1600 sono i km che abbiamo pedalato sulla Ring Road, la strada che compie il periplo dell’Islanda.
Pur essendo la strada principale presenta ancora più di 250 km di fondo sterrato che si trasforma in fango quando imperversa la pioggia.
25 Luglio ore 3 del mattino: il nostro viaggio inizia all’aeroporto, il cielo è insolitamente sereno ma sferza un vento polare e il termometro segna 4°C. Impazienti iniziamo a macinare i primi chilometri verso Reykjavik, in una soleggiata notte nordica. I giorni seguenti imbocchiamo in direzione nord la Road N°1 che ci porta alla scoperta di paesaggi meravigliosi e selvaggi.
I primi giorni la pioggia entra ovunque ma questo non spegne l’amore per una terra dove si respira libertà. Interminabili sono chilometri di vento contrario. Quando si arriva a sera e si monta la tenda le forze sono esaurite. Giunti nei pressi di Akureyri per un guasto meccanico abbiamo modo di conoscere di che pasta sono fatti gli islandesi, figli di una terra ribelle. Dietro il loro sguardo vichingo si nascondono il silenzio e l’onestà di un popolo ben lontano da quel mondo che usa l’ombrello per ripararsi dalla pioggia e che viaggia in fuoristrada su strade d’asfalto.
Attraversiamo zone dove l’attività geotermica dell’isola ci regala paesaggi surreali, dove tutto sembra bruciare, con fanghi che ribollono e acque sulfuree che sgorgano da terreno fumante.
Improvvisamente la strada si trasforma in una pista di fango tra rocce di lava, qui vige la sola legge di essere preparati a tutto: ci vorranno tre giorni per ritrovare un centro abitato. Il deserto lascia sulla nostra pelle, bruciata dal freddo, tanta sabbia. Noi lasciamo briciole della nostra anima su questa terra dove si susseguono il silenzio e il finimondo scatenato da bufere di sabbia e neve.
Dopo il deserto percorriamo fiordi così lunghi che per raggiungere i bei paesini sull’estremità di ogni promontorio bisogna percorrere almeno sessanta chilometri di frastagliata costa. Ci spingiamo poi giù sulla costa meridionale per conoscere il ghiacciaio più esteso d’Europa e contemplare spettacolari cascate tra le più famose al mondo.
Pedaliamo e qualche volta incontriamo altri ciclisti, racconti di pochi minuti con la speranza di ritrovarsi un giorno in qualche angolo del mondo.
Piove di nuovo ma ormai siamo abituati, prima o poi smetterà. L’Islanda è così.
La numero uno termina a Reykjavik che raggiungiamo dopo aver visto le imponenti cascate Gullfoss e visitato la zona geotermica di Geysir. Dalla capitale c’è ancora tempo per raggiungere la Laguna Blu dove, nuotando nelle acque termali che sgorgano a 40 gradi, sembra di aver trovato il paradiso, almeno finché non esci ed il vento ghiacciato ti congela il respiro.
La sera successiva siamo di nuovo all’aeroporto di Keflavik, sono passati ventitrè giorni ma adesso nelle gambe e nel cuore c’è la consapevolezza e il ricordo di tanti chilometri affrontati in scenari unici, con momenti difficili e momenti esaltanti ed irripetibili, vissuti in una terra non ancora infestata dagli uomini…
Traversata Brennero-Torino attraverso le Alpi di Austria e Svizzera.
Un solitario viaggiatore bergamasco incontrato sulla strada, gioioso per la vista di nuove leve, aveva malinconicamente definito noi ciclisti viaggiatori italiani “mosche bianche”. E in effetti noi di italiani con lo spirito del ciclista viaggiatore autosufficiente (a differenza degli stranieri) mai ne abbiamo incontrati.
Rimandato il viaggio in Norvegia per evitare le ostilità del clima, la nostra caccia di montagne, seppur vicino a casa, si è rivelata ben più dura di qualunque paese nordico. Dodici giorni di viaggio: otto di pioggia! Freddo, paludi, pantani, grandine, torrenti non strade, risaie al posto di campeggi! Acqua ovunque: nelle borse, in tenda (nostro unico microscopico tetto per tutto il viaggio)… (c’era acqua tra copertoni e camere d’aria, gomme a 8 atm!!).
Nei dodici giorni tra la partenza dal passo del Brennero e l’arrivo a Torino, abbiamo macinato, a caccia di colli (9 tra i 1500 e i 2500), poco meno di 1000 km per quasi 9000 metri di dislivello, percorsi con il carico ad un discreto ritmo. Ma sicuramente più dello sforzo atletico (per cui eravamo preparati) le sensazioni più forti sono venute dai posti spettacolari in cui siamo stati, dall’immensità dei passi dominati (scusate il termine ma…) o da affrontare l’indomani (provate a dormire guardando i tornanti del Furkapass!), dalla vita “on the road”, dagli incitamenti della gente per strada. Quando ormai anche il morale è annacquato e non ne puoi più di freddo e salita, un solo colpo di clacson sembra poterti spingere e una persona che si sporge dal finestrino urlando, in un qualche dialetto, qualcosa che doveva essere un “forza, non mollate!!!” ti genera improvvisamente una forza nuova.
Abbiamo attraversato suggestionanti città turistiche (S. Moritz, Interlaken, Gstadt…) ma soprattutto i posti che non dimenticheremo sono quei i passi alpini come l’Oberall, il Furka, il Grimsell o il Gran San Bernardo (o più semplicemente “il Grande” come lo chiamano), con i loro paesaggi mozzafiato ma soprattutto con salite alle volte lunghe e costanti alle volte con strappi senza pietà per nessuno, con quei tornanti che solo a vederli stroncano le gambe e emozionano al tempo stesso, e quegli arrivi che sembrano sempre a portata di mano, ma più li insegui più si allontanano… E quei posti come la piana glaciale di Andermatt, un triangolo verde tra colossi di roccia che sembrano non lasciare via d’uscita se non l’Oberalpass (da cui siamo arrivati) e il Furkapass che mostra cattivi i suoi tornanti a ponente.
Tornanti che sembrano infiniti, uno strappo rettilineo che taglia per chilometri il fianco di un costone, e poi ancora tornanti. E una volta arrivati, una fantastica distesa di montagne innevate, in lontananza il Grimsellpass con il suo splendido lago e sotto di noi una strada aggrappata alla montagna e tornanti mozzafiato sospesi nel vuoto (un’opera ingegneristica incredibile!).
Forse le prove più dure non sono venute dalle salite, ne tantomemo dalla volontà, che non deve venire mai meno, o da cadute e inconvenienti tecnici. Sono venute dalla difficoltà di convivere e prendere decisioni importanti sotto pressione, stanchi morti e bagnati fino all’osso. Dal tirare volate di chilometri per riuscire a procacciarsi da mangiare (in Svizzera può diventare più difficile del previsto) o nell’inutile tentativo di sfuggire all’ennesimo acquazzone, dal sapere che domani sarai di nuovo sulla strada, a qualunque costo…
Ci siamo lamentati delle ostilità che ci ha riservato il maltempo ma forse, in fondo a noi, siamo coscienti che così è stata molto più avventura, che molte emozioni non le avremmo altrimenti mai provate, sapendo che è un modo di viaggiare veramente unico e non vedendo l’ora di ripartire: forse alla volta della Norvegia, forse dell’Islanda… e così non potremo dire che non ce l’aspettavamo!
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