di Francesco Trecci –
Arriviamo in Sicilia la mattina presto. Atteriamo all’aeroporto di Trapani. Sono le 8 e fa un caldo terribile. Prendiamo una macchina a noleggio e l’intenzione è quella di visitare tutta la Sicilia occidentale in una settimana scarsa. Attraversiamo Trapani velocemente con l’intenzione di tornarci a dormire l’ultima notte prima di riprendere il volo di ritorno. La nostra prima tappa è San Vito lo Capo. Piccolo e tranquillo borgo di pescatori, San Vito, è stato letteralmente travolto dal turismo di massa dei nostri tempi. Si susseguono uno dietro l’altro alberghi, hotel pensioncine, ristorantini tipici, locali notturni e il bello arriva sulla spiaggia. Musica sparata a fuoco dalle decine di stabilimenti balneari. Non si vede quasi più la bianchissima battigia, sovrastata com’è da decine e decine di corpi di giovani, anziani, bambini, famiglie; ognuno con i propri teli, ombrelloni e poi campetti improvvisati per giocare a pallavolo, a calcio e a bocce. Un carnaio. Scappiamo immediatamente e ci rifugiamo in una spiaggetta fuori mano, c’è meno gente e si riesce a godersi un pò di tranquillità. Dietro la spiaggia si apre un enorme paesaggio lunare. Tutto un saliscendi di montagne e collinette, senza la benché minima vegetazione.
E’ il trapanese. Una delle zone più aride del Paese. Dall’altra parte del mare si dischiude l’immenso continente africano con i suoi deserti magnifici e sterminati. Questo è solo un piccolo assaggio. La luce è abbacinante. Il caldo veramente torrido. A vederla così sembra una terra maledetta da Dio, l’agricoltura è impossibile. D’industrie non c’è traccia. Da sempre qui la salvezza è venuta dal mare. I commerci, il pesce, il sale ecco il tesoro nascosto di questi siciliani.
Rinfrescati dal bel mare che guarda le isole Egadi siamo pronti per andare verso il capoluogo siciliano. Montiamo in macchina e prendiamo l’autostrada (gratuita, in quanto zona depressa il governo nazionale ha deciso di non mettere i pedaggi a tutte le autostrade isolane), in una dirittura verso Palermo ci prende un groppo allo stomaco: per centocinquanta metri sopra il guard rail sventolano le bandiere italiane e quella della Regione Sicilia. Ai due lati della strada si elevano due grandi stele. Ci sono dei nomi e il simbolo della Repubblica. E’ l’uscita di Capaci. Nel 1992 la mafia fece saltare un intero tratto autostradale facendolo tornare terra nuda per uccidere un giudice e tutta la sua scorta. Giovanni Falcone, un siciliano dal fortissimo senso dello stato, voleva estirpare questa piaga della sua terra, per sempre. Cosa Nostra ha invece eliminato lui. Dopo qualche curva appare Palermo. Grande, imponente e moderna. Con i tutti suoi palazzoni costruiti frettolosamente negli ultimi decenni. Per entrare in città si deve percorrere un grande stradone che va dritto nella città vecchia. Via via che che ci s’inoltra verso il centro le strada si fa più stretta e sempre più brulicante, si passa una porta, appare la Cattedrale, è imponente. Vicino c’è il palazzo dei Normanni. Severo e medievale è attualmente la sede della Regione Sicilia. Palermo è antichissima. Stretta in una baia tra i monti e il mare, è tutta affollata e brulicante di mercati. La città, dice la leggenda, fu fondata dai Fenici, anche se nei dintorni ci sono tantissime testimonianze che fanno affondare nella notte dei tempi l’origine di questo luogo. Il Centro storico è enorme ed è come tagliato in due dalla grande via Maqueda. Lasciamo la macchina e ci inoltriamo nelle stradine. Ci appare un altro mondo.
E’ incredibile. Basta fare due metri e siamo catapultati in un’altra era. Gli edifici sono tutti fatiscenti, le strade piene di sporcizia, i cani come avvoltoi sulle prede si muovono furtivi. Vucciria, Ballarò, il Capo, l’Albergheria. Sono i nomi dei quartieri del centro storico che se il giorno sono un susseguirsi di bancarelle, la sera sono spettrali, deserti e inospitali. Sono i grandi allevamenti industriali della mafia per le nuove leve criminali. La miseria si taglia fette. La gente sembra pronta a tutto pur di sbarcare il lunario. Intere aree sono ancora distrutte dai bombardamenti dell’ultima grande guerra mondiale e nonostante siano passati 60 anni sono sempre ridotte a macerie. Il resto è una grande città disfatta, ma tutta abitata. Le persone sono chiuse, molte hanno facce non proprio raccomandabili. Ci fermiamo in un forno, la gente ci passa avanti. Siamo invisibili. Dalle finestre le vecchie tirano giù le carrucole per farsi mettere il pane. Tanto pane. Sono stordito. Ho visitato tante altre città del Mezzogiorno ma Palermo è diversa. Non c’è la plebe vociante di Napoli. Qui la gente è silenziosa. Non c’è la minima traccia della tediosa classe media che governa questo paese. Ma c’è poco di arabo e africano. E’ invece tutto medio-oriente. Palermo è punica, è Beirut. Come la capitale libanese, ha avuto tante distruzioni e poche ricostruzioni nonchè una miriade di guerre per bande. Ho visto tante città decadenti, ma Palermo non mi sembra decadente. E’ peggio. Mi sembra confinata in un angolo ad aspettare di finire i suoi giorni. Forse vedendo il mondo di quaggiù aveva proprio ragione lo storico belga Pyrenne che diceva che il mondo antico (in cui il Mediterraneo era un mondo unico) era finito per sempre non nel 476 dc, con la caduta dell’impero romano d’occidente nelle mani di Odoacre, ma nel settimo secolo con l’invasione araba del mediterraneo meridionale. Da allora, infatti, la Sicilia comincia a perdere il suo ruolo di ponte nel Mediterraneo. Le due sponde anche oggi non si parlano. Quaggiù finisce l’Italia, l’occidente, l’unione europea. Di là la marea musulmana. I traffici di Palermo sono finiti per sempre.
Ritorniamo in via Maqueda e imbocchiamo via Roma. Respiriamo un attimo l’aria occidentale. Ci sono un pò di negozi e due militari con un poliziotto che fanno la ronda.
Dopo le stragi mafiose del primi anni novanta il governo di Roma inviò in questa regione ben ventimila soldati a presidiare il territorio. Oggi il governo ne ha rispediti qualche decina nelle principali città, pattugliano le vie sicure stando ben alla larga dalle zone degradate.
L’indomani per rinfrescarsi dal caldo torrido (in città si sfiorano i 44 gradi all’ombra) decidiamo di andare sul litorale della città. Evitiamo la bellissima Mondello, troppo affollata nei giorni agostani, e ci dirigiamo nella vicina Vergine Maria. Il mare è bello, c’è anche un buon venticello, e la spiaggia al mattino ci appare miracolosamente vuota.
L’acqua è calda e il bagno si lascia fare volentieri, piano piano però la battigia si popola di piccole tende ad igloo. Una, due, tre, in pochi attimi sono decine. Vicino ad ogni gruppo di sei, sette tende viene montato un grande gazebo. Dentro i gazebo donne operose montano cucine da campeggio, tavoli, sedie. Si preparano grandi pranzi. Sono i palermitani che in massa per Ferragosto si trasferiscono sulle spiagge per due, tre giorni con tutte le famiglie. Zie, cugini, fratelli, emigranti di ritorno, giovani, vecchi e bambini. Si riuniscono tutti. E’ un tutto un brulicante vocio di umanità.
La mattina seguente riprendiamo la macchina e attraversiamo tutta la Sicilia occidentale. Passiamo la piccola Corleone. Grazioso borgo arroccato sulle montagne. Il centro del paesino è quasi elegante, molto pulito. Qui sono stati arrestati i peggiori mafiosi della storia recente.
E’ sempre un caldo torrido. La Sicilia centrale è spoglia, brulla, abbacinante. Arriviamo ad Agrigento, la città è aggrappata su un poggio sbilenco che guarda il mare. E’ un borgo medievale interessante, circondato da orrendi caseggiati della nostra epoca, costruito su quest’altura nel settimo secolo, dopo che misteriosamente la popolazione si spostò in massa dalla vecchia Agrakas-Agrigentum, situata poco più a valle, e oggi ridotta a sito archeologico. Di fronte ad Agrigento e sopra la vecchia città greco-romana si stagliano tre templi del periodo greco. Sono belli, dello stesso colore della terra. Purtroppo tutto intorno si affastellano case, palazzi, palazzine, tuguri e villette costruite non proprio in assoluto ossequio al Piano Regolatore cittadino.
Entrando dentro la città però si scopre un’aria completamente diversa. Le strade sono abbastanza pulite, ci sono sempre tanti cani e quasi tutti gli edifici non sono intonacati, ma ci sono anche tanti negozi e ristorantini, i giovani sono vestiti alla moda e identici a tutti i loro coetanei europei. Addirittura un ragazzo porta un maglietta con la scritta: “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Dopo i giorni palermitani ci sentiamo a casa. Stazioniamo tre giorni nella vecchia Girgenti, visitiamo l’operaia Porto Empedocle. Qui è stato costruito un intero nuovo borgo color rosa con accanto una mega chiesa in stile razionalista. All’ora delle funzioni è stracolma. In tante altre parti di questo Paese i sindaci quando edificano nuovi quartieri fanno costruire accanto moderni supermercati. In Veneto e quaggiù è diverso. Si costruiscono ancora le chiese.
Eraclea Minoa, Scalo dei Turchi, Siculiana Marina sono solo alcune delle piccole perle del mare agrigentino che vale la pena visitare.
Siamo agli sgoccioli del nostro soggiorno siciliano, ripartiamo velocemente attraversando Sciacca, Mazara del Vallo e Marsala. Sono villaggi arabi, semplici e operosi.
Giungiamo infine alla nostra ultima tappa, la città che la mitologia vuole sia stata originata dalla falce caduta a Cerere mentre sul carro trainato da serpi alati correva per il mondo alla ricerca della figlia rapita dal dio Ade: la falce caduta in mare si mutò in una lingua di terra arcuata sulla quale sorse una città, per tale forma detta appunto Drepanon (“falce” in greco antico). Siamo a Trapani, abitata dagli antichi Elimi, italici pre-romani. Oggi appare quanto mai vivace e particolare. Circondata dal mare e dalle saline, è sede di un importante porto per le antistanti isole Egadi. La citta vecchia è tutta stretta su una piccola penisola. Le vie sono sovrastate da grandi pali di ferro che vanno da edifico ad edificio. Ci spiegano che, dal momento che non ci sono tanti soldi a disposizione, per non fare crollare l’intero centro storico le case vengono puntellate le une con le altre. Mangiamo e beviamo divinamente nell’antico ghetto ebraico. Siamo pronti per ripartire. Ci lasciamo alle spalle questa terra dura e antichissima con la speranza di poterci tornare presto.
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