di Chiara Milanesi –
Quelli che seguono sono gli appunti che ho preso nel corso di un viaggio a cavallo tra Cambogia, Laos e Vietnam effettuato durante le vacanze del Natale 2003. Tornata a casa li ho ricopiati, aggiungendo qualche indicazione per rendere più evidente il percorso. Poiché non faccio fotografie essendo pessima come fotografa e pigra come persona tento di ricordarmi i luoghi come posso. Non potendo mostrarvi delle foto, dunque, né tediarvi con i miei racconti infiniti, vi invio quanto segue. Non ci troverete dinamiche di gruppo particolari, perché, per ragioni personali, ho voluto estrarre tutto quanto riguardava la compagnia delle persone con cui ho intrapreso questo viaggio. Ci troverete impressioni. Tante impressioni superficiali.
Venerdì 26 dicembre …dall’aereo Parigi/Ho Chi Minh
La storia non cambia granché. Sempre e comunque a farmi vibrare sono i nomi. La compagnia aerea oltre a mostrare decollo e atterraggio in soggettiva, ovvero riprodurre su uno schermo quello che vede il muso dell’aereo – il pilota, credo, spero!, si affidi agli strumenti di bordo – offre ai passeggeri e per tutta la durata del volo il percorso esatto che l’aereo sta compiendo. Per tutta la durata del viaggio sono affascinata dalla carta geografica – verde per le pianure, blù per mari e laghi, marrone per deserti e montagne – e la studio nei dettagli. Sorvoliamo la zona del Mar Caspio, Baku, Tashkent e il mar d’Aral che si intravvede di sbieco. Poi Quetta, Kandahar, Kabul, quest’ultima appena sfiorata. La sagoma dell’aeroplano riprodotta sulla carta si muove a scatti. Si avvicina alle montagne più alte del mondo. L’aereo le lambisce, muovendosi leggermente più a sud. Sorvoliamo Patna e Nalonda, che, a loro volta, sono tra Varanasi e Calcutta. Nomi. Nomi evocativi.
Il percorso che ci porta a Ho Ci Minh, che continuerò a chiamare Saigon, attraversa il braccio di mare che è la Baia del Bengala, sorvola Rangoon per planare poi sul delta del Mekong.
Stranamente stavolta non ho paura di volare. Non so se ha a che fare con il mio personale riconciliarmi con la morte, o col fatto che l’aereo balla pochissimo e soprattutto a ritmo regolare.
Dopo un primo vocio confuso al decollo, ora nell’aereo c’è silenzio. Prima c’era un rumore di eccitazione gutturale. Suoni di lingue che mi ricordano “Il cacciatore”, la scena di De Niro che si punta la pistola alla tempia, o la scena del sampan sul Mekong nel film di Coppola. Le hostess vietnamite sono antipatiche, poverine, antipatiche e stanche.
Penso che un tempo i viaggi mi facevano sognare più di quanto non facciano ora anche se guardo affascinata le ragazze che ci servono il caffé in abito lungo rosso bordeaux, i loro gesti graziosi e automatici, e la vecchia, la vecchia seduta dietro a Jean Michel che si è rattrappita e riesce a farsi contenere tutta da due sedili. Non so proprio come faccia ad allungarsi su due sedili, ma lei lo fa. Intuisco che i popoli che incontrerò si accontentano acrobaticamente di poco spazio. Indubbiamente, un vantaggio. La vecchia ha un foulard di nylon trasparente sulla testa e quando si sveglia mi guarda e mi sorride. Non so perché la vecchia mi sorride, né perché io sorrido a lei, non abbiamo più tanti anni di differenza, io e la vecchia, ma lei la chiamo “vecchia” e me invece mi dico “giovande donna”, ancora “giovane donna”…
A Saigon attendiamo il volo per Phnom Penh. In prossimità della sala dei passeggeri in transito c’è un istituto di bellezza dove praticano il massaggio dei piedi. Sulla chaise longue su cui mi fanno adagiare mi addormento mentre un ragazzo silenzioso e preciso mi massaggia le estremità per un’ora al prezzo fisso di 5 dollari. Scivolo nel sonno pensando che il paradiso, in questi posti lo svendono a prezzi modici.
Phnom Penh 28.12.03 – domenica
Ieri sera non riuscivo a dormire. Non riuscivo a dormire perché temevo che le impressioni, le prime, quelle che contano e sono sempre sbagliate, fuggissero via.
L’Africa, per esempio. La sensazione di Africa che mi ha preso non appena sono scesa dall’aereo, anzi quando ancora in volo ho guardato giù e tutto dall’alto sembrava un deserto, un deserto di sabbia punteggiato da palme. Mi aspettavo il verde intenso della vegetazione intricata raccontata nei romanzi e nei film e invece la prima immagine di quella che fu la Cocincina è beige.
All’aeroporto ci viene a prendere Tareth, un amico di Daniel, o meglio, il suo vecchio autista dei tempi in cui a Phnom Penh lui era di casa. Nella ripartizione dei ruoli che venne fatta durante il regime di Pol Pot lui fu guardia. Fu cioè dalla parte indubbiamente sbagliata. Ma lo racconta in modo piatto e senza nessuna traccia di emozione. Pare che qui, in Cambogia, i quaranta/cinquantenni siano ripartiti alquanto disegualmente tra vittime e torturatori. Sono più numerosi i secondi dei primi. Pare. Ed è perfettamente logico perché le vittime, il più delle volte, il loro ruolo l’hanno recitato sino in fondo.
Tuol Sleng, era un liceo, trasformato dai Khmer rossi in centro di tortura e sterminio, e ora in museo del genocidio. Non sono stati i cambogiani a volerlo, pare, ma i vietnamiti. Sono loro, i vietnamiti, che spingono i cambogiani a ricordare. Migliaia e migliaia di fotografie. Uomini, donne, ragazzi, ragazze, bambini che guardano l’obiettivo con le braccia strette dietro la schiena, gli occhi allucinati, un numero di immatricolazione appuntato sul petto.
A Tuol Sleng ci arriviamo, Claudio ed io, la mattina presto. Alle sette siamo già dentro. Ci arriviamo sul sellino di una motocicletta. Ognuno di noi ha il suo motociclista. Loro dicono che ci aspettano fuori, ma poi il mio autista mi raggiunge dentro al museo e passeggia assieme a me. Suo padre, mi racconta, è morto pochi mesi dopo la caduta di Pol Pot. Dice in inglese che era stremato e non ce l’ha fatta. Lui, aggiunge, non l’ha mai conosciuto. Ma sa con certezza che a Tuol Sleng non c’era mai finito. Lo avevano trasferito al nord, in campagna a lavorare mais e riso. Lo avevano trasferito a nord perché abitava in città nei quartieri nord. La città era stata divisa in quattro, mi dice. Quelli dei quartieri nord andavano a nord, quelli dei quartieri est a est, eccetera. Semplice ed efficace.
Un cartello riporta il decalogo del prigioniero. Regola N°3: “Non fare l’imbecille perché tu sei l’uomo che si oppone alla rivoluzione”. Regola N°4: “Rispondi immediatamente alla mia domanda senza riflettere”. Regola N°5: “Durante le bastonate o l”elettricità è vietato gridare forte”. Ricopio sul quaderno le regole con la matita.
A Tuol Sleng sono state sommessamente torturate e assassinate ventimila persone. Sette i sopravvissuti, tra cui un pittore che ha dipinto poi la vita del carcere. I suoi quadri sono esposti al museo, nella sala che precede quella in cui, all’interno di vetrinette, stile cerusico seicentesco, sono impilati centinaia di teschi. Quasi tutti hanno la scatola cranica fratturata. Leggo che i prigionieri venivano uccisi a colpi di piccone o di martello. Tra i guardiani, le cui fotografie sono esposte al secondo piano della scuola, le stesse facce allucinate delle vittime. Solo uno di loro è incarcerato a Phnom Penh. Gli altri vivono e lavorano in città o altrove. Come Tareth, il nostro dolcissimo autista.
Phnom Penh è una città bassa, bassa e polverosa, chiusa a oriente dal confluire di due grandi fiumi, il Tonlé Sap e il Mekong. Il Mekong, in periodo di piena cambia direzione e riversa le sue acque nel Tonlé Sap. In periodo di acque basse, nella stagione secca che è proprio quella in cui sono io, si comporta invece come un fiume qualunque e accetta di riversare le sue acque nel mare.
Lungo le strade tanti ragazzi, ragazzi e ragazze, corrono a due o a tre in motorino. Da dove escono? Dove se ne vanno? L’impressione è quella di una città dolce, una città borotalco. La vegetazione esce dai cortili delle case, chiusi da muri alti. Qua e là prati all’inglese ben tenuti e perfettamente quadrati che dividono un blocco da un altro, belle case coloniali restaurate, sede soprattutto della banche dell’Asia, brutte case coloniali lasciate andare, brutte case tout court, ma non c’è sporco anche se c’è polvere, non c’è sporco appiccicato voglio dire, pochi insetti, i gechi sul muro di questo bar da dove scrivo, l’FCCC, il Foreign Correspondent Club of Cambodia. Locale-terrazza arioso e aerato al secondo piano d’angolo di un edificio prospicente il fiume. Muri giallini, un bancone bar circolare in legno massiccio e scuro, poltrone e divani di cuoio, tavolini. Il soffitto di legno. Travi e travetti che si incrociano. Ventilatori di ferro che girano inutilmente tanto la corrente d’aria che viene dal fiume è fresca e piacevole, ma che danno al locale un’atmosfera pigra da film. I camerieri in giacca bianca servono ai clienti, per la maggior parte anglosassoni, birre e cappuccini. C’è un biliardo in una stanza d’angolo, ma vi manca una palla.
Dall’alto della terrazza guardo giù. Gente che si agita, che va e che viene. Gente che ride e parla fitto. Commercianti cinesi, pescatori vietnamiti, buddisti, qualche musulmano, malesi o cham, rari gli occidentali.
Stamattina alle sei abbiamo fatto colazione dalla terrazza sul tetto del nostro albergo, a pochi metri dall’FCCC. La città è già perfettamente sveglia e funzionante e operosa. Sulla riva del Tonlé Sap centinaia di persone fanno ginnastica, una sorta di aerobica orientalizzata al ritmo di una musica da discoteca ibizana. Tre o quattro istruttori – accreditati o selvaggi? – effettuano dei movimenti di danza sulla spalletta che divide il lungofiume dal fiume. Non guardano gli allievi. Guardano l’acqua. La gente dietro di loro, ne ripete coscienziosamente i gesti.
Al mercato, ieri al mercato-moschea situato a nord della città, non lontano dal fiume, oggi al mercato russo, pesci vivi, granchi blù, spiedini di pipistrello, montagne di cavallette fritte, e frutta e verdure, tanta frutta e tante verdure sconosciute. Loro, i venditori, sorridono con estrema dolcezza. In questo popolo che neanche venticinque anni fa si è massacrato con l’energia delle formiche operaie, non sembra albergare nessuna aggressività, nessun odio, nessuna pretesa. Una donna, una vecchia dalle gengive rosse per il betel, mi si avvicina, si mette in ginocchio e mi scongiura di darle qualche soldo. Mi alzo e mi allontano. Ho la sensazione che gli occhi di tutti siano concentrati su di me. Mi fermo. Voglio ritrovare la vecchia, sono imbarazzata, ma lei non c’è più.
Nel pomeriggio lasciamo la capitale per Kompong Cham, da cui prenderemo un battello che risalirà il fiume. D’ora in poi e per molti giorni il Mekong diventerà il fiume. L’efficiente Tareth ha affittato per noi un furgoncino che ci aspetta puntuale alle tre di fronte all’albergo. Sorride, Tareth, salutando leggermente curvo con le mani giunte davanti alla faccia.
La strada asfaltata recentemente corre verso nord tenendo il fiume sulla sinistra. Il paesaggio diventa pian piano sempre più agrario. I villaggi si susseguono contraddistinti dai tetti a punta delle pagode che sporgono dai palmeti e dai giardini che le circondano. Le case sono tutte in bambù su palafitte alte parecchi metri per resistere alla piena del fiume durante la stagione delle piogge. Sul fiume qualche piroga da pesca.
Senza che glielo si chieda il nostro autista compie una leggera diversione per fermarsi in prossimità di un complesso sacrale in pietra scura. Scopro che i bonzi – li chiamo così gli studenti vestiti d’arancione – non si fanno toccare dalle donne, chiedono soldi per continuare gli studi e vogliono a tutti i costi che gli si scriva il proprio indirizzo. Dal soffitto della pagoda centrale dove siede un grasso Buddha colorato pendono degli aquiloni dai colori pastello.
Kompong Cham (l’imbarcadero dei Cham) è un grosso borgo di pescatori a metà strada tra Phnom Penh e Kratié, capoluogo della più grossa provincia della Cambogia.
Dormiamo, unici ospiti, in un assurdo albergo stile realismo socialista. L’architetto deve probabilmente aver effettuato i suoi studi a Mosca, mi dico. Spazi enormi, corridoi che sono saloni da ballo, un ingresso che potrebbe ospitare un esercito. Prima di dormire ci dirigiamo all’imbarcadero da cui l’indomani prenderemo il battello. Da un paio d’anni il fiume è attraversato da un ponte di cemento che collega la cittadina a un’immensa foresta di heveas su cui pare sia stato girato il film “Indocina”. Anche di notte, lungo il fiume si continua a far commercio di arance, tamarindi e banane alla luce delle lampade a gas. Molte persone dormono allungate su stuoie leggermente scostate da terra da strutture di legno molto semplici. Dormono al buio ognuno con la propria radio accesa a tutto volume. Il concetto di silenzio è loro totalmente estraneo.
Kompong Cham/Kratié/Steung Treng 29/12/03 – lunedì.
Attorno al battello che mi ricorda il vaporetto Alilaguna che dall’aeroporto di Tessera raggiunge Venezia vi è grande agitazione. Uomini e donne che si trascinano dietro pacchi e borse e fagotti scendono con difficoltà la riva che porta a livello del fiume e salgono sulla stretta passerella da cui si accede alla barca. I nostri zaini vengono legati sul tetto. Scelgo di fare come gli zaini e mi accomodo anch’io sul tetto, per godermi l’aria e la vista del fiume. All’interno della cabina sparano aria condizionata a manetta e video indiani a tutto volume.
Il battello corre veloce sulle acque verdastre del fiume. Vicino a me una ragazza, Solydem, mi chiede compitamente se parlo francese, lingua che lei insegna nel villaggio a un’ora da qui. Chiacchieriamo a fatica a causa del motore e del vento che si oppongono alla conversazione. Mi chiede Solydem se ho figli, se amo il suo paese e se lo trovo povero. Mi chiede quanti anni le do. Ventitrè le dico, ma non ne ho assolutamente idea. Lei ride contenta e dice che ne ha trenta e che è single. Usa proprio questa parola: single. Dice anche che insegnare le piace. Mi indica compitamente tutti i nomi dei villaggi che sfilano su una delle due rive. Io li pronuncio assieme a lei e annuisco. Ci scambiamo gli indirizzi elettronici. Quando scende, dopo un’ora, si ferma a metà del sentiero di terra che sale sulla riva e mi fa ciao con la mano.
Man mano che si sale verso nord i villaggi si fanno sempre più rari e appaiono qua e là isole che non sono altro che banchi di sabbia. Il fiume mi ricorda sempre più la laguna dalle parti di Vignole o Sant’Erasmo. Non è come me lo immagino. Non è il Mekong che porta al colonnello Kurtz e per certi versi ne sono delusa. Il colore predominante, anche qui, è il beige della sabbia e non il verde della vegetazione tropicale.
Sul tetto bisogna ora fare attenzione a non scivolare perché il fiume si restringe leggeremente o semplicemente si divide a causa dei vari banchi di sabbia e qua e là ci sono leggere rapide che ne accelerano la corsa facendo sbandare un poco la barca. Il sole cambia continuamente di posizione. Ora è a destra, ora a sinistra, ora in faccia. Il fiume si contorce sempre più in anse, curve e mulinelli. Marie Claire distribuisce crema solare protezionetrenta. Mi cospargo faccia braccia e gambe, ma dimentico i piedi su cui la sera ritrovo, come stampata, la fotocopia dei miei sandali.
Il battello ogni tanto si accosta ad una delle due rive. C’è chi scende e chi sale. Pacchi scendono. Pacchi salgono. Mi rendo conto che l’imbarcazione su cui navighiamo funge anche da cargo postale che effettua consegne lungo le rive. Ad ogni sosta, frotte di ragazzine si riversano veloci sul pontile ad offrire cibo e bevande ai viaggiatori. Sono ancora nella fase “attenzione all’epatite”, evito ogni bevanda e per una manciata di riel mi limito a comprare un sacchettino di strani frutti dalla scorza rossa da cui fuoriescono dei tentacoli, rossi pure loro. Sono dissetanti, ricordano un poco i lichi, ma in più dolce.
A Kratié attracchiamo verso le undici della mattina. Di colpo mi rendo conto che il sole brucia.
Dicono che il battello farà una sosta di un’ora e mezzo o due. Impossibile sapere a che ora ripartirà esattamente. Calcolo al ribasso un’ora e mezza e risalgo la riva che porta alla cittadina. Camminare è un sollievo dopo le quattro ore accovacciati sul tetto.
Kratié è una piccola cittadina coloniale addormentata. Il mercato è al centro della cittadina in una piazza di pianta quadrata. Non c’è frenesia, mi sembra. Piuttosto una grande calma. Ci sediamo a mangiare un poco di riso fritto con verdure in un ristorante senza porte né pareti che costituisce uno degli angoli della piazza quadrata. Fin da Phnom Penh mi rendo conto che tutti gli angoli delle case sono tagliati di sbieco, a formare un pentagono irregolare, dolce e arrotondato. Un paese smussato ai suoi angoli…continuo a chiedermi dove se ne stia nascosta la ferocia degli anni Pol Pot.
Faccio un salto al mercato a cercare del burro cacao. Il vento del fiume secca le labbra. Indico le labbra ad una ragazza in sarong tradizionale che mi prende per mano e mi porta da una sua amica la quale mi presenta una serie infinita di rossetti coloratissimi. Faccio no con la testa e indico il bianco di un sacco di riso ai miei piedi. Le ragazze non capiscono e ridono. Forse credono che io voglia mangiare del riso e indicano il ristorante. Faccio il segno del rossetto e mimo “labbra sofferenti”. Allora capiscono, frugano all’interno di un mucchio inverosimile di mercanzie che vanno dai calzetti ai cappelli di paglia ai taglia unghie made in Korea ed estraggono il burro cacao. Poi si consultano sul prezzo. Quanto possono sparare ad una turista occidentale in vacanza? Chiedono ridacchiando l’equivalente di mezzo dollaro. Faccio il segno di un coltello che mi taglia la carotide e poi pago. Loro ridono. Ridono sempre le ragazze di qui. E fanno ciao con la mano.
Ripartiamo dopo un’ora e mezza. La navigazione, ora si fa sempre più tortuosa e difficile. Mi chiedo come faccia il pilota a ritrovarsi in questo dedalo che cambia di minuto in minuto. Neanche un anno fa, mi dice un ex professore di matematica cambogiano che ora si è convertito a guida turistica e che si sta dirigendo alla frontiera laotiana per ricevere una coppia di americani in vacanza, questa zona era ancora occupata dai khmers rossi e gli scontri con le truppe governative erano all’ordine del giorno. Oggi, l’unico pericolo è costituito dal basso fondale della stagione secca. Bisogna seguire le colonnine di pietra a forma di piccoli santuari che sporgono dall’acqua e che indicano il buon percorso. Dice che è pericoloso stare sul tetto perché ci sono le rapide ma io dentro non ci voglio andare e mi attacco saldamente ai vicini. Che, come c’è da immaginarsi, ridono contenti. A poco a poco ci inoltriamo nella foresta vergine, ora così simile a quanto immaginavo, da risultare persino caricaturale. Le rapide sono vigorose, ma appena più in là l’acqua è calma e mandrie di bufali d’acqua si bagnano sulla riva. Qualche uccello colorato si posa sui ciuffi d’erba che resistono alla forza del fiume. Ma via via che avanziamo la sensazione è quella del diradarsi della vita, umana e animale, per far posto al rigoglio di quella vegetale che non lascia spazio a nient’altro.
Arriviamo a Steung Treng verso le 16 e 30. Non è più il Mekong quello su cui navighiamo, ma il Sé Sen, uno dei suoi affluenti.
Un tempo la frontiera col Laos coincideva con questo villaggio. Ora si è spostata a circa quaranta chilometri più a nord. Siamo incerti se restare o continuare. Manca appena più di un’ora al calare della notte che scende puntuale alle 18, e pare che ad una certa ora del pomeriggio le guardie frontaliere se ne vadano e chiudano la frontiera. Cosa c’è più avanti non lo sa nessuno, mentre qui siamo sicuri che c’è da dormire e da mangiare. Ci consultiamo col professore di matematica ora guida turistica che consiglia di restare. Si vota per alzata di mano e vince il partito dei “si resta”.
Sleung Treng – Voeum Kham, frontiera con il Laos – Isola di Khong 30/12/03 -martedì
Per percorrere le ultime decine di chilometri del fiume cambogiano, in direzione con la frontiera del Laos, siamo obbligati a prendere quello che qui chiamano piroga rapida. Si tratta di una piroga strettissima e lunga dalla chiglia piatta che pesca appena qualche centimetro e con un motore cinese potentissimo e raffazzonato. Il pilota sta seduto a poppa e da manetta al motore. Noi ci stringiamo davanti a lui, le ginocchia praticamente in bocca, caschi da motociclista in testa e giubbotti salvagente arancione. In questo tratto di fiume che vedo sfrecciare veloce, inutile cercare pagode, bufali d’acqua o scene di pesca. Qui c’è solo acqua a perdita d’occhio, rocce e alberi le cui radici sporgono per alcuni metri dall’acqua assumendo forme eccentriche e contorte che indicano perfettamente il fluire della corrente. Qualche uccello colorato, qui e là tronchi di bambù che galleggiano. Neanche l’ombra dei delfini d’acqua dolce di cui ci assicurano la presenza. Se anche ci sono, il rumore infernale del motore li mettein fuga. Più avanziamo verso nord, più iniziano a disegnarsi delle colline dolci coperte di vegetazione, e per questo semplice fatto, il paesaggio muta radicalmente.
La piroga corre sulle rapide, effettua slalom arditi tra rocce e banchi di sabbia, io non sono tranquilla e mi stringo al mio vicino, il professore di matematica, ora guida turistica, che approfitta del passaggio aggregandosi a noi. Lo prendo a braccetto e lui mi dice cortese: “Je vous en prie” dandomi l’impressione di passeggiare sugli Champs Elysées.
Dietro l’ennesima ansa, il fiume si stringe di colpo, le rive si fanno altissime, e la piroga accosta sulla sinistra.
Voeun Kham. La frontiera.
Per molto tempo un passaggio vietato. Poi da un anno, più che aperto, tollerato. Ho sempre pensato che le frontiere siano brutti posti. Da sempre le frontiere mi mettono a disagio. Da sempre temo, non so perché, di esservi respinta. Questa frontiera invece non fa paura perché è irreale. Una frontiera in mezzo al nulla, un non posto, un’assurdità che sembra separare due terre di nessuno.
Saliamo a fatica la riva sabbiosa. Due capanne su palafitte all’ombra di un gruppo di palme da zucchero. Una capanna funge da abitazione. L’altra da ufficio. I doganieri indossano giacche militari aperte su shorts e t-shirts sformate e scolorite. Riempiamo dei moduli, consegnamo i passaporti. Si ride. Battute nervose. Due ragazzi australiani fanno il percorso inverso. Ci dicono che più a nord, lungo il fiume, ci sono delle cascate che formano una pozza d’acqua frizzante e movimentata su cui, dicono, ci si può bagnare. Resteranno nelle parole dei due. Non le vedremo mai.
Daniel negozia il “prezzo” del passaggio con uno dei doganieri. Si accorda su 5 dollari a testa, una bella somma in un paese in cui il reddito medio si aggira sui venti dollari mensili. Di colpo riappaiono i nostri passaporti, e si moltiplicano i sorrisi.
Il posto di frontiera laotiano è di fronte, ma sull’altra riva del fiume. Qualche capanna che offre generi alimentari, bottiglie d’acqua minerale, cappelli di paglia a cono. I doganieri laotiani stanno giocando a carte seduti per terra sotto la capanna che funge da ufficio. Visibilmente disturbati dalla nostra presenza si infilano una giacca militare e si accingono a controllare i passaporti. Il più vecchio, in un inglese stentato, mi chiede quanti soldi abbiamo dato dall’altra parte, ai cambogiani. Due dollari, mento, non so perché. Si guardano in faccia e fissano allora il balzello a due dollari pure loro.
Da questa parte del fiume mi sembra fin da subito che vi sia ancora più indolenza e lentezza. Pare che i laotiani siano i brasiliani dell’indocina, brava gente che non si scompone, che non si agita, che sorride forse un po’ meno dei Khmers, e che si tiene più dritta. Un portamento elegante, eretto, specie nelle donne, che costituisce immediatamente, ai miei occhi un tratto di distinzione evidente.
Da casa, l’Indocina mi appariva una piatta marea di facce dagli occhi a mandorla e dal naso schiacciato. I laotiani sono diversi dai cambogiani come uno svedese lo è da un calabrese. Volti più affilati, nasi più piccoli, zigomi più alti, la carnagione leggermente più scura. Le donne sono bellissime. Bellissime e altere.
A una quindicina di chilometri a nord della frontiera, il Mekong si riversa nelle impressionanti cascate di Khon Phapheng. Subito a monte si spiatarra come un lago, per una trentina di chilometri e dalle sue acque bassissime sporgono isole e isolotti. Aggiriamo le cascate via terra su un tuk tuk decorato di blù in direzione dell’isola di Khong che raggiungiamo traghettando il fiume su una piroga.
Il Sala Hotel è una guesthouse di legno che si affaccia sul fiume, circondata da un bel giardino rigoglioso. La camera è grande, e grandi sono i letti protetti da ampie zanzariere bianche. Sul pavimento di legno saltellano delle graziose ranocchie di fiume. La terrazza, disseminata di poltrone e tavolini in bambù, è protetta da enormi gechi blù e grigi che svolgono egregiamente il loro compito di divoratori di insetti. Attorno all’imbarcadero due o tre altre guesthouse, di cui una in costruzione, testimoniano del futuro turistico dell’isola. Per il momento l’atmosfera è quella di una pace totale e assoluta e assolata.
Claude Vincent è sepolto in uno stupa, nella pagoda principale dell’isola a pochi metri dalla geusthouse. Una placca bronzea in laotiano e in inglese informa che Claude Vincent è stato vigliaccamente assassinato nel 1996 sulla strada che collega Vientiane, la capitale attuale, a Luang Prabang, la capitale antica. Continua, la placca, dicendo che il Laos piange un amico. Claude Vincent era anche un grande amico di Daniel. Visitiamo assieme la sua tomba al calar della notte. Pare che Claude Vincent si fosse opposto allo sviluppo dell’isola ad opera di un consorzio cino/tailandese finanziato dai signori dell’oppio che sull’isola volevano persino costruirvi un casinò. Pare che questa sia stata la ragione dell’imboscata e del suo assassinio. Claude Vincent era buddista, mi racconta Daniel, sposato ad una principessa laotiana – ma aggiunge che quasi tutte le donne qui sono principesse – e non aveva abbandonato il Laos nemmeno quando dalla metà degli anni 70 il paese era diventato il teatro di una guerra non dichiarata. Il figlio si è fatto monaco e vive nel nord, in un monastero. La moglie gestisce una guesthouse a pochi chilometri, sull’altipiano di Bolovan. Dalla pagoda principale ci giunge il canto serale dei monaci. Una tecnica antica permette loro di cantare in continuo senza mai tirare il fiato ma respirando attraverso il naso e emettendo suoni senza interruzione. Il canto avvolge, stregante. Claude Vincent sorride da una fotografia attaccata allo stupa. Ha uno sguardo giovane. E’ in maniche di camicia.
L’isola è tagliata da due strade asfaltate perpendicolari. Una coppia di giovani albergatori di Rimini che lavora d’estate e poi viaggia tutto l’inverno ci consiglia di cercare una bicicletta e di fare il giro dell’isola. Sono in viaggio da un mese. Lui è felice. Lei dice che non vede l’ora di tornarsene a casa, che sogna le piadine di sua mamma, che non ne può più dei buchi sulle strade, del riso fritto, degli scarafaggi e dei topi. Dice che l’anno prossimo vuole farsi una vacanza al Club Méditerranée. Dice che non la fregano più. Tra i viaggiatori, gli italiani sono sempre i più scanzonati e ironici. Nei libri d’oro di alberghi e musei i commenti sarcastici in italiano rompono la monotonia politicamente corretta dei commenti costantemente ditirambici di inglesi, francesi o tedeschi. Lei è genere : “con le bellezze che abbiamo in Italia che cazzo ci stiamo a fare qui” ma non lo dice. Mi è simpatica. Mi sono simpatici e mi piace il loro accento romagnolo.
In bicicletta attraversiamo l’isola sul lato corto. Sono le due. Il sole picchia, ma sono appena otto chilometri di strada. Qualche risaia a destra e a sinistra della strada. Alcune capanne da cui escono correndo frotte di bambini che fanno ciao con la mano. Al ritorno imbocchiamo il sentiero di sabbia che segue la costa stretto tra il fiume e le capanne che si affacciano sulle sue rive..Manca un’ora al calar del sole e vi è un’attività frenetica di lavacri. Le donne si lavano vestite col sarong stretto sopra il seno. I bambini giocano nudi sull’acqua. Tra le capanne alcune pagode colorate, una scuola deserta. Al nostro passaggio i bambini salutano in una lingua che risuona fin da subito come cantilena. Non capisco esattamente cosa dicono…Balì? Uadì? Auadì? Tento di riprodurre i suoni, ma ogni volta che lo faccio ridono tutti. Anche i bambini più piccoli. Gli adulti stornano lo sguardo, imbarazzati.
Il sentiero è interrotto da passerelle e ponti in legno mal in arnese. Mi chiedo, apprensiva, quanti bambini in media cadano giù da ponti e passerelle, scivolino tra le assi sconnesse, rotolino lungo le rive scoscese che portano all’acqua. Mi chiedo quanti bambini anneghino ogni giorno nel fiume. Sono piccolissimi. Due, tre anni appena. Soli, avanzano nell’acqua marrone.
Maiali neri, al guinzaglio e non, ci attraversano la strada. E poi galline, tacchini, cani. La notte scende di colpo a qualche chilometro dal paese.
Imparo due parole: “sabadì”, arrivederci, buongiorno, ciao, e “upciài lalài” : grazie mille. Il grazie laotiano mi fa venire in mente il refrain della canzone di Simon e Garfunkel quando Dustin Hoffmann nel “Laureato” va a prendersi la sua Elaine…. Cinema. Sempre e solo cinema.
Vat Phou -Champassak/Paksé 31/12/03 mercoledì
Là dove oggi restano le vestigia di Vat Phou, un tempo c’era una città indù, una delle prime capitali del regno khmers. La città guardava un lago, e alcune centinaia di metri più a est il fiume. Il lago e la città erano sacri e traevano la loro forza da una fonte, sacra anch’essa, che sgorgava dalla montagna prospicente il lago. E’ mezzogiorno, il sole scotta, e per il momento ci siamo solo noi. Il tempio è diviso in tre parti: una in pianura, un’altra a metà montagna e l’ultima in alto. Al tempio principale si accede per una scalinata vertiginosa dai gradini stretti, irregolari e altissimi. Teste, torsi di statue, piedi giganti, giacciono abbandonati qua e là per la collina, tra l’erba alta. Ai piedi della scalinata una vecchia vende composizioni floreali da lasciare come offerte sacrali al tempio. Salgo la scalinata mossa soprattutto dalla voglia di raggiungere al più presto l’ombra che si intravvede dal basso. Gli alberi di frangipane che bordano la via non fanno ombra perché in questa stagione non hanno foglie, solo rami bianchi e fiori carnosi, bianchi pure loro, leggermente striati di giallo. Profumano di magnolia e sono così nudi, nudi e bellissimi.
Un’oasi di pace, fresco, verzura, acqua che scorre circonda il tempio principale. Capisco perché l’abbiamo costruito qui. Domina la valle e il fiume ed è protetto alle sue spalle dalle pareti verticali di una montagna apparentemente inviolabile. Ovunque bassorilievi a consonanza induista, statue che ricordano per certi versi divinità maya o azteche, danzatrici apsara dalle molte braccia, statuette di divinità che sembrano disegnate da bambini/poltergeist. Vorrei saper disegnare i decori, carpirne i simboli. Mi soffermo affascinata ad osservare i particolari di bassorilievi che non mi parlano.
Un gruppo di donne orientali (thai, coreane, giapponesi del sud?) si sposta da un tempio all’altro concentrandosi nella preghiera. Mi invitano a bagnarmi il capo alla fonte. Dicono che è una fonte di lunga vita. Dicono che quest’acqua mantiene in salute.
Pare che un sentiero nascosto nella giungla collegasse la città sacra di Wat Phu alla città di Anghkor. Cinque o seicento chilometri di sentiero che si snoda nella vegetazione, attraversando fiumi e montagne. Guardo giù e mi sforzo di individuarne inutilmente il tracciato.
Per raggiungere le rovine di Wat Phu utilizziamo un tuk tuk che traversa di volta in volta il Mekong su zatteroni di tronchi d’albero che, una volta riempiti, assicurano il trasporto da una riva all’altra. Lo stesso tuk tuk ci porta in serata a Paksé, cittadina industriale con i segni evidenti di uno sviluppo recente e disordinato.
Paksé: ville recenti e particolarmente opulente sul viale che conduce al cuore della città. Hotel cinque stelle, cinque piani, a 14 dollari la stanza compresa la prima colazione per due. Lui, il manager, un francese del sud est, parla di sviluppo esplosivo della città…Traffici, chiedo? Anche, risponde. Alle 19, ci dice, una famiglia in vista della città celebrerà il matrimonio della figlia. Ci saranno tutti quelli che contano, dice. Alle 19 si materializzano di fronte all’albergo decine di gipponi e camionette. Qualche automobile dai vetri anneriti. La sposa e lo sposo, in piedi all’ingresso dell’albergo, offrono a tutti gli invitati un sorso di whisky dallo stesso bicchierino. Costoro infilano delle buste in due grandi cassette a forma di cuore. Ce n’è una per gli invitati di lui e una per quelli di lei. Soldi, mi spiega il direttore. La sala di matrimonio, immensa, risuona della voce amplificata di un imbonitore da fiera che introduce la musica e probabilmente intrattiene gli ospiti. Le donne, quasi tutte in abito tradizionale, faticano a camminare su sandali dorati dai tacchi vertiginosi. E’ un peccato, mi dico. La cosa più bella di queste donne è l’andatura.
E’ il 31 dicembre. Sulla terrazza in cima all’albergo un cenone di capodanno all’occidentale per quattro turisti inglesi dall’aria triste.
Cerco un Internet Phone. Ce ne sono tantissimi. Computer clonati e pavimento di terra. Telefono ad Andrea. E’ il suo compleanno! Dice che in Francia fa freddo. Riusciamo a parlare con difficoltà per quei due secondi di silenzio che si intercalano alle voci.
Attorno al mercato, un edificio moderno di tre piani tutto scale e vetrine, una serie di bar/karaoke spara musica a manetta per la jeunesse dorée locale.
Ritrovo i due riminesi in un piccolo ristorante modesto. Sono in attesa di prendere l’autobus notturno per Vientiane, la capitale. Cercano un visto per la Birmania, e lei è sempre più stanca e desiderosa di tornare a casa. Ci auguriamo buon anno alle 21 e 30. Alle 22 dormo già.
Paksé/Vientiane/Louang Prabang 1/1/ 2004 – giovedì
Quando viaggio non amo prendere gli aerei. Introducono una rottura netta nel percorso, nell’evolvere dei tipi umani, nel modificarsi lento della vegetazione e del clima.
Ho paura di volare. Oramai da anni. I riminesi mi avevano descritto la compagnia aerea laotiana come una sorta di pattumiera dell’aviazione russa, con aerei che volavano a vista, sedili mal avvitati al pavimento, galline e altri animali nella carlinga. L’aereoporto di Paksé promette malissimo. Praticamente nessun controllo e i soliti dazi inesistenti da pagare a sedicenti guardie di frontiera. L’aereo è in realtà perfetto. Migliore delle navette che mi portano da Marsiglia a Parigi. Volo tranquilla e guardo giù.
Vientiane ha l’aria desolata e desolante di una stazione balneare fuori stagione una domenica pomeriggio. Fa caldo. Nessuno si muove. Nessuno ti guarda. Gruppi di amiche si spidocchiano sedute davanti alle porte dei negozi del centro. Monaci d’arancio vestiti sciabattano seminudi grattandosi il collo. Gli uomini passano da una sedia all’altra. Da un sottoalbero all’altro. Il mercato di giorno, il Talat Sao, ha l’aria abbandonata di una giornata pre saldi natalizi. Sciarpe tessute a mano, bacchette da riso d’argento, monili vecchi e nuovi, ciabatte di plastica, borse ricamate. Nessuno insiste per vendere quel poco che ha da vendere. Se ne stanno seduti a terra i venditori e sorridono. Il museo della rivoluzione è chiuso. Assolato e chiuso. Ci dirigiamo al Susaket, un tempio al centro della città. La struttura a chiostro è quella di un convento benedettino del 14 ° secolo. Chi l’ha concepito era stato in Europa, mi dico. Decine di Buddha tutti uguali in infilata. Centinaia di nicchie alle loro spalle, ognuna con un Buddha più piccolo al suo interno. I monaci sciabattano nel cortile del tempio provando coi turisti le poche frasi d’inglese imparate sui libri.
Miracolosamente troviamo un caffé gestito da un lao di ritorno dalla Francia. Un inglese solitario legge concentrato il Bangkok Post della settimana precedente. Il cappuccino non ha nulla da invidiare a un cappuccino francese: è cattivo, dunque, ma è un cappuccino. Ne ordino due, storia di prendermi avanti.
Le poche ore trascorse a Vientiane in attesa dell’aereo serale che ci porterà a Louang Prabang sono già tante. Il lungofiume è deserto. Vi incontriamo di nuovo i riminesi. Sensazione di essere soli in una città indifferente.
Louang Prabang 2/1/2004/ venerdì
Bun è uno dei tanti monachelli di Louang Prabang, antica capitale e città sacra. Vive al Vat Xieng Thong, uno dei tanti templi sparsi per la penisola su cui sorge la città. Sogna una sola cosa: andare a Roma a trovare un suo amico italiano. Ci tiene a ripetere come un pappagallo le poche frasi inutili di italiano che ha imparato.
La mattina all’alba Bun sfila lungo il corso principale assieme ad altri ragazzi come lui a ricevere le offerte che uomini e donne inginocchiati versano nella loro saccoccia a bandoliera senza levare lo sguardo. Riso cotto e glutinoso, ma anche cracker o pacchetti di Mars. A vederli sfilare tutti assieme – è l’alba – mi rendo conto che le loro tenute presentano colori diversi che vanno dal rosso scuro tibetano allo zafferano all’arancione acceso. Sono bambini, giovanissimi e vecchi. Pochi i monaci di mezza età. Degli assistenti accompagnano la sfilata dei monaci con grandi sacchi di nylon dove riservare l’eccedenza di offerte una volta che le saccocce risultano strapiene. Gli offerenti sono in minoranza locali e in maggioranza turisti coreani, tailandesi o vietnamiti. I loro minibus attendono discretamente sul bordo del marciapiedi.
Centinaia di boutique offrono ai turisti le perle dell’artigianato locale. Chilometri di sciarpe, quaderni di carta di riso, lampioni di carta colorata, monili e teste di Buddha in bronzo. Al mercato donne con i bambini al seno offrono oppio, marijuana, si offrono. Su un banchetto bottiglie contenenti serpenti, scorpioni, e strani rettili d’acqua all’interno di un liquido giallastro promettono performance sessuali irripetibili. Su un altro banco delle bussole istoriatee sacchi di scorze di corteccia dalle proprietà medicamentose. Un vecchio mi mostra un sacco di cortecce e mi tocca la testa…Vogliono curare il mal di testa, le cortecce, oppure calmare le angoscie, oppure rendono magicamente più intelligenti? Il vecchio insiste e si tocca la testa pure lui.
Louang Prabang non è altro che una stretta striscia di terra in mezzo all’acqua di due fiumi: l’inevitabile Mekong e il Nuam Khan, un suo affluente. Oltre il fiume le montagne. Al centro della penisola una collina abbastanza alta da dominare il paesaggio su cui si erge una pagoda rossa e oro. Usciamo dalla città in bicicletta. Sono alla ricerca di uno zaino nuovo. Le cinghie del mio zaino sono state strappate nel trasporto aereo e in vista della camminata che ci aspetta devo assolutamente trovare uno zaino nuovo. Lo trovo al mercato cinese, vicino allo stadio. Qui tutto è made in Cina dai venditori alle lampadine elettriche alle falciatrici ai calzetti ai cappelli borsalino. Per quindici dollari trovo uno zaino come non ne ho mai sognati in vita. Nero e grigio, doppie cerniere di sicurezza, doppia chiusura, tasche esterne e interne. Solido. Efficiente.
Un tedesco che vive da tanti anni in città mi rivela che la frontiera che abbiamo intenzione di oltrepassare a piedi per raggiungere il Vietnam è sigillata ermeticamente agli occidentali. Insisto. Magari pagando i doganieri, propongo. Dice che è pericoloso. I laotiani si fanno corrompere, mi dice, ma i vietnamiti non vi faranno passare mai. E’ la frontiera dei trafficanti d’oppio, aggiunge. Non hanno nessuna intenzione che degli occidentali ficchino il naso da quelle parti. Prima di salutare mi raccomanda di non tentarci nemmeno…”Eviterete sofferenze, dice…”
Ne parlo con la mia vicina, una laotiana che vive in California, di ritono in città per visitare la famiglia. Siamo entrambe distese a pancia in giù in una capanna su palafitte e ci facciamo massaggiare. Farsi massaggiare è una delle attività più diffuse in questo paese. Ci si fa massaggiare per rilassarsi, per stimolare i muscoli, per curare le malattie, ci si fa massaggiare da vecchie donne magre dai muscoli d’acciaio e dalle dita forti come gli artigli di un aquila, da ragazzi delicati come fanciulle, da giovani donne assenti. Daniel spiega che là dove c’è scritto karaoke si praticano massagi erotici. Ancora in Laos è meno evidente che in Vietnam, mi dice. Ma verrà. Verrà anche qui. La mia vicina laotiana dice che lei non sapeva nemmeno che ci fosse una frontiera a Dien Bien Phu, ma per non deludermi dice che possiamo tentare e che passeremo lo stesso. Strano paese questo in cui la dolcezza è mista alla menzogna e la realtà è un effetto d’annuncio.
Nel raggiungere gli amici, la sera, mi fermo a riposare nel cortile di un tempio. E’ l’ora del canto. La solita nenia avvolgente…
Louang Prabang- Mouang Khouam 3/1/2004 – sabato
Ritroviamo il fiume. Non il Mekong ma il Nuam Oou, l’ennesimo affluente. Sdraiata sul fondo della barca in legno, sotto una tettoia di lamiera, scrivo queste note. E’ mattina, fa freddo, e un leggero strato di nebbia ci accompagna. E’ questo, senza dubbio, il fiume del mio universo cinematografico. Stretti tra pareti verticali, lo risaliamo circondati da montagne coperte di vegetazione che sembrano altissime. Grigio, verde e rosso. Il grigio dell’acqua e delle rocce che spuntano qui e là. Il verde degli alberi, palme e un’infinità di specie sconosciute abbarbicate alle rive, dalle radici aggrovigliate che scendono nell’acqua e poi risalgono fino a metà tronco. Il rosso di una terra che a tratti è grassa, a tratti è polverosa. Anse, curve, rapide che la barca supera dando motore. Gente che vive lungo il fiume. Gente che lo naviga in canoe scavate nel tronco degli alberi o arrangiate alla meglio unendo assieme due o tre grossi fusti di bambù. A pagaiare sono dei bambini, a volte piccolissimi che sembrano seduti direttamente sull’acqua. Ridono, quando ci vedono passare ma non fanno mai ciao con la mano. A volte salutano nel segno universale importato dall’America. Pollice in alto. Tutto O.K.! Sulle rive grossi maiali rosa, maiali piccoli e neri, bufali d’acqua di cui appena si intravvedono muso e occhi. Donne che lavano tessuti. Donne che lavano bambini. Donne che si lavano. Una frenetica attività lavatoria.
Attraverso la vegetazione fittissima si intuiscono capanne su palafitte fatte di stuoie di bambù intrecciato. Qui e là tratti di montagna bruciati e nudi. A metà costa, talvolta, una capanna abbandonata. Probabilmente tagliano gli alberi mi dico, alberi dai legni pregiati, teck, palissandro. Poi bruciano tutto per rifare l’humus. Il capitano della barca non parla. Infastidito si volta indietro quando qualcuno di noi accenna a spostarsi disequilibrando pericolosamente l’imbarcazione. A tratti qualcuno dalla riva fa segno di chiedere un passaggio. Prendiamo su un uomo che dopo una buona mezz’ora verrà scaricato in mezzo al nulla, più a nord, sulla riva destra del fiume. Una donna e due bambine piccole salgono per scendere di nuovo in prossimità di un villaggio.
Su una montagna che si para verticale di fronte a noi sono scavate delle nicchie. Eremiti? Nascondigli? Depositi di munizioni? Il sentiero Ho Chi Minh passava esattamente per questo fiume. I vietcong attraversavano la frontiera con il Laos nei dintorni di Dien Bien Phu, scavalcavano le montagne fino a raggiungere il fiume. Di qui scendevano in battello fino a Louang Prabang e poi ancora più a sud fino in Cambogia da cui penetravano nel Vietnam meridionale.
Non seguiamo i consigli del tedesco e decidiamo unanimi di tentare il passaggio. Daniel ha totale fiducia nel potere del dollaro. Catherine della fortuna o del caso. Claudio non ci crede che passeremo ma non si oppone e lascia che le cose seguano il suo corso.
Dei pali di bambù piantati fitti lungo la riva con drappi rossi e gialli che si agitano appena. Un déjà vu. Poco prima di raggiungere Kurtz, nel film di Coppola, gli stessi pali e gli stessi drappi si allineano lungo le rive sabbiose del fiume. Nel film sono presagio di pericolo. Questi qui, quelli veri, sono un enigma. Che ci fanno? Cosa significano? Nessun essere umano nel raggio di qualche chilometro. Alberi, infiniti alberi, coprono le rive. Liane che pendono. Bambù che galleggiano. Incrociamo una barca come la nostra che scende. Le due barche accostano. I capitani si parlano. I passeggeri dell’una e dell’altra si squadrano. Noi, nell’allontanarci, facciamo ciao con la mano. Loro, i lao, sorridono senza muovere un dito.
Ho l’impressione di insinuarmi in qualcosa di profondo, di penetrare qualcosa che ad ogni chilometro perde intelleggibilità. Non è un percorso, ma piuttosto una penetrazione…
Attracchiamo a Mouang Khouam, l’ultimo villaggio raggiungibile via acqua. Posto su un’ansa del fiume all’incrocio con un altro affluente minore, il villaggio è leggermente sopraelevato sul fianco della montagna. Una passerella volante unisce le due rive. Non ci sono strade da queste parti, ma piste e sentieri. Ci aspettiamo di dormire in condizioni primarie e invece al centro del villaggio vi è una guesthouse in muratura, arredata lussuosamente. Segno di una scommessa su un futuro sviluppo turistico della zona o hotel di lusso per trafficanti d’oppio in attesa del doganiere compiacente? Nel cortile interno una partita di badminton schiera la squadra di Dien Bien Phu alla squadra locale. Musica a tutto volume e il solito imbonitore intrattenitore che al microfono urla falli e punteggi. Le riserve del badminton si affollano attorno a noi. Sono giovani membri del partito, ben vestiti e dotati tutti di luccicanti moto da cross. Ci vuole quasi un giorno, ci dicono, per percorrere in motocicletta l’ottantina di chilometri che separano la frontiera dal villaggio. La frontiera cinese è leggermente più lontana, ma ci si arriva prima insistono. Nessun problema a passare se abbiamo il visto. Potremmo andare in Cina, suggeriscono. Dalla frontiera col Vietnam, invece, non si passa. E’ chiusa, sigillata. Si offrono ridendo di accompagnarci comunque Daniel che, come San Tommaso, forte della panoplia di falsi documenti preparati ad hoc – una falsa lettera del Ministero degli Affari Esteri vietnamita che lo definisce amico del paese, un falso documento diplomatico francese, timbri e lettere di raccomandazione, tutti altrettanto falsi – vuole constatare de visu quanto oramai è evidente. Nel frattempo, in cinque decidiamo di partire due giorni in montagna. Marie ci aspetterà al villaggio a causa di una caviglia gonfia e dolorante. Daniel andrà in frontiera e se non sarà di ritorno tra due giorni, significherà che passare si può e dunque ci organizzeremo per raggiungerlo là.
Un ragazzo del paese propone di farci da guida in montagna. Saremo di ritorno tra due giorni. In un inglese approssimativo ci avverte che si sale molto, dice. Otto, nove ore di marcia. Ce la faremo? Col piede dolomitico che abbiamo cosa sono otto nove ore?
Mouang Khouam/ Ban Sleung Ouam/ Mouang Khouam
4-5 gennaio 2004
La notte a Ban Sleung Ouam, villaggio della minoranza Akka, sotto minoranza Mong, è stata una notte di rumori strani. E’possibile che il mio ricordo sia soprattutto rumori? Nella capanna dove dormiamo il rumore di bambini che piangono, dei vecchi che tossiscono, dei bambini, una bambina mi sembra, che tossisce pure lei accanitamente. Il rumore del fuoco che crepita in mezzo alla stanza. Non c’è camino e il fumo che ha completamente annerito le pareti di legno sale e fuoriesce a fatica tra gli interstizi del bambù. Attorno al fuoco sbircio uomini seduti in cerchio che fumano l’oppio dentro lunghe pipe anch’esse in bambù. Fuori le urla dei derattizzatori, ragazzini armati di arco e frecce che danno la caccia ai topi nascosti nelle cataste di legno. Di nuovo all’interno le stuoie che scricchiolano. Nella penombra un uomo vecchissimo massaggia Djang, il ragazzo che ci ha accompagnato fin qui, usando soprattutto i piedi e tirando all’indietro braccia e gambe. La porta della capanna cigola ogni volta che qualcuno entra o esce. Fuori le scrofe grugniscono. Qualche cane abbaia e poi smette.
All’entrata del villaggio su una picca alta tre metri una testa di cane mozza con le fauci tenute spalancate da un bastone e la lingua gonfia e nera che penzola di lato. Djang vuole rassicurarci quando dice che è un segno di benvenuto? Accanto al cane un gruppo di ragazzi lanciano coi piedi al di là di una rete una palla di striscie di vimini intrecciate. Alla vista di Catherine che arranca sotto uno zaino smisurato in pantaloncini corti kaki, urlano di gioia.
Ci guardano, ci scrutano. Si tengono in disparte. Poi l’intero villaggio ci accompagna alla fonte dove tentiamo di lavarci sotto un filo d’acqua che scende dalla roccia. Sono tutti attorno a noi e ci guardano fissi. Imbarazzati ci laviamo a pezzi, sommariamente. Siamo coperti di polvere. La polvere rossa del sentiero che abbiamo percorso, stretto tra erbe altissime.
Non è bello camminare in queste montagne. Non esistono radure, panoramiche, non si cammina mai in spazi aperti, ma sempre in mezzo ad erbe alte, che soffocano ogni visuale. Dopo alcune ore di salita si perde il senso della direzione e dello spazio. La salita è monotona e claustrofobica. Pura fatica. Caldo e fatica. C’è un silenzio totale e assoluto. Nessun uccello, nessun animale, nessun insetto.
La mattina abbiamo attraversato un paio di villaggi adagiati nei pressi di qualche ruscello che guadiamo malamente. Villaggi bombardati accanitamente durante quella che ingiustamente viene chiamata guerra del Vietnam, se si pensa che il paese più bombardato della storia è stato proprio l’ufficialmente neutrale Laos. Ovunque resti di bombe americane che la gente utilizza nelle maniere più svariate. Come sostegni alla base delle capanne. Separate in due come bacini per raccogliere l’acqua. Come mangiatoie per i maiali. Djang ci dice di restare nel sentiero. Vi sono ordigni inesplosi un poco ovunque, ed è pericoloso allontanarsi anche di qualche metro. In un villaggio una pagoda abbandonata dai monaci che, dice Djang, se ne sono andati perché non volevano più vivere in zone così disagiate.
Al villaggio dove dormiamo inizia il defilé incessante dei malati che vengono a farsi curare da noi: due insegnanti di italiano, un architetto, una fisica nucleare e una dirigente EDF. Disponiamo di un tubo di arnica, di un flacone di hexomedin per disinfettare, cerotti e aspirine. Trattiamo arti slogati con la pomata all’arnica, disinfettiamo le ferite, e distribuiamo le aspirine. Nel ruolo di non medici senza frontiere siamo assolutamente inadeguati ma è impossibile farci capire e rifiutare le cure. Una ragazza mi tossisce forte davanti per farmi capire i sintomi della sua malattia. Faccio un salto indietro chiedendomi quando ho fatto l’ultima volta il richiamo contro la tubercolosi e non so assolutamente cosa fare, ma lei insiste, mi prende la mano, e allora le spalmo un pochino di arnica sul petto sentendomi come un medico di Molière…Forse l’effetto placebo, mi dico….La ragazza se ne va soddisfatta. Le consultazioni riprendono la mattina dopo all’alba, quando il villaggio si sveglia al grido forsennato dei galli.
Di cosa vive questa gente? Djang dice che un tempo coltivavano i papaveri, che due anni fa l’esercito ha bruciato loro i campi e che oggi di campi gliene restano appena due, ben nascosti, aggiunge. Una donna inizia a scuoiare una marmotta vicino al fuoco. Temo che vogliano offrircela per colazione, ma Claudio estrae prontamente dallo zaino qualche bustina di Nascafé che diluiamo nell’acqua bollente.
Gente povera e miserabile che vive nella polvere e nel fango tra magre galline, oche, maiali e bastardi di cane. Nessun romanticismo, nessun mito del buon selvaggio, solo occhi sgranati e stupiti, bocche annerite, e tanti, troppi bambini. Non si lasciano fotografare così come sono. Si scherniscono. I bambini al seno delle madri o sulla schiena dei fratelli più grandi urlano non appena mi avvicino loro. Una famiglia, padre madre giovanissimi e due figli piccoli, poco prima che noi si riparta, corre a cambiarsi. Una volta vestiti a festa, nel costume tradizionale di questo popolo, minoranza fra le minoranze, chiedono di farsi fotografare. Sono eleganti. In pantaloni blù notte lui, carica di monili d’argento lei e le cuffiette che i bambini portano sulla testa. Si fanno fotografare di fronte alla loro capanna. Guardano seri fisso dentro l’obiettivo.
Non ci accompagnano all’uscita del villaggio, ma fino alla curva del sentiero ci accompagna il loro sguardo serio.
Di nuovo a Mouang Khouam. Daniel non c’è. E’ rientrato dalla frontiera a mani vuote ed è ripartito qualche ora fa per Loaung Prabang per cercare un volo che ci porti ad Hanoi. Lascia il nome dell’albergo e un vago appuntamento per l’indomani sera alle sette.
Decidiamo di raggiungere Louang Prabang il giorno stesso. Bisogna ridiscendere il fiume fino ad un villaggio da cui se tutto va bene dovremmo raggiungere entro notte l’antica capitale. Il nostro viaggio cambia aspetto e direzione. Non arriveremo più a piedi in Vietnam come avevamo immaginato, né cammineremo sulle montagne a nord di Dien Bien Phu.
Non tutto va bene. Fin dall’inizio della navigazione a ritroso sul fiume capiamo che il motore della barca affittata per scendere a valle non funziona come dovrebbe. Il capitano, un ragazzo giovanissimo con un berretto di lana calcato sugli occhi, è nervoso, si volta spesso a sentire il rumore che fa il motore. Un rumore sordo da motore ingolfato. Si ferma ripetutamente. Smonta, rimonta, pulisce le candele, riparte per fermarsi di nuovo. Il fiume a scenderlo in queste condizioni non è più lo stesso. Non guardiamo più le montagne, gli alberi, le rive e i bambini che pescano, ma l’orologio. La notte cade inesorabile alle sei in punto. Il tramonto è brevissimo, qualche minuto appena, e subito dopo il buio. Cerchiamo di calcolare quanto manca all’arrivo. Lanciamo ipotesi: quella montagna me la ricordo, mancano due ore. Quel villaggio anche. Le picche imbandierate sulla riva, che scopriamo essere poi un mercato. Manca troppo tempo. Non ce la facciamo. Qualche minuto prima del tramonto la barca attracca ad una riva sabbiosa e il capitano fa segno che non si può più continuare. Insistiamo stoltamente e stupidamente, indotti dal nugolo di zanzare che attacca non appena la barca si ferma, che bisogna continuare. Il ragazzo intimidito non osa dire no e si riparte. Più nessuna possibilità di sosta ora. Il fiume scorre veloce tra pareti di roccia verticali. Scende la notte e nel buio fatichiamo a distinguere le rocce che affiorano, i tronchi che galleggiano, i banchi di sabbia.
Il ragazzo accende una grossa pila e fissa concentratissimo l’acqua scura. Incontriamo una piroga che ci si para a fianco di colpo. La pila illumina lo sguardo allibito degli uomini che pagaiano. Ho paura. Tutti abbiamo paura. Sento il rumore dei denti di Claudio che sbattono dalla paura. Non ci scambiamo una parola per un’ora intera che sembra un secolo. In prossimità delle rapide il capitano dà motore e io chiudo gli occhi dallo spavento. La barca oscilla, gira, sembra che sbatta ma in realtà le rocce che vedo arrivare all’ultimo momento la barca le schiva. Andiamo avanti nel buio e nel silenzio. In prossimità del ponte di cemento che segna l’arrivo al porto fluviale la luna piena illumina l’acqua sciogliendo definitivamente la mia angoscia.
Il minibus che affittiamo per percorrere le tre ore di strada che ci dividono da Louang Prabang è talmente male in arnese che ad ogni sobbalzo il portellone posteriore si spalanca e gli zaini rotolano sull’asfalto. L’autista ride imperturbabile mentre noi corriamo affannosamente a recuperare i nostri averi disseminati su decine e decine di metri di carreggiata. Claudio canticchia sottovoce l’intero repertorio dei Beatles da Please please me a Abbey Road.
Louang Prabang 6/1/2004 – martedì
Esiste una parola francese che descrive perfettamente questa giornata: flaner. Che significa girellare, riposarsi, far niente, essere senza programmi, lasciarsi andare all’onda. Non programmo nulla, non visito nulla, passo la giornata da un caffé all’altro, da un muretto all’altro e mi guardo attorno. La linda Louang Prabang con i suoi cappuccini all’italiana e le baguettes alla francese è il sogno di tutti i viaggiatori. Un posto dove ci si sente puliti. Puliti e ricchi. E’ anche il posto dello shopping, Louang Prabang. Chi è passato per di qua e non ha comprato una sciarpa tessuta al telaio alzi la mano! I due fiumi che chiudono la cittadina inducono oltremodo alla calma. Divoro un piatto di striscioline di manzo aromatizzate alla citronella e guardo una barca/casa che scende lentamente il fiume. Chi abiterà in quella casa rosa di legno dalle imposte blù situata a poppa del barcone? Un olandese? Una famiglia di commercianti lao? A prua vi è un altarino attorniato da fiori.
Domani all’alba riprendiamo la strada per Vientiane e da là un aereo che ci porterà ad Hanoi. Ha organizzato tutto Daniel che ritroviamo per caso nel caffé dove facciamo colazione. La strada che prenderemo non è una buona strada, ci dice. L’asse Louang Prabang/Vientiane è asfaltata e comoda. Attraversa la catena montagnosa di Xianghoang in mille tornanti per scendere poi verso Vang Vueng e quindi Vientiane. Il problema, dice, sono gli assalti alla carovana. Il tratto montagnoso non è sicuro, ma gli hanno assicurato che da un paio di mesi è pattugliato da soldati dell’esercito regolare che garantiscono il passaggio.
Louang Prabang/Vientiane/Hanoi – 7/1/2004 mercoledì
Il soldati regolari ci sono. Ogni quindici/venti chilometri ce n’è uno seduto per terra sul lato della strada a fumarsi una sigaretta sotto una tettoia improvvisata. Sono scamiciati e mal in arnese e tengono il fucile mitragliatore appoggiato sulle ginocchia. Assomigliano più a miliziani che a soldati regolari. Forse più a banditi che a soldati regolari. Il nostro autista prima di affrontare la montagna si ferma in un villaggio dove scendiamo a bere un caffé – caffé lao nero, amaro e denso come il fondo di una moka. Un nugolo di bambini seminudi ci circonda e mima i gesti di Bruce Lee. L’autista ha un gran d’affare a confezionare strani pacchetti di sigarette sotto cellophane. Ne prepara una decina – sacchettini di nylon contenenti ognuno quattro sigarette – che poi sistema sul sedile accanto al suo.
Ad ogni posto di blocco che poi non blocca nessuno rallenta leggermente e getta uno di questi pacchettini fuori dal finestrino in direzione del soldato di turno. Vuole farselo amico, o è semplicemente un ragazzo gentile?
Di colpo lungo la strada totalmente deserta di questa montagna vediamo arrancare una ragazza in bicicletta con grande zaino sulle spalle. Poche centinaia di metri più a valle vi è il suo compagno. Anche lui affaticato con un grande bandana rosso che gli copre la testa. Australiani? Inglesi? Svedesi? Li guardiamo stupiti e ammirati dal finestrino. Così stupiti che non abbiamo nemmeno tempo di fare ciao con la mano. Loro si fermano e ci guardano sparire dietro una curva.
Quasi 400 chilometri, dieci ore di viaggio. A mezzogiorno l’autista fa una sosta/pranzo al villaggio di Vang Vueng, dall’altra parte delle montagne. Ci dev’essere qualcosa nei dintorni, mi dico perché oltre a noi ci sono altri occidentali e cinque o sei guesthouse. Due signore olandesi di circa sessant’anni mi spiegano che nei dintorni ci sono colline e cascate e torrenti dove fare rafting. Loro non si muovono dal villaggio da più di due settimane. Non vanno a vedere le cascate né i torrenti. Stanno nel villaggio e chiacchierano con la gente. Dicono che sono innamorate della gente. Sedute al tavolino del bar vicino a me mangiano con grazia e gentilezza un sandwich alle verdure. Vestite come sono in gonna da ufficio e camicetta senza maniche, sembrano uscite da un’assemblea di attiviste dell’esercito della salvezza. Ci salutano sorridendo e ci augurano buon viaggio.
Hanoi – 7-11/1/2004
Non è stato amore a prima vista quello tra me e Hanoi. E’ stata una lenta conquista frutto di un intenso corteggiamento.
Lien che ci accoglie alla guesthouse è una ragazza scatenata. Parla, sorride, gesticola, si agita, fa di tutto per assicurarsi che noi non si cambi albergo e che si resti da lei. Restiamo, più che altro per non deluderla. La guesthouse è una delle tante case della vecchia Hanoi, larga appena qualche metro e alta quattro piani. Due camere per piano, otto camere in tutto. Fuori il concerto assordante di milioni di motorini.
Attraversare la strada ad Hanoi necessita di incoscienza, coraggio e fiducia nel genere umano. Resto almeno un quarto d’ora sul bordo della strada ad attendere che il traffico si diradi finché non mi dicono che così non si fa. Ad Hanoi si scende dal marciapiede e si attraversa la strada a occhi chiusi e a passo costante. Guai a fare un scarto, guai ad un’esitazione. Le migliaia di motociclette, biciclette e ricsciò che scorrono come un fiume lungo le sue strade sanno perfettamente evitare il passante a patto che costui mantenga un’andatura costante.
Mi aspettavo che Hanoi fosse come Pnhom Penh. Una città assonnata e polverosa. Dove le donne vestono ancora gli abiti tradizionali e portano lunghi guanti bianchi fino al gomito. Così me l’aveva descritta chi c’era stato appena qualche anno prima. Polverosa, mi avevano assicurato, poco asfalto, luce a gas e tante, tante biciclette. Le biciclette ci sono, ma in netta minoranza rispetto alle moto, che sembrano inesauribili. Un fiume in piena quello delle moto. Maestoso, lento e regolare. Sembra che dietro ad ogni curva vi sia un mostro dalle fauci spalancate che vomita incessantemente moto. Moto e gioventù. Ragazzi e ragazze, quest’ultime bellissime, che circolano non si sa bene verso cosa. Si muovono, strombazzano con ritmata regolarità e evitano il più possibile di posare il piede a terra. Pare che sia una specie di codice o di gioco o di prova di abilità. Non fermarsi mai, evitare i passanti e soprattutto evitare di posare il piede a terra.
E’ la città dei marciapiedi proibiti, Hanoi. Il segno del rifiuto della Francia colonizzatrice e razionale. I marciapiedi accolgono le motociclette, cinesi per lo più, che si sistemano su di essi a rastrelliera. Tra una moto e l’altra donne accovacciate sui talloni cucinano, bollono, friggono. Famiglie intere accovacciate mangiano o, più semplicemente, chiacchierano. Qua e là donne giovani e vecchie trasportano a bilanciere ceste di arance o banane, o ceste di forbici e coltelli, o ceste coperte da drappi. Difficile indovinare cosa contengono. Giorno e notte le donne/bilancere vagano per la città vecchia e anche col cielo grigio indossano cappelli di paglia a forma di cono tenuti stretti sotto il mento da cenciosi foulard a quadretti. Si districano nel traffico con andatura sicura ed elegante. Piccoli passi veloci. Qualche sosta per equilibrare il carico.
Per guardare le facciate delle case bisogna individuare uno spazio sicuro dove fermarsi.
Le case di Hanoi sono tutte bellissime. Splendide quelle della città vecchia. Imponenti e coloniali quelle degli antichi quartieri francesi.
In questa città, grazie a Dio, il razionalismo in architettura non è mai arrivato. Le case sono quanto di più splendidamente irrazionale io abbia mai visto in vita. Altissime, strette e colorate quelle della città vecchia interrotte da terrazzi, terrazzini, bowindow, rientranze, balconi, sporgenze, balaustre, colonne, rampicanti, e ancora, vetro, legno, ceramica, ghisa, ferro battuto, pietra, tutti i colori e i materiali possibili che si mescolano in un bailamme di forme geometriche indecise tra rotondità ed angoli acuti. Una città concepita da migliaia di architetti improvvisati indotti a costruire in altezza forse per evadere i dazi calcolati in base alla larghezza delle facciate e forse per risparmiare sui prezzi del terreno costruttibile, data la quasi assenza di costi di manodopera.
Delle case coloniali, nascoste dietro giardini rigogliosi e cancelli, si intravvedono angoli e sprazzi di facciata se si passeggia lungo i grandi boulevard alla francese, a nord o a sud della città vecchia. Sono belle, ma meno speciali delle altre. Le abbiamo viste già da noi queste case inizio secolo, certo con meno verzura, con meno opulenza, forse, ma le forme non del tutto estranee, ci stupiscono meno.
Ad Hanoi, a poche ore dall’arrivo, decido di restare, evitando la visita alla vicina Baie d’Halong, già vista in decine di film, e della Pagoda dei Profumi posta, a pochi chilometri dalla città, su un’isola del Fiume Rosso. Sono questi i due principali spot turistici dei dintorni, ma io sento che non voglio staccarmi da questa città. Ho voglia di scoprirla piano.
E pian piano sento che la città si mostra a me. Pian piano camminando a caso lungo stradine, boulevard e lungo la riva dei tanti laghi interni che la rendono una città acquatica con barche, piroghe e pedalò a forma di cigni. Mi perdo nel dedalo di strade della città vecchia che fanno pensare alla Firenze comunale, caratterizzate come sono per corporazioni: la strada della seta invasa dagli occidentali, e quelle meno frequentate dei farmacisti tarassici, dei lavoratori della latta, dei pigmenti colorati, dei lavoratori della ceramica, degli orologiai, delle occhialerie, degli uccelli, dei pesci tropicali. Le strade dei parrucchieri che massaggiano per ore il cuoio cappelluto del cliente, le strade dei barbieri che fanno anche pedicure, manicure ed estraggono il cerume dalle orecchie col vecchio metodo della candela. Le strade degli hacker che piratano tutto quanto il mondo dell’informatica sia mai riuscito a produrre e per pochi dollari vendono copie di CD, DVD e software vario. I mercati hanno poco spazio ad Hanoi. La città vecchia è in realtà immenso mercato. Schiacciati tra una stradina e l’altra le bancarelle del pesce, della carne, delle spezie, della frutta e delle verdure. Donne e bambini carichi di borse di plastica si aggirano tentando di vendere al turista accendini con l’effigie di Ben Laden o Saddam Hussein – “Good men! Good, men!” – o magliette con il ritratto di Ho chi Minh.
Al museo della guerra, a qualche blocco dal mausoleo che contiene il corpo imbalsamato di Ho Chi Minh, le vittorie di questo popolo di formiche alacri contro giapponesi, francesi, cinesi, e americani vengono raccontate con i toni della più ridicola propaganda terzomondista. “Il fiero popolo vietnamita sconfigge il vile oppressore francese nella grande battaglia di Dien Bien Phu”. Scritte inutili perché la storia basta a parlare da sola. Eloquente una delle tante foto esibite al museo. Quella di una ragazzina vietnamita, quasi una bambina, a piedi nudi, cappello di paglia in testa e mitragliatrice in mano che scorta un soldato americano prigioniero, tre volte più grande di lei e dotato del miglior equipaggiamento possibile.
Il volto ascetico da intellettuale romantico di Ho Chi Minh è presente ovunque, sovente affiancato ai ritratti dei governanti in carica. Un messaggio ingenuo che vorrebbe instillare nel popolo l’idea di continuità tra passato e presente ma che è inficiato dai volti grassi e butterati alla Noriega dei truffaldini rappresentanti della classe politica attuale. Gli stessi che si aggirano per i larghi viali in Mercedes con autista dai vetri fumé. Gli stessi che vivono nel lusso all’interno della città proibita, nel pieno centro della città, dietro alte mura protette da soldati.
A camminare lungo i larghi viali della città francese sono solo gli occidentali. Che cosa si cammina a fare, sembrano chiedersi i locali, lungo viali dai quali commercio e artigianato sono assenti? Capisco che in questa città adrenalinica passeggiare a caso è un lusso, una perdita di tempo. La vita è nel traffico, nei traffici, su cui si concentrano le energie dei milioni di giovani che ci vivono. I vecchi sono pochi. Se ne incontra qualcuno sul lungolago, in vestito tradizionale nero, capelli bianchi corti, lunga barba bianca a punta, occhialetti neri circolari.
Lien mi racconta che i giovani, la sera, circolano in motocicletta per la città con le loro morose, per fermarsi poi lungo il lago più grande a limonare. Sono migliaia effettivamente a limonare lungo il lago. Di ritorno dal grande ristorante collettivo in prossimità della strada diga che porta all’aeroporto, là dove si ammassano le botteghe degli antiquari e dei tombaroli, ci passo davanti. Il conduttore di ricsciò che mi riporta alla guest house me li indica con la mano, ride e aggiunge “Bum, bum, sida!” che interpreto facilmente come una messa in guardia a costumi sessuali diventati oramai troppo liberi.
Pian piano a forza di camminare e di battere la città individuo i pochi caffé all’occidentale, oasi di pace, specialmente quelli in cui si sale ai piani alti, in cima alle case, su terrazze lontane da tubi di scappamento e rumori. Sprofondata su un vecchio sofà di seta mezza sdrucita sorseggio un succo d’arancia. Sulla terrazza posta sul tetto della casa di fronte un viet abbronzato fa ginnastica. Alla mia destra un altro ragazzo, occidentale stavolta, ascolta un pezzo dei Led Zeppelin con gli occhi chiusi. Mi accorgo quando si alza che è fatto come una scimmia. Questo caffé- bar-terrazza dove la sensazione di pace viene accentuata da piante tropicali sparse qui e là e da un grande ventilatore marca Magneti Marelli che gira lento sul soffitto è poco lontano dalla strada delle fumerie d’oppio. Ci siamo passati davanti poco prima di arrivare al caffé. Sul marciapiede di fronte alle fumerie gruppi di uomini che giocano a carte concentratissimi. All’interno uomini distesi su lettini di paglia che aspirano dentro lunghe pipein bambù annerito. Il ragazzo si risiede sul divano inebriato dalla musica.
La sera ceniamo da Stephanie, la sorella di Catherine, ad Hanoi da quasi un anno. Lavora come medico in un ospedale privato. Ad Hanoi non c’è la malaria, ci dice. C’era stata la Sars e molti ospedali erano stati costretti a chiudere. Chi era dentro – malati, infermiere, medici – dentro c’è stato e talvolta è morto fino a quando non han tolto la quarantena. Grande scalpore aveva fatto, ci racconta, la morte di un medico italiano all’inizio dell’epidemia. Dice che lo conoscevano tutti, quel medico. Che era apprezzato e molto amato dalla gente. Molti pazienti occidentali? le chiedo. Lei ride e mi dice che ne arrivano molti che si sono fatti morsicare dalle pantegane che si nascondono dietro i water delle toilette dei ristoranti della città vecchia. La gente si siede, mi dice, e le pantegane impaurite mordono polpacci e caviglie. Per il resto qualche caso di dengue, e molte febbri e amebiasi. Complessivamente, conclude, Hanoi è una città abbastanza salubre. E’ molto cattolica Stephanie e lo è anche Guillaume, il marito, che lavora per SOS International, un’organizzazione di cui non conoscevo l’esistenza che si occupa di emergenze sanitarie, individuali o collettive, in tutto il pianeta. Ci parlano entusiasti del giubileo e del papa e di un loro viaggio a Roma. Hanoi è appena oltre il cancello del giardino, ma a starsene a tavola tra francesi, in una bella casa arredata con gusto, a spalmare formaggio di capra su croccanti baguette sembra irreale.
L’ultimo giorno ad Hanoi, nelle ore che precedono la partenza, sono frenetica. Ho l’impressione che la città mi sfugga, mi si spiatarri tra le dita. Scopro angoli nuovi a poche decine di metri dalla guesthouse. Perché non ci ho fatto caso prima? Sono frustrata, non voglio partire. Dai grandi amori è difficile separarsi senza stati d’animo.
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