di Pierluigi Cortesi –
Pedalando tra Noricum e Raetia e
scendendo lungo la Via Claudia Augusta.
Giovedì 14 luglio, giorno della partenza
Giorno fatidico (mica è da tutti partire nell’anniversario della Presa della Bastiglia) … e faticoso: tre cambi di treno e un viaggio da Livorno a Bressanone di quasi 8 ore (e altrettanti litri di sudore) delle quali un paio regalate all’attesa delle coincidenze.
Ma è un sacrificio che ne vale abbondantemente la pena.
Uno scampolo d’estate, infatti, mi ha offerto l’occasione di fare un viaggio in bici con Francesco, il compagno di mia figlia Alice, nel Trentino-Alto Adige e nel Tirolo. E io ho colto al volo questa insperata opportunità, nonostante mi preoccupi la prospettiva di affrontare le Alpi nella stagione più calda dell’anno insieme a un temprato ciclista che ha un’età di un buon quarto di secolo minore della mia. D’altra parte l’idea di un viaggio del genere mi frullava già in testa, dopo la lettura in rete di alcuni articoli di “Life in Travel” sulle piste ciclabili del Trentino-Alto Adige.
Così, ho fatto finta di credere alle sue bugie pietose (nel senso della pietas filiale), tipo “Non sono allenato… Non mi piace fare le corse, ma godermi la pedalata… Userò la pesante mtb di tutti i miei viaggi… Sarai tu a dovermi aspettare… etc. etc.”. Poi, per ovviare al problema del caldo, abbiamo deciso di evitare l’attraversamento della Pianura Padana e di raggiungere in treno il punto di partenza del nostro tour. Il fatto di abbandonare la tradizione di partire in bici sempre da casa, mi secca un po’, ma il rischio di un colpo di calore – presente anche in montagna, figurarsi nelle piane assolate di Emilia, Lombardia o Veneto! – ha fatto cadere le mie riserve.
Abbiamo poi stabilito di partire il 14 luglio e di raggiungere in treno Bressanone, che coi suoi 5-600 m. non è proprio montagna, ma è sempre meno torrida delle nostre zone in questa estate infuocata. Da Bressanone seguendo il fiume Isarco, prenderemo la via del Brennero, per discendere in Austria. A Innsbruck piegheremo a Ovest seguendo il corso dell’ Inn e imboccandola Via Claudia Augusta fino al confine tra Austria, Svizzera e Italia. Infine, varcato il confine al Passo Resia, proseguiremo finalmente in discesa lungo la Val d’Adige fino a Merano, Bolzano o oltre, decidendo allora dove riprendere il treno che ci riporterà a casa.
Con un itinerario del genere, che richiede a occhio e croce di pedalare per 600 km abbondanti, saranno necessari almeno sei – sette giorni, ma non abbiamo scadenze di impegni familiari o di altro tipo da dover rispettare.
Quanto all’ equipaggiamento, quello di Francesco è stipato nei due borsoni appesi al retro della sua mtb, mentre il mio si riduce al solito zainetto Decathlon da 20 l. (con dentro l’indispensabile, ancor più ridotto all’osso) e al mio smartphone; questo, però, riunisce in sé la triplice funzione di telefono, macchina fotografica e navigatore grazie alla app Komoot, che mi permette di pianificare il percorso, scaricarne le mappe per l’uso off-line e registrare il percorso effettivo insieme alle immagini scattate e geolocalizzate. Per guidarci, infatti, non ho portato con me cartine di alcun genere, ma utilizzerò i tracciati salvati su Komoot, oltre alla proverbiale capacità di orientarsi di Francesco.
Alle 16.15 siamo finalmente nella piazza della stazione di Bressanone. Aspettiamo che il grosso dei viaggiatori (molti dei quali, come noi, avevano le bici caricate sul treno) sciami nelle varie direzioni e diamo il primo colpo di pedale, non senza aver prima constatato che ho dimenticato a casa casco e guanti. Nemmeno Francesco li ha, ma lui non li ha mai indossati, mentre io mi sento un po’ a disagio.
Durante il viaggio, esaminando le possibili varianti al percorso stabilito, abbiamo deciso, di comune accordo, di non puntare direttamente sul Brennero, ma di fare prima una deviazione in Val Pusteria e di risalire finché possibile la Valle Aurina.
Abbiamo un’ idea abbastanza chiara di dove dirigerci nella tappa odierna. Breve escursione per il centro, con passaggio obbligato davanti al duomo; la piazza è lastricata con tessere disposte ad arco, mentre due originali campanili fiancheggiano la facciata della cattedrale; pulizia e aiuole curate, gazebo e dehors testimoniano l’impegno della locale amministrazione ad attrarre sempre più turisti italiani e soprattutto stranieri.
E difatti di persone che, come noi, bighellonano, esplorano vie e piazze, fotografano chiese o monumenti, ce ne sono parecchie; molti dai lineamenti del viso, dall’idioma o dall’abbigliamento si rilevano chiaramente come non italiani. Non vedo in giro, invece, ma forse è solo un caso, persone di colore, orientali o comunque extracomunitari: colpa di un’amministrazione che in un modo o nell’altro li ha espulsi o saputi nascondere sotto il tappeto, o merito di un’amministrazione che è riuscita a integrarli perfettamente trovando loro un’occupazione? Non so quale sia la risposta, né di che colore sia la giunta comunale. Però un vecchio sbiadito manifesto recita “Fiaccolata contro i delinquenti Rom”.
Ed eccoci pronti a inoltrarci in quella parte di provincia romana che duemila anni fa prendeva il nome di Noricum e di cui l’Isarco e l’Adige costituivano la linea di confine meridionale rispetto alla contigua Raetia.
Raggiungiamo il lungofiume vicino al punto in cui il fiume Rienza si getta nell’Isarco e proseguiamo verso nord su una ciclopedonale piuttosto affollata. La lasciamo dopo 3-4 km per voltare le spalle al fiume e arrampicarci con qualche affanno su una collinetta in direzione di Sciaves, a oltre 800 m. di altitudine. Da qui ci immettiamo nella ss.49 della Val Pusteria, che procede verso Est costeggiando il Rienza.
Dopo qualche km in mezzo a un traffico automobilistico veloce e sostenuto, l’ennesimo strombazzamento ci fa capire che è il caso di utilizzare la ciclabile che -lo scopriamo solo ora- corre parallela alla statale: la “Fahrradroute Pustertal” una ciclovia in sede propria, abbastanza ampia e dal fondo asfaltato in buone condizioni, che segue l’andamento altimetrico della ss.49, con qualche dolce saliscendi in più, costeggiando prati e declivi erbosi, o più raramente addentrandosi in qualche boschetto.
Imbocchiamo dunque la ciclovia della val Pusteria, o meglio Fahrradroute Pustertal, consapevoli che sarà una costante del nostro viaggio la toponomastica bilingue, già sperimentata per le vie di Bressanone e per la quale molti italiani provano fastidio, interpretandola come uno sprezzante rifiuto dell’appartenenza allo Stato italiano; d’altra parte se la doppia denominazione, italiana e dialettale, viene ammessa in val Brembana, in Barbagia o in Friuli, dove la popolazione è interamente italiana, a maggior ragione è lecita qui in Trentino-Alto Adige dove i germanofoni sono mediamente la maggioranza e ben ricordano la forzata (e spesso ridicola) italianizzazione della toponomastica durante il fascismo. Se Mussolini, per ipotesi, si fosse appropriato del resto del Tirolo, sarebbe stato capace magari di cambiare il nome di Innsbruck in Pontedeno.
Poco prima di Vandoies, la ciclabile attraversa il Rienza spostandosi sull’altra sponda; il percorso si fa più stretto e ombreggiato, immerso com’è nella vegetazione. Ogni tanto, specie in prossimità di incroci o ponti, incontriamo degli ampi pannelli verticali in cui viene indicato il percorso principale della ciclabile e le possibili intersezioni, ovvero le deviazioni verso località vicine che presentano degli elementi d’interesse. Ed è appunto ad uno di queste intersezioni, segnalata con l’indicazione di Chienes, che noi abbandoniamo la ciclabile e varchiamo nuovamente il Rienza. Il responsabile della scelta sono io: la ciclabile ci avrebbe condotto fin dentro Brunico, ma il ricordo delle difficoltà incontrate qui 15 anni fa nel mio cicloviaggio in Austria, mi ha spinto a cercare di aggirare la città.
Ma è stata una scelta poco azzeccata: lasciare la fresca, pianeggiante e ombrosa sponda del Rienza, per inerpicarsi con una bici carica sotto il sole cocente di metà luglio si rivela una decisione poco felice, tanto più che dopo Chienes, continuiamo a salire fino a Issengo, a oltre 1000 m. di quota. La strada sale ancora lievemente poi inizia la discesa. Ma a Falzes anziché prendere il bivio per Campo Tures, continuiamo fino a… Brunico, dove finalmente imbocchiamo la ss.621 o via della Valle Aurina.
La valle, che si incunea verso il territorio austriaco, prende nome dal fiume Aurino (Ahr in tedesco) che scorre non lontano dalla strada; è un corso d’acqua, in verità molto modesto, che nasce poco più di 50 km a Nord-Est, quasi al confine con l’Austria, per poi gettarsi nel Rienza. La statale però termina dopo una quarantina di km presso il Berghotel Kasern, per continuare sotto forma di sentiero e poi di mulattiera o sentiero alpino, percorribile solo a piedi o tutt’al più con mtb da montagna. La valle, infatti, non ha sbocco ed è chiusa frontalmente e lateralmente dai rilievi il cui versante nascosto è quello austriaco. Nella parte iniziale è abbastanza ampia ed è costeggiata da ampi prati delimitati più in alto da boschi di conifere; poi oltre Campo Tures (o Sand in Taufers) tende a restringersi e a infossarsi sempre più. Campo Tures è appunto la nostra meta di stasera o meglio la sua frazione Camminata (italianizzazione più o meno forzata dell’originario Kematen), dove abbiamo fissato un B&B.
Giungiamo a destinazione nel tardo pomeriggio; il nostro alloggio, il Garni Schwarzenstein è la classica abitazione (sud)tirolese a due piani, in pietra intonacata e legno, col tetto fortemente spiovente e una balconata fiorita, un giardino e un lastricato adornato da una fonte con un’acqua gelida, ma deliziosa; tutt’intorno il verde chiaro dei prati, quello più scuro degli abeti che in lontananza si arrampicano sui crinali dei monti.
Però quel che noi più apprezziamo è un ampio ripostiglio-garage in cui custodire le nostre bici. La stanza è ampia e luminosa con due letti coperti da due piumoni (come del resto in gran parte dell’Europa) anziché da lenzuola e coperte Il personale (noi incontriamo solo una signora e il padre anziano) è molto discreto e silenzioso, come del resto l’intero Garni, che ci dà la sensazione di essere noi gli unici clienti.
Poiché qui forniscono solo la colazione del mattino, dopo esserci lavati e rivestiti con tutta calma, ci avviamo a piedi verso Campo Tures alla ricerca di un ristorante, non prima, però, di aver scattato qualche (dozzina di ) foto, nonostante la luce se ne sia andata da un pezzo.
La cittadina di Campo Tures dista solo un km, ma la stradina che noi percorriamo, accompagnati solo dallo scrosciare di un ruscello vicino, è del tutto deserta, ormai priva di illuminazione, fiancheggiata da campi di alto granturco; forse anche per questo ci è difficile orientarci e anziché nel paese ci ritroviamo sulla statale all’altezza di Tures, una frazione, attirati come falene dalla vivida luce di un edificio che avevamo scambiato per ristorante. Ma qui non ci sono locali aperti e una persona ci consiglia di tentare a Mulini di Tures, un’altra frazione “distante solo 500 m.”, anziché andare al paese.
In realtà dobbiamo camminare non 500, ma 1500 m. e quando arriviamo, troviamo il ristorante in chiusura, perché sono le 21.30 passate. La storia si ripete una seconda volta, finché, al terzo tentativo, il gestore ci dice che la cucina è già chiusa e il personale è tornato a casa, ma se ci accontentiamo di una pizza, può prepararcela. Non ce lo facciamo ripetere e, poco dopo, accompagnate da due boccali di birra alla spina, ci vengono scodellate due pizze di dimensioni ragguardevoli e –quel che conta- di consistenza e gusto assolutamente perfette.
Salvata in qualche modo la cena, affrontiamo la lunga camminata per tornare, appunto, a Camminata e concludere questa nostra prima giornata altoatesina.
Percorsi oggi 50 km circa in 3h:20’ e un dislivello totale di 700 m.
https://www.komoot.com/tour/10463014
Venerdì 15, 2° giorno
Sveglia non proprio all’alba. Ci fiondiamo subito al piano terra per la colazione. L’impressione un po’ dimessa che avevamo ricavato ieri sera sul Garni e i suoi gestori si dilegua rapidamente: la tavola è imbandita riccamente per gli amanti del dolce e del salato. Eccezionalmente mi servo più volte del burro che da queste parti ha un sapore intenso e saporito più che da noi, così come di marmellate e crostate fatte in casa, mentre Francesco che non è vegetariano, assaggia anche formaggi e speck, seguendo i consigli dell’anziano proprietario, il quale si rivela riservato, ma disponibile a una chiacchierata non formale.
Lasciamo soddisfatti questa struttura che ha il vantaggio di essere distante appena un km dal centro di Campo Tures, lontano da chiasso e confusione e facilmente raggiungibile anche dalla ciclabile.
Prima di ripartire telefoniamo ad Alice, mia figlia, nonché compagna di Francesco e ci facciamo fissare un altro Garni dalle parti di Vipiteno; dopodiché, recuperate le bici, ci dirigiamo verso il paese.
Attraverso distese coltivate a granturco, già alto nonostante il colore sia ancora intensamente verde, raggiungiamo Campo Tures (o Sand in Taufers in tedesco). Attraverso stradine su cui si affacciano edifici storici si accede alla piazza centrale; l’intera area è pedonalizzata e risulta frequentata da un buon numero di turisti. Procedendo, un bel ponte di legno coperto permette di superare il torrente Aurino che scorre tumultuoso, provenendo dalla montagna e dalle vicine cascate di Riva.
Oltre il ponte una breve salita conduce all’imponente castello di Taufers che da 800 anni incombe sulla cittadina. Appoggiate le bici a dei cespugli, percorriamo circa un centinaio di metri su uno sconnesso sentiero serpeggiante in salita dentro una rada boscaglia, fino a raggiungere uno spiazzo che attraverso un corto ponte levatoio porta al castello.
Visto da qui è tutto un sovrapporsi di torri e torrioni di varia altezza e forma, rotonda, quadrata, ottagonale, che al pari di finestrelle e feritoie, rendono bene l’ idea di una fortezza.
Appena superato il ponte levatoio e il portone d’ingresso, entriamo in una sorta di cortile –forse l’ avancorpo- che separa l’esterno dalle mura vere e proprie; vari pannelli e audiovisivi descrivono le caratteristiche sommarie del castello e le modalità di ingresso e di visita del complesso, che comprende una settantina di ambienti diversi: mastio, spalti, armeria, fucina, prigioni, sale di tortura, sala delle udienze, cappelle, biblioteca, salone, camere da letto…
Molte stanze sono completamente in legno, ovviamente restaurate e arredate con mobili e suppellettili fedeli agli originali, mentre la cappella ospita pregevoli affreschi. Non stupisce quindi che oltre a numerosi visitatori ogni anno, questo possente castello sia stato uno scenario insuperabile per film e sceneggiati.
Ci rendiamo conto, tuttavia, che la visita, ormai possibile solo nel pomeriggio, ci impedirebbe di giungere in tempo al Garni di stasera. Per lo stesso motivo rimandiamo ad un’altra occasione l’esplorazione del resto della valle Aurina fino a Predoi e oltre. Perciò a malincuore montiamo nuovamente in sella per ripercorrere la strada fatta ieri, ma senza abbandonare la ciclabile fino a Brunico.
Il paesaggio è bucolico nel senso più letterale del termine: nei pascoli che si alternano ai campi di granturco e sembrano – dimensioni a parte – dei pratini inglesi dall’ erba curata e uniforme, delle mucche a gruppetti o isolate se ne stanno placidamente sdraiate, sollevando appena la testa al nostro passare.
La ciclabile, anche nella parte che all’andata non avevamo percorso, segue quasi fedelmente la statale e l’Aurino e, dato che gli unici saliscendi sono qualche dosso di pochi metri, riusciamo a mantenere una velocità di crociera abbastanza rapida.
Così, dopo Villa Ottone, Gais e S. Giorgio, entriamo nella periferia settentrionale di Brunico e in poche centinaia di metri raggiungiamo il fiume Rienza. Qui un indicatore segnala ai ciclo viaggiatori le tre principali ciclovie che si incrociano in questo punto: la Radroute per Innichen e l’Austria, quella per la Valle Aurina da cui proveniamo e quella per Mühlbach-Val Pusteria.
Quindi abbandoniamo la via Andreas Hofer (l’eroe nazionale del Sud Tirolo, distintosi in epoca napoleonica per aver difeso l’indipendenza della sua terra contro Francesi e Bavaresi, mi spiega Francesco) e varchiamo il ponte portandoci sulla sponda opposta.
La ciclabile (ma bisognerebbe dire ciclovia, dato che è un itinerario a lunga percorrenza che scorre in sede propria) della Val Pusteria procede verso Ovest sinuosa e gradevolmente ombreggiata, scendendo con una pendenza praticamente inavvertibile di circa 100 m. in 20 km e sfiorando piccoli paesi, tutti rigorosamente dal doppio nome italiano e tedesco. Come avevamo avuto modo di notare anche ieri, lo scenario è sempre ordinato, lindo, colorato, quasi monotono: sia nei centri urbani sia in campagna le abitazioni hanno tutte muri di legno, balconate fiorite, tetti fortemente spioventi; oltre alle forme, anche i colori si ripropongono sempre uguali nella loro sequenza quasi patriottica: il verde dei campi, il bianco (e marrone) delle case, il rosso dei tetti e dei gerani.
Anche oggi incontriamo ogni tanto dei pannelli indicatori che dànno informazioni sulla ciclovia e sui paesi più vicini; ce n’è uno che ci incuriosisce: è in pratica un conta persone, oltre a data e ora, mostra il numero di ciclisti passati nell’intervallo di tempo e il totale nell’anno. Le cifre sono ragguardevoli (115 ciclisti in meno di due ore e quasi 20.000 in sei mesi e mezzo circa) e fanno a malapena immaginare il potenziale volume di traffico turistico e di promozione economica che potrebbe essere messo in gioco anche in altre regioni italiane, grazie alla predisposizione di infrastrutture come le ciclabili.
Proprio in prossimità del pannello, raggiungiamo una strana bicicletta, anzi quadriciclo, visto che ha quattro ruote: viaggia rasoterra, ha una tenda per tettuccio che ricorda un po’ i carri dei pionieri, però in miniatura, ma soprattutto corre così veloce da farci supporre che disponga di un motore, forse elettrico dato che il rumore che produce non è quello di un veicolo diesel o a benzina. Il pilota, con in testa una calottina di cuoio che ricorda quella di Nuvolari, è anziano e portatore di handicap, come si desume da due stampelle fissate lateralmente, oltre che dal suo mezzo di trasporto.
Lo superiamo lanciandoci in discesa, poiché qui la ciclovia è costituita da un nastro di asfalto che, dopo essersi arrampicato sull’altra sponda, scende rapidamente in basso tra prati verdissimi, a tratti punteggiati da variegati gruppi di arnie. Di quando in quando, da appassionato apicoltore, Francesco si sofferma a esaminare qualche apiario non troppo lontano dagli steccati, oppure quei cespugli di piante mellifere intorno ai quali vede ronzare numerose api.
È frequente imbattersi in mucche, capre e cavalli a bordo strada o in qualche scoiattolo che ci osserva incuriosito e prudente al di là di una recinzione, un po’ meno normale è osservare un giovane lama brucare l’erba vicino a un parco giochi.
Ogni tanto affianchiamo un binario ferroviario che dovrebbe essere quello che collega Bressanone con S. Candido, ma mi stupisce il fatto che non abbiamo mai incontrato treni e che la linea sia costituita da un binario singolo.
Poco prima di arrivare al bivio per Sciaves, ci fermiamo presso uno snack bar a margine della ciclovia, ma raggiungibile anche da auto e moto. Il cappuccino e soprattutto lo strudel sono così buoni che io faccio il bis; probabilmente, sommati all’abbondante colazione del mattino, mi permetteranno di arrivare fino al pomeriggio inoltrato.
Riprendiamo la ciclovia, fino al suo termine, dove siamo costretti a reimmetterci sulla ss.49 della Val Pusteria, ma per poco; dopo circa un km prendiamo una stradina dal traffico quasi inesistente che ci porta prima a costeggiare, poi ad attraversare il nostro nuovo fiume, l’Isarco (o Eisack).
Sorpassiamo nuovamente il quadriciclo, che deve averci superato mentre eravamo al bar e iniziamo la nostra lenta salita verso Vipiteno.
Inizialmente siamo costretti a percorrere la statale del Brennero, strettamente incassata nella valle dell’Isarco. La grigia ss.12, nonostante la presenza della vicina Autostrada, non sembra alleggerita nel traffico: mezzi pesanti e auto a tutta velocità, clacson e gas di scarico sono un brusco risveglio alla realtà quotidiana dopo quasi due giorni di relax. Poi, per fortuna riprendiamo una ciclabile all’altezza di Fortezza. Se prima la salita è stata impegnativa, adesso è dolce e il paesaggio si apre nuovamente su vallate più ampie e luminose. Tornano gli animali al pascolo, i campi coltivati, i frutteti, le case coi fiori ai balconi. Incrociamo solo qualche residente sul suo scooter o sul trattore, per il resto la strada è nostra.
Qua e là ci imbattiamo nei tabernacoli in legno, i “Wegkreuz”, caratteristici di quest’area: recano una croce con un Cristo sotto il tettuccio e, sotto, dei fiori campestri o delle piante fiorite. In qualche caso dalle mani del Cristo pendono delle pannocchie o delle spighe di grano, a seconda della coltura praticata nei campi vicini; e forse è anche allo scopo di proteggere l’uomo e le sue opere che sono stati eretti.
Ci fermiamo qualche minuto ad esaminarne uno situato tra due alberi e vicino ad una casa che si distingue dalle altre per essere intonacata in grigio e avere qua e là varie finestrelle (o meglio buchi, di forma irregolare) e infine un giardino che è la tavolozza di un pittore, tanti e variopinti sono i fiori che lo popolano. Completa il quadro il lento sopraggiungere di un veicolo (un incrocio tra un carro e un calesse) trainato da due cavalli bai: è di legno, con ruote piccole e gommate ed è condotto da una donna e da un vecchio; nell’insieme è un scena dal sapore antico, quasi il bozzetto ottocentesco di un pittore naturalista.
A rompere l’incanto ci pensa l’omino del quadriciclo misterioso, che sfreccia superando noi e il carro senza rallentare minimamente. A questo punto è probabile che giochi a rimpiattino con noi per tutto il viaggio, o quantomeno fino a Vipiteno.
Ripartiamo. La strada smette di salire, anzi inizia a scendere dolcemente verso Stilves. Qui avvisati da un cartello della vicina interruzione della ciclabile deviamo sulla statale per evitare di venire bloccati, mentre il quadriciclista, che nel frattempo avevamo di nuovo sorpassato, continua sulla sua stradina, non essendosi accorto, evidentemente, del cartello. Gli diciamo mentalmente addio e raggiungiamo Vipiteno.
Non c’è bisogno di attraversare la città, perché il bivio verso Passo Giovo e verso Racines, che è la nostra meta odierna, si trova all’estrema periferia sud.
Alterniamo, quando possibile, la statale al vialetto ciclopedonale che le scorre accanto. Lasciamo alla nostra sinistra la statale per il passo Giovo che, dopo aver superato i 2000 m, ridiscende con ripide serpentine fino alla Val Passiria, per concludersi a Merano.
Quando sfioriamo il grande stabilimento Sterzing-Vipiteno, in cui si produce l’omonimo yoghurt, prendiamo in considerazione l’idea di fermarci per uno snack pomeridiano, ma poi non ne facciamo di niente. Subito dopo troviamo l’imbocco per una ciclabile che in pochi km dovrebbe portarci al Garni prenotatoci da Gea e Alice per stasera: il Bergland di Racines (ovvero Ratschings); a dire il vero, la località precisa non è chiara, perché si parla di una frazione Racines-di-dentro che si trova oltre il paese di Stanghe. Appena arriveremo nelle vicinanze di Racines – ci diciamo speranzosi – chiederemo informazioni.
La ciclabile, voltate decisamente le spalle all’asfalto, procede nel verde fino a giungere sulla riva di un torrente, il Rio Ridanna. Il navigatore non ci è di nessun aiuto, perché sotto gli alberi il GPS ha dato forfait, ma non è difficile scegliere, dato che a sinistra si andrebbe nuovamente in direzione di Vipiteno, perciò noi optiamo per la destra.
Si risale molto dolcemente il corso d’acqua; un cartello ci informa che ci troviamo in un Biotopo; poco più avanti laddove un ampio prato si apre sulla destra, ci incuriosisce la presenza di un contenitore di sacchetti per le deiezioni canine: niente di strano vederli in una piazza o strada di città, ma qui in un viottolo, dove siamo noi gli unici umani nel raggio di chissà quante centinaia di metri? L’arcano è svelato da un cartello: le feci dei cani sono portatrici di neosporosi (?!) e di altre malattie capaci di far abortire i bovini e inquinare acque, terreno e colture! C’è sempre da imparare… Mentre il letame bovino, equino, ovino, suino e avicolo è da sempre considerato un buon concime naturale, quello dei poveri cani viene demonizzato al pari della peste bubbonica! Però, in effetti, qualcosa di vero deve esserci, se anche in città è vietato porre le deiezioni canine nei contenitori dell’umido, ma vanno gettate nell’indifferenziato.
È già un bel po’ che pedaliamo e ancora Stanghe non si vede. Comincia a venirci qualche dubbio, ma non sapendo dove –eventualmente- abbiamo sbagliato strada, decidiamo di procedere ancora finché non ci imbatteremo in un centro urbano o almeno in una casa. E finalmente ecco un gruppo di case. Ci indirizziamo verso un capannone da cui proviene rumore di una sega elettrica. Immerso nella polvere e nell’odore del legname appena segato, un operaio ci spiega che ci troviamo a Mareto, non a Stanghe, localizzato tre km più a valle, sul lato occidentale del rio.
Attraversato il Ridanna al primo ponte incontrato, discendiamo lungo il corso d’acqua con qualche perplessità, finché avvistiamo il cartello del paese: siamo effettivamente a Stanghe e Racines risulta essere una sua appendice, ma nessuno sa spiegarci dove si trova il Garni. Il navigatore ora funziona, ma non è di molto aiuto: ci dice che siamo già arrivati (in effetti, stamani avevo impostato come meta finale proprio Racines, non l’indirizzo esatto dell’albergo).
Francesco propone di prendere la prima strada che si dirige verso le montagne, io vorrei prenderne un’altra più larga e meno ripida che intravedo più avanti, ma alla fine lascio decidere a lui.
La salita ha una pendenza inizialmente moderata, poi con una serie di tornanti si scatena (o forse sono solo io che accuso la stanchezza di una giornata meno leggera del previsto). Francesco sale con maggior baldanza fisica e mentale di me, ben più di quanto dovrebbero consentire i 25-30 anni di differenza rispetto alla mia età, tanto più tenendo conto del maggior peso di bici e bagaglio.
Ogni tanto mi infilo in qualche stradina laterale in fondo alla quale si intravede una casa, nella speranza che sia il nostro Garni, mentre Francesco tira dritto impietosamente senza concedersi nemmeno il beneficio del dubbio. Ma i fatti gli danno ragione; all’altezza di Pradaun, mi fermo per riprendere fiato e mi rendo conto che Francesco ci ha condotto sulla via giusta: la strada che proponevo io ci avrebbe portato in tutt’altra direzione, verso il Passo Giovo!
Per fortuna la pendenza diventa più accettabile e in pochi km (ma molti e sofferti minuti) raggiungiamo la località Case-di-sotto dove si trova il Garni Bergland. Anche qui un bell’edificio in pietra e legno con una spaziosa balconata e gerani a profusione. La proprietaria ci accoglie con cordialità, ma quello di cui ho più bisogno è una lunga doccia rigenerante.
È buio, quando usciamo, ma non così tardi da rischiare la cena anche stasera. Salendo un km più a monte, raggiungiamo un chiassoso ristorante-pizzeria, con specialità regionali (il nostro piatto principale è un patriottico tris di canederli al pomodoro, ai formaggi e agli spinaci, seguito dal prevedibile strudel) e dei bei boccali di birra, che la discesa -al buio e al freddo- provvederà a farci smaltire.
Prima di sprofondare nel sonno, c’è giusto il tempo di annotare i dati registrati da Komoot: 100 km circa in 6h:20’ e un dislivello totale di 1200 m.
https://www.komoot.com/tour/10471480
Sabato 16, 3° giorno
Credo di aver dormito come un sasso, ma mi muovo a rallentatore, per fortuna il caffè bollente della colazione, col consueto accompagnamento di zuccheri, grassi e proteine in forma solida, mi restituisce un po’ di vigore; è comunque Francesco che tiene le public relations con la proprietaria; io mi limito ad annuire a bocca piena.
Lasciamo quel paese non-paese, dai mille ingannevoli nomi, dopo aver dato indicazioni alle nostre compagne, navigatrici a distanza, di cercare il prossimo albergo in zone possibilmente pianeggianti o comunque non troppo in alto rispetto al punto in cui pensiamo di fermarci per la notte. Stasera ad esempio ci proponiamo di arrivare fino a Innsbruck dopo meno di 80 km; tappa breve, quindi, anche se ci sarà da fare i conti con la salita al Brennero e l’attraversamento di Innsbruck.
Scattiamo qualche foto alle montagne azzurrine che incorniciano uno scenario fatto di scure conifere e prati di un verde lucente, ma nonostante le soste la discesa è abbastanza veloce e la strada non sembra poi così terribile come quando l’abbiamo percorsa in salita.
Attraversiamo Stanghe e imbocchiamo una ciclabile sterrata che ci porta direttamente in un fitto boschetto e poco dopo ad uno spiazzo in cui troneggiano alcuni massi disposti ad arte su un letto di pietre: è il Giardino di Pietra, spiega un cartello, che illustra i diversi tipi di roccia e di processi geologici nelle Alpi altoatesine; le pietre infatti costituiscono una specie di mosaico che riproduce la forma della regione.
Giungiamo al Rio Ridanna che attraversiamo su un ponticello di legno per ritrovare, dopo un paio di curve, la stradina asfaltata e il bivio che ci aveva tratto in inganno ieri.
Raggiunta Vipiteno ci inoltriamo nella città vecchia lungo via Gansbacher sulla quale si affacciano edifici antichi e colorati e che è percorsa nei due sensi da centinaia di turisti. Anche noi, appiedati, ci lasciamo trascinare dalla fiumana, finendo col perderci di vista per una decina di minuti.
Usciti da quel bagno di folla procediamo in direzione del Brennero, paralleli al fiume Isarco, ma senza doverci inserire nel traffico della ss.12 se non per brevissimi tratti.
A Novale di sotto ci allontaniamo definitivamente dalla statale e, superato l’Isarco e la ferrovia iniziamo a salire su una bella pista asfaltata che ci porta a Colle Isarco e poi piega a Ovest in una stretta valle verso Valminga, dandoci l’impressione di procedere in una direzione sbagliata. Ma la mia fede in Komoot – che oggi funziona perfettamente – è incrollabile: quanto a Francesco, si sente appagato dalla bellezza del paesaggio e dall’ assoluta mancanza di auto, gas di scarico, rumori, voci.
Un altro brusco cambio di direzione e il navigatore ci rivolge nuovamente verso Est, facendoci imboccare una specie di carrareccia che sale rapidamente di quota in mezzo agli alberi. La loro ombra non mi dispiace, perché pur essendo ben oltre i 1000 metri, il caldo, abbinato alla mancanza di vento, si fa sentire; decido perciò di liberarmi della maglietta.
Ripassiamo dalle parti di Colle Isarco (che peraltro non vediamo, perché una fitta cortina di abeti ce lo impedisce) che però si trova 200 m più in basso.
Finalmente l’origine della strana pista ci viene svelata da un vecchio edificio lungo la strada. La struttura è abbandonata, fatiscente, ma è ancora ben riconoscibile la sua natura originaria: si tratta di una ex stazione ferroviaria e la nostra pista è stata ricavata appunto dalla linea ferroviaria dismessa e riconvertita. Questo spiega anche perché la salita fosse addolcita dalle curve, in modo da permettere al treno di affrontare una pendenza uniforme.
A riprova di questo ci si para davanti una galleria stretta e buia che verosimilmente doveva ospitare un solo binario. Noi, esaltando la saggezza e la preveggenza di chi ha saputo riciclare così utilmente le ferrovie dismesse, percorriamo il tunnel lentamente, anche a causa di ghiaia e sassi caduti dalle pareti o trascinati dentro dalla pioggia.
Stiamo per sbucare fuori, quando vedo arrivare in senso contrario e a tutta velocità una mountain-bike che per evitare le buche e le pietre della sua parte di carreggiata, si è spostato tutto sulla nostra. Noi siamo ancora in galleria e lui da fuori non ci ha visto. L’unica cosa che ho il tempo di fare e di gridare un “Oooooh!” con quanto fiato ho in corpo. Francesco, che non si è accorto di nulla, sobbalza e l’altro con una manovra violenta riesce a imprimere alla sua bici un miracoloso cambio di direzione: mi sfiora soltanto con la sua giacca a vento e fila via nel buio della galleria, presumibilmente senza cadere.
Adrenalina a mille, ma il pericolo è scampato; comunque non abbiamo più tanta voglia di lodare acriticamente chi trasforma il sedime ferroviario in pista ciclabile, senza curarsi della successiva manutenzione.
La pendenza ora è molto più dolce e dà l’impressione che la fine della salita sia prossima, ma non so ancora quanto manchi al confine. A fondo valle si sono riuniti a breve distanza l’uno dall’altro l’Isarco, la nostra pista, la statale 12 e l’autostrada, a cui si unisce a un certo punto anche la ferrovia, sbucata fuori da qualche tunnel.
L’aria è ora più fresca, anche perché il sole è oscurato da qualche nube e un vento frizzante si è incuneato nella stretta vallata, ma io continuo imperterrito a pedalare a torso “nudo alla meta”. Finché lo squillo dello smartphone mi costringe alla sosta: da casa vogliono notizie, visto che ancora non ho chiamato. Non mi faccio pregare e dopo aver fatto un resoconto più che dettagliato, chiedo di cercare un albergo a Innsbruck, dove arriveremo in serata, o nelle vicinanze immediate; la città austriaca è in un ampio fondovalle lungo il fiume Inn a 600 m. circa di altitudine, perciò non ci sarà il rischio di scalare qualche montagna se l’albergo si trova in un raggio di 5-10 km dal centro città.
Al momento di chiudere la comunicazione, mi rendo conto di aver difficoltà nei movimenti fini della mano nella foga della conversazione non mi ero accorto che stavo congelando; al momento di ripartire noto che due ciclisti mi stanno fotografando e non certo per la mia avvenenza.
Infilata di nuovo la maglietta, pedalo a più non posso non solo per scaldarmi, ma per ritrovare Francesco che nel frattempo è andato avanti. Ma la corsa dura solo un paio di km, perché pochi minuti dopo sono già arrivato al Passo del Brennero.
Fa un certo effetto pensare a ciò che questo luogo ha rappresentato nel tempo: punto di transito di mercanti, fuggiaschi, avventurieri, contrabbandieri, eserciti invasori, o popoli interi durante le grandi migrazioni; territorio passato di mano da uno Stato all’altro in seguito a un conflitto come la guerra I mondiale; luogo di incontro tra il dittatore nazista e quello fascista, passaggio di tradotte che portavano soldati o ebrei ai rispettivi macelli, bersaglio di bombardamenti aerei o azioni di guerra; e ancora, più recentemente, zona di confine che, dopo il trattato di Schengen, ha visto l’abolizione delle frontiere e una più libera circolazione di uomini e merci, ma anche una crisi economica locale dovuta alla partenza di guardie di finanza e forze di polizia.
Oggi quel che vedo io è soprattutto un gran movimento di turisti, auto e automezzi pesanti. Nelle poche centinaia di metri prima del confine, non si contano i negozi, i negozietti, i centri commerciali, i caffè, le tavole calde, i ristoranti e molte strutture moderne.
Finalmente vicino alla stazione ritrovo Francesco. Insieme entriamo in un bar, dove ordino una cioccolata bollente, per frenare i brividi ed espellere dalle ossa il senso di freddo e umidità accentuato da un banco di bruma scesa improvvisamente sul valico. Poi ci arrampichiamo (letteralmente a quattro zampe: troppo banale prendere un comodo vialetto) di qualche metro fino ad un’area picnic posta su un costone a lato della strada e consumiamo un rapido spuntino con quello che abbiamo portato dall’albergo o comprato qui.
Là dove la frontiera italo-austriaca è indicata, oltre che dai cartelli, anche da edifici e strutture di pertinenza delle guardie di confine austriache, non si vedono i doganieri o i militari preannunciati da Vienna per controllare o ostacolare la presunta invasione di migranti provenienti dall’Italia. Per la verità non si vedono neanche i migranti, a meno che non si siano nascosti a bordo di qualche camion o pulmino. Il che mi fa pensare che spesso le parole –e le azioni- dei governanti europei rispondono più a demagogia e convenienza politica e che non a esigenze reali.
Ripartiamo. La pausa è stata breve, ma ci ha consentito di riprenderci (almeno per quanto mi riguarda) dalla fatica della salita. La discesa inizia subito con una discesa ripida (mi vengono i sudori freddi a pensare come sarebbe stato affrontarla in salita), ma a frenare l’andatura è soprattutto il traffico assai intenso, anche di mezzi pesanti; mi chiedo perché in tanti non abbiano scelto l’autostrada. La pendenza si placa un po’ in prossimità di un lago che si intravede a momenti oltre l’autostrada che ci scorre a sinistra, poi si riprende a scendere fiancheggiando un torrente ora a destra, ora a sinistra; io mi azzarderei anche ad andare più veloce, ma Francesco, che odia l’affollata coabitazione coi mezzi a motore ammorbanti e strombazzanti, rallenta; e io mi adeguo.
Ma appena arriviamo a Stafflach ci fermiamo a chiedere di una pista ciclabile o, quanto meno, di una strada secondaria rispetto alla Brenner Straße; però, sia che le indicazioni non risultino esatte o che non capiamo bene le risposte, sta di fatto che giriamo a vuoto. La cosa si ripete a Steinach, dove percorriamo inutilmente un paio di km su una promettente stradina oltre la ferrovia. E io che credevo che in Austria ci fossero Radweg ovunque!
Finalmente a Matrei am Brenner un’insegna indica chiaramente una pista ciclabile: la imbocchiamo, ma dopo una salita breve quanto dura ci troviamo di fronte a un cartello che segnala la Römerweg con una conchiglia gialla stilizzata in campo blu, l’icona tipica del Camino di Santiago. Ci pare che questa Römerweg ci porterebbe un po’ fuori strada.
Torniamo indietro finiamo nell’area sportiva di una scuola e finalmente imbocchiamo una stradina che non è propriamente una ciclopista, dato che sporadicamente vi circola qualche mezzo a motore, ma è quanto più le si avvicina. Saliamo di quota fino a Pfons, ma anche dopo affrontiamo frequenti saliscendi con qualche strappo improvviso.
Il verde fiorito dei prati domina intorno a noi, interrotto qua e là dalla macchie più scure di qualche bosco, mentre il fiume Sill che ci accompagna dal Brennero è invisibile, infossato in fondo alla valle. Sull’altro versante si riconoscono le linee sottili della Brenner Straße e, più in alto, della autostrada, ma in fondo non disturbano più di tanto. Forse anche data l’ora, non vedo nessuno nei centri abitati, né lungo la strada, dove solo qualche caratteristica abitazione qua e là testimonia la presenza dell’uomo. Anche qui come nel Trentino, la pendenza terrificante dei fianchi più alti della valle interroga sulla possibilità di usare carri, trattori o altri mezzi meccanici per la fienagione su terreni così scoscesi che pare si possa camminarvi solo carponi.
Dopo Ellbögen, Walzn, raggiungiamo St. Peter, dove una bella casa del 15°-16° sec., molto ben conservata e restaurata, mostra sulle pareti dei begli affreschi aventi per oggetto gli animali e i mezzi di trasporto tipici del luogo e del tempo, ma anche una bella iscrizione che andrebbe meditata anche ai giorni nostri “Che sia pagano, ebreo o cristiano, venga qui chiunque è assetato”.
Al villaggio successivo, troviamo finalmente una bottega aperta: è quella di un intagliatore, che sta lavorando ad alcune maschere, per lo più terrificanti e diaboliche, che ricordano –in peggio- le espressioni ghignanti dei Mamuthones, Boes e Merdules sardi. Francesco si mette a parlare con lui, non so come facciano a intendersi visto che il primo non conosce il tedesco, né il secondo l’inglese.
Ancora saliscendi, ma di modesta entità; poi, dopo Patsch, un bivio privo di segnalazioni: a destra la strada prosegue in quota ampia e fiancheggiata da abeti odorosi di resina, a sinistra sembra più stretta, scoscesa e tortuosa. Come sempre nel momento del bisogno, il GPS entra in sciopero. Dovendo decidere alla cieca, io sarei per la prima, Francesco per la seconda. Ancora una volta dimostra di avere un orientamento migliore del mio: la strada che è effettivamente ripidissima e con qualche curva impegnativa, dopo pochi minuti di autentico batticuore ci fa intravedere dall’alto la città di Innsbruck a una manciata di kilometri.
Finalmente, attraversato il paese di Igls a una velocità che non ci permette di distogliere lo sguardo dalla strada, si raggiunge la pianura e in pochi kilometri, passando sotto l’autostrada che viene dal Brennero, entriamo nella periferia di Innsbruck.
Ci accolgono impianti sportivi, ripetitori e trasmettitori televisivi, aree verdi, larghi viali a più corsie e, naturalmente, ciclopiste percorse da cittadini di varia età, per lo più con zainetto in spalla.
Oltrepassato il fiume Sill, che da qualche parte si getta nell’Inn, aggiriamo la stazione ferroviaria, procediamo verso Ovest, dove sappiamo che dovrebbe trovarsi la città vecchia e il lungofiume. Ed eccoci infatti nell’Altstadt, che ci proietta quasi di colpo in un città del passato, nella quale tre-quattro-cinquecento anni di architettura si fondono in una piacevole miscela: facciate in uno strabordante stile rococò (come quello del palazzo Helblinghaus), tetti a cipolla come quello della Torre Civica oppure dorati come quello della elegante loggia del Goldenes Dachl, archi gotici, stradine medioevali… In questo spazio rigorosamente pedonale, anche noi circoliamo a piedi, ciononostante l’andirivieni della folla dà l’impressione di essere immersi in un traffico caotico simile a quello automobilistico.
Poi, guidati dal fiuto di Francesco ci indirizziamo verso la zona dell’università e l’Inn. Qui, lungo la riva del fiume, riprendiamo una ciclabile che in breve ci porta fuori città, ad un incrocio da cui si dipartono in diverse direzioni varie strade, tutte pianeggianti salvo una, quella diretta a Götzens, che è appunto la località da raggiungere stasera, in questa specie di caccia al tesoro alberghiera che ci impegna tutte le sere.
Inutile recriminare: alle nostre navigatrici a distanza avevamo chiesto un posto in cui pernottare che fosse economico e più vicino possibile a un centro abitato come Innsbruck. Questo avevamo chiesto e questo ci hanno dato. Mica potevano controllare l’altitudine e i dislivelli. O forse no?
Iniziamo l’ascensione; non è detto che sia una salita dura come appare all’inizio, mi dico con l’ottimismo della volontà e la diffidenza della ragione; e infatti la pendenza dopo un po’ si incattivisce e le si aggiunge la puzza dei gas di scarico di camion e pullman, mentre uno stuolo di nere vetture di grossa cilindrata ci passa accanto rombando: alla faccia dell’Austria (ciclisticamente) Felix.
Viaggiamo in fila indiana, silenziosi, lui probabilmente imprecando in cuor suo contro traffico e motori, io sicuramente contro le salite, verso le quali professo un amore illimitato… quando pedalo in pianura.
E finalmente, come la strada impiana dopo l’ultimo tornante, eccoci arrivati a Götzens; l’altimetro mi dice che siamo a 925 m di quota, quasi 300 più di Innsbruck, nemmeno tanti dunque, ma concentrati negli ultimi 3 kilometri. Il mio cervello è troppo appannato per riuscire a calcolare distanze e pendenze; quello di Francesco, più utilmente è impegnato a cercare il Gasthof di stasera. Stavolta disponiamo dell’indirizzo preciso, Kirchstraße 37, e della zona in cui dovrebbe trovarsi, vicino alla chiesa del villaggio; ma per quanto noi percorriamo in su e in giù la strada, l’albergo non si trova. Poi alla fine, grazie anche alle indicazioni di un passante, lo scoviamo, defilato in un vicolo con lo stesso nome della strada principale.
L’aspetto esteriore è quello tradizionale, ma l’interno è stato ristrutturato in chiave moderna, ma sempre con grande uso di legno: nel parquet, nei pannelli intarsiati alle pareti, nei mobili e nel bancone di massello chiaro. Entriamo dal lato bar, affollato di persone vocianti e purtroppo fumanti, che non hanno l’aspetto di viaggiatori, uomini d’affari o turisti, bensì di paesani che si riuniscono qui dopo il lavoro. Alla reception controllano la prenotazione e ritirano i documenti. Dopodiché possiamo finalmente andare a goderci la meritata doccia e a rilassarci un po’.
Non possiamo consumare la cena nel Gasthof, perché la sala è stata tutta prenotata per non so quale cerimonia, ma ci consigliano il ristorante di un vicino albergo, che pare eccella in specialità tradizionali tirolesi: e in effetti la cena a base di Gemüse Suppe, formaggi e contorni vari e –ormai immancabile- strudel, è davvero di buon livello.
Dopocena utilizzo il wi-fi dell’albergo per dare nostre notizie a casa e per controllare il percorso che dovremo affrontare domani. È quasi mezzanotte quando spengo la luce, dopo aver calcolato i dati della tappa odierna: 87 km in 5 ore a una media di 17 km/h e superando 1210 m di dislivello totale.
https://www.komoot.com/tour/10496028
Domenica 17, 4° giorno
Appena alzati, ma senza fretta, andiamo a pagare, consegnare le chiavi e ritirare i documenti; quindici preoccupiamo di immagazzinare quante più calorie è possibile, anche se la tappa odierna dovrebbe essere tranquilla, con una decina di kilometri di discesa iniziali e poi una salita lunga, ma molto blanda.
Sono dati che ricavo dal mio Komoot, ma Francesco che evidentemente non si fida di queste diavolerie elettroniche, capaci solo di emettere mortali radiazioni, appena partiamo va in cerca di una cartina stradale; ma niente da fare: benzinai, giornalai, supermarket, garage e negozi vari pare che non ne abbiano mai maneggiato una. Io, modestamente, gli spiego che non ce n’è bisogno: è chiaro che dobbiamo girare a destra e andare verso il fiume Inn… Francesco a questo punto non ha più esitazioni e giriamo a sinistra!
Lo seguo dubbioso, ma mi rendo presto conto che ha ragione lui; tuttavia mi prendo anch’io una piccola rivincita dieci minuti dopo, quando gli faccio notare che abbiamo saltato un bivio e siamo finiti, dopo una imprevista e inutile salita, nella cittadina di Axam.
Una tortuosa stradina in discesa, che si interrompe un paio di volte costringendoci a un fuoristrada lungo un torrente, ci riporta verso la pianura fino a Kematen in Tirol; un altro paio di kilometri di tranquilla strada di campagna e costeggiamo l’Inn fino al ponte per Zirl. Ma non lo attraversiamo, perché subito prima del ponte imbocchiamo finalmente una ciclabile vera e propria, marcata col nome di R1.
Il percorso ora segue la sponda alberata del fiume ora costeggia la pista ferroviaria, ora attraversa dei campi di granturco. Incrociamo numerosi ciclisti che viaggiano nei due sensi, ma non si può dire che ci sia affollamento. Poco dopo Telfs la pista si interrompe, forse per dei lavori in corso e siamo costretti a utilizzare la Tiroler Straße, che però dispone di un ampio spazio a lato carreggiata. Dovremmo essere ormai entrati nell’antica provincia romana della Raetia che, se ben ricordo, cominciava verosimilmente dopo Innsbruck; ma tracce materiali o immateriali della civiltà romana non sono in grado di vederle, anche se probabilmente nella toponomastica ne sopravvivono parecchie e da qualche parte esistono resti di vestigia romane.
Dalle parti di Stams la R1 cambia sponda. E, all’altezza di Magerbach, siamo noi che la lasciamo, quando un palo con una decina di segni indicatori (c’è anche l’immancabile conchiglia gialla di Santiago) ci impone di riattraversare l’Inn e di dirigerci versa la vicina Haiming. Qui però siamo costretti a un lungo giro di deviazioni, perché mezzo paese sta rifacendo il fondo stradale e sistemando il sistema fognario. Lì per lì ne siamo infastiditi, ma, a ben pensarci, gli amministratori hanno mostrato del buon senso a fare lavori necessari in un periodo in cui scuole e uffici sono chiusi, metà della popolazione è in vacanza e prima delle piogge autunnali.
Ritroviamo una ciclabile che ci porta fino al paese vicino senza nome, ma la cui stazione è segnalata come Öztal. Il paese non è più bello, né più grande niente di tanti che abbiamo già visto, ma nella mente mi frulla qualcosa che dovrei ricordare. Ce lo siamo appena lasciato alle spalle che il rimuginio della memoria dà i suoi frutti: siamo vicini alla valle di Oezt, da cui prende nome Oezti, la cosiddetta mummia del Similaun, andato a morire su quello che sarebbe poi diventato il confine italo-austriaco.
Costeggiamo ancora i binari ferroviari, più volte attraversandoli, in un territorio ora boscoso, ora coltivato, ma più spesso tenuto a prato, su cui dei bovini pascolano liberi. Molte le arnie che s’incontrano lungo il percorso; un gruppo mi incuriosisce in particolare: sono dipinte a colori forti e contrastanti e vi sono rappresentate figure demoniache che –suppongo- dovrebbero avere il compito di spaventare i malintenzionati (umani o animali?).
Dei ponticelli di legno e talvolta di pietra permettono alla nostra ciclabile di attraversare i corsi d’acqua che si gettano nell’Inn. Il fiume scorre ampio come quando l’abbiamo visto a Innsbruck, ma è più veloce e, a tratti, tumultuoso e nel lambire le rive in presenza di massi, solleva ampi spruzzi.
Poco prima di Roppen attraversiamo per l’ennesima volta ferrovia e fiume, salvo poi ripetere l’operazione pochi km dopo, ma non facciamo altro che seguire la R1.
La stradina, ora asfaltata ora sterrata ma sempre in ottime condizioni, scorre adesso fra due muri di verde che ci precludono la vista del mondo circostante: solo fitti cespugli in basso e cime di abeti in alto, con una sottile striscia di cielo sulle nostre teste. A volte la pista si apre su qualche slargo o spiazzo creato dalla forestale per accatastare tronchi poderosi ancora da smembrare e portare via.
Le fontane non sono frequentissime, ma riusciamo sempre ad avere una scorta d’acqua sufficiente, soprattutto Francesco che usa bere molto più di me. Quando poi, attorniata da un nugolo di altri cicloturisti, troviamo una fonte che eroga acqua minerale naturale, leggermente sulfurea, probabile residuo di qualche residua attività vulcanica, Francesco fa il pieno.
Siamo a una quota è sicuramente più alta di stamattina, ma la salita, diluita in una cinquantina di km, è stata impercettibile. Quasi a smentirmi, un cartello mi avverte che è imminente un tratto con pendenza del 18%. Ci prepariamo sia fisicamente che moralmente ad affrontarlo, però la salita si rivela sì faticosa, ma anche di breve durata, seguita dopo un centinaio di metri da un’altrettanto ripida discesa.
Arriviamo in una zona ugualmente boscosa ma più aperta: però il passaggio non solo di ciclisti, ma anche di persone a piedi, in scooter e perfino a cavallo, rende problematica la circolazione, anche perché la strada è diventata un tortuoso sentiero nel bosco e la cosa si complica quando sopraggiungono dei minuscoli trenini che trasportano chissà dove una lunga fila di vagoncini carichi di persone. Da quel che si capisce, nelle vicinanze ci sono almeno un paio di camping che propongono escursioni, visite guidate o esperienze nel verde ai loro clienti, per lo più giovani o giovanissimi.
Noi abbiamo quasi l’impressione di aver perso la strada, anche perché l’Inn, nostro elemento di riferimento, non è a vista. Approfittiamo di una sosta forzata dietro un trenino che sta girando, per chiedere lumi ad un ciclista vicino ai sessanta. L’uomo, prima inizia a spiegarci, poi cambia idea e ci fa cenno di seguirlo; ci fa da guida zigzagando nel bosco a velocità sostenuta, ogni tanto girandosi a controllare se lo sta seguendo Francesco, che a sua volta controlla me che arranco dietro con un po’ di fiatone.
Davanti a una sorta di piscina grande quanto un campo da calcio, finalmente ci fermiamo e qui il ciclista, con malcelato orgoglio, ci spiega che il luogo è un resort in cui si praticano sport acquatici di vario tipo, dallo sci d’acqua, al surf; in questo momento infatti due giovanotti stanno compiendo evoluzioni su una tavola da surf mossa non dal vento o dalle onde, bensì da un cavo d’acciaio che compie un percorso a 8 vincolato da alcune pulegge. Aggiunge poi che questo territorio era sempre stato una zona povera, perché privo di risorse naturali, di insediamenti industriali e di attrezzature turistiche, ma recentemente lo Stato aveva deciso di valorizzarlo e, attraverso la realizzazione di infrastrutture, una serie di investimenti pubblici mirati, sovvenzioni e facilitazioni sia agli enti locali che ai privati, era riuscito a far si che l’economia si rimettesse in moto, aumentasse l’occupazione, si affermasse il turismo… Io e Francesco ci guardiamo senza parlare, ma è evidente che ciascuno in cuor suo fa il confronto con la situazione italiana.
Dopo questa sosta molto didascalica la nostra guida riprende la marcia, cambiando però direzione, per cui abbiamo un po’ il sospetto che prima abbia voluto compiere una deviazione, rispetto a un percorso più breve, soprattutto per mostrarci il resort e magari glorificare le magnifiche sorti e progressive del suo Paese.
Torniamo a pedalare, in rigorosa fila indiana, fino a ritrovare prima di Roppen, la sponda dell’Inn, ogni tanto nascosta dagli alberi. La via, ora più larga e diritta, è sicuramente la Innradweg; lo testimoniano non solo l’assoluta mancanza di mezzi a motore (peraltro da stamattina solo su pochi tratti misti ci è capitato di incontrarne), ma anche un ristorante con veranda all’aperto, frequentato esclusivamente da uomini e donne in abbigliamento ciclistico e da qualche escursionista. La nostra guida, che ha raggiunto qui un gruppo di amici con cui aveva appuntamento, ci dà le indicazioni per proseguire e ci saluta andando a tavola.
Anche noi ci fermiamo per mangiare un boccone, che poi tanto boccone non è, consistendo, tra l’altro, in un piatto gigante di crudité accompagnato dalla solita pinta di birra e concluso dal solito strudel, che non è mai mancato ai nostri pasti fin dal giorno della partenza. Lo strano è che non abbiamo mai trovato finora due strudel uguali: o la cottura, o gli ingredienti, o il sapore, o il profumo, c’era sempre qualcosa di diverso ogni volta. Credo che di questo passo diventeremo una sorta di Strudel-Sommelier ad honorem.
Approfittiamo della sosta e del wi-fi del Ciclistorante per scambiare i soliti messaggi con casa e ricevere indicazioni sulla tappa di stasera: le nostre diligenti “segretarie”, pur con qualche brontolio dettato da un po’ di sana invidia, ci hanno prenotato un albergo di buon livello a un ottimo prezzo, l’Europa Pension nel paese di Fließ, a 10 km scarsi da Landeck.
Lasciamo il nostro Ciclistorante e riprendiamo il sentiero che, un po’ infilandosi nella boscaglia, un po’ costeggiando prati, ma sempre comunque accompagnati dal vicino scorrere dell’Inn ci porta in direzione di Landeck.
Ci incuriosiscono, numerosi ma sparpagliati sui pascoli in forte pendenza adiacenti alla strada, degli strani casottini in legno, simili a quei ripostigli per gli attrezzi che si vedono spesso nei giardini delle nostre villette; l’unica spiegazione che riusciamo a darne è che si tratti di costruzioni per stipare il fieno per gli animali al pascolo quando il terreno è ricoperto dalla neve.
All’altezza del bivio per Imst, incrociamo altri due ciclovie: la R6, che si dirige a sud, da qualche parte verso le montagne, e la R5, che diretta, o meglio, proveniente da Nord, rappresenta il tronco settentrionale della Via Claudia Augusta, che ora continua inizialmente verso Ovest, per poi scavalcare a Sud le Alpi ed entrare in Italia al Passo Resia; da qui prosegue fino a Merano con una lunga discesa e poi, passando per Bolzano, raggiunge Verona, oppure con un ramo che si distacca vicino a Trento, arriva fino a Venezia.
Questo è l’itinerario che abbiamo deciso di seguire, anche se non sappiamo esattamente fino a dove. In base al nostro progetto iniziale, infatti, dovremmo fermarci a Bolzano, chiudendo qui l’anello iniziato a Bressanone, ma siamo aperti a tutte le ipotesi.
La Via Claudia Augusta, strada militare e commerciale insieme (come la maggior parte delle strade romane), ultimata appunto dall’imperatore Claudio nel I sec. d. C., fu la prima via transalpina. La realizzazione di una strada così lunga che dalla pianura Padana, scalate le Alpi, raggiungeva in Germania la città di Augsburg e infine Donauworth, collegando così l’Adriatico e il Po con le terre del Danubio, è un’ opera notevole, anche per i nostri tempi e i nostri mezzi,
La nostra ciclovia, che approssimativamente le si sovrappone, non reca però nessuna traccia visibile di quel lontano passato.
Fiancheggiamo in più punti la Tiroler Straße, ignoriamo una deviazione che ci conduce ad un tunnel, ovviamente vietato ai ciclisti ed arriviamo a Zams, periferia di Landeck. Percorrendo un lungofiume fresco e ombreggiato, ci accodiamo a una coppia di cicloturisti che, chissà perché, ci danno l’impressione erronea di essere avviati nella nostra stessa direzione. Quando ce ne accorgiamo, abbiamo già sprecato una decina di minuti e un paio di kilometri. Ci fermiamo ad una rotonda per raccapezzarci, io col mio navigatore, Francesco col suo fiuto.
Un automobilista che ci vede in difficoltà e si ferma e prova a spiegarci la strada e poi preferisce risalire in macchina, invertire la marcia e guidarci lui stesso. Va piano, a velocità di ciclista, ma vuoi per i continui saliscendi, vuoi per non farlo aspettare troppo, visto che è stato così disponibile, mi affanno a stargli attaccato, col risultato che lui accelera e io sbuffo ancora di più. Francesco si stupisce della cortesia di uno sconosciuto, oltretutto verso un ciclista, categoria non particolarmente amata e rispettata dagli automobilisti italiani; ma io so bene che non si tratta di un atteggiamento inconsueto. All’estero.
In prossimità di un ponte, lasciamo la nostra gentile guida e la città di Landeck per risalire l’Inn lungo una ciclabile a tratti un po’ stretta, ma gradevole e ben tenuta, in cui si aprono ogni tanto spiazzi attrezzati per picnic o qualche panchina rivolta verso il fiume destinata ai camminatori che per un po’ vogliono riposarsi immersi nella tranquillità del verde e nello sciacquio discreto del corso d’acqua.
Dopo le quattro case di Urgen, la R1 ci fa cambiare sponda proseguire sulla Landecker Straße, in mezzo al traffico, peraltro modesto, delle auto, dirette a un tunnel preannunciato come vicino; probabilmente si tratta dell’uscita di quello stesso tunnel che abbiamo sfiorato prima di Zams e che dal navigatore sembrava puntare su Fließ. A rassicurarci che non finiremo in galleria, provvede l’inizio di una duplice ciclabile asfaltata, una per ogni direzione di marcia. Solo che l’attesa decina di km da Fließ è già passata e della nostra metà neanche l’ombra.
Finalmente, col terminare della ciclabile, arriva anche l’indicazione della deviazione per Fließ. Francesco mi indica il cartello, ma lo sguardo mi si blocca su quello che vedo dietro l’indicazione: una strada che sale, sale e sale, senza che se ne veda la fine o almeno un campanile e dei tetti. Ne avremo per quasi 3 km. Inutile recriminare: l’esperienza di Racines e poi di Götzens avrebbe già dovuto insegnarci che non puoi pretendere di avere in alta stagione un hotel di buona qualità a prezzi molto bassi in una città, oltretutto sulla strada e a fondovalle.
Iniziamo una lenta salita; la pendenza si mantiene alta e costante, senza qualche impianamento ogni tanto; lo zaino pesa e per la prima volta lo sento premere dolorosamente le spalle; persino Francesco ogni tanto sbuffa; ma, tornante dopo tornante (ne conto almeno cinque o sei), si continua a salire.
E alla fine, dopo un lungo rettilineo, scorgiamo Fließ.
Trovare l’Europa Pension è un attimo: è proprio in centro. Appoggiamo le bici, ci diamo una rassettata per apparire meno stravolti di come siamo ed entriamo. Il personale dell’albergo è molto gentile: non avendo altre doppie libere ci hanno riservato un miniappartamento al primo piano, con ampio balcone e una bella vista del cortile interno fiorito e di parte del paese. Nessun problema nemmeno per tenere al chiuso le bici.
Ma, al momento di consegnare i documenti, … dramma! Non ho più la mia carta d’identità. Mi sono scordato di ritirarla a Götzens. Non ci sono problemi per l’albergo, a cui fornisco la patente, ma mi affretto ad avvertire comunque a casa che si mettano in contatto con Götzens per recuperare il documento.
La proprietaria ci informa che Fließ è conosciuta soprattutto per le attività sciistiche invernali, ma anche in questo periodo è in grado di offrire numerosi elementi di interesse, dal parco archeologico (che ospita numerosi reperti della cultura di Hallstatt, oltre a quelli relativi alla Via Claudia Augusta che originariamente passava di qua), itinerari naturalistici, escursioni guidate a piedi o MTB nel Parco Naturale in cui il paese è inserito, climbing, rafting e altre attività sportive. Anzi è disponibile gratuitamente una “Tirol West Card” cioè una tessera per godere di sconti e facilitazioni valida in tutto il Tirolo Occidentale. Ma noi rimandiamo a dopo: abbiamo troppa premura di telefonare a casa per la questione documenti, fare una doccia e riposarci dalla stanchezza.
Una (abbondante) ora dopo, più presentabili e più lucidi, ci dedichiamo alla conoscenza del paese: appena lasciato l’albergo ed entrati nella via principale, mi stupisce il contrasto così poco turistico e molto paesano di una specie di capannone-magazzino fatto di vecchie assi di legno, con il sussiegoso Hotel-Ristorante Traube che lo fronteggia o la successiva elegante parrocchiale.
La chiesa, adornata da fregi diversi a motivo floreale che separano le bianchissime mura dal tetto scuro, è in stile gotico rivisitato; il campanile, parzialmente inserito nel corpo della chiesa, presenta caratteristiche più romaniche (o magari rinascimentali) che gotiche: corpo massiccio nonostante un tetto fortemente appuntito, presenza di archetti a tutto sesto e di bifore o trifore separate da colonnine. Curiosamente, poi, nei riquadri che adornano la facciata che dà sulla strada, sono posti una meridiana e ben due diversi orologi.
Poco più avanti il museo, poi un centro informazioni, dei negozi e una fontana di acqua (gelida) sotto un loggiato. Noi proseguiamo, ma non ci vuole molto a uscire dal paese; prendiamo una di quelle strade che, tra prati e malghe, dovrebbero portare agli impianti sportivi o al maneggio.
L’aria è purissima e frizzante (per quanto estate, siamo pur sempre intorno ai 1.100 m. di altitudine) e la camminata, che scioglie i residui indolenzimenti degli ultimi kilometri, è salutare, ma il declinare del sole ci avverte che è bene occuparci della cena.
Rientriamo con calma, forse troppa; scartiamo l’idea del Traube sicuramente poco “local” e troppo pretenzioso (traduzione accattivante di “troppo caro”); un altro ristorante a cui ci ha indirizzato un’insegna, si rivela chiuso. Finalmente presso il loggiato troviamo un locale con gente ai tavolini; facciamo per entrare, ma si rivela una pizzeria; perciò desistiamo: mica siamo venuti in Tirolo per mangiare la pizza!. Chiediamo a un signore, che però non capisce bene e ci dirotta verso un negozio di alimentari. Altro signore e altra richiesta: Ristorante Marienhof, è la risposta; ottimo; non è un negozio, né una pizzeria. Seguiamo allora una lunga strada in discesa fuori dal paese e solo l’improvvisa mancanza di lampioni accesi ci fa capire che il sole è tramontato da un pezzo.
Una decina di minuti dopo siamo davanti alla porta del ristorante; è illuminato, c’è gente a tavola, si sentono voci allegre, sì, ma… con viso desolato un cameriere ci informa che è ormai è troppo tardi per mettersi a tavola e iniziare a cenare. Di volata ripercorriamo la strada fino al centro del paese; pur di non restare digiuni ci va bene anche il ristorante hotel Traube, ma anche qui la risposta è la stessa: troppo tardi. E pensare che da noi le 21.30 sarebbe quasi troppo presto.
Sconsolati facciamo l’ultimo tentativo: torniamo al loggiato dove si trova la pizzeria; il silenzio e la mancanza di insegne accese sono un cattivo presagio, ma il gestore c’è ancora, attardato a parlare con un amico. Appena ci vede, così afflitti e derelitti, ci spiega subito che il forno principale è spento, però ci può infornare due pizze surgelate nel fornetto elettrico e intanto ci porta due boccali di birra. Ce lo dice in un italiano traballante, ma per la gratitudine noi lo elogiamo come fosse un accademico della Crusca.
Dalla cucina giunge un odore acre come di olio rovesciato su una piastra ardente; è così forte che lo stesso ristoratore corre ad aprire la porta per far fuoriuscire il fumo. Finalmente arrivano le pizze… è vero una volta nello stomaco tutte le pizze sono più o meno uguali e assolvono la loro funzione nutrizionale, ma queste fanno proprio piangere: semi-carbonizzate su un bordo e non cotte sull’altro, si fa davvero fatica a mangiarle. Ma ce le siamo meritate. Le finiamo a stento e dopo abbiamo anche il coraggio di chiedere un dolce. Il pizzaiolo mancato si avvicina a una vetrina-frigo e chiede:
-Uno strudel?
-Va bene.
-Ve lo riscaldo un po’ nel microonde?
– Nooo!
Terminato anche lo strudel, che rispetto ai precedenti ha un sapore più “industriale”, ma si lascia onestamente mangiare, paghiamo (pochi euro, una somma irrisoria se si fosse trattato veramente di pizze) e usciamo. L’aria è frizzante e invoglia a mettere in moto le gambe e le chiacchiere. Così, tirando tardi, vaghiamo ancora un po’ per il paesino, ormai completamente deserto, finché non decidiamo che è l’ora di andare a dormire. Anche l’Europa Pension è immersa nel silenzio, per cui noi saliamo le scale in punta di piedi non rinunciando a sbirciare nei vari locali.
Un crampo all’ultimo scalino è un ricordo degli sforzi nella salita del pomeriggio, ma anche un “memento mori” in vista della salita di domani fino al passo Resia. Mi consolo pensando ai 95 km fatti oggi in 5 ore e 45 e superando i 900 m. di dislivello. Domani si vedrà.
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Lunedì 18, 5° giorno
Rinfrancati da una buona dormita (almeno per me: a Francesco la pizza semicruda è rimasta sullo stomaco), da un bel sole e dall’ottima colazione che ha compensato le privazioni di ieri sera, facciamo la solita telefonata a casa: ci garantiscono che l’hotel di stasera, l’Etschquelle, è proprio in mezzo al paese di Resia, vicino al lago omonimo e un kilometro dopo il confine; non solo, è anche un albergo pluristellato, raffinato, accogliente e rinomato per la sua cucina; l’unica pecca, forse è il prezzo più alto dei precedenti, ma tutti i giudizi positivi di booking.com, la Bibbia che orienta le scelte dei nostri familiari e di qualche milione di turisti, certificano che ne vale la pena.
Così rassicurati, ripartiamo. Come ieri, anche stamani la discesa dall’hotel fino alla strada principale avviene rapidamente e senza incontrare traccia della fatica del giorno prima: la pendenza non pare così dura e perfino i tornanti sembrano meno numerosi.
Appena raggiunta la Landecker Straße (ovvero Reschenstraße, a seconda della direzione di viaggio) la oltrepassiamo per inoltrarci in una zona di fitta vegetazione su una stradina poco più larga di un sentiero, fino a riattraversare l’Inn all’altezza di una chiusa.
L’alternanza tra una sponda e l’altra si ripete più volte e ci interroghiamo sui motivi che possono aver determinato questo continuo avvicendamento. Probabilmente nei territori un tempo del tutto privi di ciclabili o di stradine secondarie o carrarecce, hanno avuto buon gioco a creare ex novo una ciclabile dal percorso sostanzialmente lineare (mi viene in mente quella lungo il Reno da Coira al lago di Costanza); dove invece già erano presenti sentieri, viottoli, strade interpoderali, strade comunali o tratti di ciclabile etc. la costruzione di una ciclovia ha dovuto tenerne conto adattandosi all’esistente, con continui cambi di direzione. Questa almeno è la mia ipotesi.
Dopo Prutz attraversiamo il fiume per l’ennesima volta, su un ponte che lascia scorgere sotto le assi di legno le acque spumeggianti e non del tutto rassicuranti dell’Inn. Appena sull’altra sponda, ci incuriosisce un masso su cui spicca un’aquila in bronzo dalle ali aperte. L’iscrizione in tedesco non è del tutto decifrabile per noi, comunque si intuisce che è un monumento alla memoria dei valorosi soldati tirolesi morti per la patria contro non so quali invasori in quale guerra.
Tra ieri e oggi, la valle dell’Inn si è fatta via via più stretta e le pendici che la racchiudono risultano sempre più ripide, segno che stiamo salendo di quota e avvicinandoci al momento in cui valicheremo le Alpi. Oggi, infatti, lasceremo l’Inn nel momento in cui il suo letto entra in territorio svizzero e saliremo fino al passo Resia, dove Alice e Gea hanno stabilito per noi la sosta di stasera.
Tra Ried in Oberinntal e Tösens, all’ingresso di un tunnel, ci fermiamo a osservare un ampio pannello dai colori vivaci, che rappresenta un clown in stile vagamente surrealista, creato con bombolette spray da qualche artista di strada; ma quel che attira la nostra attenzione è soprattutto, di lato, il logo della Via Claudia Augusta, costituito da un ponte romano stilizzato con sotto il nome della via. È il primo riferimento ufficiale all’antica strada romana che vediamo.
Continuiamo a pedalare lungo l’Inn, che –com’è naturale- adesso è considerevolmente meno ampio di stamattina e molto più irregolare e vorticoso, con delle piccole rapide o dei massi semisommersi che fanno compiere all’acqua ampi spruzzi. Nulla di strano, quindi veder spuntare da dietro le frasche della riva un colorato gommone stracolmo di turisti eccitati, impegnato nel rafting.
Grazie all’aria particolarmente tersa il sole si fa sentire e fa davvero caldo nonostante l’altitudine (rispetto a stamattina comunque non siamo saliti di quota in misura apprezzabile): per cui Francesco decide di indossare un paio di occhiali scuri e sopra un cappellaccio di paglia con una tesa rialzata che lo fa somigliare a un vecchio bucaniere; io invece, in mancanza di meglio, recupero uno strofinaccio ricavato da una mezza federa e me lo modello sulla testa fissandolo in alto con una fettuccina colorata antisudore e lasciandolo svolazzare sulle spalle. Sembriamo di sicuro una coppia di zingareschi straccioni e gli sguardi poco ammirati di chi ci incrocia ce lo confermano.
Attraversiamo un grazioso paesino con le abituali abitazioni in pietra intonacata e legno e la chiesa col campanile dalla guglia “a cipolla”. È Pfund, che non si distingue dagli altri centri abitati se non fosse per un grande edificio posto a capo di un ponte sull’Inn. L’ampia facciata settecentesca è caratterizzata da finestre incorniciate da decori dorati, disegni a soggetto probabilmente religioso tra un piano e l’altro e, infine da una galleria che permette il passaggio di una strada verso l’interno del paese. In alto, sotto l’ultimo piano, campeggia la scritta Gasthof zum Thurm: l’edificio, prima di essere ampliato e diventare un Gasthof, deve essere stato una torre (come suggerisce la parola Thurm) facente parte di un complesso difensivo che controllava l’accesso a Pfund.
Il nostro percorso prosegue sulla solita ciclovia R1, poi però improvvisamente cambia direzione, sembra tornare indietro, attraversa il fiume, entra nella Reschenstraße, ma in direzione Innsbruck, infine ruota di 180 gradi e riprende un sentiero in direzione Sud, il tutto benedetto da una segnaletica chiara; Anche Francesco è tranquillo, per cui io smetto di preoccuparmi. Anzi ci concediamo un quarto d’ora di sosta per sgranchirci e fare due foto a un laghetto –“Via Claudia See”, dice un cartello- in mezzo al quale giovani e meno giovani si tuffano da una pedana galleggiante.
Riprendiamo il sentiero in mezzo agli abeti e lo abbandoniamo poco dopo per una strada asfaltata che non è più la ciclabile di prima, dato che vi circolano auto e soprattutto moto, ma non è nemmeno la ReschenStraße, che corre sulla riva destra dell’Inn, mentre noi siamo sulla sinistra e che comunque ci è preclusa in questo tratto per la presenza di un paio di lunghe gallerie. Potrebbe essere dunque la strada che va verso Zernez in Svizzera, risalendo il corso del fiume. La conferma ci giunge poco dopo quando un cartello con tanto di limiti di velocità ci annuncia che stiamo entrando in Svizzera; non ci sono tuttavia segnaletiche di confine né guardie di frontiera.
Nell’ultima parte di una salita lunga, ma regolare avvistiamo un gruppo di cicloturisti stranieri (termine usato un po’ a sproposito, visto che, se mai, i veri stranieri siamo noi). Sento riaffiorare lo spirito ciclo-competitivo di una volta, così mi ritrovo a inseguirli e superarli abbastanza agevolmente, anche perché loro non hanno nessun interesse a gareggiare. La palma della vittoria consiste in un bel po’ di fiatone, ma ecco che ci si prospetta una discreta discesa. Io davanti e Francesco dietro l’affrontiamo alla massima velocità possibile, consapevoli che alla fine ci toccherà una dura e lenta risalita verso il passo Resia.
Faccio in tempo ad avvistare in lontananza un agglomerato di case, che una detonazione simile a quella di una granata, seguita da un improvviso sferragliare e dalle esclamazioni di Francesco, mi fanno fermare. I cicloturisti ci superano e ridendo uno di loro indicando il mio compagno e mi fa: “Bomba! B-Boom!”. Torno indietro di un centinaio di metri e raggiungo Francesco che sta armeggiando con la bici. La ruota posteriore non c’è più! O meglio, parte di fianchi del cerchione sono mancanti o contorti, mentre il copertone e tutta la camera d’aria si sono quasi disintegrati. Il forte botto è sicuramente dovuto allo scoppio della gomma, va bene, e magari può aver contribuito a lacerare il battistrada, d’accordo, ma arrivare a distruggere il cerchione?!
Alla fine, dopo che Francesco riferisce di un’altra disavventura capitatagli in passato, arriviamo alla spiegazione più plausibile; i freni, mal posizionati e comunque consumati fino al metallo, hanno inciso i fianchi già molto usurati del cerchione, fino a provocare il taglio del copertone e lo scoppio della camera d’aria. Il cerchione, infine, percorrendo per inerzia qualche decina di metri a diretto contatto con il cemento, ha finito col rovinarsi definitivamente.
L’essere risaliti alla possibile causa del disastro non toglie nulla alla gravità della situazione, tanto che il mio compare si lascia andare a una conclusione melodrammatica nel tono più che nelle parole: “Il mio viaggio muore qui!”. In effetti, pur considerando che nessuno si è ferito, nonostante la discesa e la velocità, non si vede come poter proseguire.
Parto in ricognizione, nella tiepida speranza di trovare un’officina o un negozio ciclistico. In effetti dopo neanche un kilometro arrivo alla frontiera austro-elvetica, oltre la quale iniziano le prime case del paese di Martina. C’è una guardia di confine che mi viene incontro. Prima che mi obietti che zingari e straccioni non sono ben accolti e mi chieda i documenti d’identità che non ho più, gli spiego la triste vicenda e gli domando se gli risulta la presenza di qualche laboratorio o negozio per bici. La risposta è molto chiara: “Sicuramente no!”
Ritorno verso Francesco, che sta arrancando verso di me con la bici a rimorchio. Confabuliamo un po’, facendo il punto della situazione e soppesando le varie possibilità: sono le due del pomeriggio e entro stasera dobbiamo essere a Resia, visto che l’albergo è già fissato e pagato; scartando Martina, dove non risultano esserci officine ciclistiche, l’unico centro urbano prima di Resia è Nauders, un paese nell’ultimo lembo del Tirolo, incastonato fra Austria Svizzera e Italia; la bici, ovviamente non è in grado di viaggiare e non può essere portata a spalla, ma per fortuna c’è un servizio di pullman tra Martina e Nauders.
La scelta è dunque obbligata io mi avvierò subito verso Nauders con la mia bici; Francesco caricherà la sua sul primo pullman disponibile e ci incontreremo di nuovo al paese, dove intanto il primo arrivato dei due avrà iniziato a fare le sue ricerche.
Alla fontana faccio il pieno di acqua, gelida ma buonissima e passo il ponte lasciandomi alle spalle l’Inn e la Svizzera. Il paesaggio è quello tipico alpino delle belle giornate di sole, coi contrasti netti delle forme e dei colori di abeti prati e cielo; è sempre lo stesso e sempre diverso, non smette mai di incantare e questo contribuisce a distogliere l’attenzione dalla durezza della salita.
Pedalo per 6 km, tornante dopo tornante, con una pendenza del 6% circa, finché la strada impiana vicino a un monticello in cui due tronchi coricati a terra sostengono il nome del paese scolpito in legno; dietro, una fioriera applicata sulla struttura di una bicicletta e il classico crocifisso tirolese incassato in un rombo di legno; sullo sfondo una baita funge da ufficio turistico, ma è chiusa.
Il tempo di una foto e poi giù verso il paese, una sessantina di metri più in basso.
Arrivato a Nauders, rinomato per i suoi impianti sciistici e per un bel castello , non sto a guardarmi intorno, ma salgo subito verso la parte alta per raggiungere il locale Ente per il Turismo, dove abbiamo stabilito di incontrarci. Davanti a un bar, prima ancora di scorgere Francesco, avvisto la bici, inconfondibile per quel cerchione nudo. L’ Ufficio Informazioni è ancora chiuso, perciò lascio lì l’appiedato e vado a cercare nella parte bassa di Nauders un negozio che, ci hanno detto, vende e ripara biciclette.
Lo trovo, ma è chiuso; al citofono una ragazza molto dispiaciuta mi spiega che non riaprirà nemmeno nel pomeriggio perché sono andati tutti in ferie tre giorni fa.
Risalgo pedalando faticosamente fino al bar, recupero il mio compare d’avventura e insieme andiamo verso l’Ufficio del Turismo. Niente da fare, ancora chiuso. Un signore lì vicino, intanto, ci suggerisce di provare in un negozio non molto distante. Qui hanno sì delle biciclette, ma soprattutto vendono abbigliamento sportivo e comunque non dispongono di officine.
Torniamo indietro e finalmente troviamo aperto l’ Ufficio del Turismo; l’addetto però non può fare altro che consigliarci il negozio che già abbiamo trovato chiuso, oppure di tentare a Resia dove lui sa che c’è un negozio abbastanza importante, lo Sport Folie Intersport. Se nemmeno lì fosse possibile risolvere il problema, l’unica alternativa sarebbe quella di arrivare con qualche mezzo fino a Prato allo Stelvio; là sono sicuramente attrezzati per ogni tipo di inconveniente meccanico.
Il tempo passa e dobbiamo assolutamente arrivare a Resia prima del tramonto, per cui decidiamo ancora una volta di dividerci: io partirò subito in bici, lui mi raggiungerà col primo autobus disponibile nelle vicinanze del negozio indicato.
Io mi avvio subito, con qualche timore per la salita, ma il percorso si rivela un tranquillo falsopiano. Ho saltato l’imbocco della ciclabile e mi trovo quindi a pedalare sulla statale, che però, al momento, non è molto frequentata; inoltre su entrambi i lati posso godere un ampio panorama di prati con, sullo sfondo, le cime degli abeti che “segano” il cielo.
Raggiungo finalmente il confine e il passo segnalato da un cartello. Ci sono pochi edifici tra cui una pizzeria e, in compenso, molti piazzali; sostanzialmente vuoti eccettuati due camion. Mi aspettavo chissà quale faticata e invece sono arrivato in cima senza fatica, pedalando in scioltezza. Quasi quasi sono rimasto deluso dal fatto che questa (ultima) salita seria mi abbia dato forfait.
Approfitto della sosta per farmi un selfie sotto il cartello che nell’immancabile versione bilingue segna il passo: Reschenpass – Passo Resia. Mi domando quale possa essere l’etimo di Reschen (e conseguentemente di Resia), che dovrebbe esserne il derivato) e se possa esser fatto risalire al termine rätische che in tedesco indica le alpi Retiche, cioè quella parte della catena alpina in cui ci troviamo adesso. Magari, quando tornerò a casa, approfondirò l’argomento.
Approfitto della sosta per telefonare a casa che sono tornato in patria e Gea mi dà subito una buona notizia: da Götzens le hanno scritto che i miei documenti dimenticati all’albergo sono stati ritrovati e provvederanno a spedirmeli quanto prima. Sia lode all’efficienza e dei Tirolesi!
Appena trovo un’indicazione relativa a una ciclabile la imbocco e mi trovo a pedalare, piacevolmente circondato da prati e dal silenzio, su un fondo ondulato ma in ottime condizioni. Non saprei dire se sto continuando a salire leggermente di quota, fatto sta che all’improvviso scorgo davanti a me, a distanza di 500 m., il lago Resia e, leggermente a sinistra, le prime case del paese. Sullo sfondo domina maestoso l’Ortles.
Prima dell’ingresso in paese un simpatico cartello ricorda che come i prodi cavalieri medioevali usavano proteggersi il capo con l’elmo, così i cicloturisti, ovvero i cavalieri del pedale, dovrebbero fare con il casco. Che sia un bonario richiamo alla mia colpevole dimenticanza?.
Il sentiero termina sul lago; e in un attimo sono sulla via principale, dove vado senza indugi alla ricerca del negozio ciclistico che mi è stato segnalato a Nauders. Lo trovo abbastanza presto; per fortuna è aperto e dispone di un’officina meccanica. Ma quando gli spiego il tipo di problema e le caratteristiche della mtb di Francesco, lui storce il viso e mi spiega che ha bisogno di vedere coi suoi occhi la bici, ma che trattandosi di un modello ormai sorpassato è difficile trovare delle parti di ricambio che si adattino.
Lo saluto dicendo che tornerò col mio amico e con la sua mtb e vado alla ricerca di Francesco che, stando agli orari dell’autobus appesi alle pensiline, dovrebbe essere già arrivato al punto stabilito per l’incontro.
Lo trovo, sì, ma un bel po’ di tempo dopo: lui è sceso a una fermata diversa. Andiamo insieme dal ciclista che, esaminata la bici, ripete le stesse cose che aveva già detto a me. Farà comunque qualche tentativo, tentando di adattare un vecchio cerchio usato e ci dice di tornare dopo un’ora. Girovaghiamo un po’ alla ricerca dell’hotel Etschquelle (il cui nome significa Sorgente dell’Adige: il fiume, infatti, dovrebbe aver la sua origine proprio da queste parti), finendo persino nel bosco, ingannati da un cartello che si riferisce alla polla sorgiva e non all’albergo. Torniamo dal ciclista che fallito anche il tentativo dell’usato, ci propone di comprare un’intera ruota nuova. Francesco tentenna dato che il prezzo gli pare un po’ alto, ma poi davanti alle mie sollecitazioni e all’assicurazione del ciclista che non gli farà pagare la mano d’opera, ma solo il costo netto della ruota, si convince.
Mezzora dopo, trovato finalmente l’hotel, facciamo il nostro ingresso. Il maitre, super efficiente e fin troppo premuroso, sbrigate le varie formalità e preso atto che io sono vegetariano, ci propone una serie di piatti con tutte le possibili varianti e combinazioni di primi, secondi, e contorni ed elencando con memoria prodigiosa i relativi prezzi. Quindi veniamo accompagnati in camera. La stanza è ampia, con un bagno molto bello e dei graditi cioccolatini di benvenuto. Sui letti, oltre al consueto set di asciugamani, troviamo le ciabatte usa e getta e l’accappatoio per andare nella piscina coperta oppure nei locali della sauna, che pare sia un altro dei punti di forza dell’albergo. Lì per lì sono attratto da queste opportunità, ma poi rinuncio per fare un po’ di bucato; Francesco invece non se le lascia sfuggire mentre attende che io esca dalla doccia. Torna dopo mezzora, entusiasta.
Andiamo finalmente a cena a un’ora decente e senza rischiare di fare nuovamente tardi e doverci accontentare di una pizza mezzo scongelata.
Il nostro tavolo è apparecchiato nella lunga veranda coperta che circonda l’edificio; su ogni tavolo c’è un fiore e fuori da ciascuna finestra è sospesa una fila ininterrotta di gerani, ma lo spettacolo più bello è quello rappresentato dal lago illuminato dagli ultimi raggi del sole che sta scendendo dietro ai monti.
Dopo cena ci concediamo la consueta passeggiata digestiva per le stradine che sovrastano l’albergo. L’aria, calata la notte, è quasi fredda, ma è pura e sottile e porta con sé gli odori di menta, basilico e altre erbe aromatiche del giardino di una signora che abbiamo conosciuto durante il nostro girovagare pomeridiano.
Per domani abbiamo idee diverse e piuttosto confuse. Decideremo sul da farsi domattina stesso, sperando di non svegliarci troppo tardi. Intanto ora vado a dormire fiero della settantina di km fatti oggi in quattro ore e mezzo e dei 1170 m. di dislivello superati.
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Martedì 19, 6° giorno
Mattina bellissima, sembra di vivere in una cartolina: il lago poi riflette con tutte le loro tonalità il verde degli alberi che costeggiano le rive e il blu intenso dei monti. Durante la colazione, mentre le nostre bocche erano intente a divorare quanto più cibo possibile e le mani si affannavano a imboscarne altrettanto in borse, zaini o marsupi, le menti erano occupate a elaborare il programma della mattinata.
Alla fine il topolino partorito dalla montagna delle nostre elucubrazioni è il seguente: io approfitterò della mattinata libera per andare a trovare Carla e Leo, due amici che passano quasi ogni anno il mese di luglio a San Valentino alla Muta, a capo del lago omonimo. Francesco, che desidera, invece, recuperare l’esperienza di salire in bici dal confine svizzero fino a Nauders e da qui a Resia, scenderà fino a Martina e raggiungerà Resia, utilizzando il più possibile le piste ciclabili; poi recupererà le borse parcheggiate in albergo e mi raggiungerà . il rendez-vous è stabilito verso l’ora di pranzo all’ingresso in S. Valentino. Dopodiché ci separiamo.
Uscendo dall’hotel mi viene voglia di passare davanti all’orto delle erbe aromatiche, che ora, in pieno sole, posso vedere distintamente: ci sono diverse tipi e qualità di erbe; su tutte predominano le piante di menta, alcune con foglie gigantesche, altre con un odore particolarmente pungente, che ci ha spiegato ieri sera la proprietaria, sono frutto sia delle particolari condizioni climatiche della zona, sia di una lunga selezione per la quale lei è conosciuta anche sul web, tanto da ricevere da privati o da erboristerie di tutta Italia molte richieste di queste piantine (basilico, maggiorana, timo, menta piperita, dragoncello camomilla, malva, melissa, aneto), frutto di una coltivazione biologica rigorosa.
Molti giardini hanno uno spazio dedicato all’orto, ma la maggior parte ospita piante puramente ornamentali tra le quali primeggia il Delphinium con le sue alte spighe cariche di fiori dal colore blu, talvolta lilla o rosa, così intenso che non posso fare a meno di fermarmi a scattare delle foto.
Mi piacerebbe tornare in quel sentiero su cui ci eravamo incamminati ieri pomeriggio, quando cercavamo l’albergo, e che conduce alla sorgente da cui nasce l’Adige, ma temo che finirebbe col richiedere troppo tempo. Perciò torno all’hotel a prendere la bici, chiedo conferma sulla strada migliore per raggiungere S. Valentino e parto.
Raggiungo il lago nello stesso punto in cui ieri sono arrivato a Resia e qui imbocco la ciclabile che costeggia il lago sulla sponda orientale. Ce ne sarebbe anche un’altra sulla riva occidentale, ma dal fondo irregolare e più adatto a una mtb; così mi hanno spiegato all’hotel.
Proseguo a bassa velocità sia perché la ciclabile è affollata da molte persone e vari bambini, sia perché è coperta da un sottile strato di brecciolino. Sull’asfalto della SS.40 che mi scorre a sinistra andrei sicuramente a maggior velocità, ma in mezzo al traffico, che oltretutto mi pare abbastanza intenso. La riva ora si amplia su un’estesa e piatta superficie che aggiro; poi, quando ho l’impressione che la ciclabile sia terminata in un vicolo cieco, l’abbandono e mi inserisco sulla vicina statale. Quando mi accorgo dell’errore è troppo tardi per tornare indietro, se non altro sull’asfalto posso andare più veloce e risparmiare un po’ di tempo.
Dopo un kilometro appena, però, scorgo una piazzola con varie auto parcheggiate un paio di chioschi e molte persone ferme sulla riva. Il tempo di arrivare lì e capisco il perché dell’assembramento: un bel campanile romanico con un ordine di bifore e trifore col suo tetto appuntito emerge per metà dal lago circondato dalle acque blu, come se stare lì fosse la cosa più naturale del mondo. Poi arriva la spiegazione che avrei dovuto conoscere se mi fossi documentato prima sui luoghi da visitare; ma anche questo fa parte dei viaggi alla cieca, in cui è bello farsi sorprendere dalle scoperte inaspettate.
Il campanile apparteneva a una cittadina, Curon Venosta, posta sulle rive del lago Resia, quando questo era molto più piccolo e in basso; poi, negli anni ’50, la necessità di erigere una diga per innalzare il livello delle acque e sfruttarne le potenzialità idroelettriche, fece abbandonare il vecchio paese e costruire il nuovo più in alto, non senza le comprensibili proteste della popolazione che fu solo in parte risarcita per la perdita di case e terre. Le oltre 150 abitazioni di allora vennero distrutte e oggi il campanile è l’unica costruzione che rimane emergente, diventando spettacolo da cartolina per i turisti. Beh, anch’io sono un turista, pur se amo definirmi cicloviaggiatore, e mi adeguo alla massa, tirando fuori lo smartphone.
Fatte le foto di prammatica, riprendo la Vinschgauer Radweg, ovvero Ciclabile della Val Venosta, che è poi la continuazione in territorio italiano della Via Claudia Augusta, finché sono costretto a immettermi di nuovo sulla statale. Pochi kilometri ancora e il lago viene interrotto con una linea retta dalla diga. Sulla sommità vedo delle persone; probabilmente vi passa una strada che si ricongiunge alla ciclabile della sponda est orientale del lago Resia.
Cinquecento metri dopo entro in S. Valentino.
Solo ora mi ricordo che non so in quale pensione risiedono Carla e Leo. Poco male, ho il loro numero di telefono; ora che sono in Italia non ho problemi di roaming. Chiamo, ma non risponde nessuno. Gironzolo un po’, guardo l’orologio, richiamo… niente. Evidentemente staranno fuori per tutta la mattina, impegnati in qualcuna delle loro escursioni. Ritenterò verso l’ora di pranzo, intanto gli scrivo in un sms, pregandoli di richiamarmi.
Nelle due ore che mi rimangono prima del rendez-vous con Francesco (ammesso che proceda celermente, senza fermarsi troppe volte a fotografare le scene più panoramiche), decido di impiegare il tempo scendendo a valle verso Malles, dove abbiamo stabilito di fermarci stasera. Seguendo la strada principale, attraverso il paese che è adagiato su una sponda dell’Haider See, o Lago della Muta (finora non sono riuscito a sapere a cosa si riferisca esattamente la parola Muta).
Uscendo da S. Valentino, infatti mi ritrovo a destra il lago con in fondo un fitto muro di alberi che nasconde la ciclabile; sulla sinistra, invece un unico enorme prato pianeggiante. Penso proprio che al ritorno sceglierò l’altra strada, che non è solo più interessante, ma ha anche il vantaggio di non essere frequentata da mezzi motorizzati.
Dopo un paio di kilometri il lago si restringe fino a chiudersi e poco dopo termina anche il pianoro e la statale comincia a scendere con pendenze sempre più decise a cui si aggiungono cinque o sei tornanti di tutto rispetto. Lo zaino, che ho dimenticato di stringere bene e di legare in vita, ballonzola un po’; perciò, contrariamente alle mie abitudini, decido di non spingere al massimo la velocità.
Con tutto questo arrivo a valle in pochi minuti; ma al ritorno dovrò superare in salita un discreto dislivello (l’altimetro mi dice che in otto kilometri sono sceso di quasi quattrocento metri) e il percorso, per quanto più gradevole e tranquillo, sarà più lungo di quello su asfalto. Perciò decido di non indugiare e dopo una rapida sosta-caffè alla periferia di Malles, imbocco una carrareccia per Burgusio.
Sembra una strada tranquilla e pianeggiante tra i campi, eppure su due o tre banali saliscendi riesco a provare fatica, nonostante finora non abbia mai pedalato; o forse, mi dico, proprio per questo. In effetti, scaldandosi, le gambe sembrano carburare meglio; così, varcato in ponticello su un torrente – che solo dopo capisco essere l’Adige – entro in Burgusio senza troppo affanno.
Il paesino, almeno per la parte che riesco a vedere attraversandolo, tradisce la sua origine medioevale: vicoli stretti e tortuosi, pavimentati in pietra, case basse intonacate a calce e addossate tra loro, con balconi fioriti e verande in legno. A un incrocio di stradine più strette di una pista ciclabile, il muro tondeggiante di una casetta regala, oltre alla solita allegra composizione di gerani variegati, due affreschi a soggetto religioso e varie decorazioni di epoche diverse. Ma è solo il primo esempio di muri affrescati: una dopo l’altra le case mostrano cornici, ghirlande, grappoli e frutta, madonne, arcangeli, santi…
Lasciato il paese, al posto delle case subentra il verde di alberi a perdita d’occhio, interrotti qua e là da radi varchi che mostrano pascoli o da un appezzamento di terra con sopra qualche macchina agricola; ogni tanto un Cristo riparato dalla consueta cornice romboidale. Alcune stradine perforano la barriera delle conifere per portare agli impianti sciistici del monte che si inerpica sulla sinistra, il Watles, ben noto a escursionisti e sciatori, almeno a quanto sostiene il depliant letto in albergo.
Un po’ alla volta la strada torna a salire, ma con pochi strappi che comunque sono addolciti dal suo serpeggiare tra gli abeti e dal fondo stradale ottimo; sulla destra, ora lontano e silenzioso, ora vicino e spumeggiante scorre l’Adige, un rio bambino che pare inconsapevole di dover diventare da adulto un grande fiume.
Dopo pochi kilometri a un’altitudine di circa 1500 m. il percorso tende a divenire pianeggiante e subito dopo si avvista il punto in cui una bassa barriera chiude l’Haider See, lasciandone uscire solo un torrente. Continuo sulla ciclabile che costeggia questo lago, indubbiamente più bello del Resia. Con continui saliscendi la ciclabile ora si abbassa a sfiorare il lago ora sale tra gli alberi. Una due, tre volte non posso fare a meno di fermarmi a scattare qualche foto.
L’ultimo tratto, in vista di S. Valentino, si svolge in un ambiente più aperto su entrambi i lati: la montagna incombe sempre sulla sinistra, ma il terreno scosceso è libero da alberi per un buon tratto, mentre a destra lo sguardo vaga dal prato al lago color blu cangiante, alle case del paese e alle vette lontane sullo sfondo. Ora che sto arrivando al termine di questo percorso, posso ben concludere che questa ciclabile, se si manterrà quella che ho visto oggi, è la più bella non solo di quelle pedalate in Italia, ma anche di molte all’estero.
Un ultimo insignificante falsopiano, un ponticello ed ecco, lasciata la pista, mi ritrovo in via della Chiesa e infine sulla statale che attraversa S. Valentino. Sono arrivato, ma in realtà non so dove andare, ci sono intorno a me vari hotel, Garni, Alm, Pension, ma ignoro quale sia quello di Carla e Leo. Provo a telefonare, ma ancora una volta ricevo la comunicazione che il loro cellulare non è raggiungibile. Lascio loro un ultimo messaggio, anche se dubito che ormai tornino qui a pranzare, e mi dispongo ad aspettare Francesco, alle prime case del paese, sedendo vicino a una fontana in pietra a sbocconcellare un po’ degli avanzi della lauta colazione di stamani. Poi, per ingannare l’attesa, faccio qualche altro giro qua e là.
Il paese, se fosse stato il primo all’inizio di questo viaggio, mi sarebbe sembrato carino, ma ora dopo cinque giorni di villaggi tirolesi austriaci o italiani, non ci trovo nulla di inedito o particolarmente interessante; qualche trasandato fabbricato rurale rimasto imprigionato nell’espansione edilizia del paese, un paio di chiesette dal tetto aguzzo, qualche casermone popolare, le solite case nel caratteristico stile tirolese, ma anche tante villette a schiera tutte uguali, molti bar, Gasthof, alberghi e strutture consimili, lungo la via principale, per ospitare i turisti. Tutto questo mi dà l’impressione di una località che si è sviluppata soprattutto per sfruttare il turismo residenziale attirato in estate e in inverno dalla bellezza dei laghi e dalla vista delle montagne e dell’Ortles sullo sfondo. Ma probabilmente il mio giudizio è troppo severo.
Arriva finalmente Francesco; la sua bici, con la ruota nuova ha funzionato egregiamente e gli ha permesso senza problemi di ripercorrere il tratto che ieri ho compiuto io da solo. Facciamo rifornimento d’acqua alla fontana e ripartiamo, scegliendo, manco a dirsi, la ciclabile.
Ritorno, così, sul percorso appena ultimato, ma non mi dispiace, tanto più che ora potrò farlo tutto in discesa; Francesco poi è addirittura entusiasta e sembra frenare ogni tanto, come per assaporare meglio il giro.
Si raggiunge Burgusio dopo le due e una volta tanto il buon senso suggerisce di fermarci a mangiare qualcosa, visto che abbiamo entrambi terminato le nostre scorte alimentari e che rischiamo di trovare chiuso. Poco prima del centro del villaggio troviamo il Caffè-Ristorante Gerda e ce la facciamo a farci preparare un succulento panino, che, per non pagare il servizio al tavolo, andiamo a gustarci su una panchina, all’ombra di una pensilina lì vicino. Peccato che sia anche il ritrovo di molte api o vespe fastidiose, con le quali non ho la stessa familiarità di Francesco.
Ci troviamo ad un incrocio ciclisticamente significativo dove convergono le piste che portano verso il Passo Resia, Ultimo, Malles e Merano, indicate ciascuna dall’apposita segnaletica con scritte e simboli bianchi su sfondo marrone.
Riprendiamo il cammino in direzione di Malles, che viene dato a 3,5 km.
La strada è diritta e in discreta pendenza; questo ci permette di scorgere la chiesa principale con il suo altissimo e affilato campanile e al di sopra di questo, sulle pendici del monte Watles un imponente edificio bianchissimo. Sembra un grosso convento ed infatti il cartello recita “Klosterkirche Marienberg” cioè Abbazia di Monte Maria, un monastero benedettino tra i più antichi e importanti centri religiosi e culturali dell’intero Tirolo fino al XX secolo e oggi aperta anche a turisti e ospiti in cerca di raccoglimento.
Ma noi non ci arrampicheremo fin lassù, dato che la via per Malles porta in basso. Calcolo che da Resia a qui saremo scesi di quota per trecento metri circa e un dislivello di altri cento-duecento ci separa da Malles. Dopo di che dovrebbe iniziare un falsopiano più o meno ondulato, ma prevalentemente in lieve discesa fino a Merano.
Poco dopo il bivio per l’Abbazia, ci appare in basso a sinistra un castello, la cui mole diviene più evidente man mano che scendendo ci avviciniamo. È il castello del Principe, o Fürstenburg, un bell’esemplare di fortezza medioevale, con una gran torre quadrata ornata da merlature ghibelline, alte mura in pietra scura, un po’ tetro nell’insieme
La stradina assolata e polverosa mi fa venire in mente, non so per quale associazione, quella dell’incontro di don Abbondio coi Bravi; non pare una ciclabile e, probabilmente, sarà percorsa anche da qualche mezzo agricolo o dai veicoli dei residenti, ma noi incontriamo solo biciclette che transitano in entrambe le direzioni. Dopo poco la strada riassume l’aspetto di una ciclabile vera e propria: una staccionata di tronchetti orizzontali la separa dalle proprietà private adiacenti, qua e là si aprono dei varchi che permettono l’accesso ad aree di sosta provviste di panchine e di piante fiorite o di qualche piccolo parco giochi. Completano la scena gli immancabili prati, perfetti come gli orti e i giardini delle abitazioni, e perfino stalle, fienili e capannoni sembrano curati e precisi come nel rendering di computer grafica di qualche architetto.
Senza accorgercene siamo arrivati a Clusio, cittadina linda, luminosa e fiorita: in una sorta di sinestesia, il naso si inventa addirittura odori che i gerani non possono produrre (mi chiedo cosa succederebbe se un’epidemia di parassiti distruggesse queste migliaia di gerani).
Come a Burgusio, le case presentano spesso muri e sottotetti ornati da decorazioni geometriche, fregi e affreschi. Lungo la strada piccoli pannelli, protetti da due spioventi in legno e delimitati in basso da una colorita fioriera, ospitano bacheche con informazioni e cartine dedicate ai turisti. Poco più in là il segnale della Via Claudia Augusta, ovvero la ciclabile della val Venosta, ci suggerisce di continuare a dritto, verso Laudes, ma è a Malles che le nostre guide remote ci hanno prenotato da dormire e lì ci dirigiamo su una strada secondaria che non ha nulla da invidiare in fatto di traffico alla pista precedente: rettilinea e pianeggiante corre in silenzio in mezzo alla campagna.
In breve raggiungiamo la statale che scende giù da Passo Resia verso Merano; l’attraversiamo davanti a una chiesetta intonacata di bianco e imbocchiamo una stretta pista che conduce verso un piccolo gruppo di case che si intravede in lontananza. È Malles; ci troviamo poco lontano da dove sono giunto stamattina da solo, prima di risalire verso Burgusio. Lasciata la pista abbiamo appena il tempo di aggirare una rotonda che siamo già subito nel paese.
Il primo edificio che ci si para davanti è una chiesa apparentemente malmessa con un campanile ornato da archetti, bifore e monofore, come ce ne sono altre; ma poi, quando Francesco legge il nome, ho una illuminazione: ricordo che me ne ha parlato a lungo Carlina, descrivendomi sia questa chiesa che quella di Naturno: si tratta di San Benedetto, una chiesa romanica anteriore al Mille che è il monumento più antico e glorioso del paese anche perché contiene –per quanto deteriorati dagli anni e dall’incuria- alcuni dei rarissimi affreschi di epoca carolingia. Invero la vista degli affreschi è vanificata soprattutto dalla mancanza di illuminazione interna. Ci lasciamo alle spalle San Benedetto e il suo campanile, dirigendoci verso il Garni Sole, nostra meta notturna.
In realtà il nostro percorso è un arabesco girando per strade, viuzze e vicoli, costeggiamo una torre cilindrica, un elegante palazzo del ‘500, chiese e campanili, piazze del mercato… Poi stremati ci decidiamo a raggiungere davvero l’albergo, ma ci mettiamo un po’ a trovare la via, perché il Marktgasse, questo è il nome dell’indirizzo, è un vicolo stretto e tortuoso come ogni Gasse che si rispetti e il Garni non dà direttamente sulla strada ma su un cortiletto a cui si accede dal portone.
L’ingresso vero e proprio è al primo piano, perciò dobbiamo salire coi bagagli una ripida rampa di scale esterne, per arrivare ad una terrazza quasi panoramica con quattro tavolini, un ombrellone bianco e un fornetto a legna per la pizza. Qui alcune persone stanno chiacchierando; uno di loro lascia il gruppo e si avvicina sorridente, è di buona stazza e con un’espressione gioviale: è il sig. Stanis, il proprietario (o il gestore) della struttura; dopo le consuete formalità ci accompagna alla nostra stanza, su cigolanti scale di legno, ancora un piano più in alto. L’arredamento della camera, come anche quello della stanza per la colazione al piano inferiore, non è di lusso né sovrabbondante di gadget o cioccolatini, ma è completo di tutto l’occorrente ed estremamente pulito, che è quel che ci interessa di più. Se poi l’albergatore non si limita agli aspetti più formali e burocratici del suo mestiere, ma è disponibile e capace di entrare in comunicazione coni clienti, tanto meglio. Ed è quello che appunto Francesco è allenato a fare molto volentieri.
Tra l’altro, Stanis ci spiega che del comune di Malles fanno parte varie frazioni, tutte meritevoli di una visita: oltre a Burgusio e a Clusio, cita Tarces, Planol, Piavenna, Laides, Slingia, tutte località uniche per sciatori ed escursionisti, ma anche per amanti della gastronomia o della storia, considerando le numerose tracce che l’uomo ha lasciato di sé dalla preistoria, all’epoca romana, al medioevo, fino al giorno d’oggi. Per il momento io mi accontento del paesaggio: dalla finestra o dai vicini balconi, infatti, si gode una vista meravigliosa: essendo in alto, riesco a vedere oltre i tetti il profilo delle montagne proprio nel momento in cui il sole scompare alle loro spalle.
Lasciate le bici nel garage che ci è stato gentilmente messo a disposizione, per la cena andiamo in cerca del locale consigliatoci da Stanis, il ristorante Lampl, a due passi. Vi si accede attraverso una bassa porta ad arco. L’interno a volta, è un po’ affollato, ma caldo e accogliente e dispone di una gran varietà di piatti tipici locali a cominciare dai canederli (sui quali cade la nostra scelta), ma anche di appetitose pizze.
Dopo cena riprendiamo il nostro girovagare per Malles: il paese è ora più deserto e silenzioso data l’ora, ma un suono continuo, ora più vicino, ora più lontano, ci accompagna per gran parte dei vicoli del centro: è il Rio Puni che, scendendo a valle imbrigliato da un angusto letto lastricato in pietra, fa un rumore infernale.
Al ritorno risalgo le scale lentamente, ancora un po’ appesantito dalla cena e dalla pinta di birra. All’altezza della stanza che funge da reception, sala della colazione e bar, Stanis ci chiede della serata e prende nota dell’ora in cui preparare la colazione.
Oggi è stata una giornata di mezzo riposo: abbiamo percorso in bici solo una cinquantina di km, intervallati da frequenti soste e perciò ad una media piuttosto bassa. Anche il dislivello superato in totale non raggiunge i 600 m. e risulta simile per entrambi, nonostante i diversi percorsi nella prima parte della mattinata.
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Mercoledì 20, 7° giorno
Nonostante l’altitudine sia di 1000 m. buoni, la notte è stata insolitamente calda e il sonno pesante; comunque il risveglio e la colazione sono per una volta meno tardivi del solito, per cui poco dopo le 9 siamo pronti. Francesco paga in contanti (quando é disponibile il dispositivo per il bancomat, invece, tocca a me; poi a fine viaggio effettueremo conti e conguagli) e, ricevute le ultime spiegazioni sul percorso verso Merano, ritiriamo le bici e partiamo.
Lasciatoci alle spalle il Garni Sole, sfioriamo una chiesetta, seminascosta da un muro e dagli alberi, che potrebbe essere dedicata a S. Martino, a giudicare dal malridotto affresco dipinto nella lunetta dell’arco sul muro
Riattraversando per l’ultima volta il centro, passiamo davanti alla torre circolare, di cui abbiamo appreso che risale al XII sec., si chiama Fröhlich (dal nome della famiglia nobile che vi abitò) e faceva parte di un castello poi crollato. Ci fermiamo a scattare le inevitabili foto; poi l’ultima informazione, secondo cui si può salire in cima grazie a una scala interna di “soli” 164 scalini, è quella che ci fa affrettare verso la piazza.
Il Puni scorre sicuramente rumoroso come ieri sera, ma oggi il frastuono è in gran parte assorbito dal brusio della folla che gremisce le strade: è il giorno di mercato e le vie e i vicoli sono affollati da bancarelle piene delle solite merci che si vendono in tutti i mercati italiani, con l’eccezione di qualche venditore di formaggi locali. Ne approfittiamo per farci preparare dei panini per il pranzo.
Andando in cerca di un negozio dove comprare dei nuovi occhiali da lettura, visto che stamattina ho disintegrato quelli vecchi, ripassiamo davanti al bel Palazzo del XVI sec. (Ansitz Liechtenegg sta scritto sulla facciata, ma non ho capito a cosa si riferisca), ritroviamo vari edifici che ieri avevamo osservato più frettolosamente e di cui abbiamo modo ora di cogliere la grazia, accentuata dall’esplosione di colori dei giardinetti pubblici e privati. Un tale gusto, cura e pulizia (non abbiamo visto una cicca né una cartaccia, per terra), non ci era mai capitato di riscontrarlo nel resto d’Italia. Ciò che in altre regioni sarebbe parso un fatto eccezionalmente positivo, qui in Trentino ( e mi riferisco a Malles, Burgusio, Clusio, ma anche a Campo Tures o alla Val Pusteria) è ordinaria amministrazione.
Varchiamo ancora una volta il Puni sul ponticello che ci deposita al centro di una piazzetta alberata; al margine noto una colonnina che pare un distributore di benzina, ma a un esame più attento si rivela per un erogatore di corrente per veicoli elettrici; il che, insieme alla presenza di una rete ciclabile molto curata e capillare, testimonia anche un grado non comune di civiltà e di rispetto per l’ambiente.
Poco lontano un grande cartellone disegnato da mani infantili mostra scolari che attraversano sulle strisce; in basso, il relativo segnale stradale e la scritta bilingue ACHTUNG-ATTENZIONE. Qualcosa del genere lo avevo già intravisto nella zona del mercato. Bell’esempio di coinvolgimento dei bambini nell’educazione stradale e, in senso più ampio, civica.
Finalmente, lasciato quello che è senz’altro il più grande ed elegante centro della val Venosta incontrato finora, partiamo, stavolta sul serio, in direzione Merano. Io ho già dimenticato le indicazioni di Stanis; all’altezza della stazione dei Carabinieri i cartelli stradali e una rapida consultazione di Google Maps ci indicano la via Venosta per Spondigna; chiediamo a un paio di persone, ma siano indigeni esclusivamente germanofoni o turisti stranieri, fatto sta che nessuno ci sa dare spiegazioni.
Poi l’indicazione per Glurns-Glorenza ci toglie dall’impiccio e ci restituisce alla versione moderna e ciclabile della antica Via Claudia Augusta, che peraltro passava attraverso queste valli, ma vattelappesca dove esattamente: che sia realmente esistita e sia stata ultimata nel I sec. dell’era cristiana, lo sappiamo in base ad alcuni ritrovamenti archeologici, tra cui alcune pietre miliari che attribuiscono l’opera esplicitamente all’imperatore Claudio su progetto iniziato dal padre Druso; ma dove corresse di preciso il suo tracciato, soprattutto dopo Trento, è tutto da ricostruire.
Non so come, invece che andare direttamente a Glorenza, ci ritroviamo a passare da Laudes, ma è una “allungatoia” di poco; in compenso, abbiamo occasione di scorgere un grosso blocco grigio di cemento a una settantina di metri di distanza; lì per lì non capiamo di cosa si tratti, poi la forma allungata e la cupola tondeggiante, rivelano di appartenere a un massiccio bunker.
Queste zone, come del resto tutto il nostro nordest, sono state terre lungamente e aspramente contese tra Austria e Italia dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento. Però l’iniziale ipotesi che questa sia una fortificazione austriaca della I Guerra Mondiale, non regge davanti alla considerazione che il bunker è orientato a difendersi da un eventuale nemico proveniente da Nord, cioè dall’Austria. Perciò dovrebbe trattarsi di un’opera costruita nel periodo fra le due guerre mondiali dall’Italia, dopo cioè che questi territori le erano stati assegnati.
E non deve essere l’unica; da dove ci troviamo non vedo un modo per raggiungerla ed esaminarla da vicino. Potrebbe essere interessante da visitare, anche per le scuole e chiunque sia interessato a quel periodo storico; magari potrebbero farci una piccola installazione museale a monito di quello che sono state le guerre col loro vergognoso dispendio di vite e risorse.
Tempo una decina di minuti e arriviamo in vista di Glorenza: la prima cosa che ci balza agli occhi è la sua cinta muraria perfettamente conservata, con le sue feritoie, i bastioni, le torri, le porte d’accesso; il pannello esplicativo che –come nella Val Pusteria- accompagna e informa il cicloturista, spiega come sia la più piccola città della Val Venosta e sia annoverata tra i borghi più belli d’Italia. Noi ci fermiamo qualche minuto davanti alla porta meridionale, giusto per intravedere l’interno della cittadina e una parte dei suoi famosi portici.
Durante la sosta ricevo la telefonata di Carla e Leo, dispiaciuti per aver trovato i miei messaggi solo ieri sera quando sono tornati a cena. Ci invitano a passare da loro per il pranzo, ma ormai è troppo tardi per tornare su a San Valentino. Mi strappano allora la promessa di fermarci a Naturno, sempre sulla strada della Val Venosta, per visitare la chiesa di San Proculo, che da sola vale un viaggio.
Proseguiamo a fianco dell’Adige che, senza perdere il suo impeto e il suo fragore, si è sistemato in un letto più ampio. La strada gli scorre accanto, in lieve discesa, ma il caldo comincia a farci sudare
Ignoriamo il bivio per Sluderno e tra vigneti e frutteti giungiamo a Spondigna. In corrispondenza di un laghetto e di un’area Biotopo, siamo costretti a voltare le spalle all’Adige, per seguire il rio Solda fino a Prato allo Stelvio. Da qui parte la strada che conduce a Trafoi e poi su per i micidiali 48 tornanti fino al famoso passo dello Stelvio . Memore della mia sofferta salita di diciassette anni fa (però non da Prato, bensì da Bormio), mi fermo a immortalare un cartello che indica la direzione per lo Stilfserjoch.
La sosta per quanto minima, mi fa perdere il contatto con Francesco e sbagliare direzione per infilarmi in uno stradello che non porta da nessuna parte. Torno indietro e recupero il mio compagno che mi attende paziente ad una rotatoria. Sfioriamo Cengles e ritroviamo l‘Adige che seguiamo più o meno a distanza. Dopo Laas dove un bel ponte coperto in legno ci permette di cambiare sponda; al bivio per Silandro presso Covelano, ci dividiamo: Francesco va in direzione del paese in cerca di acqua, mentre io, secondo l’accordo, proseguo a diritto ma lentamente per dargli tempo di raggiungermi.
Tutt’intorno alla pista c’è una coltivazione, anzi un bosco, no, una fitta foresta di meli: gli alberi sono disposti con geometrica precisione in diritti filari che si susseguono all’infinito e i rami sono carichi di frutti in via di maturazione. Ogni tanto una stradina intercetta quella dove mi trovo io e rivela a sua volta altri ordinati filari di meli. Proprio da una di queste stradine sbuca Francesco, che ha preferito seguire il suo senso dell’orientamento anziché la mia strada, col rischio di perderci.
Stessa strada, stesso panorama; salvo imbatterci in un enorme capannone verde, dopo il quale inizia un “muro” di cassette da frutta, alto tre o quattro metri che corre ininterrotto lungo il nostro percorso. Non ho misurato la distanza tra l’ inizio e la fine, ma anche calcolando che sia di un solo kilometro e che lo spessore del muro sia di sole quattro cassette e che infine ognuna contenga almeno ottanta mele, il numero approssimativo di frutti raccolti è… dovrebbe essere… dunque, vediamo… beh, la scarsa ossigenazione delle mie meningi non mi consente di fare il calcolo, comunque la cifra è da capogiro. D’altra parte è risaputo che il Trentino è la regione di maggior produzione di mele di qualità e la Val Venosta è il “Paradiso delle mele” con la coccinella e non.
Mentre siamo impegnati in queste considerazioni, ci si para davanti, in piena campagna, una baracchina in cui, oltre a snack di vario tipo, sono esposte ben allineate ceste di mele di diversa qualità, confezioni di ciliegie, fragole o lamponi, mentre su una mensola grossi contenitori erogano puro succo di mele. Non ci sarebbe nulla di strano, non fosse che non c’è nessuno a parte noi e che vari cartellini indicano il prezzo di ciascun prodotto, da corrispondere in una cassettina senza lucchetto.
Francesco ne rimane stupito; io ho già avuto modo di osservare simili esempi di fiducia nell’onestà e nel senso civico del prossimo nei paesi del centro Europa (fiere di beneficenza, distributori di giornali, banchetti di fiori o di piccoli manufatti, tutti affidati alla buona fede dei passanti), ma non posso fare a meno di provare ammirazione e un po’ d’invidia per gli abitanti di questa regione italiana, ch evidentemente ripongono la loro fiducia nella correttezza degli altri perché essi per primi sono corretti.
Pagati 50 cent per un bicchiere di succo di mele davvero gustoso, riprendiamo la strada e si tocca Coldrano, dove una bella fontana in pietra ci permette di riempire di nuovo le borracce; la giornata infatti è sempre più calda. E pensare che alla stessa ora ieri mattina scendendo da Resia a Burgusio l’aria era piacevolmente fresca, quasi fredda; ma è anche vero che da ieri ci siamo abbassati 6-700 metri di quota e poi il meteo aveva comunque preannunciato un’ondata di caldo in arrivo.
Si corre in un fondovalle che in poco spazio, oltre alla nostra pista ospita anche la statale, qualche strada secondaria, la ferrovia e, naturalmente, l’Adige. L’impressione è che la vallata si sia ristretta o forse sono solo suggestionato dal fatto che ora lo sguardo è libero di raggiungere i monti vicini: non siamo più assediati da fitti filari di alberi, ma a frutteti di varia natura si aggiungono campi di ortaggi e soprattutto vigneti, appoggiati anche alle pendici a solatio: a quanto ne so, dovrebbe essere proprio questa una delle più importanti aree di produzione di Pinot e Riesling.
Sosta di cinque minuti a Castelbello, che tiene fede al suo nome mostrando un possente maniero medioevale che sembra controllare dall’alto tutta la vallata e incombe un po’ minaccioso sulla cittadina.
Ed eccoci a Naturno. Il paese, che ho avuto qualche difficoltà localizzare sullo smartphone, non è poi così piccolo come pensavo. Si presenta con caratteristiche completamente differenti da Malles: strade piuttosto ampie e diritte, costruzioni recenti e ordinate villette, resort, parchi… un aspetto insomma assai meno tradizionale (ma anche meno interessante) di quello incontrato fin qui. Lo attraversiamo da Ovest a Est, poi torno in centro ingannato dall’indicazione di una chiesa che non è quella che cerco, infine troviamo un signore che ci dà le indicazioni giuste e finalmente raggiungiamo stanchi e sudati la chiesa di S. Proculo.
L’edificio, che risale all’ VIII-IX secolo, si trova vicino al camposanto e di fronte al museo, preceduta da una cappella e sovrastata da un rustico campanile. A parte l’età, non sembra che questo luogo di culto abbia nulla di particolare. Varchiamo un cancelletto e su una fiancata, protetto ad uno spiovente che si protende a tettoia, notiamo un insieme di affreschi duecenteschi centrati sulle fasi della creazione, sulla cacciata dal Paradiso Terrestre etc., quasi tutti di facile decifrazione (se ci riesco io…).
Ma quello di cui Carlina mi aveva parlato appassionatamente, ci attende all’interno: è un ciclo di affreschi risalente all’epoca carolingia (IX secolo) ed è quindi tra i più antichi e rari del Trentino, insieme a quello, conservato però peggio, di San Benedetto a Malles.
All’interno (un unico locale di pochi metri quadrati) c’è uno strano bigliettaio che non fa i biglietti, dice di non essere una guida, ma ci spiega molte cose con una ricchezza di particolari e proprietà di linguaggio che fa sospettare a Francesco possa trattarsi del direttore del complesso museale.
Sui muri sono raffigurati momenti della vita di San Procolo, in particolare quando il santo, vescovo di Verona, a causa dell’ostilità di potenti personaggi di corte, dovette fuggire dalla città con l’aiuto di alcuni amici che lo calarono giù dalle mura: è la cosiddetta scena dell’altalena. Singolari sono poi i motivi geometrici che incorniciano in alto le pareti o le rappresentazioni un po’ naif degli animali, come le mucche dai colori variopinti o figure angeliche sfumate che fanno pensare a spiriti dell’oltretomba.
Conclusa la visita, usciamo, ma non si riparte subito: il sole picchia forte e la calura si sente; perciò approfittiamo della presenza di una fonte e dell’ombra di qualche albero nel giardino retrostante la chiesa, per sederci su una pan china e mangiare i panini che ci siamo preparati a colazione. Impresa non facile perché il caldo ha liquefatto la nutella spalmata tra le fette e perché nugoli di api attratte dall’odore del cibo intendono partecipare al banchetto.
Ci restano pochi kilometri prima di arrivare a Merano e da qui raggiungere Terlano, la meta di stasera, a un tiro di schioppo da Bolzano. La giornata è stata intensa e –almeno io- non vedo l’ora di arrivare.
Sfioriamo vari paesi, Plaus, Rablà, Töll, senza però entrare mai nell’abitato, ma rimanendo fedeli alla sponda dell’Adige. Il fiume ora si è fatto più ampio, ma non per questo è diventato placido; anzi, ha assunto un corso impetuoso e la sua superficie è agitata da onde schiumose e spruzzi. È evidente che la pendenza in questo tratto sta aumentando. La riprova l’abbiamo poco dopo, quando avvistiamo in lontananza una strana sorta di ponte coperto, molto alto, che unisce le due sponde del fiume. Avvicinandoci, però, ci si rende conto che non è uno di quei bei ponti di legno caratteristici dell’Europa germanofona, ma fa parte del complesso di una chiusa che irreggimenta l’Adige per produrre energia elettrica.
Improvvisamente la ciclovia se ne allontana piegando a sinistra e dopo una serie di saliscendi precipita a valle di diverse decine di metri. Il panorama della conca di Merano dall’alto è indubbiamente bello, il fondo stradale è in ottime condizioni e robusti steccati separano dagli strapiombi, ma la pista è stretta, piena di curve brusche, affollata come non mai di ciclisti di ogni tipo (molti gli imprudenti) e soprattutto molto ripida ( mi chiedo come avrei fatto a affrontarla in senso inverso); perciò la percorro molto teso e coi freni tirati, senza riuscire a gustarmi quei pochi kilometri di discesa nel verde.
Quando la pendenza torna normale e nei pressi di Lagundo ritroviamo l’Adige, facciamo una rapida sosta per esigenze fotografiche, catturando l’immagine di un bel ponte coperto in legno, con finestrelle triangolari, consentito solo a pedoni e ciclisti; colore e usura del materiale sembrerebbero datarlo a quattro – cinque secoli fa, non fosse per l’iscrizione “A. 1 9 * 7 0 D.” sull’architrave.
Siamo ormai arrivati alle porte di Merano discretamente sudati, ma non è tanto l’effetto della tensione, quanto del caldo afoso che ci assale all’improvviso: non c’è un alito di vento e la temperatura che solo un paio d’ore fa ci infastidiva era una brezza primaverile rispetto a quest’aria da fornace. Sarà una coincidenza, ma anche il GPS sta boccheggiando, perdendo il segnale più di una volta.
Lasciamo la ciclovia per addentrarci nella periferia della città in cerca di una fontana, seguita da una breve sosta in una piazza ombreggiata; alla ripartenza seguiamo un percorso ciclabile urbano che ci porta nella zona degli impianti sportivi di Maia, poi verso Sinigo. Per 200 metri siamo deliziosamente rinfrescati dagli spruzzi di alcuni erogatori che annaffiano i campi adiacenti alla strada.
Ritroviamo il fiume, che scorre tra noi e l’autostrada, ma non la ciclabile dell’ Adige. Finalmente, dopo il bivio per Gargazzone e Vilpiano, incrociamo quello per Terlano; lo imbocchiamo e, dopo una ricerca un po’ faticosa su e giù in un paese tanto bollente quanto deserto, individuiamo il nostro B&B. A casa le nostre assistenti sono state di parola: non ci hanno prenotato un albergo, magari lussuoso, però in cima a un monte, bensì un B&B in una bella villetta fuori paese, lungo la statale per Bolzano. Bello e arredato con gusto anche l’interno, peccato che la proprietaria, dall’aria sussiegosa e diffidente, non sembri particolarmente accogliente.
Un’ora dopo siamo nuovamente in sella in cerca di un locale in cui cenare; torniamo indietro a Terlano e oltre, fino a trovare un locale che ci riempie l’occhio e, di conseguenza, anche lo stomaco con un paio di piatti tra cui primeggia una pietanza con i finferli. Il ritorno avviene nel buio più completo sulla statale, fortunatamente poco trafficata, e con qualche difficoltà a individuare il B&B che non è riconoscibile da luci o insegne accese.
La giornata si conclude con una placida notte dopo un percorso di 95 km per un totale di 6 ore e 30 minuti di pedalate e solo 400 m di salite contro ben 1200 di discese; tuttavia, soprattutto a causa delle continue soste, la media è insolitamente bassa, solo 12 km/h.
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Giovedì 21, 8° giorno
Colazione in un’ampia sala arredata in stile arsenico e vecchi merletti: scuri mobili antichi (o sedicenti tali), quadretti alle pareti, tavolini con lunghe frange, tovagliette e tovaglioli ricamati, tazze non dozzinali. Il buffet è riccamente imbandito; ma madama l’albergatrice si piazza davanti a noi e non ci molla un istante, per cui ogni volta siamo costretti a chiederle “dell’altro latte per favore” o “potrei avere ancora un po’ di caffè?”; naturalmente non dice di no, ma quel sentirsi controllati e con gli occhi che non ti abbandonano mai, fanno quasi passare l’appetito, soprattutto quello “preventivo” che ad ogni colazione ci fa rimpinzare lo stomaco e il marsupio in vista della pausa pranzo.
Ripartiamo forse meno soddisfatti del solito, ma il buonumore fa presto a tornare quando, lasciata la statale attraversiamo una serie di vigneti organizzati con geometrica precisione che conducono verso l’Adige.
Raggiungiamo il fiume e la ciclabile che lo costeggia sul suo fianco sinistro. Lo scenario è meno bello di quello a cui l’Adige ci aveva abituato finora: le acque, di colore grigio-verdastro, corrono veloci, ma senza i gorghi, i flutti e gli spruzzi di ieri. Sull’altra sponda si scorge il nastro autostradale che dal Brennero corre giù verso Verona. Non ci sono molti alberi, la ciclabile, dominata dal cemento, corre rettilinea e in mancanza di boschi, curve, dossi, lo scenario è sempre uguale a se stesso e non lascia molto spazio all’immaginazione. In compenso vigneti dai filari lunghi e regolari si susseguono a perdita d’occhio nel fondovalle e sui colli vicini; “strada dei vini” annunciano i cartelli e c’è da crederci, visto che questa è la terra di vini pregiati come ad esempio il Gewürztraminer, il cui nome deriverebbe appunto dalla vicina località di Termeno).
La segnaletica, comunque, è sempre funzionale e dettagliata: indica località, distanze parziali, punti di interessi, connessioni con altri percorsi ed è utile sia per i ciclisti a lunga percorrenza sia per quelli che devono spostarsi solo di poche decine di kilometri.
Improvvisamente la ciclabile si interrompe su una strada che ci porta ad attraversare il fiume, ma seguendo i cartelli non abbiamo problemi a ritrovare il nostro percorso. Giriamo intorno a un ripido colle in cima al quale troneggiano i resti di un castello: durante una breve pausa consulto Internet sul mio smartphone: è il Sigmundskron del X secolo, attualmente sede del museo della montagna voluto da Reinhold Messner.
La ciclabile riattraversa il fiume ed entra in Bolzano proprio prima della confluenza dell’Isarco nell’Adige e qui si verifica una situazione curiosa: ci ritroviamo, senza rendercene subito conto, non più su una sponda, ma su una sottile lingua di terra circondata dall’acqua sui due lati; solo dopo 3 kilometri torniamo a pedalare sulla riva sinistra dell’Adige; ci sfilano accanto uno dopo l’altro Laives, Ora, Salorno, San Michele all’Adige, Nave San Felice; l’unica sosta che ci concediamo è davanti a un grande susino selvatico carico di frutti un po’ piccoli ma saporiti, coi quali compensiamo la modesta colazione fatta al mattino. Io ne mangio a crepapelle e ripartiamo solo quando Francesco mi trascina via di forza.
L’Adige ora è diventato davvero ampio e regolare, ricco di acque che non sembrano risentire della siccità di questa estate.
Anche oggi caldo, umidità e assenza di vento rendono l’aria pesante; quando poi la ciclabile ci allontana provvisoriamente dalla sponda, ci ritroviamo a pedalare lungo un campo coltivato a ortaggi, delimitato da una roggia scura e puzzolente. Per fortuna dopo pochi minuti ci lasciamo alle spalle i suoi miasmi, ma l’incanto della ciclabile, per la prima volta, risulta un po’ compromesso.
Proseguiamo concentrati più sulla pedalata che sul paesaggio, quando ci accorgiamo di essere in mezzo alle case di un qualche paese. Sulla riva opposta avvistiamo una chiesetta stranamente stretta e alta con spioventi molto inclinati e un campanile di poco più elevato; il rosone dell’una e le bifore e monofore dell’altro individuano lo stile come romanico, sia pure rimaneggiato. Mentre discettiamo sugli stili del complesso, ci rendiamo conto di essere sul lungofiume di Trento; ma, anche stavolta, non lasciamo la pista per visitare la città: sono le due e la calura ci fa desiderare di allontanarci da asfalto, cemento e muri che riverberano calore e di cercare piuttosto refrigerio in qualche area verde e ombreggiata.
Ci vuole almeno un’ora e una ventina di kilometri prima di poter essere accontentati, ma finalmente la ciclabile dai cento nomi (Via Claudia Augusta, Innradweg, Etschradweg Ciclabile dell’Adige, Strada dei Vini e ora anche Ciclopista del Sole ed Eurovelo n°7) ci conduce in vista di un ponte di costruzione sicuramente molto recente: è una snella struttura ad arco, a campata unica, in acciaio verniciato di bianco; è esteticamente gradevole e, quel che è più importante è ad uso esclusivo di pedoni e ciclisti. Prima di attraversarlo, però, decidiamo di goderci una sosta al fresco nel vicino boschetto, attirati dal cartello che annuncia un Bicigrill. In effetti all’ombra degli alberi ci sono vari tavoli e panchine e un chiosco che però è comprensibilmente chiuso, data l’ora. L’acqua di fonte non manca e abbiamo ancora delle provviste a cui dar fondo, per cui ci concediamo un’ora di morigerate gozzoviglie.
Ripartiamo attraversando finalmente il ponte, la cui superficie in legno produce al nostro passare un suono simile a quello di un parquet. Ogni tanto noto dei ciclisti procedere anche sull’argine opposto al nostro, segno che in più di un punto esistono tracciati ciclopedonali su entrambe le sponde; noi tuttavia ci atteniamo a quanto ci indica Komoot oppure la segnaletica, che in questi giorni sono stati stranamente concordi senza mai tradirci.
Giungiamo così alla periferia di Rovereto dove, prima che la ciclabile si interrompa per aggirare un grosso ponte, alcune curiose sculture attirano la nostra attenzione; sono in metallo e –come spiega un pannello- sono opera recente di un artista trentino, Paolo Colombini; raffigurano le tre classiche situazioni in cui un ciclista può trovarsi: pianura, salita, discesa.
Prima di lasciare Rovereto il torrente Leno, che qui si immette nell’Adige, ci costringe a deviare fino a trovare un ponte che consenta di aggirarlo. Pochi kilometri dopo, all’altezza di Mori, un’altra deviazione ci fa perdere del tempo, quando noi, per continuare a costeggiare il fiume, ci incaponiamo a seguire un falso tratto di pista che finisce nel nulla.
Passano appena pochi minuti e la situazione si ripete in prossimità di uno svincolo autostradale, stavolta non per colpa nostra, quando ci troviamo la ciclabile interrotta da un cantiere, i cui operai non ci concedono di attraversarlo neanche con la bici a mano. Torniamo indietro e ci dividiamo per perlustrare la zona in cerca di un passaggio; ma né la mia esplorazione , né quella di Francesco hanno successo. Per di più io cado rovinosamente a terra e oltre a qualche abrasione rimedio anche l’incrinatura dello schermo dello smartphone.
Siamo in una situazione di stallo. Ed è qui che Komoot rivela le sue qualità più nascoste, tanto da sorprendere perfino Francesco che finora è stato piuttosto scettico nei suoi confronti; la app, infatti, ci mostra un sentiero alternativo prima in mezzo ai filari di un vigneto, poi sulla massicciata dell’argine. È una dura camminata (più che pedalata) di un kilometro circa che alla fine ci restituisce prima a uno sterrato e poi alla sospirata ciclopista.
A Serravalle, dove l’Adige si incunea tra due opposti e scoscesi pendii in una stretta valle, attraversiamo ancora il fiume per portarci sul suo fianco destro in direzione di Pilcante; anche qui il paesaggio è caratterizzato da distese occupate da qualche frutteto e soprattutto da vigneti, molti dei quali a pergola.
Continuiamo a costeggiare la s.p, 90, la provinciale destra dell’Adige. La nostra meta finale è l’agriturismo “Al Picchio” in contrada Sdruzzinà subito a sud di Ala, ma giunti a Pilcante anziché attraversare il ponte che la congiunge ad Ala, decidiamo di continuare sulla ciclabile fino al prossimo ponte, in modo da percorrere il meno possibile la statale 12 del Brennero. Raggiungiamo così Sabbionara, una frazione di Avio nobilitata da una rocca che la sovrasta. Qui attraversiamo l’Adige, per l’ultima volta oggi, e prendiamo uno sterrato, ma la contrada Sdruzzinà non è segnalata e l’agriturismo non si trova. Al termine della stradina dobbiamo giocoforza dirigerci verso Ala, percorrendo proprio quella statale del Brennero, che avevamo cercato di evitare; ma alla fine l’agriturismo è nostro!
Varchiamo il cancello ed entriamo in un ampio cortile, chiuso in fondo da un muro, oltre il quale si intravedono alberi da frutto, e ai lati da due edifici a un piano, che probabilmente in tempi remoti saranno stati la casa padronale e i magazzini e le stalle di una vecchia cascina. Ci accolgono con la consueta cortesia, senza nessuna fretta di registrarci e di mostrare le camere; io, in realtà, un po’ di fretta ce l’avrei: non vedo l’ora di fare una doccia per togliermi di dosso il sudore e la fatica della pedalata odierna, la prima che ha tenuto una media ciclistica; ma Francesco li sollecita con domande pertinenti, anzi quasi da esperto, sul territorio, la loro azienda e le coltivazioni e ovviamente loro non se lo fanno ripetere. Va a finire così che passiamo un’ora buona in amabili conversari dai quali apprendiamo, tra l’altro, che ci troviamo in quella parte della valle dell’Adige che prende nome di Vallagarina e confina a Sud con la provincia di Verona; che la zona è ricca di piccoli centri urbani interessanti per la cultura, la storia e l’enogastronomia; che i vini tipici del posto sono il Marzemino e l’Enanzio (o Enantium, il cui vitigno autoctono risale nientemeno che all’epoca romana); che le colture principali sono quelle della viticole e frutticole (con le mele al primo posto, naturalmente) e perfino dell’olivo, grazie alle buone condizioni climatiche; e poi che purtroppo quest’anno dei parassiti originari dell’Est, hanno fatto irrimediabilmente ammalare ciliegi, albicocchi, peschi, danneggiando duramente la produzione; e poi che i proprietari di questo agriturismo, oltre ai servizi di B&B, offrono la possibilità di escursioni a piedi e in bici e persino di pesca; e poi che…
Alla fine si riesce a raggiungere la camera e a darci una rassettata che ci renda presentabili. Dopodiché si ripropone l’annoso problema della cena. Al Picchio ci consigliano un piccolo tipico ristorante a Vò Sinistro un paio di km indietro, praticamente subito prima del ponte sull’Adige. L’idea ci piace e dato che, per una volta, siamo in anticipo ci concediamo una giro di ricognizione a più ampio raggio.
Individuato il ristorantino, riattraversiamo il ponte fino a Vò Destro per dare un’occhiata anche a Sabbionara. Oltre a Sabbionara e Avio, i cartelli segnalano anche il monte Baldo; ma , per quanto osservi sullo sfondo l’irregolare catena di rilievi che dividono il Garda dall’Adige, non riesco a identificare il monte, che dovrebbe essere il più alto della zona e particolarmente impegnativo anche per ciclisti ben più allenati di noi.
Girelliamo un po’ per il paese, che non pare presentare punti d’interesse notevoli a parte l’imponente castello che lo domina dall’alto e infine facciamo ritorno sull’argine destro. Nella stretta curva a gomito del sottopassaggio ferroviario, per un pelo non provoco un frontale con un’auto proveniente in senso opposto: la strada, infatti, è così poco spaziosa da non permettere il transito in entrambi i senso di marcia e perciò il traffico è regolato da un semaforo che io ho bellamente ignorato; c’è sì un marciapiede ciclopedonale, ma è ridicolmente stretto; non mi resta che alzare un braccio in segno di scusa verso l’automobilista ancora attonito.
Nel nostro girovagare, Francesco nota una curiosità a cui non avevo fatto caso: il legno celeste e i vetri di un vecchio uscio recano curiose scritte in dialetto, italiano e inglese: ”Scola par secioni e smemorati”, “Metodo rivoluzionario (come me)… Peculiar method”, “Teaching scientist:3; important discoveries! o ancora “Dove c’è un dosso, c’è una buca, ma dove c’è una buca c’è sempre un dosso”; infine, sull’architrave della porta, l’iscrizione che dovrebbe spiegare tutto: “Taverna di Socrate”. Ce ne andiamo con l’unica socratica certezza di aver capito di non aver capito.
Raggiungiamo finalmente il ristorante “L’antica trattoria” o qualcosa del genere; le panche in legno, le tovaglie a quadrettini rossi e bianchi e l’aria un po’ dimessa del proprietario, ne confermano la natura popolare, ma quando andiamo a cercare nel menù qualcosa di tradizionale o tipico del luogo, restiamo delusi: nient’altro che riso o pasta al ragù o sugo di pomodoro e i soliti secondi: cotolette, patatine, insalata … Del resto, mi fa notare Francesco, già da Merano in poi, in pratica da quando siamo entrati nella Bassa Atesina, si è notato un leggero scadimento generale a cominciare dal cibo; ma forse è solo un’impressione umorale da fine viaggio oppure siamo stati troppo “viziati” dalla Val Venosta, con i suoi piatti schietti e tradizionali, gli ampi panorami, l’aria tersa e fresca, l’assenza di traffico automobilistico… Probabilmente se fossimo arrivati qui dalla Pianura Padana, anziché dall’Alto Adige, questi stessi luoghi ci sarebbero parsi paradisiaci, se confrontati con l’afa, il traffico e l’affollamento del tratto precedente. Proprio vero che c’è sempre un Nord più a Nord di quello in cui ci troviamo.
Al rientro nell’agriturismo, ho la piacevole sorpresa di sapere che mi è già arrivato a Livorno la carta d’identità speditami dagli albergatori di Götzens; la loro solerzia è davvero ammirevole non posso che ringraziarli mentalmente e ripromettermi di scrivere loro due righe quando sarò tornato a casa.
Salgo lentamente le scale per raggiungere la camera, raccogliendo depliant turistici che leggerò comodamente a letto prima di addormentarmi. La giornata non è stata particolarmente faticosa, dato che il dislivello totale dei metri in salita è stato di 600 contro 700 in discesa, ma abbiamo pedalato per ben 120 km (più una dozzina nei vagabondaggi serali), oltretutto a una media più elevata del solito: 21 km/h
https://www.komoot.com/tour/10652174
Venerdì 22, 9° giorno
Ultimo giorno di viaggio destinazione Verona-Stazione e poi a casa.
Appena alzato, sono andato sul balcone e l’aria mi è parsa frizzantina in misura incoraggiante; ma c’è poco da illudersi: anche per oggi il meteo promette caldo.
Terminata la colazione tutta a base di eccellenti prodotti realizzati dalla famiglia che gestisce l’agriturismo, compriamo entrambi qualche barattolo di marmellate e miele; dovremo sopportarne il peso per qualche ora, ma sono un minimo doveroso riconoscimento formale dell’aiuto a distanza che Alice e Gea ci hanno dato nel cercare e fissare gli alberghi.
Si parte, poco dopo le nove, in anticipo sulla tabella di marcia abituale; volendo, potremmo arrivare a Verona in meno di tre ore percorrendo la S.S. 12, ma non abbiamo alcuna fretta e ancor meno voglia di tuffarci nel flusso di una statale trafficata come quella del Brennero. Perciò ci teniamo stretta la nostra ciclabile e all’altezza del solito ponte attraversiamo l’Adige per riprendere la pista che avevamo lasciato ieri.
Appena il tempo di imboccarla e notiamo sulla nostra destra un’ampia struttura che ospita una sorta di chalet con accanto uno spazio coperto. L’insegna non lascia adito a dubbi: “Bici Grill Ruota Libera”; nel bar-ristorante e ai tavoli subito fuori alcune persone stanno consumando la colazione o facendo uno spuntino, altri invece con le loro bici – forse un gruppo di cicloamatori – sono riuniti sotto la tettoia a parlare. Più vicino a noi, quasi al bordo della ciclopista, svetta un’asta su cui si assiepano i segnali che indicano direzione e distanze di decine e decine di località nazionali ed estere, da Pechino a Torbole, da Roma alla Terra del Fuoco; vicino, poi, c’è una fontanella e una specie di stazione di servizio: una pompa e strumenti per la manutenzione della bici, come avevamo visto al “ciclistorante” prima di Fließ.
Questo tipo di strutture, infatti, è tenuto a concedere ai ciclisti o cicloturisti di passaggio un accesso libero e gratuito non solo ai servizi igienici e all’acqua potabile, ma anche alla ciclofficina o comunque alle attrezzature, oltre a fornire servizi di informazione e punti di ristoro.
E, proprio mentre io sono impegnato ad ammirare questa intelligente iniziativa degli enti locali trentini (è già il terzo che incontriamo nella regine), Francesco si accorge di avere una ruota sgonfia. In un attimo porta la sua mtb alla colonnina con la pompa e ripristina la pressione corretta della camera d’aria. Aspettiamo ancora qualche minuto per vedere se la gomma tiene, poi ripartiamo.
La pista segue da vicino la riva destra dell’Adige, stretta fra il fiume e l’autostrada A 22, mentre su entrambe le sponde i vigneti la fanno da padrone. La denominazione “Ciclabile dell’Adige” è sempre più rara a vantaggio di quella di “Ciclopista del Sole”, o più tecnicamente BI-1, cioè del tracciato che scendendo dal Brennero lungo la valle dell’Isarco si innesta a Bolzano sulla ciclabile dell’Adige, per poi puntare sul lago di Garda, Firenze, Roma e il Sud. Adesso, alle precedenti si è aggiunta un’altra qualifica, quella di “Terra dei Forti”, ma non mi illudo che sia un omaggio alla nostra impresa: secondo quanto illustra un pannello esplicativo, si riferisce piuttosto alla rinomata produzione vinicola di quest’area che prende il nome appunto dalla presenza di numerosi Forti; di queste imponenti fortezze, di origine medioevale o costruite dagli Austriaci in chiave prima anti-napoleonica, poi anti-italiana, oppure dagli Italiani contro gli Austriaci, molte sono visibili anche dalla strada ed essendo abbastanza ben conservate, sono anche visitabili: Forte Rivoli, Forte S. Marco, Forte Ceraino…
All’altezza di Borghetto riattraversiamo l’Adige ed entriamo nel Veronese, lasciando dunque il Trentino. Non ci lasciano però le bianche e scoscese pareti calcaree che talvolta, laddove i fianchi contrapposti della vallata si avvicinano, incombono minacciose sulla strada e sugli abitati alla loro base. La ciclabile ci porta ad attraversare Preabocco, un minuscolo borgo il cui nucleo più antico, costruito in pietra grigia, si fonde direttamente con la roccia della montagna che lo sovrasta. Ci fermiamo a una fonte a fare rifornimento d’acqua, alzando la testa vedo davanti solo una inquietante parete verticale e sono ben felice di ripartire subito dopo.
L’Adige in questa ultima fase ha preso a fluire più placidamente (almeno in apparenza) e l’avvicinarsi alla pianura ha fatto sì che il suo corso sia più curvilineo e caratterizzato da frequenti golene e isolotti.
La ciclabile prosegue costeggiando ora le rive del fiume, ora un canale sopraelevato in cui l’acqua – dell’ Adige stesso, presumo – scorre con impeto verso la pianura veronese. Nel suo zigzagare il percorso ingloba e integra strade arginali o poderali preesistenti, costruendo così una rete di tracciati alternativi che si intersecano tra loro e talvolta, in presenza di un ponte, si collegano con un’altra ciclopista: al momento, per esempio, la BI-1, cioè la Ciclopista del Sole su cui ci troviamo corre sulla sponda destra dell’Adige, mentre la ciclovia della Terra dei Forti, corre sulla sponda sinistra, dopo la separazione avvenuta all’altezza del ponte di Borghetto.
Il nostro percorso a volte si incunea tra i vigneti lavorati prevalentemente a pergola, la cui ombra risulta gradevole; a volte invece procede diritto in pieno sole e il riverbero del fondo stradale chiaro accentua la sensazione di caldo.
Il tratto più duro, però, quello che mette a severa prova la mia capacità di termoregolazione è quello che dal livello del fiume mi fa scalare una serie di rampe al9-10% su una stradina panoramica che domina tutta la vallata. Senza fiato e al limite del colpo di calore, arrivo in cima, dove Francesco fresco e pimpante mi ha preceduto di qualche minuto. Siamo a Rivoli Torinese, sul crinale della parte finale del monte Baldo e qui un cartello indica chiaramente che la ciclabile proveniente da Trento-Bolzano, la nostra, si biforca: un ramo proseguirà verso Verona ed eventualmente Venezia, l’altro scenderà al lago di Garda.
La sosta di qualche minuto, oltre a recuperare un po’ di fiato, mi consente di scorgere su un colle vicino, in maniera abbastanza, nitida, nonostante l’afa, una di quelle fortezze che hanno determinato il nome di Terra dei Forti: è il Forte Wohlgemuth, secondo quanto riporta un cartello. Ci metto un po’ per rendermi conto che Wohlgemuth è solo il nome originario che gli Austriaci avevano dato a questa fortezza prima che cadesse in mano italiana e venisse ribattezzato Forte Rivoli dal nome del paese presso cui sorge. Naturalmente con il cambio di bandiera cambiò anche l’orientamento delle batterie che vennero puntate verso Nord. Oggi che ospita un museo e che è attorniato da alberi e costruzioni civili, ha perso molto della sua austera marzialità e del suo fascino.
Finalmente, dopo la strettoia tra Rivoli e Ceraino, la valle dell’Adige si apre e si protende definitivamente verso la pianura. In realtà noi continuiamo ad affrontare una serie di saliscendi fino quasi a Bussolengo, senza avere la sensazione di aver raggiunto la pianura; ritroviamo però il canale sopraelevato che avevamo perso di vista e di cui ora abbiamo letto il nome: Canale Biffis.
Procedendo, leggiamo indicazioni di paesi, vicini o lontani, che sollecitano le memorie storiche fissatesi nell’infanzia: Pastrengo, Valeggio, Monzambano; ma non mancano quelle che si riferiscono alle eccellenze vitivinicole della zona: Valpolicella, Amarone etc.
A Bussolengo ci inoltriamo nella città, lasciando la ciclabile per poi ritrovarla all’uscita che corre affiancata al Biffis e a un altro canale sconosciuto. Una manciata di kilometri per raggiungere la periferia di Verona, ancora meno per avvicinarci al centro: i cartelloni stradali indicano le direzioni per l’ospedale, lo stadio Bentegodi, la stazione, il duomo… Nella caligine del mezzogiorno scorgo un campanile (S. Zeno?) e poco dopo, seminascosti dalla vegetazione i bastioni o i terrapieni delle mura. La ciclabile, è stata ormai inglobata dal traffico e salvo sporadici tratti riservati a bici e pedoni in qualche controviale, si deve pedalare affiancati alle auto; ma in fondo siamo arrivati fin nel cuore di Verona senza dover contendere la strada ad alcun mezzo motorizzato e di questo c’è da essere più che soddisfatti. Ultimi colpi di pedale: viale Galliano, viale Dal Cero e Piazzale XXV Aprile; la stazione di Verona-Porta Nuova è davanti a noi.
Una corsa a fare i biglietti: siamo arrivati in tempo e ce la faremo a prendere il treno delle 14:26 che in solo cinque ore (nonostante tre cambi) ci riporterà a casa.
Salvo le foto scattate e il percorso odierno su Komoot che mi ragguaglia su quest’ultimo capitolo della nostra avventura: 60 km in 3 ore e 20’ (comprese le varie soste) con 420 m di dislivello totale a una media di circa 18/km/h.
Il nostro Tour dei Tre Fiumi Isarco, Inn, Adige (senza contare il Rienza e l’Aurino) ha disegnato una specie di fiasco rovesciato a cavallo delle Alpi per un totale di circa 700 km, una quarantina di ore pedalate e 7100 m. di dislivelli. Ma soprattutto ci ha regalato la degustazione di uno spicchio di mondo in cui la presenza umana è innegabile, ma nel complesso rimane integrata intelligentemente nel contesto ambientale, senza assediarlo o stravolgerlo con inutili opere di urbanizzazione. E quello che mi rende ancor più compiaciuto è il fatto che in ambito cicloturistico una regione italiana (purtroppo ancora minoritaria rispetto al resto del Paese) si sia dimostrata all’altezza – e forse un gradino più su – di quei Paesi europei a cui tanto spesso invidiamo ciclovie, segnaletica, strutture ricettive, ordine e pulizia e rispetto per il turista e per quello a pedali in particolare. Una volta tanto, mi sento appagato: VENI, VIDI, BICI, insomma.
Intanto una breve sosta per un cappuccino al bar e per comprare il giornale: ritornando alla vita quotidiana, dopo una vacanza “fuori dal mondo”, sento nuovamente il bisogno di informarmi su ciò che è accaduto in Italia.
Uscendo dall’edicola con il giornale in mano mi cade l’occhio sulla locandina dell’Arena di Verona:“Immigrati senza biglietto. Treno fermo e rabbia”. Un’altra locandina fa riferimento alle possibili malattie infettive portate dagli immigrati, anzi dai “clandestini”, mentre la copertina di un settimanale popolare sottolinea il rischio che tra i profughi si nascondano dei terroristi e via criminalizzando di questo passo. Che bello, durante la nostra assenza non è successo nulla; ci ritroviamo, a Nord come a Sud, lo stesso Paese di dieci giorni fa.
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