di Diana Pasetti –
Seduta, gambe incrociate, su una spiaggia dalla sabbia cristallina.
Lo sguardo si perde nella moltitudine di colori che sta scendendo dal cielo, lentamente a mischiare con i flutti la sua magia, formata da lingue di fuoco incrociate ,che ballano tra loro fino a perdersi nelle acque del mare.
Un oceano a dire il vero anche se si lascia chiamare Mare.
Un cane randagio si è già accucciato vicino a me, intenta a scrivere su un taccuino sgualcito, scacciando con il palmo della mano, granelli che fanno inceppare di continuo la biro.
Il compagno della mia vita accenna a qualche passo di jogging ma subito rallenta. Fa già abbastanza caldo. Guarda l’orologio, osserva la barca ancorata in distanza al largo davanti a noi , riguarda l’orologio e già si spazientisce. L’imbarcazione ci appare deserta ancorata nella sua immobilità.
“Ma non dovremmo già essere a bordo”?
Io taccio e continuo a scrivere, cercando di fissare sulla carta i colori che sopra vi si riflettono. Non ci riuscirò mai!
Alzo gli occhi allora e imprigiono lo spettacolo nella mia anima, nel cassetto aperto di quelli che saranno i miei futuri ricordi.
Ci troviamo, da qualche giorno, sull’isola di Phuket in Thailandia. Il tempo necessario per far ricoprire i nostri corpi da un intensa abbronzatura in modo da poter affrontare questa esperienza “full immertion” nella natura, sole e mare, senza poi dover soffrire di ustioni penose.
Oggi quell’imbarcazione ancorata al largo laggiù ci porterà lontano, molto lontano da questa spiaggia chiamata Patong. Andremo con lei, alla ricerca di isole solitarie che, ci dicono essere da Sogno.
Non riesco a vederle nemmeno con il pensiero, scorgo solo orizzonte e mare avanti a me, quel nulla che per incanto le svelerà ai nostri occhi, alla nostra mente e speriamo ai nostri cuori.
Sulla spiaggia ancora deserta, ecco ora affacciarsi un gruppetto di persone dalle varie nazionalità, appena sceso da un pulmino.Avanzano verso di noi, si mostrano eccitati e loquaci, mischiando tra loro idiomi e comportamenti.
Peccato si siano persi il sorgere dell’Alba che ora ha lasciato posto ad un mattino dal chiarore limpido e promettente !
Scrutiamo tutti incuriositi la nave lontana, ci leviamo i sandali e siamo impazienti d’imbarcarci.
Un paio di tailandesi ci raduna vicino ad un cannotto tenuto fermo alla riva da un ragazzo seminudo. Riceviamo poche e inutili istruzioni che non ascoltiamo nemmeno. Ci siamo tutti? Ci contano “uno due…tre…”Si, saremo una ventina di persone forse. E il gommone ci ospita con i nostri bagagli a mano e parte rumorosamente fornito com’è di un motore rombante, in direzione “Nave fantasma”!
In realtà, appena riusciamo, in un spingi spingi del tutto occidentale, a salire sulla scaletta per ritrovarci tutti a bordo, ci accorgiamo che tanto disabitata la “nave” non è. Tutto pare predisposto da tempo per renderci una vacanza di due giorni assolutamente speciale. Noto un mucchio di attrezzature subacquee da una parte, bombole, tute ecc.
Ora anche il gommone viene issato a bordo e circondato da taniche piene di cherosene.Pronti? Si parte!
Lentamente la nave si muove, fa manovra, si gira, e salpa il mare.
Non mancano, appoggiate ovunque, le ghirlande di fiori augurali. Sono, come qui, esposti ovunque in Thailandia, quali offerte sacre agli dei, parte di riti propiziatori per invocare la buona riuscita di una qualsiasi giornata.
Un rito gentile che predispone l’animo al sorriso e alla distensione.
La nave si chiama Seatran Queen e sarà il nostro albergo galleggiante per i prossimi due giorni.
Walter scende sottocoperta per visitare la nostra cabina e appoggiare il solito borsone, ormai liso, che da anni accompagna le nostre trasferte. Cerchiamo di portarci sempre dietro soltanto lo stretto necessario. Personalmente includo sempre tre sole cose. Aspirine, bloc notes, penne e spazzolino da denti. Questa volta ho aggiunto un gran numero di creme abbronzanti.
Lui, porterà un paio di libri, la macchina fotografica e il necessario per la barba. Tutto qui!
E adesso, mentre i facenti parte del gruppo, scoprono il lusso delle cabine con l’aria condizionata, il bagno personale e la comodità dei letti, io mi accomodo a poppa, su una panchina semicircolare il viso rivolto al sole già alto, all’aria, e al Sogno!
Mare e Cielo, Cielo e Mare. Niente altro adesso ci circonda e il tutto viene riscaldato da un sole che si fa sempre più cocente.
E’ la prima volta che mi trovo in questa immensità su un piancito galleggiante che ora pare veramente il guscio di una noce.
Nessuna terra in vista, ovunque volga lo sguardo. La spiaggia di Patong non si vede più da un pezzo e nemmeno l’isola di Phuket e nemmeno la terra thailandese. Nulla.
Delle isole poi nemmeno l’ombra. Strana sensazione. Inebria! Siamo in navigazione da più di due ore ormai….
A bordo tutti sono tranquilli. Una famigliola prende il sole sdraiata sulla plancia, tutta allineata, genitori ai lati e due ragazzini tra loro. Poi c’é gruppetto di giapponesi, un paio di australiani, un uomo di colore solo…
…lo guardo meglio. Sembra un ometto qualsiasi ma dal suo collo pende una catenina d’acciaio con appesa una croce di legno. Strano monile. Non è la solita catenina d’oro massiccio ostentata da molti!
Walter, appoggiato alla balaustra prende il sole e legge. Dall’interno della cabina si sente armeggiare e parlottare in quel thai sommesso che pare una nenia. Stanno preparandoci un buffet superlativo già lo so.
Questa nave è equipaggiata per un centinaio di persone, eppure siamo così pochi.
Sarà perché è Natale nel nostro mondo occidentale e poche sono le persone evacuate in questi giorni da un sistema capitalistico super commercializzato.
Caratterialmente sono molto aperta, espansiva e curiosa. Mi piace molto lo scambio d’impressioni, ma qui la natura è così coinvolgente che mi fa salire un magone dentro, per lo stupore e anche se ora volessi le parole non uscirebbero, se non a forzarle.
Egli contempla lo spazio per alcuni minuti in silenzio, poi incomincia a parlare come tra sé, prima lentamente e poi accelerando il suo dire. Parla quasi filosofeggiando della linea impercettibile avanti a noi che congiunge l’acqua al blu del cielo, un impercettibile confine laggiù all’orizzonte. Distratta rimango assorta nel mio modo di contemplare un tutto, poi piano piano le parole monologate mi attirano, mi affascinano.
Trovo in esse quasi uno stato di esaltazione, di trans, l’espressione di stati d’animo molto vicini a quelli che sto provando anch’io. Così le nostre costatazioni sul mondo acqua e cielo che ci circondano, nelle loro diverse profondità, si uniscono, s’intrecciano, si accavallano e si perdono….
Più tardi, seduti vicini intorno alla grande tavola comune,ci accorgeremo ridendo di non esserci nemmeno presentati, di non esserci scambiati una sola parola che avesse un qualcosa di personale.
Solo allora vedrò il suo volto sorridere svelandomi la sua nazionalità cubana, il confidare di essere un uomo di chiesa. Un predicatore vagabondo e solitario per le vie del mondo che più predilige.
E la nave continua a percorrere tratti di mare, imperterrita e ostinata. Finché, tutti in contemporanea, vediamo apparire all’orizzonte una striscia nera.
“Terra” mi viene di gridare! Ma lo tengo per me.
E allora accadde un fatto strano, ci raggruppammo tutti sullo stesso angolo del ponte come per assicurarci che fosse “Terra” davvero, come se ci fossimo sentiti perduti nelle tre ore trascorse a percorrere solo tratti di cielo e di mare. E ci prende una gran gioia collettiva. Finché apparve un’isola in tutto il suo insieme, e poi un’altra ed un’altra ancora. Adesso navighiamo tra gli atolli, uno a destra, l’altro allineato.
E il capitano Thai, tra noi, ad elencare le montagne galleggianti puntando su esse il dito:
“Numero “uno” Koh Huuyong, numero “due” Kok Payang, numero “tre” Ko payan e poi 4 e 5 e così via. Tutte le isole hanno un nome, ma gli skipper locali preferiscono definirle con i numeri contando fino a nove. Sono infatti nove le isole delle Similan e il loro termine deriva dal maltese Sembilan che vuole dire appunto “nove”.
In tempi recenti è stato creato un parco naturale, sull’isola numero quattro, Ko Miang. Qui c’è l’unica attrezzatura con bungalow e un ristorante. L’unica costruzione privata presente nell’isola è un cottage di legno mimetizzato nella fitta vegetazione tropicale, ed è il rifugio del Sovrano Tailandese e quando lui è presente nessuno può approdare sull’isola”.
E’ anche l’unica isola abitata tutto l’anno, da guardiani e considerata Parco nazionale e marino, insieme a tutta la zona estesa fino alle isole di Surin.
La “nostra” sarà una qualsiasi chiamata forse “otto” o forse “cinque” chissà. Puntiamo dritto su di lei lasciando le altre alla loro inconsapevole solitudine.
Non è tra le più grandi, ci dice ancora il Capitano, ma tipica e, dove i fondali sono stupefacenti e già visibili nella loro ricca vitalità subacquea a pochi centimetri sott’acqua. Il gruppo di giapponesi è appassionato di nuoto subacqueo , ne parla da ore. Tra di noi però ci sono due ragazzi ed io e Walter e forse qualcun altro che farà solo snorkelling.
Si vedono benissimo intagliate sotto il sole ormai bruciante le enormi rocce levigate. Una di esse, grandissima ne porta un’altra appoggiata sulla cima, assestante che pare tenersi in bilico per cercar di non cadere. Questo il motivo del suo nome”Elephant rock”. Con un po’ di fantasia può sembrare infatti una testa di pietra posata sopra un corpo enorme di pietra anch’esso. Con altra fantasia potrebbe essere una testa d’elefante davvero!
“Ma che ci fai? Mica ti metterai a scrivere no?” Certamente no, non mi metterò a scrivere passeggiando con lo sguardo sul fondo marino, ma potrei chissà, mandare un messaggio a qualcuno dentro una lattina vuota…tanto per sognare, per immaginare ad una sirena curiosa pronta a raccoglierlo!
Ed ecco i nostri corpi “appoggiati” con i piedi su una spiaggetta assolutamente deserta di un isola sconosciuta. Guardo le mie orme ferire la sabbia fragile e tenera come borotalco, e cerco di non far pesare la mia persona sulla fragilità della natura. Borse, asciugamani presto si sparpagliano mentre gioiosi riempiamo l’aria di grida per buttarci tutti tra i flutti sparpagliandoci. Mentre la scialuppa parte con i giap per un luogo dall’altra parte dell’isola dove le rocce sprofondano dritte nel mare.
Water mi sta vicino per un po’, poi mi pianta nella mia incertezza e si lascia trasportare lontano dalle sue pinne veloci. Io me la prendo comoda, immergo la testa e già i primi pesci pagliaccio mi fanno “ciao ciao!”
Che bello!
Non è possibile, non posso crederci. Sembra un giardino la sotto, un parco dove nuotano i più svariati colori che colori non sono ma creature vere, che vivono che palpitano. Sorrido, con la pancia sott’acqua, dal piacere, dalla gioia e dallo stupore. Sotto di me subito venti e forse trenta metri d’acqua eppure tutto così chiaro. Pare un parco marino in un acquario speciale…. Ecco una testuggine che avanza tranquilla, e branchi di pesci multiformi, e gruppi di coralli abitati. Due mante paiono sfiorarmi e piccoli e grandi pesci d’ogni specie passeggiano a gruppi ignorando i miei piedi, eppure paiono toccarmi per quanto mi appaiono vicini. Intanto mi allontano dalla riva e sotto la mia maschera si formano dei canyon di roccia,, veri labirinti calcarei sopra i quali sento il mio corpo scivolare.
Non alzo nemmeno la testa per controllare di quanto mi sono allontanata dalla riva per quanto sono affascinata da un mondo così inconcepibile persino nel più bello dei sogni.
Credo sia passata più di un’ora, così per me e per gli altri, prima di ritornare a riva e stenderci felici e spossati su una sabbia tiepida, all’ombra di rocce formate da pietre levigate dalle acque, dall’eternità del tempo passata su di loro.
E come si fa a commentare lo stupore?
Qualcuno accenna, a piedi nudi, qualche passo verso l’interno dell’isola. Una folta vegetazione che pare immobile, ma nel suo silenzio, se si sa ascoltare si udranno mille sussurri, mille voci di creature terrestri nascoste nella fitta giungla che ricopre l’intera isola solitaria. Sono i padroni lì e si domanderanno chi è questo gruppo di “marziani” approdato dallo spazio arrivando dal mare, che sta invadendo il loro territorio.
Mi piacerebbe passare la notte sulla spiaggia. Cerco di lanciare l’idea, di convincere un nostro accompagnatore thai.
“Troppi pericoli dalla giungla” dice. Rettili a voi sconosciuti, serpenti e granchi e scimmie dispettose!
Prendo il quaderno e scrivo “Quanto mi piacerebbe fermarmi qui sulla spiaggia questa notte!”
A bordo ancora bagnati, con i capelli intrisi di salsedine, noi non ci staccavamo dal ponte, mentre già l’equipaggio ci sta preparando una cena più che pretenziosa, oltre che per la qualità anche per la ricerca nella presentazione dei piatti. Un’usanza elegante e raffinata tipicamente tailandese.
Un altro miracolo si sta svolgendo davanti ai nostri occhi. Il rito del tramonto con la sua danza a ritmo diverso da quella dell’alba, ma pur sempre ricca di mille fuochi che balla per noi, con tutte le gradazioni di speciali abiti celestiali dai molteplici colori.
Il tramonto dura poco in Oriente, Ti siedi, il tempo di fumare una sigaretta ed è già buio. Quindi stringi il momento bello , assorbilo dentro l’anima perché presto sarà solo un ricordo!
Il restante della serata è passata in allegra baldoria tipo occidentale, ci siamo persino messi un abituccio noi , noi signore, dopo una doccia ristoratrice. Quando le abitudine sono così radicate, con il trascorrere degli anni, difficile dimetterle anche se ci si trova nell’isola più sperduta del mondo. Uno dei ragazzi ha tirato fuori magicamente una chitarra. Stranamente non avevo notato l’avesse con lui quando tante, troppe ore prima avevamo preso possesso della nave. E Walter l’ha subito sequestrata, suonandovi sopra meglio che potesse, con il non idoneo “arnese” un suo pezzo di bravura chiamando laggiù, nel lontano Sud Est Asiatico persino l’anima di un insuperabile J.S.Bach.
Ma quando tutti ci siamo ritirati, ognuno nella propria cabina per trascorrere qualche ora di riposo, mi ricordai di soffrire il mal di mare. Sento la nave oscillare nel silenzio come un pendolo, dal ritmo costante e lento.
Sarà il corpo lungo disteso, il silenzio, il richiamo dell’immensità della natura a pochi metri da me. Fatto sta che non riesco a resistere, predo così cuscino ed un lenzuolo e ritorno sopracoperta, sul ponte per passarvi il resto della notte.
E che notte! Immaginate un cielo illuminato da centinaia, migliaia di stelle, luci riflesse nei flutti che le invita a danzare sulle onde. Immaginate le grida stridule delle scimmie giungere dall’isola, e lo stridio di mille animali sconosciuti.
Non è possibile da una nave ancorata al largo udire tutto questo direte. Forse. Forse sarà solo l’immaginazione ma nella notte tropicale riesco a udire anche il canto dei delfini e lo sbattere violento delle acque sotto il peso dei barracuda e dei pescecani!
Ed è già domani!
Mentre siamo occupati in una colazione a base di caffè latte e frutta tropicale la nave si muove, affiancandosi ora a questa o a quell’isola fino a condurci a Richelieu Rock.
All’improvviso, la mia testa sobbalza sopra la superficie dell’acqua, cercando Walter con lo sguardo.Lui mi segue a distanza, questo quando scorgo due pescecani, una mamma con il suo piccolo nuotarle a fianco.
Saranno certamente lontani, dal mio corpo, ma li distinguo nettamente tanto l’acqua era chiara. L’entusiasmo prende tutto il posto alla paura, la gioia e l’emozione si accompagnano alla loro compostezza di un nuotare tranquillo. E riesco a vedere anche dei barracuda e delle mante, il tutto con una semplice maschera, un boccale di pochi centimetri ed un corpo quasi sospeso sulla superficie delle onde.
E a questo punto vorrei essere un poeta per poter trasmettere la magia delle intime sensazioni e ciò forse non mi basterebbe.Dovrei essere un grande poeta, uno dei più sensibili e dotati per poter esprimere anche una sola delle emozioni provate che valgono l’intera esistenza di una vita speciale.
Impossibile imbrogliare immersi come siamo in una immensità che ha, essa stessa del sopranaturale. Ed egli, uomo di chiesa esprime i suoi dubbi, ed io, donna di poca fede gli rivolgo mille domande. E tra dubbi e domande, domande e dubbi il tempo passa, arriva veloce la notte fonda mentre noi ancora li, senza ormai più vedere i nostri volti a parlare e sussurrare non più tra noi ma al cielo, al mare, alle stelle. Mischiare i nostri canti a gorgheggiare delle sirene forse…
A Patong, la spiaggia della nostra partenza, depositiamo il sogno di una eternità chiamata “due giorni prima”. Dei piccoli uomini thai ci attendevano con le torce in mano, per facilitarci la via verso una ritrovata civiltà. Borsone a tracolla, mano nella mano, il compagno della mia vita ed io ci dirigemmo tranquilli e sereni verso l’interno della spiaggia direzione hotel, quando sentimmo la voce del cubano chiamarci per salutare un’ultima volta. Mi si avvicina sulla sabbia umida, con i piedi ancora nudi, si toglie la catena con la strana croce di legno e me la mette intorno al collo. “La croce è solo un simbolo mia cara, quando sentirai bisogno di conforto stringila e sostituiscila nella tua mente con ciò che più sentirai vicino, un alba o un tramonto, la profondità del mare o il brusio della giungla tropicale, un cielo stellato o lo “splash” allegro dei delfini. Vedi per noi oggi è Natale, 2000 anni di storia, ma noi siamo andati ben oltre con lo spirito e l’anima, noi ci siamo immersi nell’immensità dell’intero creato“ .
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