di Giada Franco –
Un tripudio di colori, sorrisi gratuiti ma grezzi, forme dei paesaggi in continuo movimento e mai piatti. In Guatemala si intravede un forte tratto ancestrale nelle chiese dai tetti crollati, negli abitanti con gli zigomi alti e la statura bassa riconducibili alle origini Maya, nei vestiti tradizionali che le donne indossano per andare al mercato.
Ma questo paese è anche internazionale, con tanti anglosassoni che lavorano nei bar delle città più grandi, menù incentrati su diete eco friendly, vegane e gluten free e servizi che permettono ai turisti di godersi la vacanza senza pensieri.
Quando ho deciso di andare in Guatemala mi ero appena lasciata con il mio ragazzo dopo cinque anni di relazione. Non avevo le idee chiare su niente, se non sul fatto che tutto ciò che volevo erano nuovi stimoli. Mi trovavo in Honduras già da due mesi per motivi professionali e proprio per le rigide tempistiche lavorative, non ero riuscita a visitare il paese come avrei voluto. Dunque, ho pensato di godermi il Guatemala come non ero riuscita a fare con l’Honduras, anche al fine di una riscoperta personale.
Avevo deciso di concentrare il viaggio su due tappe guatemalteche principali, ossia la città di Antigua Guatemala e il lago Atitlán. Tuttavia, per arrivare alla prima destinazione era necessaria una sosta per spezzare più di dieci ore di viaggio. Per questo avevo deciso di fermarmi una notte a Copán, una delle città più a sud del centro America abitata in antichità dal popolo Maya. È ancora in territorio honduregno, ma dista solo poche decine di minuti dal confine con il Guatemala.
Così a fine marzo sono andata a La Ceiba, la terza città più grande dell’Honduras, sono salita sul pullman e sono partita. L’istinto mi ha guidato lontano da La Ceiba e dalla mia relazione appena conclusa, fino alla città di Copán.
Dopo un’accoglienza gradevole da parte dell’albergatrice, ho passato il pomeriggio a girare il centro città. La piazza centrale, il Parque Central, era animata da famiglie spensierate e adolescenti vivaci. I sorrisi dei venditori di frutta seduti negli incroci con le mogli e i figli mi accompagnavano mentre salivo e scendevo per le vie. Copán mi ha ricordato una San Francisco raccolta e rurale, macchiata di terra ma con la vitalità di chi conosce bene l’aspetto faticoso dell’economia e del lavoro.
A un quarto d’ora a piedi dal centro città, si possono visitare le rovine dell’antica Copán e io la mattina seguente sono andata a vederle.
Sono stata graziata, mi è capitato Modesto Lazaro come guida, un signore di circa sessant’anni dall’aspetto minuto e gentile e che aveva studiato l’italiano da autodidatta. Con delicatezza e rispetto, mi ha guidato per le ruinas, mostrandomi le statue del tredicesimo re, governatore che lui descriveva come egocentrico. Mi ha fatto salire le scale delle piramidi raccontandomi che la parola Maya viene da maza e il suo significato ‘figli di mais’ si deve alla leggenda per cui le divinità avevano creato gli uomini con la farina di mais nero.
Modesto e io camminavamo fianco e fianco, lo aspettavo mentre salivamo gli scalini per vedere le case delle mogli del re. Lui pazientemente assecondava la mia curiosità e mi informava delle popolazioni indigene che ancora oggi vivono in Guatemala. Mi ha riferito che delle trenta lingue che i Maya parlavano nell’VIII secolo ormai ne rimangono solo ventuno.
Mi ha fatto sorridere quando mi ha raccontato dell’origine della parola chocolate: quando gli europei giunsero nelle Americhe, gli indigeni li accolsero con una bevanda al cioccolato al suono di “Chocolate, chocolate!”. I colonizzatori pensarono che quello fosse il nome del beveraggio e tornando in Europa lo diffusero sotto il nome di chocolate.
In realtà, secondo Modesto, chocolate è una parola che è stata storpiata e quello che le antiche popolazioni del centro America cercavano di dire nella loro lingua era semplicemente ‘Attenti che scotta, attenti che brucia’. Chocolate.
Non so tuttora se fidarmi della verdicità di questo aneddoto, dato che in seguito mi sono informata e la parola deriva dalla lingua azteca per indicare una bevanda aspra oppure fatta di mais. Però la versione di Modesto sull’etimologia di chocolate era divertente, quindi con un pizzico di dubbio ho comunque deciso di annotarmi la sua spiegazione annuendo entusiasta.
Le ruinas erano eleganti e decadenti, erano intrise di quel fascino dell’abbandono e della sopraffazione delle dure leggi della natura. I colori predominanti erano il grigio e il verde, c’era uno strano equilibrio tra il degrado della storia e la vitalità degli alberi che crescevano imponenti intorno ai palazzi reali del re, come a proteggerli da ciò che l’uomo non riesce ad arrestare, la pioggia e lo scorrere degli anni.
Alla fine del percorso ho salutato Modesto. Gli ho confidato che il mio nome Giada in spagnolo si dice Jade, come la pietra verde. Lui mi ha risposto che la giada è molto diffusa nel centro America, tant’è che i re Maya si facevano seppellire con anelli e collane fatti con questa pietra. Mi ha stretto la mano dicendo – Ciao Giada, principessa italiana -. Se n’è andato verso l’ingresso delle ruinas, camminando adagio e lasciando che il suo bastone accompagnasse ogni suo passo.
Sono tornata in città per pranzo. Dopo aver mangiato le pupusas, frittelle a base di farina di mais e ripiene con carne, formaggio o fagioli, sono ripartita nel primo pomeriggio alla volta di Antigua Guatemala, quasi a 300 chilometri a ovest di Copán.
Sono salita su un minivan insieme ad altri viaggiatori, tra cui una coppia di argentini che si chiamavano Marcel e Paloma. Mi hanno raccontato che lavoravano in un bar a pochi passi dal centro di Antigua, un locale molto frequentato e con la musica dal vivo. Mi hanno detto di andare a fare un salto quella sera, io gli ho detto che li avrei raggiunti.
Sono andata al bar dopo cena. L’estetica del Café No Se, così si chiamava, era macabra e oscura, l’arredamento seguiva una logica religiosa discutibile con candele, crocifissi e teschi in diversi angoli del locale. Però i due ragazzi sembravano genuinamente soddisfatti di vedermi, così mi sono seduta al bancone e ho ascoltato la band che suonava. Ho chiacchierato con Marcel mentre preparava Cuba Libre e versava cicchetti di rum, mentre Paloma mi offriva come stuzzicchino una cavalletta dal gusto pungente e piccante.
Il sound soft e spagnoleggiante accompagnato dai tamburi della band, la città che non conoscevo, otto ore di fuso orario con l’Italia e il sapore dell’insetto che avevo appena mangiato mi hanno fatto sentire alienata. È stato un momento di rinascita disturbante e fiducioso e nelle settimane a venire mi sarei spesso aggrappata alla sensazione che ho provato in quel momento, quella di temere di trovarmi fuori luogo e proprio da questo disagio cogliere le opportunità che potevano condurmi a strade nuove.
L’Antigua della mattina successiva era fresca e nuova. Immaginavo che avrei camminato in mezzo a case basse e colorate, che le insegne e i menù dei bar fossero dipinti su pezzi di legno appesi fuori dalle porte. Non ero sorpresa neanche della quantità di chiese e monumenti religiosi che sapevo avrei incrociato lungo le vie principali e secondarie. La temperatura era come me l’aspettavo, calda ma non afosa. Gli alberi del Parque Central, la piazza principale, erano in fiore e coloravano di lilla il candore dei palazzi che li circondavano.
Ciò che non credevo possibile era che Antigua potesse essere così internazionale. Per le strade vedevo orde di ragazzi biondi che parlavano in olandese o inglese. Spesso anche nei ristoranti, i tratti somatici dei camerieri non rispecchiavano quelli degli autoctoni e i nomi impressi sulle targhette svelavano nazionalità lontane da quella guatemalteca.
A prescindere che fossero forestieri o indigeni del Guatemala, i sorrisi non mancavano mai, dai lavoratori nei luoghi di ristoro ai mendicanti per le strade.
Erano tante le donne che con una sorta di lamento lento e sonoro mi chiedevano di comprare tessuti e mango. Indossavano gonne alte e rigide, con così tante tinte addosso che sembravano portare l’intero spettro dei colori su un unico capo d’abbigliamento. Alcune donne erano rugose e tenevano i capelli grigi raccolti in trecce lungo il petto, altre erano giovani e camminavano con un bambino legato alla schiena da una fascia e seguite dai figli più grandi che si rincorrevano.
Poco prima di scegliere un locale in cui pranzare, mi sono fermata a scattare le foto all’Arco de Santa Catalina. Mentre mi posizionavo in mezzo alla strada per avere la visuale giusta, si sono intrufolate all’interno dell’inquadratura due ragazze chiedendomi se volessi comprare una delle tante tovaglie per la mesa, il tavolo, che tenevano sulle braccia e sulle spalle. Ne ho approffittato e gli ho chiesto se potessi scattare una foto dei loro tessuti.
Una ragazza era più spavalda e più bella dell’altra, con un viso pieno e sorridente. Subito si è messa in posa stendendo tra le mani un centro tavola con lo sfondo bianco e con mille ghirigori colorati. L’altra era sfuggente, i suoi occhi lunghi e stretti raramente incrociavano il mio sguardo e nella foto ha lo sguardo che scappa altrove.
Dopo averle fotografate, mi sono incuriosita e ho incominciato a toccare quei tessuti che pesavano sui loro arti. Intanto facevo domande. Mi rispondeva sempre la ragazza che si era messa in posa, Lucky, anche per la sua amica Carolina. Mi ha sorpreso che fossero mie coetanee, avevano solo 24 anni.
Le ho chiesto se fossero imparentate e Lucky mi ha risposto che erano amiche da quando a 14 anni avevano iniziato a percorrere ogni giorno quattro ore di autobus per venire ad Antigua a vendere le tovaglie e le sciarpe prodotte dalle loro famiglie. Mi ha detto anche la cifra che pagavano ogni giorno per prendere l’autobus, 80 quetzal a testa, circa 9 euro. Sorridendo ha indicato una sciarpa e mi ha detto che proprio quella costava 80 quetzal. Ho sorriso anche io alla sua sagacia, ho deciso di accontentarla e ho tirato fuori subito la cifra di quetzal da lei suggerita.
– Hoy el autobus lo pago yo –, le ho detto e mentre mi consegnava una delle sciarpe più colorate che io abbia mai comprato, il suo volto sembrava non contenere più il sorriso.
Mi sono girata verso Carolina, che mi osservava titubante. Le ho chiesto se avesse una pulsera, un braccialetto. Mi ha risposto di no, ma i suoi occhi si sono animati all’improvviso. Mi ha detto di aspettare un momento, – Espera amiga, espera -. È corsa fino all’incrocio più vicino, dove una signora vendeva bracciali e collane. Vedevo che parlavano e si scambiavano qualcosa. Intanto Lucky sistemava le sciarpe sul ciglio della strada, appoggiandosi al marciapiede.
Poco dopo Carolina è tornata indietro, sempre correndo, e mi ha allungato tre mazzetti pieni di braccialetti. Gliene ho scelti due e le ho dato 25 quetzal in tutto. Forse ho intravisto una luce di gratitudine nei suoi occhi.
Le ho salutate entrambe e sono entrata nel ristorante più vicino, ricoperto di foto e murales di Frida Kahlo. Durante quel pranzo bevevo una horchata, una bevanda di origine valenciana a base di acqua, zucchero e la radice della pianta dello zigolo dolce.
Pensavo a Carolina e al suo essere in secondo piano rispetto all’amica, come un’ombra che sguscia fuori per ribellarsi dall’anonimato in cui è reclusa. Tutto l’atteggiamento della ragazza mi ha ricordato me stessa poco tempo prima.
Ho finito l’horchata e le tortillas di mais con il pollo e i fagioli e sono uscita. Quel pomeriggio ho visitato il Convento di Santa Clara e la Cattedrale di San José ed entrambi mi hanno colpito per un particolare in comune: la maggior parte delle strutture era senza tetto. Probabilmente la parziale mancanza dei soffitti è dovuta a un terremoto, o forse a più di uno, definiti come terremotos de Santa Marta, avvenuti nel 1773.
Gli interni dei due luoghi religiosi erano spogli, ricordavano uno stato di abbandono post apocalittico. Camminando per la Catedral, sono arrivata sul retro dove coperti da un tendone, c’erano decine di pezzi di colonne crollate e sbriciolate, probabilmente a causa delle scosse sismiche.
Ho passeggiato fino al Cerro de la Cruz, una collina a circa due chilometri e mezzo dal Parque Central su cui si erge una croce. Da lì, si può godere della vista sulla città, serrata nella morsa del paesaggio circostante su cui troneggia un vulcano.
Al ritorno, stuzzicata proprio dalla visione di quella montagna eruttiva, mi sono fermata in un’agenzia turistica e ho prenotato un’escursione per il giorno seguente sul vulcano Pacaya.
Il minivan dell’agenzia turistica è arrivato relativamente in orario la mattina seguente, poco dopo l’alba. Lo aspettavo fuori dall’albergo e salendo ho salutato gli altri turisti che già si erano accomodati sul nostro mezzo di trasporto.
Il viaggio fino al vulcano è durato circa tre quarti d’ora. Per giungere alla meta si passava in mezzo a un Guatemala meno ricco e internazionale. Sul ciglio della strada camminavano i bambini con gli zaini sulle spalle, tenuti per mano da madri giovani. I muri esterni delle case erano sì colorati ma anche chiazzati, spesso mancavano pezzi di intonaco e i cani randagi sdraiati lungo i marciapiedi aumentavano.
Siamo arrivati a destinazione, un parcheggio in cui sostavano diversi pulmini. Subito ci ha accolti Kevin, un ragazzo giovane e con le mani sporche. Ci ha detto che il nostro gruppo era una familia, dovevamo rimanere sempre vicini e aspettarci a vicenda. Non appena siamo scesi tutti quanti dal minivan, ci siamo incamminati su per una salita.
Kevin ci faceva fermare ogni venti minuti circa, illustrandoci prima la centrale geotermica, poi gli alberi di avocado e i peschi. Era simpatico, durante una pausa ha chiesto a ognuno di noi quanti vulcani pensavamo ci fossero in Guatemala. I turisti hanno detto diverse cifre: 37, 150, 20. Kevin ha confermato la risposta di una ragazza bionda. In Guatemala ci sono 37 vulcani, di cui tre attivi. Uno è il Pacaya, poi c’è il Fuego e infine il Santiaguito.
Con un sorriso impostato di chi ha già raccontato questa storia tante volte, come se lui non ne fosse neanche più il protagonista, Kevin ci ha detto che l’ultima eruzione importante del Pacaya è avvenuta nel 2010. La sua casa è rimasta distrutta, insieme a quelle di tante altre persone che vivono vicino al vulcano.
Ci ha rassicurato, ci ha detto che ormai hanno ricostruito le case, le scuole, i negozi, tutto. Ha concluso dicendo che nessuno sa quando aspettarsi una nuove eruzione vulcanica.
– Puede ser hoy, puede ser ahora –, scherzava Kevin.
Mentre con la familia scarpinavo verso la cima del vulcano, la foresta si diradava e lasciava spazio a una polvere sempre meno fina e più scura. Ci siamo fermati per prendere fiato e abbiamo salutato un pastore che attraversava il sentiero con le sue mucche.
Lo scenario davanti a noi si è aperto in poche centinaia di metri. Il Pacaya era una montagna scura. Una scia di lava colava in lontananza lungo un fianco del vulcano, il fumo bianco usciva prima sottile e poi sempre più ampio verso il cielo. Tutto intorno, nero.
Kevin parlava mentre continuavamo a salire sorprendentemente sempre più vicino alla cima. Ci raccontava che l’ultima colata di lava risaliva a cinque giorni prima e che ci stavamo camminando sopra. Mi è bastato poco per riconoscere che il caldo che aumentava veniva dal terreno, ormai brullo e pieno di crepe.
La foschia ostacolava la visione del panorama sottostante e ci impediva di vedere anche Guatemala City, che secondo Kevin in una giornata più nitida poteva essere visibile. Con un sorriso ha allungato a tutti noi un rametto e un paio di marshmellow, ci ha detto di inserire il dolcetto nell’estremità del bastoncino e di tenerlo tra le crepe del terreno per un minuto, in modo da farlo sciogliere.
Mentre arrostivo il mio marshmellow sulla cima del vulcano, ho riflettuto su questo Guatemala che non conoscevo, caliginoso e devastatore, lontano dalle case colorate e dai tessuti allegri appesi alle bancherelle di Antigua Guatemala.
Ho riflettuto sul magma che cinque giorni prima fuoriusciva lento e prevaricatore lungo il fianco del Pacaya ed era ancora sotto di me a surriscaldare le suole delle mie scarpe. Ho riflettuto su Kevin e sulle sue unghie lercie che probabilmente non si liberavano mai di della polvere grigiastra che qualche anno prima aveva seppellito la sua casa.
Dopo una decina di minuti, Kevin ci ha sollecitati ad avviarci sulla strada del ritorno, i gas caldi che trapelavano dal terreno ci potevano sciogliere le scarpe. Non sapevo se stesse scherzando o meno, ma il calore che proveniva del terreno era tale per cui nessuno di noi turisti ha dubitato più di tanto.
Poco prima di iniziare il percorso in discesa, mi sono fermata a fotografare una signora. Sostava nell’ombra di un albero solitario, l’unico per ancora centinaia di metri. La chioma della pianta era ampia e l’ombra che creava era tonda e vasta.
La signora era vestita di stracci, non capivo se il viso rugoso fosse segnato dal sole o dalla polvere. I capelli neri con poche ciocche argentate indicavano che non era poi così avanti con l’età. A modo suo era bella, di una bellezza tribale e arcaica. Di fianco a lei, riposava un cane, un meticcio dal pelo scuro e di taglia media.
La signora vendeva frutta già porzionata in sacchetti di plastica, ananas e mango principalmente, poi arance e bottiglie di acqua. Ho comprato un sacchettino di mango. L’ho salutata sorridendo e lei ha ricambiato.
La discesa è stata più semplice rispetto all’andata. Nel viaggio di ritorno, quasi nessuno nel minivan ha parlato fino all’arrivo ad Antigua, stanchi da questa scarpinata.
Arrivati in città, ho salutato la mia familia e ho pranzato con un piatto di nachos, guacamole e queso, formaggio. Sono partita poco dopo su una navetta che mi avrebbe portato a San Pedro La Laguna, uno dei tanti pueblos che sorgono lungo le rive dell’Atitlán.
Sono arrivata al centro di San Pedro La Laguna verso le 19 e sono scesa dal minivan nell’incrocio principale, probabilmente l’unico del paesino.
Le strade notturne erano palpitanti, con luci neon che personalizzavano i moto taxi, festoni appesi da una parte all’altra della via, insegne dei bar dipinte a mano. Tutto era vitale, frenetico e formicolante.
San Pedro mi ha dato subito un senso di ospitalità, anche grazie a Domingo, l’autista del moto taxi che mi ha accompagnata all’albergo. Aveva 18 anni e parlava con una voce calma anche sopra allo schiamazzo delle vie serali. Mi ha subito avvisato che se avessi voluto uscire per cena, non avrei dovuto fare più tardi delle 22, orario in cui la polizia cominciava a scarseggiare e in cui la criminalità rischiava di aumentare.
Arrivati all’albergo, mi ha mostrato una foto della sua compagna che presto sarebbe diventata sua moglie. Ho pensato che fossero teneri lui e la sua ragazza, che in poco tempo si sarebbero uniti in matrimonio. Ho salutato Domingo, promettendo di richiamarlo l’indomani.
La camera d’albergo era spaziosa, con due letti matrimoniali e un balcone che si affacciava sul lago. Ho preso una coperta dall’armadio, sono uscita spegnendo la luce della camera, mi sono seduta sulla poltrona che era già posizionata fuori e ho guardato il cielo.
Se nel bar di Antigua in cui lavoravano Marcel e Paloma mi ero sentita fuori posto, nel balcone dell’hotel di San Pedro La Laguna intuivo di essere un incastro giusto. Pensavo alla scia di lava del Pacaya che bruciava la terra vecchia per poter poi diventare uno strato nuovo. Pensavo a Carolina, a come mi si sottraeva e al suo ringraziamento silenzioso. Pensavo a Domingo che si sposava a 18 anni, a Kevin che ricostruiva la sua casa, al mio ex che non avevo più sentito dopo aver chiuso la telefonata con lui circa un mese prima.
La mattina seguente ho chiamato Domingo e lui è arrivato poco dopo per portarmi all’incrocio principale. San Pedro La Laguna di giorno era abitata da uomini impazienti che attraversavano la strada e si parlavano ad alta voce da un negozio all’altro, da donne che preparavano tortillas di farina di mais e carni varie con cui riempirle, da turisti con i rasta che indossavano pantaloni con il cavallo basso.
Alcune bancarelle erano allestite da globe-trotter di etnie differenti che si cimentavano in artigianato vario, come Gala. Era argentina e aveva movenze raffinate e composte. Mi ha detto che ogni tre o quattro mesi si trasferiva in un paese diverso del centro o sud America, in cui raccoglieva le diverse tipologie di sabbie colorate con cui poi decorava le collane che creava e vendeva in giro per il continente.
Ho preso il barchino per avviarmi a San Marcos La Laguna. La giornata di sole sicuramente era complice nell’illuminazione magistrale del paesaggio del lago Atitlán. Le silhouette che avevo intravisto nel buio della notte precedente erano precise, tre vulcani, di cui due quasi sovrapposti, dai contorni netti e imponenti. Erano il Toliman, il San Pedro e l’Atitlán.
Arrivata a San Marcos, sono rimasta sorpresa di come questa rinominata località non era altro che una via. Sui lati della stradina erano appesi tappeti dalle tinte scarlatte, turchesi e ocra. All’ombra si riposavano cani dal pelo lungo e di taglia grossa. Tra un locale e l’altro, tutti bar o centri di yoga, incontravo uomini dai tratti indigeni che indossavano i tipici abiti dei Maya, oppure artigiani di incerte origini mediorientali che creavano collane con pietre semi preziose.
Non ho resistito quando ho visto il negozio di cioccolato. Sono stata rapita da Melissa, una ragazza prosperosa e dal viso lineare. Mi ha illustrato tutti i passaggi del processo di trasformazione del frutto del cacao fino al prodotto finale, che potesse essere in barrette di cioccolato, infusioni o creme per il corpo. Mi ha fatto assaggiare cioccolato che non sapeva di cioccolato, era amaro come pochi altri alimenti assaggiati prima di allora. Quando mi ha allungato una tazza con una bevanda densa al cioccolato, ho sorriso. Ho ripensato a Modesto Lazaro, ai Maya e all’avvertimento chocolate.
Mi sono fermata in un bar dall’aspetto similare agli altri, hippy e incline a culture religiose orientali. Era uno di quei posti in cui dovevi toglierti le scarpe prima di entrare e in cui quando andavi in bagno, per scaricare dovevi raccogliere l’acqua dall’interno di un grosso contenitore con un secchio e svuotarlo nel gabinetto. All’interno del locale girava il cane della titolare, un Jack Russel di nome Avocado, che si è accucciato ai miei piedi mentre scrivevo e mentre bevevo un tè freddo a base di latte di mandorla e tè matcha.
San Marcos La Laguna è uno di quei posti in cui non ti senti giudicato, in cui ti lasci andare e osi, in cui il tempo sembra dilatarsi. I colori dei luoghi e l’armonia convergono tutti in un’unica stradina, lunga qualche centinaio di metri. È difficile apprezzare San Marcos senza un’apertura mentale anche minima, senza un interesse verso i particolari e per una visione d’insieme che può arrivare ad essere magica.
Mi è dispiaciuto riprendere il barchino per spostarmi verso Santiago, un altro paesino del lago. In una ventina di minuti, il paesaggio si è trasformato completamente. La pace di San Marcos è stata rapidamente sostituita dal caos di quella che poteva sembrare una grande metropoli, racchiuso in una superficie di 136 km² e con poco più di 32.000 abitanti.
Mentre cercavo un posto per pranzare e girovagavo per Santiago, mi passavano pericolosamente vicini dei pick up i cui cassoni erano delimitati da sbarre di metallo e su cui stavano in piedi una decina di persone. L’orchestra di clacson delle macchine e dei moto taxi che mi tenevano in allerta rimpiazzavano le note delle percussioni e dei flauti che poco prima nel bar di San Marcos mi rilassavano. C’erano tanti edifici in costruzione, i cui operai mi perforavano con gli sguardi indiscreti e patriarcali mentre scattavo timide foto ai baracchini che vendevano frutta.
Dopo un pranzo fugace con un panino a base di berenjena, melanzana, sono andata a San Juan La Laguna. I dipinti che straripavano dalle porte dei negozi e i murales che troneggiavano lungo i muri dichiaravano l’anima artistica di questo pueblo. Mi sono persa in quadri che ritraevano scene di vita contadina, agricoltori che raccoglievano pannocchie di mais o donne che tessevano.
Felipe, un pittore che sorrideva a scapito dei suoi denti mancanti, mi mostrava con orgoglio il dipinto ancora in corso, le cui tempere gli tinteggiavano le dita.
– Estan borrachos -, mi ha indicato i contadini raffigurati che dormivano assopiti sulla panchina.
– Sono ubriachi e dormono? -, gli ho chiesto io con uno spagnolo stentato e con un accenno di rimprovero.
– Yo duermo siempre cuando estoy borracho.
L’ipnosi di questi colori accentuati e di queste forme vorticose mi hanno condotto a Joselyn, un’adolescente di 15 anni. I suoi dipinti erano più cupi rispetto agli altri, le figure longilinee dipinte di schiena trasmettevano inquietudine. Mi piacevano questi soggetti e mi incuriosiva il fatto che venissero dalla mente di una ragazzina dall’aspetto inerte e puerile, con ancora indosso la divisa della scuola.
Con Joselyn avrei chiacchierato tutto il pomeriggio, la sua indole curiosa mi tempestava di domande sull’Italia, sulla riviera romagnola durante la stagione estiva e sulla pizza Margherita. Quando me ne sono andata, i suoi occhi neri si sono assopiti e contrastavano con i quadri che la accerchiavano, incombenti e pressanti con la loro colorazione eccessiva.
La mattina seguente l’ho dedicata al mercato. Mi soffermavo sulle mani poco raffinate della signora che mi vendeva il caffè e sulle mosche che gravitavano intorno alla carne bovina tagliata dai macellai. C’erano ragazzi sorridenti e curati che mi permettevano di scattare foto alla frutta esposta in maniera ordinata e linda, altre donne si giravano di profilo pur di evitare il contatto visivo con la mia macchina fotografica. Ho salutato un bambino, avrà avuto meno di un anno, seduto da solo a terra e controllato dagli occhi timidi e poco guardinghi di quella che poteva essere la sorella maggiore, a qualche panchina di distanza.
Sono ripartita dopo pranzo con una navetta che mi ha riportato ad Antigua. L’autista mi ha intrigato, più gli parlavo in spagnolo più mi rispondeva in un inglese stentato. Mi ha raccontato che parlava fluidamente solo lo tz’utujil, una lingua Maya; aveva vissuto in Texas per otto anni, il suo dolce preferito era quello alle banane ed era sposato con una dicianovenne, di ben sedici anni più piccola di lui. Mi ha assicurato che fosse un’usanza consueta per alcune comunità del Guatemala, io ho cercato di non far prevaricare i miei pregiudizi e ho accettato la sua spiegazione.
Ho passato la mia ultima serata ad Antigua nel bar in cui lavoravano Paloma e Marcel. Li ho salutati e gli ho augurato buon lavoro. Il giorno dopo sono poi ripartita per San Pedro Sula, città dell’Honduras settentrionale da cui avrei preso l’aereo per tornare in Italia.
Sul volo fino a Miami e poi fino a Milano Malpensa, avrei rivissuto spesso l’esperienza del Guatemala. Anche nelle settimane successive, mentre avrei cercato di riabituarmi al traffico milanese della circonvallazione e al grigiore dei grattacieli di piazza Gae Aulenti, avrei ripensato ai sorrisi sdentati degli anziani che mi vendevano strumenti musicali nel Parque Central in Antigua Guatemala. Avrei sorriso per strada agli sconosciuti come ero abituata a fare con i discendenti dei Maya, mi sarei chiesta cosa avrebbe pensato Modesto Lazaro delle colonne di San Lorenzo e se a Lucky e Carolina sarebbero piaciuti i negozi dell’alta moda in Via Montenapoleone. Il mercato di Sant’Agostino mi avrebbe fatta sentire per un attimo vicina agli agricoltori di San Pedro La Laguna, con i venditori marocchini che mi complimentavano purché io comprassi i loro avocadi tosti e le loro anemiche radici di manioca. Immaginavo che le Alpi che si vedono da Cologno Monzese avrebbero stupito Kevin, le cime ancora innevate anche in primavera inoltrata.
Milano è stato un drastico ritorno a una realtà che non volevo più affrontare, una realtà distante e che dopo mesi si è rimpossessata di me con austerità e freddezza. La città mi ha accolto come farebbe un genitore severo con la figlia adolescente che torna a casa dopo essere scappata con il musicista di una rock band di cui si era infatuata. Sono rimasta con il rammarico della perdita di un mondo più genuino e sincero, sola con i borghesi che camminano con la testa alta ma vuota. L’unica amara dolcezza che mi rimaneva era ricominciare da capo anche a Milano, prendendo questo germe di libertà che avevo coltivato in Guatemala e annaffiarlo anche in Italia.
Quando raccontavo del Guatemala ad amici e familiari non ho reso giustizia a un paese che sa essere accogliente nonostante le sue ferite profonde, dettate da povertà e disastri naturali. È complicato spiegare gli sguardi dei venditori ambulanti, dei contadini, dei macellai, dei baristi, dei camerieri che cercano sempre di elargire energia positiva. I colori delle stoffe che tessono e le vernici che ricoprono i muri esterni delle case sono come un cerotto che tenta forse maldestramente di proteggere un popolo fiero, lacerato sin dal XVI secolo a causa dell’arrivo di colonizzatori europei.
È toccante inoltrarsi tra i Kevin e le Joselyn, le Caroline e i Felipe, o anche le signore anonime che vendono mango sotto a un albero dimenticato. È bello alzare un po’ il cerotto e lasciarsi contagiare da questa piaga che sgorga di cortesia e ospitalità, ma anche di criminalità e miseria. È bello il Guatemala con i suoi colori e con i suoi dolori.
Complimenti: scrivi con uno stile personale, asciutto e intenso, capace di far conoscere (e vivere dal di dentro) luoghi, paesaggi, volti, suoni, colori, odori, anche a chi non è mai stato in Centro America.
Grazie a te ora ho viaggiato un po’ in Guatemala anch’io.
Bellissimo racconto. Brava nel descrivere il paesaggio e personaggi, mi sembrava di percorrere quei posti man mano che leggevo.