di Marco Ferrarese –
Arrivo in Cina, Arrivo in Asia… e finalmente sono di nuovo libero, lontano da quella che non mi piace chiamare casa. Una nuova passata sulla lavagna della mia esistenza ha riportato la superficie piatta al suo lucido splendore, e ancora tutta da scrivere.
Sono arrivato a Qinhuangdao volando a Pechino, da solo, come al solito; una simpatica vecchietta cinese di stanza a Vienna da anni ormai mi ha intrattenuto col suo buon inglese raccontandomi di come sono fortunato a non andare a stare a Pechino o a Shanghai, che, a parer suo, non rappresentano la “vera Cina”. Lei stava tornando a visitare parenti e amici, e a fare del volontariato in qualche provincia del centro cinese che, onestamente, non ricordo. Ero gia’ pronto ad affrontare un’idea di diversita’ dall’enormita’ di citta’ come quelle, ma l’idea di provincia, ovvero l’orribile realta’ italiana da cui vengo, non era esattamente il progetto ideale per passare un anno di ritiro cinese. Passo la dogana tranquillo e sereno, e mi aspettano all’aereoporto Frieda Qu, rettrice della facolta’ di lingue della Hebei Normal University of Science and Technology, e un autista che sembra la versione asiatica e dalla pelle scura di Bombolo. Si comincia bene… durante le tre ore di viaggio in auto tra l’aereoporto di Pechino e Qinhuangdao inizio a capire che da questa parte del mondo veramente non ci sono ancora stato: la gente guida come pazzi, vedo sorpassi allucinanti, il clacson perennemente schiacciato, mi colpisce veramente negativamente un camion che vedo trasportare due strati di gabbie piene di cani sporchi come mastini venuti dall’inferno. Il sole si abbassa lentamente e io mi addormento ripetutamente per via del jetlag, risvegliandomi con la sensazione di avere un posacenere di un chilo infilato in bocca.
Arriviamo all’universita’, dove vengo portato all’ottavo piano per vedere il dipartimento linguistico e ritirare il programma delle lezioni della mia settimana a venire: dalla terrazza si vede il mare e il grande stadio olimpico che ospitera’ le partite di calcio della prossima edizione Olimpica Beijing 2008. Il mare e’ calmo e piatto, scuro, l’acqua e’ densa e mi ricorda sia per il colore, sia per la luce un po’ fosca del primo crepuscolo, uno dei tanti mari giapponesi visti nei tanti film di Godzilla che hanno migliorato alcune delle mie giornate italiane.
Un gruppo di professori cinesi mi guardano disinteressati, masticando semi di girasole e sputandone le bucce sul tavolo; qualcuno sta lavorando ai computer, qualcuno si accorge di me, e finalmente la segretaria, un donnone paffuto sulla cinquantina, mi accoglie dandomi un orario scritto in cinese, e sparando a zero in un altrettanto incomprensibile cinese. Cominciamo bene. Cerco di fare capire che non parlo questa lingua, e, come risposta, dopo due sguardi misti tra la compassione e la simpatia, vengo nuovamente travolto da un fiume di idioma incomprensibile. Finalmente una assistente che si fa chiamare Carol mi spiega in terribile inglese che avrei avuto un giorno di riposo, e mi da’ l’orario scritto in inglese. Chiedo i libri di testo e se e’ possibile utilizzare altri materiali, qualche laboratorio di lingua, videocassette, dvd… la reazione e’ abbastanza sorpresa. “Ma come, non si e’ portato i materiali dall’Italia?”
“Veramente no… sul contratto c’e’ scritto che a questo pensavate voi”. Immaginavo una situazione del genere e, sebbene l’edificio sia moderno, il campus circostante ricordi un’universita’ americana e le strutture siano sicuramente di prim’ordine, mi preparo al peggio: devo ancora vedere il mio alloggio. Non credo che molti conoscano le condizioni in cui molti cinesi vivono: un esempio classico e’ la casa-bottega. Ti capita di entrare in un negozio e di sentire un forte odore di rancido, come di camera da letto mal areata; chiedi informazioni, il commesso non le sa o non sa parlare in inglese, e improvvisamente da una parte del muro in cui pensavi ci fosse solo una tenda sporca si affaccia una vecchietta che sta dormendo su un paio di stuoie messe alla buona su un soppalco.
INSEGNARE AI CINESI
Devo ammettere che, di tutte le destinazioni possibili, non mi sarei aspettato di cominciare proprio dalla Cina, ma come si suol dire, da qualche parte bisogna appunto iniziare. L’idea di mantenermi viaggiando e insegnando non contemplava certo il conoscere come questa professione si sarebbe adattata alle varie realta’ che avrei incontrato; immaginavo la Cina come una nazione in cui, al pari di moltissime altre, l’insegnante fosse un lurido lavoro come un altro. Invece, sara’ anche parte del fatto che non vivo in una megalopoli, il trattamento che ci e’ riservato e’ a dir poco sconcertante. Il professore, quello che ha a che fare coi giovani, che deve formarli, e’ tenuto in altissima considerazione qui, cosi’ alta che all’inizio e’ stato addirittura difficile far capire ai miei studenti che potevano esprimersi liberamente e cercare di dirmi come e perche’ preferivano imparare. L’Universita’ in cui insegno, la Hebei Normal University of Science and Technology, e’ sviluppata sul modello dei campus americani, con uno o due edifici principali circondati da aree dormitorio, abbastanza grandi che ci vogliono 10 minuti a piedi per attraversarle da una parte all’altra. Dico questo perche’, ad esempio, ogni mattina c’e’ uno studente che mi aspetta sotto casa, a qualsiasi ora arrivi, ritardo o meno, e mi scorta in classe. Classe che e’ generalmente sempre la stessa, quindi non ci sarebbe nessun bisogno di queste premure, eppure pare che per loro il rito sia importante, fondamentale per avvicinarsi un po’ al piedistallo dal quale, secondo la morale cinese, io starei elargendo sapienza. Strano. Considerato che mi vesto come loro, ed avro’ nemmeno 6 anni piu’ di loro, l’effetto generale e’ totalmente straniante. Allo stesso modo, in classe le mie parole all’inizio avevano il peso del piombo, laceravano l’aria, senza un movimento di risposta. Niente. Mutismo e contemplazione. Chiedendo e osservando, mi sono reso conto che questi ragazzi arrivano qui dopo aver studiato in licei che potrebbero essere paragonati ai lager nazisti, con circa 10 ore di lezione al giorno, nessuna aspirazione comunicativa, solo il desiderio di essere una spugna sulla quale le parole dell’insegnante dovrebbero fare presa, assorbire come acqua lanciata da un idrante, e per questo la loro sensibilita’, la loro voglia di esporsi ed essere qualcosa di piu’ di un corpo seduto a scaldare una sedia non si sviluppa. Insegnare davanti agli ultracorpi, questa e’ stata per me la Cina delle prime settimane: trovarsi davanti a omini e donnette piccolini, scuri o chiari di pelle, spesso brufolosi e pubescenti anche se ormai piu’ che adolescenti, involucri che racchiudono, oltre che ad organi maleodoranti perche’ nutriti da decenni con verdure e olio a volonta’, personalita’ che ancora devono sbocciare, bruchi imbalsamati dentro corpi gialli. Non e’ cosi’ fantascientificamente orrendo come sembra, comunque. Dopo varie battaglie combattute a furia di lanciare libri per l’aula, di cercare di tirare fuori qualcosa da venti teste alla volta che ti guardano come se tu fossi il portatore di una cultura imbalsamata in qualche assurda logica orientale, sono riuscito a raggiungere il traguardo numero uno: ricevere delle risposte.
LAOWAI
Spesso e’ curioso camminare per strada e sentirsi dire “Hello!” o ancor piu’ cinesamente “Ni Hao!” e vedere persone che sorridono mostrando gli incisivi devastati dal tabagismo cronico sperticarsi in saluti, gesti e sorrisi. Non capisco cosa possiamo sembrare noi occidentali ai loro occhi, ma la reazione e’ sempre concitata, quando ovviamente c’e’ reazione, perche’ molte volte tu ti accorgi che ti guardano, ma non hanno il coraggio di parlarti, forse. Se poi riesci a comunicare qualcosa in cinese, apriti cielo!!! Ti invitano a nozze!!
Ho realizzato che i cinesi non riescono facilmente a imparare nessuna lingua straniera perche’ la loro lingua e’ troppo semplice; non fraintendetemi. Dopo un mese qui e’ ovvio che per me vedere le insegne scritte in caratteri e’ come vedere tanti bei disegni, ma dopo aver passato la “fase del silenzio” e aver imparato quella ventina di parole necessarie alla sopravvivenza ho cominciato a mettere assieme le prime frasi e, sebbene i toni siano sicuramente una gran rottura da riprodurre fedelmente per farsi capire, la quasi inesistente grammatica cinese, che non ha articoli, tempi verbali o locuzioni particolarmente articolate, sta lentamente aggrappandosi alle mie corde vocali.
Detto questo, quando riesci a dire qualcosa in cinese a un cinese, questo pensa che tu sia un semidio sceso in terra e capitato per caso nel suo negozio, nel suo taxi o davanti al suo cammino.
Se riesci a dire qualcosa a un cinese in cinese, fosse anche un solo “Xiexie”(grazie), questo si mettera’ a dire che il tuo cinese e’ molto buono, e probabilmente ti offrira’ anche una sigaretta.
Il lao wai diventa quindi una figura mitica che sa parlare tante lingue, e magari riesce anche a spartire le acque del mare Bohai e a camminare sino in Korea senza troppi problemi. E’ una sensazione esaltante, che va pero’ ad aggiungersi alle centinaia di contraddizioni cinesi, perche’ fondalmente loro non ci amano, ma solo ci sopportano e ci sfruttano. Sfruttano il nostro sapere, ci usano per andare avanti nella loro folle corsa all’oro.
Molto spesso i bambini per strada mi indicano, poi guardano le loro mamme e dicono:
“Ta shi lao wai!”
Gia’, sono uno straniero. Vuoi lanciarmi delle noccioline, o vuoi che salti su un pallone e cominci a camminarci sopra, magari mentre tengo due birilli in bilico sul naso?
VIVERE IN UN TIPICO BACKWATER ASIATICO NON E’ SEMPRE L’IDEALE DI VIAGGIO
Molte persone vanno in un paese straniero cercando qualcosa che generalmente e’ preimpostato, visto sui libri o in televisione e ormai indelebilmente prestampato nel nostro cervello, ci vanno e sfruttano, giustamente, tutto quello che una bella esperienza turistica puo’ offrire: monumenti, posti particolari, grandi citta’, vita, movimento, luci e colori. Tutto questo e’ ok per me, ma quando ti ritrovi a dover vivere in un posto scelto a caso su una mappa sconosciuta, dover essere inchiodato da un impegno di lavoro, allora le cose ti si riflettono addosso con un effetto diverso, e ti puoi ritrovare a dover far fronte a una situazione che non avresti mai immaginato prima. Praticamente gli stessi problemi della tua vita fino a ieri definita normale, ma amplificati dal fatto di essere in un paese straniero, e nel mio caso, un paese enorme che non parla nessuna lingua a me conosciuta. Una nazione che ha tante facce diverse come potrebbe averne un’America profondamente capovolta in senso rurale, moralista, in rapida espansione ma come potrebbe espandersi una macchia di petrolio fuoriuscita da un buco nella chiglia di una petroliera… senza nessun controllo.
Qinhuangdao e’ una Cina provinciale, abbastanza piacevole per essere gradevole, abbastanza grande per essere considerata sulle cartine geografiche, e abbastanza oscuramente provinciale da stupire con le sue contraddizioni di centro iper modernamente squallido e periferia industriale in espansione, mischiata a piccoli hutong dove la pavimentazione e’ terra battuta spazzata da un vento spesso gelido, sputato dal mare costellato da enormi navi che ricordano qualcosa come le astronavi di Capitan Harlock mischiate con delle portaerei da guerra nazista. Il grande Stadio Olimpico troneggia sul mare, moderno e inutilizzato, simbolo eterno della preparazione dell’Impero di Mezzo alla sua esposizione a livello mondiale. Grattacieli in costruzione guardano daile loro cento orbite senza occhi, neri e minacciosi, aspettando di prendere un colorito normale. La citta’ e’ una freccia di case e palazzi incastonata perfettamente tra il mare a est e le montagne a ovest, subito dietro al confine cittadino.
Il sabato in centro migliaia di persone si affannano nel rito dell shopping sfrenato, sia nei vari banchetti per le strade, sia nei moderni centri commerciali che nulla hanno da invidiare alle nazioni occidentali che la Cina tanto sta rincorrendo a perdifiato. Per me e’ una sensazione strana, trovarmi a girovagare tra le insegne a me incomprensibili se non per i quattro caratteri che sono riuscito a imparare da quando vivo qui, evitando persone che si fiondano a razzo sul tuo stesso metro di marciapiede e biciclette elettriche che sfrecciano da ogni parte, impazzite come i taxi che pur di raccattare su qualcuno si trasformano in pedoni pachidermici, pericolosi. Le auto volano sulle strade a doppia corsia, e nessuna striscia o isola pedonale e’ sicura. Per fare un esempio, stasera tornando a casa col pullman ci siamo trovati di fronte in contromano un furgonicino che non si sa dove stesse andando, ma non avrebbe fatto tanta strada continuando in quella direzione assurdamente sbagliata. Un insieme di regole ferree che si squagliano al sole di un’anarchia perfettamente organizzata, questa e’ la Cina che posso vedere qui a Qinhuangdao e che ho visto sin’ora nei miei brevi pellegrinagi attorno alla provincia di Hebei. La voglia di partire e di vedere qualcosa di piu’ autentico e diverso dalla massificazione disarticolata della costa Nord Orientale e’ grande, ma ho ancora poco meno di due mesi da aspettare… non e’ poco, me ne rendo conto, ma in nessun modo l’inizio di questo lungo viaggio deve buttare giu’ il morale.
VIAGGIARE IN CINA DURANTE LE FESTE NAZIONALI
L’avevo aspettato, sognato e preparato per mesi, ogni dannato particolare l’avevo rimuginato e stiracchiato fuori dal cervello e appiccicato come strisce di carta su una superficie liscia e un po’ umida, tutto aveva un preciso significato, una sinistra armonia: sei settimane di vacanza pagata dalla scuola, quarantadue giorni di meritata liberta’, finalmente tornando alla mia tanto amata strada. Una strada inedita pero’, questa asiatica, non piu’ spaventosa di altri salti nel buio, ma sicuramente piu’ fragranate, di quell’odore che sa di mistero e di biscotti appena sfornati. Il fatto che la mia vacanza coincidesse col temibile Spring Festival, ovvero le tre settimane in cui il miliardo e mezzo di cinesi di cui e’ oberato il peso della terra si muove tutto assieme e intasa treni, aerei, autobus, strade, cieli, citta’, arterie, non mi aveva stranamente toccato ne’ preoccupato. Perlomeno fino al giorno in cui decisi di comprare il mio biglietto hard sleeper da Qinhuangdao a Shanghai.
“Vorrei un biglietto hard sleeper per Shanghai, xiexie”
”Mei you”
Queste due sillabe, pronunciate con enfasi e occhi strizzati, sono un deterrente per l’anima. Per la vita. Per l’esistenza di uno straniero in Cina. Mei You vuol dire che iniziano i problemi.
“Come Mei You? Ma niente di niente?”
”Mei You”
La donna che sta dietro lo sportello getta lo sguardo alle mie spalle, dove sento pressare almeno un centinaio di persone, mani che si alzano in tutte le direzioni, io che tengo duro e punto i piedi al muro e spingo indietro con la schiena. Direi che e’ ora di girare i tacchi col mio bel Mei You come nuovo tatuaggio da portare con onore sulla fronte, mentre la prossima anima si affanna a pressare contro lo spioncino, per sentirsi rifilare un altro Mei You tra fronte e sopracciglia. Non puoi immaginare cosa voglia dire comprare un biglietto del treno in Cina se non ci sei stato in mezzo. E’ un campo di battaglia, una guerra, puo’ essere un problema. A volte e’ cosi’ semplice che quando guardi il pezzettino di carta rosa scintillarti tra pollice e indice ti chiedi come possa essere successo. Non e’ una cosa normale, di solito ci vuole pazienza, e buoni muscoli dorsali.
Mentre esco dalla biglietteria un grande punto interrogativo lasciato cadere dalle grosse dita di qualche Dio strano si infila direttamente nei miei pensieri come una spada di Damocle: ho un problema grosso. Devo partire tra tre giorni, e non c’e’ possibilita’ di avere un biglietto. Comincio a sudare freddo mentre penso ai posti che devo vedere che scivolano via risciaquati da una risacca lenta che scopre una spiaggia brutta e sassosa ad ogni passo che nervosamente spingo sull’asfalto lucido di freddo. Merda.
Uno degli abomini cinesi principali e’ la mancanza di organizzazione nel trasporto ferroviario, che ovviamente e’ il piu’ esteso, economico e utilizzato. Non e’ praticamente mai possibile acquistare biglietti, e soprattutto sleeper, se non si va direttamente nella stazione di partenza. Immaginate un viaggio di 18 ore, che tocca circa venti citta’. Immaginate di vivere nella dodicesima e di dover raggiungere l’ultima. Vi verra’ sempre detto Mei You, e sarete costretti a comprare dei biglietti in piedi schiacciati con altri cento cinesi e le loro borse di yuta cariche di misteri tra le porte puzzolenti di un buco che una volta e trenta chili di merda sierosa fumante prima era chiamato bagno. Anche la prospettiva di sedere per 12 ore di fila in mezzo a gente che mastica semi di girasole, rutta, scorreggia e ogni tre minuti inizia a parlarti e si fa spalletta per indicare che c’e’ un laowai nel vagone che cerca di dormire non e’ delle piu’ esaltanti.
Faccio frullare le meningi e mi attacco al telefono, e riesco a convincere il caro amico Daniele che da Pechino potrebbe provare a comprarmi il maledetto biglietto. Questo comporta altre 4 ore di viaggio per raggiungere la capitale e poi imbarcarsi sul nuovo vagone, che di per se’ nella prospettiva di un viaggio allucinante di 42 giorni non e’ un azzardo assoluto, ma fa comunque riflettere su tante cose che qui dovrebbero funzionare meglio. L’attesa di una notte provoca brividi elettrici nell’aria e mi fa dormire sonni poco tranquilli, cercando di inventare compagnie low cost e rotte inesistenti che mi facciano recuperare giorni preziosi che penso di aver gia’ perduto per colpa di una sfortunata collocazione geografica, ma alla fine quello stesso Dio che ha lanciato il punto interrogativo mi sorride e mi comunica via sms che il mio biglietto mi aspetta venerdi’ 11 gennaio alle 6 pm nella piazza sulle quali dominano le torrette decorate che vigilano sulla Stazione Centrale di Pechino. Finalmente potro’ scendere a sud, incontrare Max e iniziare il mio viaggio. Ho incontrato Max per caso all’ambasciata cinese di Milano, in coda per l’applicazione del visto di lavoro per la Cina. Stavo parlando con una signora che voleva un visto di transito per andare a recuperare il nuovo figlio adottivo in Mongolia, quando spiegando che andavo ad insegnare l’Italiano conosco questo ragazzo in fila dietro di me, diretto nel Paese di Mezzo a intraprendere la stessa avventura, ma nella provincia del Jiangsu, tra Nanjing e Shanghai. Un’ottima occasione per incontrarci e spendere qualche giorno assieme a battere per le strade della Parigi d’Oriente.
Dopo lo sconforto iniziale, tutto sommato le cose stanno andando alla grande, e io sono pronto a partire. Lascio Qinhuangdao alle 11 del mattino dell’11 gennaio 2008, il mio zaino invicta giallo e nero in spalla, il sacco a pelo che sbatte come un corpo morto assicurato dai passanti alla parte superiore dello zaino, come un cuscino azzurro che invece di sollevarmi il peso dalle spalle si allontana dalla mia testa a ogni passo, per poi tornare su, ritmicamente mosso dai miei passi. Il viaggio per Pechino e’ lento ma passa veloce, le quattro ore scarse passano tra note sparpagliate tra le mie orecchie, sguardi assonnati di cinesi, e un sedile che dopo un’ora inizia a gravare pesantemente sulla mia schiena, lasciandomi mezzo tramortito mentre scendo e vengo morso alla gola dal freddo pungente di Pechino. Incontro Daniele nel piazzale velocemente, mi da’il biglietto e mi fa i suoi auguri; lui sta partendo per l’India, lo invidio sinceramente nella mia perenne insoddisfazione di non poter vedere tutto il mondo in una volta sola, saluto la mia collega Francesca che mi raggiungera’ a Shanghai tra dieci giorni, e mi aggiro per la stazione aspettando le due ore scarse che mi separano dalla tanto attesa partenza. Ho un biglietto sleeper, uno zaino in spalla e una testa piena di idee che finalmente verranno concretizzate in una qualche nuova scoperta, immagini che presto diventeranno realta’ per sempre impresse nel mio tessuto neurale. Ho aspettato questa partenza per quasi quattro lunghi mesi passati a sognare al freddo, tra una lezione di italiano e l’altra data a svolgiati studenti cinesi che hanno avuto la grande fortuna di nascere da padre ricco, e ora sono qui, in mezzo a una grande moltitudine umana, pronto ad affrontare questo Dragone chiamato Spring Festival, a combattere contro le sue zanne e il suo alito al kerosene. Essere in partenza alla scoperta di un mostro come la Cina, una terra cosi’ vasta che e’ difficile tracciarne i confini e i limiti umani e naturali, difficile capire dove inziano le differenze, e’ un pensiero troppo stimolante per spegnere il cervello e aspettare di essere arrivati a destinazione. La mia mente fantastica a ogni minuto, da quando faccio la fila, mostro il biglietto e mi incammino lungo il tunnel sopraelevato che porta ai binari della grande stazione di Pechino, a quando trovo la mia cuccetta e ci sistemo lo zaino, liberando le spalle da un peso, a quando mi siedo davanti al finestrino del corridioio e osservo il treno incamminarsi lento sui binari, spingendo le pesanti ruote di ferro verso territori che ho solo parzialmente esplorato nella mia precedente avventura in Shandong a Tai Shan. Sono felice, felice come quando capita poche volte, come il bambino che ancora non sa che Babbo Natale non esiste e lo aspetta aggrappato alla ringhiera della scala, osservando l’albero pieno di regali scinitillare nelle sue decorazioni multicolore nel buio di un salotto che ritmicamente si tinge di viola, rosso, giallo, blu. Ci sono poche cose che ancora mi danno soddisfazione nella mia breve ma intensa esistenza, e questa e’ forse la piu’ efficace e motivante: non sapere dove sto andando a finire.
DUE PAROLE SU SHANGHAI
Shanghai pulsa al ritmo della notte, mi si dice che trovare ogni tipo di droga e’ veramente facile, e le discoteche spuntano come funghi e fanno concorrenza a qualsiasi paese occidentale. I cinesi hanno un rapporto strano con la discoteca, e qui si puo’ vedere benissimo, si puo’ assaggiare il prezzo del progresso che costa caro come i cocktail al bancone del bar che sorseggi mentre un gruppo di cubiste in vestiti che mi ricordano qualcosa a meta’ tra i costumi di Jane Fonda in Barbarella e l’ultimo aborto creato per le passerelle milanesi si scuotono al ritmo di un groove che mi sembra preistorico, attente a non aprire troppo le gambe durante le evoluzioni per non mostrare cosa nasconde il vestito. I cinesi ballano goffi, come pupazzi a molla pilotati da uno spastico, muovono il torso e le spalle tenendo le braccia attaccate ai fianchi, come stessero correndo sulla pista. Le ragazze hanno capelli neri liscissimi e lucidi che non si muovono, sono alghe elettriche e dritte che seguono il frusciare ritmico dei loro corpi: inseguono un mito di anoressia calzata dagli inseparabili duemila diversi modelli di stivali di pelle che arrivano fin sotto la coscia, sono concubine moderne di un imperatore chiamato moda. Circondato da figli del comunismo trasformati in rampanti yuppies electro e fate morgane con gli occhi a mandorla e i tacchi grossi e sgraziati mi siedo e mi fermo ad osservare e a pensare che qui qualcosa e’ andato perduto. Lei balla sinuosa, le sue spalle simulano il movimento di un serpente in acqua, ma le sue braccia non osano uscire da una semisfera che delimita chiaramente gli spazi tra i corpi che riempiono la pista da ballo, mentre le luci strobo dipingono macchie innaturali su quelle pelli imbellettate per sembrare sempre piu’ bianche. Sono sexy, ma e’ un sexy moderno vestito da retro’, che abbaglia e reprime, non riesce ad esplodere in alcuna emozione e mi fa affogare in un mare di pensieri turbolenti che vengono infranti dalle esplosioni ritmiche che escono dalle casse. Improvvisamente un fascio di luce si infrange su un muro mentre un uomo magro, ossuto, sale velocemente i gradini di una scaletta laterale. E’ vestito con un lungo impermeabile di lattice bianco e lunghi stivali con tacco di pelle rossa che lo agguantano fino a dove il muscolo della coscia tiratissimo e anoressico si slancia per legarsi al ginocchio, e’ un manichino di carne che e’ uscito da un incubo orientale di Andy Warhol, un Mick Jagger cinese e androgino che si spalma sul muro ondeggiando le braccia dietro la testa e tenendo le gambe incrociate come la piu’ provocante puttana di lusso. E’ come guardare una lucertola bianca contorcersi bruciata dal riflesso del sole in una lente d’ingrandimento; la mia amica Selina ha il coraggio di dirmi che trova tutto questo sexy. Io ormai non ho piu’ opinioni, tanto questa Sodoma e Gomorra all’acqua di rose mi sembra gia’ vista, gia’ vissuta, potentemente inutile in tale contesto. Se questo e’ un esempio degli eccessi di Shanghai, del vizio, perfavore fermate la giostra, voglio scendere
APPUNTAMENTI COI CINESI
L’invito arriva inaspettatamente come e’ buona consuetudine cinese, ovvero la sera prima, sul tardi, e di terza mano, ovvero me lo ha detto Francesca a cui lo ha detto qualcuno a cui, sicuramente, l’avra’ comunicato qualcun’altro. Qui funziona cosi’, e in questi casi di occasioni speciali, ovvero le cene organizzate dal dipartimento delle Relazioni Estere, non si puo’ mancare: se qualcuno aveva un impegno fissato anche da settimane, sarebbe buona, per non dire obbligatoria consuetudine quella di rimandare ed essere pronti a banchettare. Il presunto motivo dei festeggiamenti sarebbe l’arrivo di Francesco, il nuovo professore di Italiano che affianchera’ me e Francesca (un caso di omonimia ma di tutt’altro sesso) all’interno del campus. Lui e’ arrivato da due giorni e abbiamo avuto modo di chiacchierare un po’, ma ancora dobbiamo conoscerci meglio, e sono contento che la scuola abbia deciso di invitare noi professori, i responsabili di dipartimento e tutta la calsse degli studenti mongoli sembra un po’ un evento, perche’ la quota arriva sulle trentacinquye persone, che sono sicuramente un numero non da poco. Una specie di pranzo matrimoniale, ma alla cinese.
L’appuntamento sarebbe alle cinque e mezza nel cortile che sta dietro il grande edificio universitario, una distesa di terra brulla spezzata da colate di cemento dritte e regolari e qualche bandiera cinese che svolazza nel vento perenne di Qinhuangdao, e mentre ci prepariamo riceviamo una telefonata attorno alle cinque, che ci invita a presentarci subito perche’ la scuola vuole scattare delle foto ricordo dell’evento.
”Si, ci stiamo preparando, potete aspettare?”
”Sarebbe meglio di no” e’ la risposta.
Raggiungiamo il gruppo camminando rapidamente, e in quei cinque minuti riceviamo almeno quattro telefonate, ma ormai e’ ordinaria amministrazione, non ci si fa nemmeno piu’ caso. Sono tutti la’ che ci aspettano nella luce quasi innaturale di una primavera cinese menomata dei suoi colori e del suo calore, un po’ luccicante nell’aria densa di smog, oggi le nuvole si vedono appena, ma il cielo e’ azzurro. Tanti soldatini con ombre lunghe che si muovono lentamente nella striscia di cemento che sta tra l’universita’ e gli scheletrici campi da basket, alcuni fanno cenni di saluto con le mani, altri danno calci alle pietre, altri sono fermi, semplicemente ad aspettarci. Riconosco con piacere la figura di Mr. Wu, il mio Mao Inquisitore preferito, Mr. You, il rettore della facolta’ di inglese tra noi famoso per la consuetudine di fumare in qualsiasi angolo della scuola, forse anche in classe, e Elliott, il tirapiedi e responsabile che non sarebbe cosi’ male se non avesse deciso di arruolarsi nel Partito e leccare i piedi a questi personaggi che, visti da vicino, sono una versione cinese del Gatto e la Volpe.
Il rito dura una ventina di minuti: foto sulla scalinata della scuola, foto con la bandiera cinese che sventola in alto, foto di fronte al cancello di ingresso, sempre con noi professori strategicamente posizionati ai lati dei responsabili, e gli studenti tutti attorno e dietro, come a inglobarci e a proteggerci. Si fanno parecchi scatti, grandi sorrisi, devo dire che mi fa piacere, una volta tanto, cercare di apparire naturale e non perennemente incazzato nero, sara’ anche l’implicita gioia di essere schiacciato addosso a ragazze che, a differenza delle cinesi, hanno tutte le forme a posto, soprattutto sul davanti. Alcune anche veramente troppo.
Il ristorante non e’ lontano, e ci avviamo in colonna per percorrere quei dieci minuti di strada che ci separano dai fasti del cibo cinese e dai brindisi a base di temibile baijou, un liquore che fa sembrare la grappa una specie di acqua minerale, ognuno col suo compagno, e io guarda caso mi ritrovo di fianco Elliott. Lui e’ un giovane della mia eta’ piu’ o meno, ma da come si atteggia sembra molto piu’ vecchio, e parla un ottimo inglese. Ha la carnagione un po’ scura e la pelle tirata sugli zigomi, con grossi denti sul davanti, e nonostante questo e’ quello che io considero un ragazzo cinese attraente, con capelli tagliati all’ultima moda spioventi sul lato destro della fronte alta.
”Come va, Marco?”
”Bene, grazie. Spero anche a te”
”Si, non c’e’ male. Mi chiedevo, come procedono le lezioni?”
”Direi bene, alla fine capisco che non sia possibile darmi quel che ho richiesto, quindi sto cercando di fare il possibile per arrangiarmi”
”Si, ci dispaice e ne siamo tutti felici, tu sei un professore molto responsabile”
”Grazie”
Le biciclette elettriche ci sfrecciano attorno squillando i loro clacson che sembrano strilli di esseri di un’altra dimensione, portandosi addosso cinesi arroccati in posizioni che trovo sempre molto pittoresce e divertenti. Alcune persone vendono frutta e biscotti sulla strada, alcuni dai vani di motocarretti che ricordano i piccoli trattori da campagna lombarda, altri direttamente stendendo coperte sul marciapiede e aspettando, sorrdenti, di pesare con le bilance i prodotti desiderati.
”Mi piace molto la frutta qua in Cina”
”Davvero? Ci sono frutti che non trovate in Europa?”
”Si, alcune cose si’, soprattutto mi piacciono le banane, e quelle li’ piccoline, quelle li’ son proprio buone e non si trovano in Italia, perlomeno”
”Ahahah, quelle sono banane speciali cinesi, per forza che non le trovate in Italia!”
Non so dove girare la conversazione, quest’uomo, dopo quel che e’ successo in dipartimento, mi rende nervoso, forse per niente, ma mi da’ sempre sensazioni strane, miste.
”Mi chiedevo una cosa, Marco”
”Dimmi pure”
”Come trovi la tua vita a Qinhuangdao? Mi dispiacerebbe sapere che la trovi terribile”
Siamo arrivati alla curva dove c’e’ il supermercato, quindi vuol dire che, se tutto va bene, avro’ meno di due minuti per rispondere a questa domanda, dato che scorgo l’insegna di un ristorante abbastanza vicina.
”Bhe, diciamo che… si, sicuramente mi piace e mi sono trovato bene sin dall’inizio per merito vostro. Ovviamente mancano cose che trovo in altri posti, ma che non trovo comunque nella mia citta’ natale, quindi direi che non e’ cosi’ male, perche’ non troverei queste cose nemmeno a Beijing. Forse solo in qualche posto negli Stati Uniti”
Cerco di confonderlo, e ce la faccio perche’ il discorso cade nel vuoto quando vedo che i primi studenti entrano nel ristorante, e dopo pochi secondi sono oltre il braccio alzato della fuiyuan e su per le scale, verso la sala prenotata per noi. E’ un salone lungo e non troppo largo, con tre tavoli circolari. Faccio per sedermi a uno di quelli dove gli studenti stanno prendedo posto strillando allegri, quando Francesca mi fa segno di sedermi all’altro tavolo ancora vuoto, quello dei professori e dei rettori. E qui, la mia voglia di cenare gia’ cala, tutto l’entusiasmo si smorza, ma alla fine, siamo qui per questo.
Mi chiamo Marco Ferrarese e sono un ragazzo italiano che si e’ stancato dell’Italia, delle sue mafiate, delle sue contraddizioni e della pizza, mamma e mandolino. Ho deciso di dare un taglio netto alla mia vita e di fare un salto nel buio, andando in Asia, e ho trovato un lavoro di insegnante di Italiano e Inglese in Cina. Ancora non sono sicuro, ma forse ho realizzato un sogno di molti, che sarebbe quello di riuscire a vivere viaggiando… sebbene mi debba per forza fermare piu’ a lungo in alcuni posti e paesi, ma questo non e’ affatto male perche’ cosi’ si riescono a capire meglio le cose, a calarsi nelle situazioni, ad assaporare le sfumature di queste diverse culture che tanto ci affascinano e non ci fanno venire la nostalgia di casa. Ho in progetto di continuare a spostarmi a sud e a viaggiare finche’ il fato me lo permettera’, e vi invito a seguire i racconti delle mie avventure e dei miei viaggi sul blog www.monkeyrockworld.com
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