Il sottile filo della memoria

di Aldo Cattaneo – 

DICEMBRE 2000: da pochi giorni ho festeggiato il cinquantaquattresimo compleanno, e da qualche tempo sto ripensando al passato ed in modo particolare alle frequenti commemorazioni storiche. Nelle fredde e nebbiose giornate di inizio novembre, il ricordo del 4 novembre mi ha riportato a memorie infantili, a quando osservavo il monumento nella Piazza principale del paese con una scritta omologata: ai nostri caduti. Monumenti presenti in ogni paese, che mi hanno sempre rattristato. Nulla a che fare con l’aspetto umano, ma come essere coinvolti da quella figura di donna giunonica, sguardo basso e drappo cadente o corona d’alloro rivolta al cielo? O dal valoroso soldato con il suo povero fucile, spesso con la baionetta innestata, fiero nell’osservare un orizzonte lontano o morente ai piedi dell’amata Patria? Che dire poi di quei lunghi elenchi di cognomi, spesso noti, ricorrenti nel paese e riportati sul freddo marmo o sulla cupa pietra?

In quegli anni i monumenti erano per me qualcosa di lontano, che non apparteneva alla mia vita. Certo il nonno materno mi aveva raccontato della grande guerra, del freddo, delle sofferenze, della fame, dei miseri abiti e del precario equipaggiamento militare. Una Vittoria cui seguì, a breve, il ventennio fascista.
Oggi qualcosa è cambiato: guardo il calendario e mi rendo conto che fra pochi anni festeggeremo il centenario della Vittoria, ed allora il ricordo sarà una presenza più consapevole. Sarà poi per il compleanno appena celebrato o per una maggiore consapevolezza storica, ma quei monumenti sono diventati il ponte fra il presente ed il passato che si chiama storia. Ora poi che li stiamo traslocando in luoghi un po’ appartati, più silenziosi, forse più consoni al ricordo ma lontani dagli sguardi dei passanti frettolosi, ci dobbiamo chiedere se meritano il tramonto dai ricordi se non dalla memoria. Sono monumenti che non hanno un gran valore artistico e spesso inducono un senso di tristezza se non addirittura di angoscia, che nulla ha a che fare con il ricordo ma sono il filo della nostra storia.

Aeroporto di Udaipur (Rajastan). Le ore scorrono lente nell’attesa dell’aeromobile proveniente da Nuova Delhi. La nebbia mattutina scombussola la già precaria organizzazione indiana ed alle già tante ore di attesa programmate, altre se ne aggiungono. I nuovi orari sono comunicati “goccia a goccia” cosicché l’attesa è ancora più snervante.
Lo sguardo corre ai compagni di volo. Quale interesse avrà portato in India la sorridente signora lombarda dai capelli grigio cenere che ancora conserva l’inconfondibile messa in piega italiana? Una signora americana dimostra grande velocità calligrafica: in poco tempo invia saluti ed auguri a metà mondo delegando i figli ad inumidire i francobolli nell’acqua che riempie il portacenere.
L’elegante indiana, nel suo coloratissimo sari, è quasi ipnotizzata dall’abbigliamento degli occidentali con le loro magliette, i pantaloni multitasche, gli zaini con i molteplici ammennicoli, ma soprattutto quelle scarpe variopinte, dai mille lacci e dalle forme inusuali per il popolo indiano.
In disparte una donna occidentale, che sorseggia l’inseparabile Coca Cola, osserva staccata, quasi assente, gli eventi che le ruotano attorno. È un viso incrociato in qualche tempio jainista nel sud del Rajastan, che già avevo osservato per quel sottile filo di tristezza che spesso vela i volti di tante donne mature. I volti dei vecchi hanno profonde rughe, su cui leggiamo le sofferenze, le fatiche, il peso degli anni, la storia della loro vita. Il velo di malinconia, che sovente copre le espressioni delle donne che entrano nella maturità è qualcosa di triste. Sembra manifestare la piena consapevolezza di abbandonare una fase della vita per entrare in una nuova, forse anche positiva, ma comunque avviata al viale del tramonto. È come osservare gli alberi all’arrivo delle prime piogge autunnali. Non hanno ancora quel colore caldo delle foglie d’autunno, ma solo un cupo colore sui bordi delle foglie che contrasta con il verde ancora lucente.



Dopo innumerevoli controlli, l’aereo decolla ed allora ti rendi conto che quelle terre brulle sottostanti sono il Rajastan: meravigliosi templi, incredibili palazzi. Mi è sembrato di vivere nelle fiabe di Salgari, di fanciullesca memoria. Lì sotto, sul Mount Abu, i templi di Dilwara testimoniano la grandezza di un tempo lontano. Non ha senso condividere o meno l’opinione di molti studiosi che li considerano stilisticamente superiori al Taj Mahal di Agra. Ha però senso fermarsi, forsanche sedersi ed ammirare ciò che l’uomo sa fare. Tiziano Terzani nel suo bel libro Asia, a proposito delle pagode di Pagan, scrive: 
ci sono viste al mondo dinanzi alle quali uno si sente fiero di appartenere alla razza umana. Pagan all’alba è una di queste.

Ho avuto la fortuna di ammirare Pagan in un recente viaggio in Birmania e sento di condividere completamente il pensiero di Tiziano Terzani, ma sento anche di estendere l’emozione e l’orgoglio alla vista dei templi di Dilwara.
Le mani di tanti sapienti scultori hanno reso il marmo scolpito simile all’avorio, lavorato fino a sembrare filigrana in un turbinio di figure umane, di animali e fiori, il tutto è semplicemente stupefacente. Le poche imperfezioni sono dovute ai restauri effettuati dopo un’occupazione musulmana che aveva cercato di cancellare i segni della storia precedente. Correvano i primi secoli del secondo millennio quando i templi furono eretti, in un periodo storico in cui l’Europa era terra di scorribande barbare e l’arte occidentale, ed italiana in particolare, non aveva ancora raggiunto quei livelli di raffinatezza che l’hanno resa famosa nel mondo. Camminare in questi templi a piedi scalzi, non mi provoca il disagio provato in altre circostanze, anzi lo considero un gesto di rispetto di tanta bellezza. Ho quasi l’impressione che la scelta degli asceti jainisti di vestirsi di bianco voglia completare la loro comunione con il mondo, con la natura ma anche con i templi della loro fede. Non è possibile fotografare i templi all’interno, ma non ne faccio un dramma. Liberato dall’ossessione di cosa impressionare sulle emulsioni fotografiche, lo stato d’animo è predisposto alla migliore attenzione, alla ricerca del particolare o della bellezza dell’insieme.

La memoria corre subito a pochi giorni fa, al Karni Mata Temple, nei dintorni di Bikaner. Quanto era diverso lo stato d’animo di quella visita. Belle porte sbalzate in argento, marmi bianchissimi finemente cesellati ed ingressi decorati ti introducono nel tempio dedicato alla dea protettrice dei maharajah. Le foglie incise nel marmo sono tanto vere e tanto delicate da voler volare via con la leggera brezza invernale, così come i neri elefanti, che si protraggono dalle volte, incutono soggezione. Man mano che avanzi, un odore nauseabondo ti assale insieme agli abitanti del tempio. Devi fare molta attenzione a dove appoggi i piedi, ben protetti da un doppio paio di calzini, ed è difficile decidere cosa fotografare. Si stima che i topi venerati in questo tempio siano circa ventimila.
E sì, topi. Non topini di campagna, piccoli, quasi indifesi, ma normali topi che le offerte dei devoti indiani ingrassano a dismisura. La credenza popolare dice che se uno di questi topi ti corre sulle gambe, la fortuna sarà tua compagna fedele. Ma l’odore nauseabondo ed il timore di essere anche solamente sfiorati da uno di questi simpatici roditori, rendono impossibile la visita al monumento. A centinaia corrono nel cortile ed i più piccoli si intrufolano nelle misere cose dei sacerdoti del tempio che amorevolmente li prendono, li accarezzano ed offrono loro nuovo cibo, dinanzi alla statua di Karni Mata. La leggenda narra che una madre chiese a Karni Mata di resuscitare il suo bimbo, prematuramente rapito dalla dea della morte Yama e già reincarnato. La rabbia di Karni Mata fu tale che essa proclamò che nessuno, della sua discendenza, sarebbe mai caduto nelle mani di Yama a tal proposito decise che, dopo la morte, gli uomini, prima di reincarnarsi, avrebbero temporaneamente abitato in un topo. Ecco allora la popolazione devota nutrire i topi nella convinzione di continuare ad avere un contatto con un proprio caro, recentemente scomparso e potersi, a loro volta, reincarnare in mistici o in uomini santi.
È lo stesso sacerdote ad invitarmi a fotografare il tempietto. Dopo aver valutato la situazione, il clic della macchina fotografica accompagna per un attimo lo squittire dei topi che imperterriti continuano ad abbuffarsi. Ma ahimè il disagio è tale che la foto risulterà addirittura mossa.
Chi esce dal tempio compie gesti analoghi a chi entra in sala operatoria. La rimozione dei calzini avviene in modo tale da non toccare nel modo più assoluto la parte su cui si è camminato; ricettacolo di malattie infettive degne di un testo medico. Il calzino viene rimosso con l’ausilio di sole due dita: l’indice ed il pollice. Non sta scritto da nessuna parte che così si deve fare, ma così ho fatto. Mentre con paziente calma procedevo all’arrotolamento, Rosanna avviava il ciclo di pulizia: fornitura di un primo fazzoletto bagnato per la pulizia delle mani a cui ne segue immediatamente un secondo, un terzo ha permesso di rimuovere possibili residui in altre parti del corpo, ed infine fazzoletti disinfettanti.
Nel frattempo i calzini, abbandonati in prossimità di un mucchio di immondizia, sono diventati motivo di attenzione di due venditori ambulanti. Un timido sguardo, un tocco e l’apertura del fagottino sapientemente arrotolato. Le due paia di calzini sono integri. Un ulteriore esame sullo stato di integrità ed eccoli infilarseli.
Non ho offerto cibo ai topi e pertanto nella prossima vita non sarò né mistico né santo. Di certo due insignificanti paia di calzini, lunghi, occidentali, stanno ai piedi di due poveri venditori ambulanti di Deshnoke.

Il territorio sotto di noi, il tormentato Gujarat è sempre più aspro, il deserto del Thar allunga le sue dune fin qui e tutto assume il colore della sabbia. Lo stesso colore dei principeschi palazzi dei maharajah a Fatehpur Sikar, Bikaner, ma soprattutto a Jaisalmer. Racchiusa nelle sue mura medioevali, la fortezza, rimasta inalterata nel tempo, ti sollecita un dubbio: sei tornato nel medioevo o stai rivivendo il mondo di Mille e una notte?
In una fredda mattina, all’alba, in attesa di partire per l’ennesima scoperta architettonica, dall’alto dei contrafforti in arenaria, osservo le dune del deserto che mi circondano fino a darmi l’impressione dell’assedio. Non spira un vento vero e proprio, ma un’aria tersa e fredda che pulisce l’orizzonte e ti aiuta ad osservare meglio il circondario.
La sottile nebbia che in ogni dove rende dolce il passaggio dalla notte al giorno, sfuoca le immagini ma non può nascondere alla vista la meraviglia dei contrafforti che con la prima luce dell’alba, assumono un delicato colore dorato. Se all’arrivo, la luce piena mi aveva dato la dimensione della costruzione, questo chiarore mi porta nella dimensione delle fiabe. Sotto, la città è silenziosa e solo la geometria delle case mi ricorda di essere in un ambiente abitato. Lo sguardo scopre che i rami di alcune palme fanno capolino fra i tetti e le terrazze della fortezza rompono la continuità del colore dell’arenaria.
Il silenzio persiste e la luce fioca, man mano s’impadronisce del paesaggio. Questi deliziosi compagni di viaggio mi hanno sempre trasmesso sensazioni bellissime e tenuto compagnia.
Lontano sento qualche cane abbaiare, lo sferragliare di un treno, il parlottare degli inservienti impegnati in cucina, ma non il rumore cupo di un solo motore, di un touch touch che arranca sulla strada che porta alla fortezza. Si intravedono i cenotafi di Bada Bagh, testimonianza e ricordo dei maharajah. A loro dobbiamo tanta bellezza, tanta arte: la dimora di Patwon-ki-Haveli, un merletto. Laggiù, fra i tetti geometrici della città bassa, spuntano i piani superiori di questo splendido palazzo, con facciate finemente scolpite, che sembrano essere costruite con legno di sandalo piuttosto che in pietra. Una fortissima emozione. Il pensiero corre alle abili mani degli scalpellini che per cinquant’anni circa hanno messo a disposizione del ricco mercante di broccati, la loro maestria nell’arte dell’incisione. Forse smisuratamente ricco, ma tanto illuminato da volere una residenza simile: non una finestra uguale all’altra, non un balcone parago-nabile ad un altro, non un richiamo pittorico confrontabile con quello di un’altra stanza.
Il trionfo della fantasia umana e della sua infinita capacità di creare, inventare, immaginare.

L’aereo sta iniziando le operazioni di atterraggio a Mumbai (per noi ancora Bombay) ed in lontananza intravedo un vecchio cortile innevato in un giorno di Epifania di tanti, tantissimi anni fa. Non era un giorno particolarmente freddo in quanto la neve cominciava a sciogliersi e le grondaie scaricavano nel cortile i primi rivoli d’acqua. Ma i giorni precedenti erano stati freddi, molto freddi. Dormivo in una piccola e modesta camera, sul lato delle vecchie cascine, in un tipico cortile lombardo a ridosso del campanile della chiesa. La stufa della cucina era spenta molto presto ed il suo calore non portava sollievo nella stanza vicina. Così al mattino, quando l’occhio cercava lontano l’arrivo del giorno, le finestre in un qualche modo me lo impedivano. L’umidità della stanza, con il freddo della notte, aveva disegnato bellissimi arabeschi sulla finestra e tutto appariva ovattato. Non mi era possibile capire immediatamente se la giornata si presentava serena, nebbiosa, o meglio ancora innevata. Il freddo era tanto pungente da sconsigliare di andare a pulire la finestra ed allora, rintanato sotto pesantissime ma inefficaci coperte, sognavo mondi lontani, palazzi arabescati, avventure leggendarie.
Era il frutto della lettura delle Mille e una notte, dell’immedesimazione nelle avventure di Salgari, della conquista dei poli.
L’avventura proseguiva nella vita quotidiana con il nonno. Sì, perché portandomi con sé nella legnaia che stava dietro alle cascine, in prossimità degli orti, quelle lunghe stalattiti di ghiaccio erano la continuazione del viaggio immaginario fra palazzi con pinnacoli e guglie fantastiche. Il sole faceva poi la sua parte, accecandoti con i suoi riflessi. Il tepore delle ore centrali dissolveva nel nulla opere naturali così belle ed il lento gocciolare era musica. Il ricordo è vivo, ed anche allora nessun rumore disturbava la realtà: il rintocco delle campane, il richiamo della mamma e nulla più. Se poi la nebbia, la fitta nebbia degli anni cinquanta che entrava fin nei cortili in pieno centro del paese, la faceva da padrone, il mondo ovattato ti faceva vivere in prima persona il sogno.

L’aereo è atterrato ed Alessandro ci sta aspettando. Siamo tornati a Milano. Fuori, nel buio della prima serata, la nebbia dissolve le luci della città. Sarà la stanchezza delle ore di volo, il buio dopo giorni di luce intensa, viva, sarà forse la stessa nebbia, compagna di tante stagioni invernali, ma i ricordi si stanno accavallando e tutto sembra compenetrarsi.
La mia mente non riesce più a distinguere le architetture del Rajastan con i disegni arabescati, opere del freddo e della natura, colori differenti, ma gli stessi effetti esaltanti, Dimensioni diverse, smisuratamente diverse, ma lo stesso bagliore interiore della scoperta, del sogno, della fantasia.
Sono a casa e ripenso al nonno. Al nonno salvatosi da una valanga durante la costruzione di una diga in Francia, lo stesso nonno che nascondeva i volantini dei clandestini socialisti fra i poveri indumenti nell’armadio di casa, il nonno che qualche volta rifuggiva le delusioni della vita in un bicchiere di vino nella sottostante osteria. Il suo ricordo mi ha reso meno tristi i monumenti delle nostre piazze.

Il sottile filo della memoria è così delicato ed intrigato che a volte ci porta in luoghi lontani, forse già visti. O sognati.

 

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