare alle scogliere si attraversa un bosco sterminato con alberi altissimi che mi ricordano la foresta di Shervood di quando bambino ero un Robin Hood. Nel bosco un grande campeggio con decine e decine di tende camper roulotte. Zona ideale di passeggiate e bellissime escursioni a piedi e in bicicletta nel bosco. La strada bianca di terra battuta si inerpica con curve e zig-zag fino alla cima di questa vasta collina. Entriamo nel parcheggio delle Scogliere di Klint. Costa 25 corone e puoi fermarti tutto il giorno. Ci sono spazi verdi e all’ombra e apposite tettoie di legno per il pic-nic. Un chiosco di souvenirs e cazzatine. Una caffetteria, un ristorante. Un parco giochi per bambini con il solito stile di tronchi intagliati grezzamente a formare figure di draghi e di animali, con trucioli di legno per sabbia, altalene con corde verticali che finiscono in sedili rotondi fatti con dischi di albero tagliato. Un grande albero mozzo del parco è chiodato per fare giochi di arrampicata. Cominciamo a salire a piedi lungo il sentiero che ci porta verso il punto più alto del promontorio. Le radici affioranti dei grandi faggi sembrano scalini. Dall’alto del sentiero ci sono punti panoramici da cui si possono ammirare le bellissime scogliere bianche di Møn. Un cartello ci informa che nel bosco e sulle scogliere ci si può imbattere nel falco pellegrino. È un bosco di sogno. Un gran silenzio abitato dal vento e dagli uccelli. Mi viene da chiamarlo il Bosco degli Innamorati. Ad ogni passo si incontra un albero su cui una mano a volte tremolante, a volte ferma e decisa, ha inciso sulla corteccia o scritto con la pietra bianca della scogliera, il nome di un uomo o di una donna. Cuori trafitti, dediche, speranze, auguri, promesse, nomi. Il bosco sembra abitato da spiriti invisibili che hanno lasciato quelle scritte sulle cortecce, sui parapetti di legno che proteggono dal precipizio, sui mancorrenti delle staccionate, sulle tavole dei gradini. Nel silenzioso Bosco degli Innamorati che costeggia le Scogliere di Møn decine e decine di nomi il falco pellegrino incontra nel suo volo.
Scendiamo verso la spiaggia lontana percorrendo una lunga e ripida scala di legno che sulla costa del promontorio si insinua a zig zag tra gli alberi e piccole forre. Ora la vediamo dal basso quella maestosa muraglia verticale. Sbricioliamo tra le dita un pezzettino di scogliera per sentirne la consistenza. Puro caolino bianco. Anna ne raccoglie un paio di manciate che infila nella tasca dello zaino. La spiaggia è sassosa. Non c’è più l’ombra dei faggi. La maglia di lana che avevamo indossato nel bosco ora dobbiamo toglierla. Anche la canottiera. Il sole è cocente. Si cammina a fatica sui grossi sassi della spiaggia. I tafani pungenti sono di casa anche qui. Visto dal basso, con la mano a solecchio per proteggerci dai riflessi del sole, il bosco che sovrasta la scogliera sembra una grande, fitta capigliatura. La parete verticale della scogliera diventa la fronte vastissima di un gigante.
Altri turisti arrancano sui sassi. Percorriamo un paio di chilometri di spiaggia in direzione del ritorno, fino a raggiungere un’altra ripida scalinata di legno che ci riporta, in faticosa salita, verso il parcheggio e il camper.
Scogliere di Møn: un bel posto davvero. Sarebbe molto piaciuto a Reno, e a Yuma e Shayela.
CANTI DAL BALCONE E MORTARETTI
Ci avviamo sulla statale 59 in direzione ovest, sino al vecchio ponte di Vørdingborg sullo stretto di Stor Strømmen, dove ci passa sopra anche il treno. Raggiungiamo la statale 153. Piccola tappa per un caffè a Sakskøbing, vicino all’Ostello Internazionale. A Sakskøbing c’è un bel laghetto e un mulino a vento senza le pale sulle cui pareti sono stati dipinti occhi bocca e naso rosso su sfondo bianco da sembrare un grande viso di clown.
Tocca ora alla statale 9 che ci porta sino a Tårs dove prendiamo un traghetto per l’isola di Langeland. Tårs è un piccolo villaggio formato da due filari di case basse, lungo non più di tre tiri di fionda. Un porticciolo malandato con vecchie barche in secca e rottami. Un piccolo giardino con un tavolo al centro e una barca dove ci si può sedere e fare pic-nic.
Saliamo sullo Odin Sjdfjen, il traghetto delle 19,15. Tre quarti d’ora di traversata sul Langelandsbælt e siamo Spodsbjerg, bellissimo porto con barche e tanti motoscafi tutti uguali che ti portano a fare un giro intorno all’isola. Casette ben curate con orto, giardino, fiori, fontane. Gli stendibiancheria sono come delle sculture messe in giardino, una specie di piramide a base quadrata capovolta. Un albergo, campeggio, spiaggette di sabbia, piazzale con parcheggio.
Sulla Statale 9 campi da golf con l’erba verde verde brillante.
Raggiungiamo la sera Svendborg deserta e silenziosa con grande centro pedonale. Nei due bar principali della Via Gerritsgade avventori con la birra soffuso brusìo chiacchierano.
Da una casa privata qualcuno fa festa con canti dal balcone sparano mortaretti casarecci fuochi d’artificio. Alle 22 in punto suonano a lungo le campane della chiesa medievale.
Il museo delle stufe. L’immancabile Apoteka (farmacia) all’angolo di piazza Torvet.
Una fontana, da cui attingiamo acqua con una batteria di bottiglie di plastica riempiamo il serbatoio vuoto del camper. In lontananza un mulino a vento con le pale illuminate da un perimetro di piccole luci intermittenti come a Natale. Molte le case con la struttura di pali di legno che lasciano decorazioni quadrate e triangolari alle pareti. Le poche donne che passano a quell’ora non hanno le scarpe a puntalunga come si usa oggi in Italia. Non abbiamo visto simili scarpe in Danimarca, solo pochissimi esemplari a Horsens. Al porto un’elica gigante di ferro, monumento ai caduti del mare e alle navi. Troviamo un posto per dormire nei pressi del porto. L’indomani si riparte per raggiungere Horsens e la sua festa medievale vichinga. Sull’autostrada E45 durante la guida per passare il tempo interrogo Anna: come si chiama il paese dove abbiamo visto tanta gente uscire da un boschetto con le seggioline a tracolla e i cestini da pic-nic? Dove abbiamo conosciuto Søren, il barista che ha dato i chupa chupa a Yuma e Shayela? Qual era il paese che aveva tante statue e panchine di pietra a forma di animale, dove Reno ha comprato un rullino per la macchina fotografica? E il posto dove abbiamo cotto il pane vichingo sul fuoco? E quel parco giochi fatto con tronchi d’albero scolpiti a forma di drago e di aereoplano, sul laghetto, con ristorante…specialità pesce…? Come si dice zanzara in danese? E castello, come si dice castello? Dove abbiamo comprato il libro con le massime vichinghe? E dove abbiamo incontrato le rotonde che avevano totem di legno colorati dai bambini? Ora dimmi dove abbiamo dormito a Kakse? Dove abbiamo visto quella donna africana così immobile da sembrare una statua di legno?
Anna comincia a fare confusione: colloca un evento in un posto sbagliato. Ad alcune domande non sa proprio rispondere. Ricorda che la donna africana di legno era nella chiesetta del Churchillpark a Copenaghen, che castello si dice “slot” con la “s” sorda, ricorda che i totem di legno colorati erano sulla strada per Skagen dove c’erano anche le coltivazioni di abeti, e ricorda che le massime di Odino le abbiamo comprate al museo della necropoli vichinga di Lindholm Høje. Ma la gente che usciva dal bosco con le seggioline? Prima risponde Sønderborg, poi Tønder, poi Ribe. Sbagliato. Era Augustenborg. Sønderborg è il primo paese che abbiamo visitato, quando ancora non c’era Reno. Per raggiungerlo si passa sull’alto ponte che attraversa l’ Als Sund. È il paese dove parlavamo a bassa voce tanto era il silenzio che lo avvolgeva. A Tønder c’era il festival di musica folk. A Ribe i nidi delle cicogne sui tetti, l’accensione delle lanterne alle dieci di sera, la ruota del mulino. Søren lo abbiamo conosciuto ad Augustenborg, lo stesso paese dove la gente usciva dal boschetto con le seggioline, dove hai comprato la marmellata di arance e carote, e l’olio di semi di uva. Invece le panchine e le statue di animali in pietra erano a Varde, dove Reno ha comprato il rullino. Il pane vichingo lo abbiamo cotto a Bork Vikingehavn, dove c’era quella ragazza che si chiamava Vivian. Il parco giochi col drago e l’aeroplano di tronco, il ristorante, il laghetto, era a Nedersø, sulla strada per Tønder. A Kakse abbiamo dormito nel parcheggio di un supermercato, di fronte all’Ostello Internazionale; era il paese dove c’era una fontana con cavalli di pietra. Zanzara si dice Myk (si scrive Myk, ma si pronuncia mük). Birra si dice Øl, l’ Apoteka è la farmacia, Ensrette vuol dire “senso unico”, Sø vuol dire lago. Baia si dice Bugt. La scogliera è Klint. Insomma, cosa stranissima, io ricordavo tutto! L’abitudine di ritagliarmi ogni sera dieci minuti per scrivere su un quaderno le cose viste, i nomi dei luoghi, le parole, le cose fatte, stava dando i suoi frutti.
UN ARCO CON FARETRA E FRECCE
Horsens è strapiena di macchine. Tutti i parcheggi sono occupati. Un gran via vai di pedoni e di auto. Ci vorrà un’oretta prima di trovare un posto dove lasciare il camper. In una via privata, un po’ lontana dal centro.
Moltissimi i figuranti in abito medievale. È tutto un fermento di musiche e spade. I visitatori sono migliaia. Nel prato, a ridosso della Klosterkirken, chiesa del 1200, il primo accampamento. Decine di tende ospitano artigiani in abito medievale. È un medioevo diverso dal nostro, diverso intendo dalle feste medievali italiane, che conosco benissimo perché vi ho lavorato come poeta amanuense in costume. Le feste di Chieri, di Villanova, di Cuorgnè, di Saludecio, di Monteriggioni, di Alba, e tutte le altre che ho visto in Italia, non hanno niente a che fare con la festa di Horsens. Questa è una festa medievale nordica, una festa vichinga. Hai davvero la sensazione di essere ritornato come per magia in un tempo antico. Addobbi minuziosi, coreografia attenta e ben studiata creano un’atmosfera medievale che pervade ogni angolo di strada. È un grande campo vichingo realizzato nel centro storico di Horsens. Un grande mercato. Le bancarelle, a centinaia, costruite con una struttura di tronchi incrociati coperti da un telo, vendono oggetti d’ogni sorta coerenti con l’epoca medievale. Artigiani giunti da ogni parte della Danimarca, dall’Olanda, dalla Sassonia, persino dall’Italia, a costruire l’atmosfera di un’epoca. Anche la piazza antistante la Vor Frelsers Kirke, tutta la via Borgergade, Piazza Torvet, Piazza Rådhustorvet e altre vie secondarie, sono stracolme di bancarelle. Centinaia di bancarelle costruite con tronchi di legno incrociati e teli. A fianco di ogni bancarella un fuoco, un bivacco, una catasta di ciocchi di legno. L’asfalto e i porfidi della strade coperti da un fitto manto di trucioli di legno che la gente calpesta passeggiando. Anche quella sensazione di trucioli morbidi sotto la suola delle scarpe aiuta a creare l’atmosfera medievale. La sera, tolta la luce elettrica dei lampioni, sarà uno spettacolo vedere lo scintillìo delle decine e decine di fuochi accesi ovunque. I lampioni, le panchine, i bidoni dell’immondizia, sono stati mimetizzati con una copertura di tronchi. Decine di torce ad olio a illuminare fievolmente le strade e le piazze. Un bambino sulle spalle di un uomo li accende ad uno ad uno all’imbrunire. Alcuni grossi tronchi, alti sino all’ombelico, sono stati scavati leggermente nel centro. Si accende l’olio versato nello spazio concavo e per tutta la notte funzionano da torcia e da riscaldamento. Ce ne sono a dozzine vicino ai chioschi e alle bancarelle, qualche volta producendo fumo se non hanno preso ben fuoco. In ogni angolo musicisti in abito medievale e canzoni. Figuranti con armature e lance. Si cammina a rilento in tutte le vie stracolme di turisti e visitatori che tengono in mano un boccale di argilla ricolmo di Øl. La birra è protagonista assoluta in questa festa. I boccali di terracotta momentaneamente vuoti vengono tenuti con un laccetto legati alla cintura. Sono bellissimi boccali creati apposta per l’occasione. Acquistando la birra puoi anche acquistare il boccale, cosa che tutti fanno per averlo come ricordo. Noi ne acquistiamo cinque. La gente passeggiando sbanda leggermente per la troppa birra bevuta. E canta e applaude ai musicanti e compra ogni tipo di merce. Decine di bambini figuranti vestiti di yuta e stracci, sdraiati per terra agli angoli delle strade nelle posizioni più assurde con una ciotola dinanzi mimano con viso sofferente i reietti i lebbrosi gli appestati in cerca di cibo e di elemosina, con una tale confinzione e partecipazione e una tale teatralità da conquistarsi la simpatia di tutti i passanti. Una donna con capelli bianchi, veri, naso acquilino, truccata sinistramente, ha tutta l’aria di una strega. È lei che con i suoi colori e i suoi barattoli di vernice e i suoi pennelli crea ferite sanguinanti, cicatrici veritiere, bubboni e piaghe terrificanti sulle facce di quei bambini, di quegli uomini, di quelle donne che davanti a lei si sono messi in ordinata fila aspettando il proprio turno con la coppa di terracota in mano piena di birra. Grandi tavolate con gente seduta a bere e a mangiare vicino ai bivacchi accesi. C’è un banco avvolto dal fumo dove vendono salsiccia cotta sulla brace. Con contorno di cipolla e salsa piccante la servono in una grande foglia verde di cavolo. Leggermente ricurva la gente la tiene nel palmo della mano, e mangia con le dita, seduta ai i tavoli o per terra sull’erba o camminando in mezzo alla folla. In altri luoghi la carne e la salsiccia la servono sopra una tavoletta di legno che anche quella puoi portarti a casa come ricordo. La puoi riciclare usandola in tavola (o in camper) come sottopentola.
Ed ecco un improvviso vociare gioioso e impaurito insieme. Proviene dalla giostra. È una giostra medievale vichinga. Un grande palo di legno, alto una decina di metri, è stato infisso per terra. Con corde robuste gli angoli di un quadrato di tronchi sono legati direttamente alla cima del palo. Bambini, donne, uomini seduti sui quel quadrato di tronchi. Due servitori in costume spingono la giostra facendola ruotare. Le corde arrotolandosi intorno al palo la sollevano lentamente in alto. Raggiunto il momento statico la giostra riprende a girare in senso contrario e ridiscende con grida semiimpaurite e festoseee.
Uno spettacolo di marionette con fili è appena terminato. Le famiglie si alzano dall’erba e si riversano in altre direzioni. L’applauso si smorza pian piano. Restano solitarie le quinte con gli alberi e le nuvole e i boschi dipinti.
Le donne in costume medievale che hanno appena fatto lo spettacolo ora intrattengono, quasi privatamente, alcuni bambini curiosi di vedere da vicino le facce delle marionette. Davanti ai loro occhi le donne muovono i fili ancora una volta. Mostrano come la vita si insinua in quei personaggi di legno giunture producendo semoventi inchini e scatti e saluti.
In un angolo un capannone dove si può tirare con gli archi tartari. Mi prenoto per qualche freccia da scagliare contro la sagoma di un cervo. Tutte le mie quattro frecce vanno a segno, non sul cuore, dove avevo mirato, ma sulle corna! Devo rivedere il mio sistema di mira.
Ed ecco il parco giochi per i bambini. Decine di giochi semplici. Il tronco sospeso su due rialzi dove i bambini si sfidano a colpi di cuscino cercando di non perdere l’eqilibrio e non cadere. Gli anelli di corda da lanciare su alcuni birilli di legno. Gli shangai giganti.
Una specie di flipper dove si lanciano su una piattaforma tondini di legno che vanno a colpire bersagli e devono passare tra ostacoli. Un tripode fatto di tronchi d’albero con una grossa corda pendende che termina in un pesante nodo. Facendo dondolare la corda bisogna colpire un birillo posto su una piccola piattaforma. Una serie di cerchi di legno che bisogna lanciare e farli passare in apposite fessure. Ed ecco La Mouse Roulette. È un bambino a gestirla. Si tratta di una piccola struttura circolare in legno poggiata su un tronco. È formata da una quindicina di casette colorate il cui piccolo ingresso si affaccia su una piccola piazza rotonda. Le casette sono numerate. Il bambino tiene in mano un topolino bianco che mostra al pubblico. Scegli un numero e punti una corona. Il topolino viene messo nella piazzetta e dopo un po’ andrà ad infilarsi in una delle casette. Se corrisponde al numero che hai scelto hai vinto. Ad ogni angolo bambini con scudi e spade di legno giocano combattendosi vestiti da guerrieri. Sono a decine le bancarelle che vendono scudi e spade di legno. Le spade sono assemblate al momento. In un grande cestino di vimini centinaia di lame e in un altro cestino centinaia di else. Un ragazzo con la barba vestito da artigiano vichingo inserisce l’elsa in un incastro della lama, un po’ di colla e un chiodo, e la spada è fatta. Una bancarella con fischietti di terracotta a forma di uccello, rana, pesce, orsacchiotto, serpente, caraffa. La gente che li ha acquistati li porta appesi al collo con un filo. Ed ecco un forno all’aperto, fatto di semplice mattoni, che cuoce Raku Skåle (ciotole Raku) con fiamma a vista. Spunto interessante da usare per le nostre cotture Raku a Macondo. È affascinante. Su un lungo tronco in esposizione le belle ciotole raku appena cotte con smalti leggeri e decorazioni sfumate. Nei pressi del forno una grande catasta di ciocchi di legno.
Ecco più in là il banco della porchetta. Il banco del pesce e delle aringhe affumicate.
Vicino alla fontana, nella piazza di fronte alla Vor Frelsers Kirke un uomo sta costruendo una piccola barca vichinga. I bambini si combattono con gli scudi e le spade anche dentro la fontana saltando da una pietra all’altra e qualche volta cadendo con i piedi nell’acqua. Si combattono mentre al loro fianco suona il complesso dei Fabula Aetatis. È un complesso della Sassonia, giovani i componenti, ma molto grintosi. Alcune ragazze nel piccolo spazio di fronte al palco ricavato a fatica nel mare di gente che invade il centro si sono messe a ballare travolte dal ritmo serrato e suggestivo dei flauti delle cornamuse dei sonagli dei tamburi del pubblico che batte le mani. Compriamo un cd dei Fabula Aetatis. In un chiosco friggono su una grande padella nera palline rotonde grandi come noci. Lingue sottili di fiamme crepitano sotto la padella, lambiscono i bordi disegnando sinuose figure e crepitano. Una donna con abito vichingo e lunghe trecce bionde pendenti controlla la cottura con un mestolo di legno che tiene in mano. Sono dolci. Vengono serviti su una tavoletta di legno con zucchero e marmellata. Non possiamo non assaggiarne un paio. Hanno un sapore simile alle zippule calabresi e agli sfinci siciliani.
Un grande capannone di tronchi ospita lunghi tavoli dove si può mangiare carne alla brace e zuppa di carne cotta su pentoloni neri che poggiano e friggono sopra un fuoco di carboni ardenti. Il profumo di carne ha invaso la piazza. Un artigiano scioglie argento sul fuoco e dal pentolino lo fa colare dentro stampi di pietra ricavandone piccole croci e gigli che vende ai passanti. I bambini si fermano ad un fuoco dove mettono un tubetto di legno a bruciacchiare. Poi lo puliscono con una spazzola di ferro, lo bucano e ne fanno un ciondolo o una collana. Ed ecco un altro chiosco dove la gente si siede su tronchi intorno a un grande braciere tenendo in mano lunghi spiedi di legno alla cui estremità è arrotolato un impasto di farina miele ed uva passa. Si stanno cuocendo il loro pane vichingo.
Sopraggiunge all’improvviso un insistente tintinnare di sonagli e campanule; un carro trainato da buoi seguito da un codazzo di frati e appestati cenciosi si fa strada tra la folla che si apre come le acque di Mosè per farlo passare. Dall’alto del carro un uomo vestito da predicatore, barba bianca e faccia di rapace, urla alla folla gesticolando ininterrotte parole in lingua danese riversa sulle loro teste strali infernali e anatemi. La folla si richiude, e già lontani sono il carro e gli anatemi trainati dai buoi. Due uomini palafrenieri praticamente identici fratelli gemelli fiato di birra in bocca e boccali in mano cantano sgangheratamente portando sulla spalla una sella di pelle. Vengono verso di noi. Si sorreggono a vicenda a stento tenendosi a braccetto. Sbandano qui e là spruzzi di birra dai boccali. Dalla bocca rutti. Barcollano. Saltellano i capelli i coltelli le selle di pelle sulle spalle. Hanno le budella davvero stracolme di øl.
Eppure vanno tranquilli per la loro beatitudine sgangherata. Non c’è un litigio, non una zuffa, non un alterco in tutta la festa. La gente beve e si diverte e tranquillamente si abbandona e gode di quel torpore biondo schiumoso che viene dalla birra. Non ci sono camionette di polizia, non pattuglie in divisa armate di manganelli, né nascosti scudi in plexiglass pronti all’uso. Solo qualche vigile gentilissimo.
In un banco un vecchio artigiano barbuto lavora resina fossile di conifere. Vende collane, spille, bracciali d’ambra semitrasparenti di color giallo miele e rosso granato. Una gran folla intorno ad ammirare. Un altro gazebo con un artigiano del cuoio. Scarpe, mocassini, gambali, borse bellissime di pelle e di cuoio. Il chioschetto dei berretti e guanti di lana. Anna compra un berretto per sé, e uno per le nostre figlie. Lo zainetto che abbiamo portato con noi è già pieno: ci sono le cinque coppe di terracotta per la birra, i berretti di lana, il cd dei Fabula Aetatis, le tavolette di legno degli sfinci danesi. Facciamo un salto al camper, a posarli. Un breve sosta in camper con un caffè. E si ritorna alla festa con lo zainetto vuoto, pronti a ricolmarlo di cose curiose che forse ancora incontreremo. In un banco vendono vestiti medievali pendenti dalle grucce appese a fili tesi tra palo e palo. Lunghi colorati vestiti bellissimi per uomo e per donna. Poco più in là un bambino e il suo papà stanno provando un’armatura da guerriero, una di quelle maglie a rete metallica con cappuccio. Trovata la misura giusta l’acquistano lasciandosela addosso. Un fabbro unto e fumoso con poderoso martello forgia sull’incudine una spada arroventata. Seduta su uno sgabello di legno donna con copricapo da cortigiana intreccia lunghi fili di vimini tessendo canestri con la punta. Una vasta esposizione sul suo banco. La bancarella con gli oggetti di feltro: cappelli, pupazzi, animaletti, bambole, borsette. Un’altra donna con una tecnica simile al tombolo, utilizzando quadretti di legno bucati entro cui passano i fili di lana, sta intrecciando una cintura. Il vasaio espone le sue coppe, i boccali, le caraffe di terracotta mentre seduto dinanzi a un grande tornio trasforma la morbida argilla in forme che crescono e si arrotondando e si abbassano e ricrescono nelle sue mani grondanti. Ed ecco il chiosco speciale che mi incanta. In bella mostra una serie di archi tartari in osso di bue con frecce e faretre di cuoio. Mi fermo a provare un arco. Inseritolo tra le gambe con una estremità che punta sul piede destro, lo incurvo con forza per inserire il tendine sull’altra estremità. Ecco fatto. Impugno il bellissimo arco tartaro curvo e ricurvo come una parentesi graffa mi sento un cacciatore vichingo un guerriero. La mia giovanile passione per l’arco riaffiora improvvisa forte e pungente come una freccia a dirmi che quell’arco tartaro sarebbe bello averlo. Chiedo quanto costa. E anche le frecce e la faretra. È una cifra niente male. Mi rincresce riconsegnarlo lentamente nelle mani del venditore. Eppure sarebbe stato bello. Lo avrei usato con i bambini nei percorsi sugli indiani che facciamo da noi in Cascina e nelle scuole. Il pensiero di usarlo per lavoro era un tentativo di rendere più giustificabile e sensato l’eventuale acquisto. Ma saremmo rimasti con il danaro appena sufficiente per tornare a casa.
Addio arco tartaro di osso di bue, addio.
Per consolarci acquistiamo una decina di pelli col pelo di diversi colori. Ci serviranno per fare striscioline con cui guarnire oggetti artigianali che si ispirano al mondo degli Indiani d’America e che fabbrichiamo a Macondo. Li mostriamo ai ragazzi nei nostri percorsi didattici. Il nostro piccolo zaino è di nuovo morbidamente pieno zeppo.
In piazza Rådhustorvet hanno costruito una grande arena con gradinate di legno per il pubblico. Quaranta centimetri di sabbia, delimitata da una palizzata di protezione, è stata riversata nella piazza. Lì sono previsti tornei con cavalli e simulazioni di battaglie.
In fondo alla piazza il palco. Tantissima gente venuta ad ascoltare il concerto. Deve essere un gruppo conosciuto quello che sta per suonare. Sono i Korvus Corax della Sassonia. Un gruppo di grande impatto e grinta. Teste pelate con due ciuffi di capelli sulla fronte a simulare due corna. Altri con capelli lunghi, barbe imponenti, petto nudo, abiti medievali, tamburi di pelle giganti, cornamuse, sonagli, flauti, totem, finimenti di cuoio e pelle e pellicce e musica travolgente. Gli appassionati, folta siepe di braccia e teste sotto il palco, ballano e bevono scatenandosi. Un bellissimo concerto, così primitivo che dà la sensazione di essere davvero in un campo vichingo a festeggiare una grande vittoria sul nemico. Durante il giorno nell’arena sono previsti giochi per i bambini. Decine di ragazzi guidati da maestre si alternano in sfide e duelli nell’arena. Armati di scudi e spade di legno, a cavalcioni su un palo di scopa con testa di cavallo si rincorrono e combattono. Altri con alabarde infilzano palloncini appesi a un filo e anelli colorati. Per tutto il giorno giocano i bambini nell’arena. Poi lo spettacolo vero con i cavalli e i guerrieri adulti che si cimentano in gare e tornei di tiro con l’arco a colpire sagome di cinghiali. Con lunghe lance di legno colpiscono lo scudo tenuto in mano da una sagoma con le braccia aperte. Gli sfidanti colpiscono lo scudo correndo a cavallo, e abbassano la testa per evitare di essere colpiti dalla palla di cuoio che pende dall’altro braccio della sagoma. Giochi di fuoco e duelli.
Il banchetto della cera con candele e lumini d’ogni sorta. La porchetta che rotola lenta sul fuoco infarcita di foglie e di aromi. La cartomante. La gogna dove i bambini infilano le braccia e si alternano a provarla. Il chiosco con le trottole antiche. Ed ecco la sfilata e gli sbandieratori. Annunciata da rulli di tamburi si fa strada aprendosi un varco tra la folla che pian piano si dispone su due fronti lasciando in mezzo la strada libera piena di trucioli di legno. Passano i figuranti: principi, regine, il carro trainato dai buoi con il predicatore farneticante, i frati, le damigelle, i soldati armati e gli arcieri, gli sbandieratori che si fermano per lanciare in alto le bandiere, ma il vento rende difficile le loro acrobazie. Sono sbandieratori italiani, di Imperia, e poi i cavalli, gli accattoni vestiti di stracci, i commercianti, i navigatori, tutta una sequela di personaggi e abiti con tamburi e trombe e cornamuse. Man mano che la lunga sfilata procede e passa, dietro di lei la folla si richiude, riprendendo a passeggiare.
Un chiosco espone centinaia di mele glassate infilzate in uno stecchino. Vanno a ruba. Adulti e bambini passeggiano tenendo in mano come un cono gelato quelle bellissime mele glassate. In un recinto paglia con cavalli. In un altro recinto paglia con capre e pecore. Anche oche e maiali. Una fila di grandi botti di legno messe in piedi sono i tavoli di un punto di ristoro. Ecco su un piccolo palco un altro gruppo che suona: i Glamor Gaudium. Italiani anche loro. Alcuni si sono messi a ballare sul prato. Il banchetto con la produzione di miele. E poi il banco dei vini. E poi il banchetto delle marmellate. Il banchetto con le collane fatte solo con fagioli d’ogni tipo. La bancarella delle buonissime Tærte, crostate di frutta con cioccolata. Il chiosco con i mazzetti e le coroncine graziose di erica viola. Polpette di pesce e cozze servite su foglie di cavolo. Stendardi ovunque. Ci fermiamo di fronte a un altro gruppo di musicanti. Una coppia con boccale di birra in mano ha abbozzato una danza. Ci mettiamo in prima fila per osservarne i passi. È una danza popolare. Finalmente riusciamo a vederne una. Una specie di tarantella veloce ritmata dalle cornamuse e dai flauti. Peccato che dura pochi secondi. La coppia riprende il suo cammino. Non siamo riusciti a memorizzare la sequenza dei passi. Sono le due di notte passate. Il nostro zaino è stracolmo. I piedi stanchi. La decisione è improvvisa. Ci facciamo strada velocemente tra la folla, prima che sopraggiunga un ripensamento. Da lì a pochi minuti tengo in mano, inserito in una custodia di stoffa scura, il magnifico arco tartaro. E una faretra di pelle sulle spalle ricolma di dodici frecce piumate. Sono riuscito a farmeli dare con uno sconto di cinquantamilalire.
Ora quel che resta nel portafoglio servirà solo per tornare a casa. Allontanandoci dai suoni della festa, percorrendo la strada deserta diretti al camper, dopo due giorni immersi nell’atmosfera vichinga di Horsens, ci appare chiaro che il nostro viaggio in Danimarca è giunto alla fine. I chilometri che d’ora in avanti percorreremo saranno i chilometri del ritorno.
Nella notte le voci lontane della festa. La più bella festa medievale che abbiamo mai visto. La festa medievale vichinga di Horsens.
UN MAESTRO DI SCUOLA ELEMENTARE
Il viaggio di ritorno inizia con una tappa ad Århus, a Nord. Non è proprio la direzione di casa. Ma avendo ancora, a conti fatti, una giornata a disposizione, la spendiamo per visitare il Den Gamble By di Århus.
Al mattino incontriamo nel grande parco di Århus un fiume di corridori che partecipano ad una grande gara podistica. Alcuni blocchi di polizia ad impedire l’ingresso delle auto nelle strade del parco. Abbiamo contato tra i cartelli numerati appesi al petto del corridori il numero 47.163. È davvero una gara podistica immensa.
Di fronte alla stazione di Århus imbocchiamo la Via Ryesgade, poi la Via Søndergade, sino a raggiungere la piazza antistante la Domkirken bellissima chiesa del 1200. Nella piazza un giovanotto con un gran cerchio di gente intorno sta facendo il suo spettacolo di strada. Assomiglia nel viso e nella mimica al nostro caro amico Jacques del Circo Hulon. La Via Åbulevarden che costeggia il canale è piena di bancarelle, bar, ristoranti. La gente qui è più eterogenea: ci sono molti sudamericani, algerini, marocchini, gente di colore. Un cartello pubblicitario ci informa che dal 30 ottobre all’8 settembre c’è l’ Århus Festuge Festival una rassegna di musica blues e jazz in molti locali della città, sotto appositi tendoni da circo e per le strade. Il giovanotto che faceva il suo spettacolo di strada faceva parte dell’animazione di questa rassegna. Nel centro storico capitiamo nel bel mezzo del festival. La musica blues arriva da molti locali pieni di gente che beve birra. Un bel clima di festa e musica. Ma non abbiamo il tempo per goderci la festa come abbiamo fatto a Tønder. Il nostro obiettivo ad Århus è la visita alla città-museo.
Percorriamo la Via Vestergade che ci porta direttamente a Den Gamble By (La Città Vecchia). È un museo all’aperto molto particolare. Le case stesse e i negozi della Città Vecchia sono il museo. Un piccolo borgo ricostruito con negozi, botteghe, case, vie, piazzette, cortili originali del 1700/1800. Alcune case provengono da diversi paesi della Danimarca. Erano destinate all’abbattimento, ma sono state smontate e ricostruite con le stesse pietre a Den Gamble By. Altre case sono state ricostruite di sana pianta con lo stile identico alle case vere che esistevano in alcuni paesi. È un borgo composto di 75 edifici di cui 34 laboratori artigianali con relativa abitazione, 10 abitazioni di commercianti, 27 abitazioni private. Den Gamble By esiste grazie alla ferrea volontà di Peter Holm (1873-1950) un maestro di scuola elementare che si è battuto per tutta la vita per realizzare questa straordinaria città-museo. Di giorno i negozi e le botteghe sono aperti e la città vecchia si anima di abitanti in costume che danno vita a una atmosfera ottocentesca straordinaria. Con un biglietto di 60 corone si può visitare di giorno, dalle 10 alle 17. Ma noi siamo arrivati alle ore 17.30. Ancora una volta ci siamo dimenticati degli orari danesi. Le botteghe hanno chiuso alle 17.00. Anche lo sportello per fare il biglietto è chiuso. Il borgo è completamente deserto. Non ci sono barriere e si può entare comunque. È una grande emozione la visita a Den Gamble By in quest’ora deserta.
Nel silenzio godiamo in pieno il forte clima che Den Gamble By emana. È come essere davvero nel 1800. Dalle finestre chiuse sbirciamo all’interno delle abitazioni e delle botteghe. Sono arredate con mobili e oggetti originali del ‘700 e dell’800. Nella penombra scopriamo un mondo affascinante. Ecco la bottega del farmacista con i vecchi vasi di porcellana e i bilancini, il negozio del pastaio con macina di pietra e cassepanche di legno, una scuola con i banchi, la dogana, il teatro, la biblioteca che contiene 100.000 volumi dedicati esclusivamente alla conservazione e al restauro delle abitazioni e delle case. La bottega del cuoio con gli attrezzi originali e le vasche di pietra per conciare le pelli. Anche i pavimenti sono fatti di terra battuta o sassi, e belle travi di legno solcano i soffitti. Il negozio delle candele e della cera, la banca, la bottega del fornaio con il forno di pietra e i recipienti di legno per gli impasti, i silos per il grano e le farine. La bottega del cappellaio, la bottega dei guanti, alcuni di pelle, originali, pendenti da una serie di fili tesi. Un cortile, deposito delle carrozze di un tempo, con vere carrozze dipinte di nero giacenti a terra inclinate, e da un lato del cortile le stalle dei cavalli, con dentro alcuni cavalli veri che scalpitano tra la paglia, il fieno, le selle di cuoio, le fruste, le staffe, i finimenti e le briglie borchiate. La bottega del sarto con forbicioni esposti sul tavolo, un manichino, un metro, spilli, fettucce, bottoni originali. Il telegrafo, la locanda, l’orologiaio con tutta una serie di pendoli, cucù, orologi da taschino con catenelle d’argento e dorate. L’orefice con bilancia e scalpelli e lame e fuochi per fondere e forgiare, il negozio di biciclette con una serie di biciclette dell’800 in mostra. Alcune hanno la ruota davanti enorme e il ruotino posteriore piccolissimo, così alte che viene sempre da chiedersi come facevano nell’ottocento a salire sulla sella sin lassù. Il fabbricante di sigari con lunghe foglie di tabacco legate a mazzi e messe a seccare appese. E poi il mulino con un torrente vero e oche e anatre. Nel recinto di una casa galline che becchettano. Biancheria stesa ad asciugare nel retro di una abitazione con mollette di legno originali dell’800. Anche la gonna e i mutandoni e il vestito appesi sono originali dell’epoca. Una splendida piazzetta con acciotolato e panchine di legno. Il vento danese che soffia tra le pietre. La chiesa col campanile. Il ristorante dove alcune ragazze stanno riassettando i tavoli e le tovaglie e si preparano a mettere tutto in ordine per essere pronti l’indomani. Solo due altre coppie a visitare a quell’ora Den Gamble By. Nel silenzio del borgo i nostri passi risuonano sulle pietre, e le voci ci riportano un’eco sfumata dalle pareti delle case. Procediamo lungo il sentiero che porta al giardino botanico realizzato a ridosso delle case di Den Gamble By.
In cima alla collina un grande mulino con ragazza seduta sull’erba a leggere un libro. Vicino la bicicletta ai suoi piedi coricata sull’erba. Gli alberi hanno cartellini appesi con il nome.
E così scopriamo l’acero, il pioppo, il pino, l’abete, il tasso, il gimco, il cipresso, l’ippocastano e molti altri alberi e cespugli. E man mano che il tramonto si fa più rosso e l’imbrunire avanza, vagando per il parco e le vie di Århus con ancora nei polmini e negli occhi il silenzio e la bellezza di Den Gamble By, ci rendiamo conto che il nostro pensiero è ormai a casa, alle mille cose da fare, al lavoro che ci aspetta, ai progetti da preparare, ai depliants che dobbiamo spedire alle scuole, ai bambini, alle storie che abbiamo da raccontare.
DIFETTI E CONSIGLI
Ora siamo diretti davvero a Sud. Lunedì 2 settembre. Raccogliamo un mazzo di bacche di rose canine selvatiche da far seccare, e qualche mora mangiata lì, alla torre panoramica di Ejer Baunehøj segnalata da un cartello con margherita. È una di quelle torri che i danesi hanno costruito qui e là, dall’alto delle quali si può osservare il panorama.
Pausa caffè a Åbenrå che sorge su una collina con via pedonale prima in salita e poi in discesa, case a due piani colorate, piena di negozi di vestiti e fontane e sculture di pietra, e diversi negozi di ceramica Raku. Raggiungiamo la frontiera. Mentre guido Anna piega gli ultimi volantini seduta al tavolo del camper. Si viaggia in silenzio. Entrambi stiamo pensando alle cose viste in Danimarca, e alle cose che ci aspettano a casa. Superiamo Kassel.
Nei pressi di Baden Baden c’è un autogrill. Un cartello in autostrada segnala: “Autobahnkirke” (chiesa dell’autostrada). Non abbiamo mai incontrato un autogrill con una chiesa.
Ci fermiamo a visitarla. È una chiesa a pianta quadrata le cui pareti salgono inclinate sino ad unirsi in alto in un punto, al centro del quadrato. Una piramide a base quadrata insomma. Una chiesa moderna costruita nel 1978. Dal di fuori ha la freddezza solita delle chiese moderne. La facciata, con scalinata centrale, è un triangolo in cemento con vetrate dipinte. Prima dell’ingresso un grande obelisco in pietra con figure che non sembrano scolpite, ma realizzate con una tecnica che ricorda la colata, un po’ come si fa con i castelli di sabbia sulla spiaggia facendo scivolare da sotto il pugno chiuso della mano un filo sottile di sabbia bagnata. Le figure rappresentano aquile, scimmie, teste di uomini primitivi, archi. L’interno è accogliente. Un bel silenzio. Un’oasi di tranquillità e pace nel cuore caotico e assordante dell’autostrada. A vista gli spioventi, travi di legno chiaro, massicci. Le pareti con bellissimi vetri cattedrali incastonati nel rude cemento. L’altare e la croce poggiano su una pedana di legno a forma ottagonale. Intorno le panche disposte a semicerchio. Alle pareti sedili di pietra e legno. Una musica e una canzone a bassissimo volume escono dagli altoparlanti. Avvolgono l’aria come una preghiera. Autobahnkirke, la chiesa dell’autostrada. Forse protettrice degli automobilisti, affinché non vadano un giorno a schiantarsi contro un muro di fuoco e di lamiere contorte annerite.
Basilea. Lucerna. Il viaggio è lungo.
In Danimarca non siamo mai scesi in strada a suonare, Reno con la chitarra, io con il mio jembè. Non c’è stato il tempo. Ma ce li portiamo sempre dietro gli strumenti, come cari compagni di viaggio. Saranno con noi anche in Norvegia. Non abbiamo mai fatto la carne alla brace. In fondo non abbiamo scoperto nessuna danza popolare danese. Ripassiamo ad alta voce i nomi e i luoghi che abbiamo visitato in Danimarca. Dovremmo riprendere a studiare le lingue per poter essere più sciolti e comunicare meglio nei paesi futuri che vogliamo visitare. L’anno prossimo allora si va in Norvegia. Giochiamo a ripassare l’inglese. Ci ripromettiamo di trovare a casa venti minuti al giorno per studiare l’inglese. Facciamo l’elenco dei difetti che abbiamo riscontrato nel camper. Ora che lo abbiamo vissuto per venti giorni ne abbiamo scoperto qualcuno. Ci auguriamo che la Elnagh e le altre case costruttrici li ascoltino con piacere e trovino il modo di applicare miglioramenti e soluzioni là dove è possibile. Eccone alcuni:
1) perché non aggiungere una catenella al tappo del serbatoio dell’acqua? Non costa nulla. Si eviterebbe di dimenticare il tappo prima o poi da qualche parte.
2) Anche il tappo di sicurezza esterno che chiude l’aria del boiler, una volta tolto, ti rimane in mano e non sai dove appoggiarlo. Anche per questo tappo ci andrebbe una catenella.
3) E la scaletta interna? È molto gentile da parte dei costruttori fornire questa scaletta come accessorio che serve per accedere al letto a castello e al letto della mansarda, sopra la cabina. Ma questa scaletta, quando acquisti il camper, è gettata su un letto. E sembra che quello sia il suo posto naturale. Ma non è vero, perché se è concepita per usarla anche all’esterno come raccordo alla scala fissa posteriore che porta sul tetto, vuol dire che si sporcherà di fango, di sabbia, di acqua, o altro. Allora come posso pensare di metterla sul letto? Lo spazio vuoto sopra gli armadi sarebbe l’ideale dove sistemarla, ma non è sufficiente per contenerla. Noi abbiamo risolto il problema con due tasselli infissi sul legno degli armadi. Due corde elastiche intorno alle estremità della scaletta consentono di fissarla comodamente senza che più ingombri tra i piedi. I due tasselli e i due elastici potrebbero essere forniti e sistemati pronti all’uso già dal costruttore.
4) Nel retro del camper è previsto il montaggio del portabici, cosa che molti normalmente fanno. Perché allora la finestra del bagno è a pantografo? La finestra a pantografo ha bisogno di un ampio movimento verso l’esterno per poterla aprire e richiudere, ma le biciclette impediscono questo movimento. Se malauguratamente la apri, anche solo di un centimetro per far circolare un po’ d’aria, quando hai le bici montate non riuscirai più a richiuderla! Dovrai slegare le bici, toglierle e rimontarle, se vuoi richiudere la finestra. Ne risulta che la finestra del bagno resta sempre chiusa quando hai le bici. Dunque non deve essere assolutamente a pantografo, ma del tipo che si apre lateralmente (come quella della cucina) o con i pomelli che si stringono, come quella della mansarda sopra la cabina di guida.
5) Non ci vuole nulla a dotare il camper di due manigliette di sicurezza poste sulla porta posteriore, una in alto e l’altra in basso della serratura. Lasciando il camper incustodito si mettono quelle due chiusure, si scende dal lato cabina, e si va in giro un po’ più tranquilli.
6) I ripiani dello spazio cucina sono davvero esigui nel Big Marlin. Abbiamo sistemato un ripiano ruotante su cerniera per potervi appoggiare i piatti, e richiuderlo verso il basso quando non serve. Un ripiano simile potrebbe già essere previsto e montato dalla casa costruttrice.
7) I lavandini dovrebbero avere il buco di scarico nella parte centrale con il fondo leggermente inclinato. In caso di sosta non perfettamente orizzontale l’acqua si ferma nel lavandino. Il rubinetto inoltre dovrebbe essere snodabile in modo che il getto d’acqua possa giungere in ogni angolo.
8) La lamiera che si mette a fianco del fornello per riparare la fiamma dal vento, è ingombrante. Occorrerebbe escogitare un sistema più pratico.
9) A volte può capitare di fare rifornimento d’acqua con un secchio, direttamente attraverso il serbatoio sotto il sedile. Ma sollevando la tavola che lo ricopre non c’è un gancio, un’asta, un qualcosa che la tenga sollevata. Bisognerebbe aggiungerla per poter fare comodamente questa operazione.
10) La scaletta esterna per salire sul tetto è corta. Occorrerebbe aggiungere semplicemente un gradino, o due, per poterla usare comodamente senza ricorrere al prolungamento della scaletta tenuta sui letti all’interno.
11) Gli sportelli dei mobili interni e i sedili sono troppo alti: come se il costruttore avesse considerato che l’altezza media di una persona è di un metro e ottanta centimetri. Mia moglie non rientra in quella media. Nemmeno io. Ma sulla punta dei piedi io ce la faccio. Ho dovuto aggiungere una piccola pedana, un rialzo che consente a mia moglie, anche se ancora non comodamente, di accedere ai piatti e alle provviste.
Non potrebbe l’Elnagh aggiustarmi la moglie facendola quaranta centimetri più alta?
12) Il corridoio di accesso alla cabina è troppo stretto. Basterebbero un paio di centimetri in più per rendere comodo il passaggio.
13) Il carico massimo di 650 kg che può portare un camper è ridicolo. Per un camper omologato per sette posti è una vera contraddizione. Un gruppo di sette amici che vuole fare una sortita a una festa della birra, o a un ballo, pesa già da solo 500 Kg. Aggiungiamo le bombole del gas per fare il caffè, un po’ di provviste, 100 litri di acqua nel serbatoio, un ricambio ciascuno di biancheria, sette spazzolini da denti, il pieno di diesel, e tutte le altre cose importanti (attrezzi, estintore, cric, veranda, bottiglie di acqua potabile e vino, una chitarra, un jembè, etc). Arrivare a 1000 Kg è cosa da niente. È un problema generale che andrebbe risolto. Ma questo già tutti lo sanno.
PRIMA CHE IL PESO DEGLI ANNI
INNALZI LE SUE NOSTALGIE
Ho trovato Bruno al telefonino. Ci diamo appuntamento per l’ora di pranzo a Chiasso in un ristorante all’interno di un grande centro commerciale. Bruno è stato in Croazia con i suoi figli. Si è trovato benissimo e si è molto divertito. È un carissimo amico d’infanzia Bruno, compagno di molte avventure. In gioventù, studenti entrambi a Torino, lui ha abbandonato gli studi di medicina, io quelli di ingegneria. Da quando vive e lavora a Chiasso come groupier al Casinò (e sono molti anni) non ci siamo più frequentati. Il lavoro, la famiglia, la geografia, ci hanno separati. Ora che ho il camper non sarebbe male combinare un paio di giorni una volta ogni tanto e andarcene via, io e lui, come un tempo, in giro da qualche parte a fare filosfia e baldoria insieme. Prima che il peso degli anni costruisca e innalzi le sue nostalgie.
Reno è ormai giunto a Rimini, senza problemi. Beh, era nell’aria. La relazione con la sua compagna sta andando a rotoli. È ormai sicura la separazione.
I cartelli, nelle autostrade della Danimarca, segnalano gli autogrill e tutti i servizi offerti: se c’è lo scarico per i camper, se c’è la benzina, il ristorante, i bagni. In Italia un cartello con disegnata la pompa di benzina ti segnala l’autogrill, una tazzina di caffè ti segnala il bar, due posate parallele e un piatto ti segnalano il ristorante, un letto ti segnala l’albergo, una chiave da meccanico ti segnala l’officina. Ciò che non manca mai nei cartelli italiani è l’elenco delle carte di credito che nell’ autogrill vengono acccettate per il pagamento. Mercoledì 4 settembre. Siamo giunti all’autogrill di Crocetta Sud, vicino casa. C’è un cartello che indica la possibilità di scaricare le acque grige e nere del camper. Non ci posso credere. Da Como a qui non ne abbiamo trovato nemmeno uno. Ci siamo fermati apposta in molti autogrill per controllare se questo servizio esiste, e in che misura. Praticamente non esiste. Sì insomma, una goccia d’acqua nel deserto. In Italia c’è bisogno di stampare una guida! Una guida con l’elenco dei luoghi dove i camperisti possono scaricare le acque nere e grigie! In Danimarca, questi luoghi trovandosi ovunque, non hanno bisogno di stampare una guida. E sono tutti gratuiti. Al servizio di chi viaggia. Seguiamo il cartello per andare a scaricare a Crocetta Sud. Ma una barriera impedisce l’ingresso alla piazzuola. Chiedo al benzinaio come mai. Il benzinaio mi parla di collaudi che non hanno fatto, che dovevano venire, ma non sono mai venuti, che da tre anni è così, non ne so nulla è lì da tre anni, ma è chiuso, non so cosa dirle. Da tre anni dunque nell’autogrill di Crocetta Sud in provincia di Asti esiste la piazzuola per lo scarico delle acque dei camper, ma non l’hanno mai messa in funzione! E ora sta andando in rovina.
Affiora una grande nostalgia della Danimarca. Monta prepotente una rabbia con voglia sadica di spargere acqua grigia e merda sull’asfalto di questo nostro paese che spesso è una vergogna. I sorpassi delle auto sfreccianti mi passano rasenti. Suonate di clacson, gesti di vaffanculo perché per un momento ho guidato troppo vicino alla linea bianca di mezzeria. Siamo rientrati in un vortice di insulti, di prepotenza, di menefreghismo, di nebbia triste e autunnale, di barriere-mostro caselli autostradali a pagamento generatori di code infinite specialmente d’estate. E dopo qualche giorno riprese le attività di sempre andando a Torino e a Chieri per lavoro il ritmo frenetico il rumore gli allarmi ovunque gli antifurti scattano da soli acuti e lunghi e perforanti traffico caotico aggressivo che inquina le orecchie ed il cervello gente in preda solo a voglie di potere e venditori pressanti già martellano i ritmi della città già scalfiscono la memoria dei luoghi visitati.
Mi chiedo a cosa serve viaggiare.
A volte solo per raccogliere tristezza.
E poi, sono sicuro, fra qualche mese avrò dimenticato anche la parola smørrebrød che ora mi sembra così familiare e facile.
Quanta nostalgia della Danimarca, del silenzio, della pacatezza dei danesi, della loro gentilezza. Ci vorrà qualche mese quest’anno prima di accettare la frenesia senza sosta e gli abituali ritmi incalzanti della città. E questo clima umido e desolante di Torino.
Siamo già entrati in uno stato di depressione.
Mi chiedo a cosa serve viaggiare.
Aver scritto questo resoconto, aver preso appunti durante il viaggio, sì, forse mi aiuterà a ricordare un po’ più a lungo. E se dovessi dimenticare del tutto potrò rileggere quello che ho scritto. E ricordare di nuovo, forse.
È vero, se non altro ho raccontato.
È vero, siamo ritornati a casa con una grande quantità di spunti per il nostro lavoro con i bambini. Ma mi chiedo comunque a cosa serve viaggiare.
Fra non molto comincerò a confondere il tempo, i luoghi, i fatti.
A cosa serve viaggiare?
Voglio consolarmi. Voglio consolarmi con i versi dell’Hàvamàl.
I versi che Odino in persona ha donato agli uomini.
Solo chi viaggia
e conosce terre lontane
sa capire
lo spirito e la mente
di ciascuno.
Costui è un vero saggio.
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