di Simo –
Io e Alessandra quindici giorni fa abbiamo deciso piuttosto improvvisamente di trascorrere questa settimana di ferie in Turchia. Ci rendiamo subito conto che c’è poco tempo per organizzare un viaggio “fai da te”, anche perché non siamo in grado di dire quanto potrebbe essere problematico per noi partire sole in un contesto come la Turchia. E’ un paese che ci incuriosisce, ma non lo conosciamo affatto. Scegliamo così un tour organizzato con un itinerario che ci sembra possa fare al caso nostro. Non abbiamo mai fatto viaggi organizzati e ci assale qualche dubbio rispetto a questa scelta, ma ormai è fatta e decidiamo che sarà un’esperienza anche questa. Partiamo quindi nel primo pomeriggio per Bologna, e diamo avvio al nostro viaggio in quella terra di mezzo che è la Turchia. Entrambe non amiamo volare e quando scopriamo di partire con la SunExpress anziché la OnurAir ci sentiamo un po’ spiazzate. Non cambia niente perché non conosciamo nessuna delle due compagnie, ma oramai ci eravamo abituate all’idea di affidarci alla Onur e cambiare così, senza poi sapere il perché, ci lascia un poco perplesse. Decidiamo però di non porci troppe domande perché son di quelle cose che potremmo uscirne pazzi senza ricavarci niente e, quindi, viva la SunExpress (poi ci hanno detto che è una compagnia vicina alla Lufthansa, e la cosa in realtà ci rallegra parecchio!). Partiamo con un’ora buona di ritardo ed io, tanto per cambiare, sono davvero sofferente: trovo gli spazi tra i sedili ristrettissimi, sono incastrata accanto al finestrino e mi sento in una trappola! Passo cinque minuti concentrandomi a respirare (piccolo ma intenso attacco claustrofobico), dopodiché comincia il mal di testa, la pressione si abbassa e le gambe formicolano.sopporto in silenzio e l’unica consolazione, da qualche parte sorvolando i Balcani, è che questo volo durerà poco ancora, ci vuole solo un po’ di pazienza. Quando finalmente atterriamo ad Istanbul mi sento liberata da un peso, e mi sembra che riuscirò nuovamente ad affrontare la vita con gioia. Tuttavia, non facciamo in tempo a congratularci con noi stesse per essere arrivate, che già ci si spegne il sorriso sulle labbra perché è notte fonda, l’aspetto dell’aeroporto con le serrande abbassate non mette troppa allegria e pare proprio non ci sia nessuno ad attenderci per portarci in albergo, come invece era previsto. Tutti sembrano trovare i riferimenti che cercano e ben presto rimaniamo solo in sei ad aspettare. Devo ammettere che segue un inevitabile attimo di sconforto. Ma poi la cosa, bene o male, si risolve: il nostro referente non è venuto ma ha lasciato detto ad un suo collega come dovevamo fare, così all’una e mezza giungiamo felicemente in albergo. L’hotel (Baron) è accettabile anche se vagamente tetro, con un inconfondibile odore di chiuso, di polvere e di stantio. Il ragazzo che ci accompagna in camera indugia alquanto: noi continuiamo a ringraziarlo e lui continua ad indugiare sorridente poi, quando non sappiamo più come fargli capire che gradiremmo finalmente essere lasciate sole per poter andare a riposare, ci chiede “se non gli diamo la mancia”. Aaahh! Perché io non ci arrivo mai? Come no, basta che ci lasci andare a letto! Alla fine, stanche siamo stanche, mal di testa abbiamo mal di testa, sonno abbiamo sonno: proviamo a dormire.
Martedì, 24 agosto 2004
Sveglia alle sette, e fin qui tutto bene. Notte in bianco, e questo non è il massimo. Fra il caldo, le coperte presumibilmente ammuffite, il grido nella notte della Sandra che ha visto un’ombra aggirarsi furtiva per la stanza (naturalmente ero io di ritorno dal bagno), il muezzin che alle cinque ha attaccato con la sua litania (melodiosa quanto si vuole però mi sembrava di averlo in camera, l’omino!), e il caos dei nostri vicini di camera che alle sei se ne sono andati alquanto rumorosamente, devo dire che è stata una lunga notte. Comunque, come ci avevano raccomandato la sera prima, alle otto siamo impeccabilmente pronte ma scopriamo che, invece, il nostro gruppo aveva appuntamento alle otto e mezza, salvo poi riuscire a radunare tutti solo intorno alle nove. Va bè, che ci vuoi fare. Conosciamo Sedat, che sarà la nostra guida in questa settimana. Ci sembra sin da subito molto gentile, simpatico e con una certa verve, ma non avremmo mai immaginato che il nostro Sed si sarebbe rivelato uno degli elementi assolutamente centrali del viaggio, ed una persona che definire interessante è dire poco: è preparatissimo, colto, versatile, ironico.e mi fermo per non sembrare esagerata! Aggiungo solo che, dopotutto, talvolta abbiamo creduto di coglierne sfumature rassomiglianti addirittura a vaghi difetti.ma, il fatto di non avere a che fare con un essere perfetto, da una parte ce l’ha reso più simpatico e, dall’altra, ci ha alquanto consolato nella nostra banale mediocrità!
Il primo contatto con la città è stato ieri sera nel tragitto fino all’albergo durante il quale abbiamo notato, più che altro, la presenza massiccia di sacchi per la spazzatura lungo le strade dovuta alla mancanza di cassonetti.bè, è un inizio come un altro! Questa mattina, invece, quando metto piede fuori dall’hotel per esplorare la viuzza nella quale ci troviamo, vedo che è pienissima di negozi di abbigliamento (l’usanza è quella di raggruppare la tipologia dei negozi per quartiere: così c’è il quartiere dell’abbigliamento, quello delle ferramenta, quello degli orefici ecc). Mi guardo attorno e devo dire che, come minimo, sono perplessa dalle sgargianti insegne con improponibili richiami italianeggianti, così come dalle vetrine traboccanti di merce e, soprattutto, dalla debordante presenza di manichini, anche piuttosto inquietanti.comunque trovo il tutto simpatico e pittoresco. Continuando nel segno del commercio, il gruppo si muove compatto verso la prima tappa di questa settimana, che è il Gran Bazar: un nome certo dalle mille suggestioni. E’ ancora presto e c’è poca gente, così ci aggiriamo con libertà fra le viuzze di questo, che è il mercato coperto più grande del mondo. Tuttavia è davvero troppo presto per fare acquisti, non sapremmo cosa comprare, così ne approfittiamo per guardarci in giro ed ispezionare in maniera totalmente rilassata quanto il Gran Bazar ha da offrire. Come ci aspettavamo vediamo tappeti, abiti, oggetti in rame e ceramica ma davvero non credevamo di trovare tanto oro! Un oro poi incredibilmente giallo: forse troppo, per i nostri gusti, che definirei decisamente più sobri. Dopo un simile impatto “pieno” di tutto, quasi per compensazione andiamo a visitare un luogo estremamente spoglio, che è poi la prima moschea della mia vita: la moschea di Solimano. La spiegazione di Sed è piuttosto illuminante. Ci fa notare le colonne di differenti colori frutto dell’utilizzo di diversi materiali, anche di scarto, e ci parla del concetto di “foresta di colonne”, per cui i colonnati nel cortile delle moschee sotto i quali si ritrovano i fedeli, stanno quasi a perpetuare i riti delle tribù nomadi arabiche che usavano incontrarsi sotto le fronde di alberi veri, nelle oasi. Imparo anche la motivazione, dedotta dal Corano, sulla divisione degli spazi di preghiera fra gli uomini e le donne all’interno della
moschea: ossia il fatto che, vista la gestualità della preghiera islamica, non fosse ritenuto opportuno per le donne stare davanti agli uomini. Apprendo poi l’importanza della presenza dei tappeti sul pavimento, che segnalano la direzione della Mecca e lo spazio a disposizione di ciascun orante. Inoltre, come sempre, mi appassiono particolarmente agli accenni sulle motivazioni storiche, politiche e sociali che suggerirono a quell’estroso uomo di Maometto l’invenzione dei precetti alla base della religione islamica. Ossia, in poche parole, il fatto che si trattò di un modo per dare una legge e un ordine sociale a popolazioni nomadi che non ne avevano, consentendo loro di fortificarsi e unirsi, diventando un popolo guerriero capace non solo di sconfiggere aggressori esterni ma anche, eventualmente, di attaccare, tanto da riuscire a conquistare l’intera penisola arabica. Uno dei problemi dalla religione musulmana, secondo Sed, (e lo condivido), è sostanzialmente il fatto che nell’islam l’interpretazione del testo sacro non si è mai evoluta, ma è rimasta ferma tutt’al più a pochi decenni successivi alla morte del Profeta con conseguenze che, a mio parere, nel migliore dei casi possono essere definite anacronistiche mentre, nel peggiore, le trovo incompatibili con la modernità. Nella moschea avvertiamo un odore piuttosto forte e, per la prima volta, vedo delle persone pregare a pochi passi da me. Rapidamente entrano, concludono i loro gesti di preghiera poi se ne vanno; ed io sono contenta di avvertire, di questi tempi, quanto potrebbe essere “semplice” essere musulmani, e quanto potrebbe essere naturale professare semplicemente ciascuno la propria religione. La mia prima visita ad una moschea mi ha insegnato alcune piccole cose, come il fatto di saper riconoscere le fontane per le abluzioni, lo spazio dove l’imam officia la preghiera del venerdì, il pulpito dove tiene la predica e quello in cui sta il muezzin come una sorta di specchio dei movimenti dell’imam, riflesso verso i fedeli. E poi ha significato controllare la direzione dei tappeti ed ammirare gli splendidi minareti ma soprattutto, quello che mi ha colpito in questo luogo di culto, è l’assenza. Entrata nella moschea quello che noto è che non c’è nulla, tranne forse poche scritte decorative; e questo spazio vuoto mi appare particolarmente intenso, quasi a significare l’ascendente di una religione che, davvero, non ha bisogno di niente per “essere”.
Dopo questo impatto mi fa piacere andare a visitare quella che è stata una chiesa, lo trovo a suo modo rassicurante. Sed ci parla dei destini toccati a numerosi luoghi religiosi in Turchia. Poiché, in passato, i vari luoghi di culto vennero trasformati in moschee o chiese a seconda di chi detenesse il potere in quel momento, dopo la nascita della Turchia moderna ci si è attenuti al criterio di conservare la destinazione originaria. Salvo poi adibire a museo l’edificio, nel momento in cui non si riuscisse a sapere se assegnare una chiesa alla confessione cattolica piuttosto che ortodossa. Questo è stato il destino di San Salvatore in Chora, che è appunto un museo e non una chiesa consacrata. Trovo comunque la visita particolarmente coinvolgente, grazie soprattutto ai commenti della nostra guida che ci fa sì notare l’elegante bellezza dei mosaici e degli affreschi, ma soprattutto ci svela le motivazioni che ne stanno alla base. Nulla è fatto per caso, tutto ha un significato che non necessariamente è esclusivamente artistico o religioso, ma è spesso politico. Così, se la tendenza dei potenti di allora era di celebrare esclusivamente la gloria e di non soffermarsi sull’aspetto di sofferenza della religione cristiana (niente croci), allora, per esempio, il valore artistico del mosaico che all’entrata raffigura un Cristo che “ti viene incontro” va di pari passo con l’intento che ne sta alla base, che è quello di “coinvolgere”. E’ quasi un tentativo di catturare a sé le persone con un messaggio rassicurante di compartecipazione, potenza e promesse di salvezza.
Dopo esserci sottoposti al rito del pranzo di gruppo in ristorante con menù turistico (che davvero non amo particolarmente.né il rito né il menù!), ci aspetta la Chiesa di Santa Sofia o Aya Sofya, quindi della Divina Sapienza (niente a che vedere con sante di nome Sofia!). La costruzione è imponente, le cupole sono altissime e impariamo che l’importanza architettonica della chiesa risedette nella soluzione delle due mezze cupole e della cupola centrale mentre, storicamente, si è trattato per lungo tempo della più grande cattedrale della cristianità (fino alla costruzione di San Pietro). Tuttavia io e la Sandra concordiamo nel trovarla non particolarmente bella, scura e con mosaici inferiori rispetto a San Salvatore in Chora. Per non parlare dell’effetto vagamente inquietante suscitato dalla presenza incombente di quattro immensi medaglioni recanti scritte arabe, appesi ad un’altezza impressionante.certo che, in questo modo, anche qui dentro risulta tangibile il segno della storia e dei suoi cicli. A me, che sono totalmente profana di arte, viene da pensare che, forse, quello che più stona in questi antichi, immensi edifici è il loro essere in disuso. Una simile chiesa adibita a museo rappresenta un’importante testimonianza storica e culturale, ma a me fa un po’ di tristezza: mi sembra sprecata. Oddio, questo mi sembra un ragionamento vagamente integralista.spero di no! Ma in effetti è ciò che penso. Comunque, per sdrammatizzare, io e la Sandra abbiamo anche il tempo di ricercare la fortuna girando il pollice nel famoso incavo di una delle colonne dell’ingresso.e speriamo bene! Dopo facciamo una breve scappata al Bazar Egiziano, in visita alle spezie policromatiche e multi-odorose. Siamo tutti piuttosto stanchi, e la Sandra ha anche mal di testa però, nella piazza antistante il Bazar, abbiamo il tempo di guardarci un po’ attorno, e finalmente di osservare un poco la gente. Quello che mi fa notare la Sandra (ed io le do ragione) è che i ragazzi turchi non sono affatto male, a parte una cura dell’abbigliamento e dell’aspetto che andrebbe decisamente rifinita! Quello che noto io è che ci sono molte donne coperte, con i veli e gli impermeabili e, non so perché, ma non me l’aspettavo. Camminando verso l’imbarco del traghetto che ci condurrà in una breve escursione sul Bosforo, continuiamo a notare il via vai della gente presa ad affaccendarsi, a sfacchinare, a vendere, ad andare e venire, ma anche a “stare”: seduti sugli sgabelli fuori dalle botteghe, magari sorseggiando bicchierini di tè. E’ caotica e frenetica come lo può essere una città di otto milioni di abitanti, Istanbul, ed è grigia come la pietra delle sue moschee e dei suoi palazzi, ma anche variegatamene colorata come le improponibili insegne dei negozi. E’ poi verde, come i tanti alberi e giardini e infine, a tratti, in mezzo a qualche scorcio tra le vie, è anche blu come il mare del Corno d’Oro. Nonostante un vento piuttosto forte il mare è calmo, consentendoci di apprezzare al meglio dal battello lo scenario che ci si apre davanti. All’andata costeggiamo la parte europea di Istanbul dove, usciti dal Corno d’Oro, ci sfilano sotto gli occhi numerosi begli edifici storici (l’attuale Palazzo Presidenziale, l’Università -bella e
ordinata- il palazzo del Sultano e molti altri). Passiamo sotto al ponte sul Bosforo e ci lasciamo il mar di Marmara alle spalle. C’è un vento gelido: io e la Sandra, che non abbiamo indumenti più pesanti per coprirci, soffriamo freddo. Però, quando cambiamo direzione per il ritorno e andiamo a lambire la costa asiatica la mia attenzione si risveglia: io non sono mai stata in Asia! Lasciatemelo dire: questa idea della terra di mezzo possiede un fascino innegabile. La suggestione è poi completata dallo spettacolo del profilo di Istanbul visto dal mare, immutabile così come si è offerto per secoli ai viaggiatori che giungevano in nave. Mercanti, avventurieri, militari o poeti, tutti inevitabilmente accolti da ferme cupole e slanciati minareti, segni della storia di una città ponte fra due mondi, avvolta nel tenue azzurro dell’umidità che sale dall’acqua. Ecco Istanbul: con tutto quanto di evocativo, magico e speziato questo nome può suscitare.siamo arrivati nuovamente. Terminata l’escursione sono contenta ma, a questo punto, anche stanca. Il vento del battello sembra mi si sia insinuato fin dentro le ossa così, appena giunti in albergo, io e la Sandra ci sottoponiamo ad una rapida cena non particolarmente appagante, mirando entrambe unicamente ad infilarci il prima possibile nei nostri letti polverosi.
Mercoledì, 25 agosto 2004
Con nostra somma gioia la nottata si rivela davvero riposante: ci voleva! Ora siamo pronte per visitare il simbolo di Istanbul, la Moschea Blu (Sultanhamet Camii). Come sempre ci attendono all’ingresso i venditori che propongono di tutto: dalle cartoline (dieci per un euro!), ai libri sulla città, ai flauti (!?). La prima cosa che noto è la fila di rubinetti per le abluzioni, e mentre percorriamo il cortile interno ci fa compagnia uno dei tanti mici che incontreremo in questo soggiorno, il quale si aggira socievole tra noi agitando festosamente la coda. Quindi entriamo dentro la famosa Moschea Blu, curiosi di vedere il tanto decantato splendore delle maioliche che danno il nome all’edificio. Sicuramente il colpo d’occhio è notevole e l’interno risulta più luminoso della moschea di Solimano, visitata ieri. Il grande vano, spoglio come sempre, è imponente e tuttavia non mi convince del tutto.forse me l’aspettavo più blu! Certo si respira un’aria solenne, sia per le notevoli dimensioni sia, soprattutto, perché in questi monumenti storici si viene davvero a pregare: infatti osserviamo alcune persone rivolgersi a Dio in quel loro modo energico, concreto e sintetico. Usciamo e trovo particolarmente piacevole la passeggiata verso il palazzo Topkap׀ (la Porta del Cannone) in una Istanbul ancora non pienamente in fermento. Oltrepassiamo la Sublime Porta ed entriamo nel mondo fiabesco dei sultani Ozman (gli ottomani) che regnarono per seicento anni sul grande impero tra oriente e occidente, più di ogni altra dinastia imperiale. Al contrario dei castelli europei, ci sono pochi saloni ampi e riccamente arredati. I palazzi ottomani sono in realtà un insieme di chioschi che, come tende piantate nel terreno, ricordano l’origine nomade di questo popolo. Come dice la guida, il Topkap׀ è in qualche modo un campo nomade pietrificato in marmo e piombo. Eh sì, si tratta di un palazzo imperiale però in questo regno non ci sono cavalieri, monarchi o consiglieri ma piuttosto Gran Visir (una sorta di primo ministro), Divan (Consiglio dei ministri), Eunuchi (i servitori più stretti del sultano e, si supponeva, quelli a lui più fedeli) e Giannizzeri (giovani istruiti nelle scuole coraniche, soldati del regno). Non ci sono tavole rotonde, giostre o amor cortese ma piuttosto grate attraverso cui origliare, caffettani, harem, sciabole, scimitarre e pugnali (il famoso Hançer). E’ tutto davvero molto diverso dai principi azzurri senza macchia e senza paura del nostro immaginario, e un po’ mi intristisco per la vita del povero Sultano trascorsa nella paura e nella menzogna, origliando dietro le grate per tentare di difendersi da congiure, assassinii e probabili stragi. Scuoto la testa con disappunto per questo destino paradossale, ma mi sembra di capire che Sed pensi ce l’abbia con la sua narrazione.al che mi affretto a ricompormi. Comunque, in tutto ciò penso che questo passato è così totalmente diverso dal nostro, che quasi mi stupisco di come la Turchia di oggi non sia essenzialmente diversa da un paese occidentale. Visitiamo quasi tutti i padiglioni del palazzo e finalmente giungiamo alle sale del magnifico tesoro.le mille e una notte sono qua. Lo splendore e lo sfarzo sono proprio da fiaba; in effetti non mancano tappeti e lampade dorate: peccato solo che nessuno mi abbia chiesto di esprimere un desiderio perché forse, qui dentro, davvero tutto può accadere.
Lasciando il mitico palazzo del Sultano ci congediamo dalle suggestioni di Istanbul e ci dirigiamo verso il cuore della Turchia: pernotteremo ad Ankara, la capitale. Si tratta di una lunga tappa: sono previste circa sette ore di autobus ma, imprevedibilmente, il tempo trascorrerà in modo singolarmente interessante grazie a Sedat. Per raccontarci della Turchia ci parla della sua vita, e presto ci accorgiamo che è proprio così, perché la sua storia privata arriva più volte a sfiorare e a toccare quella che è la Storia. C’è da dire che la sua è tutto tranne che una vita banale, ma è invece singolare, ricca di esperienze, per certi versi privilegiata. Così, parlando tra le righe di sé, ci giunge a parlare di storia, comunismo e terrorismo, di scuole e viaggi, di università, lauree e doppie lauree; di lavori, piastrelle e tessuti, di canzonette italiane, sigarette, coltivazioni, donne e minoranze etniche. Sed ci conquista perché è davvero preparatissimo, risponde in modo responsabile ed equilibrato ma, soprattutto, sa comunicare. Non tanto perché si esprime in un italiano forbito e perfetto (malinconicamente penso che sa coniugare tempi e modi verbali meglio di me!), quanto perché si rivela una di quelle persone capaci non semplicemente di parlare, ma di raccontare, riuscendo a tenere desta l’attenzione per ore, arrivando anche a divertire. Dopo una tale performance direi che il nostro Sed diventa il polo magnetico di attrazione del gruppo: tutti vogliono avere un interlocutore simile! Va bè, per non incensare troppo la nostra guida posso dire che talvolta potrebbe risultare vagamente debordante e che il rischio, di fronte ad una persona che sa tutto, ha visto tutto e ha fatto tutto (o così sembra), è quello di sentirsi davvero una schifezza (come accade a me.ma è un problema mio)! Posso anche dire che mi è sembrato un pochino suscettibile e anche per questo, durante tutto il viaggio, io e la Sandra spesso tratterremo obiezioni o domande. Ma, in verità, lo faremo soprattutto perché c’è davvero troppa concorrenza! Accaparrarsi l’attenzione di Sedat diventa uno sport per uomini duri.o per donne leggiadramente ciarlanti e, altezzosamente, non ci sembra il caso.così ci limitiamo a coltivare da noi le nostre impressioni (interessanti le dinamiche relazionali che si vanno instaurando in questi microcosmi!). In ogni caso, tutto questo diverrà evidente solo più avanti, nel proseguimento del nostro giro, e in questo giorno continuiamo semplicemente a divorare chilometri di strada con i racconti di Sed che ci accompagnano nel cuore del paese, mentre si affaccia dal finestrino l’Anatolia. E’ bello l’altopiano: è una dimensione interlocutoria che crea aspettative ma che, allo stesso tempo, tranquillizza per la costante ripetitività del suo orizzonte e dei colori, che lentamente sfumano nell’oscurità serale. Arriviamo ad Ankara, che ci appare come un insieme di puntini luccicanti incastonati sul monte, ma è già tardi: c’è solo il tempo per la cena e per il letto in un albergo davvero niente male.addirittura un cinque stelle!
Giovedì, 26 agosto 2004
Alla luce del sole posso dire che, se ad Istanbul si accosta un’immagine di speziate suggestioni, lo stesso non si può proprio dire di Ankara la quale, tra l’altro, spicca al confronto per la quasi totale mancanza di minareti. Questo non è casuale perché, con la nascita dello stato turco dopo il crollo dell’impero ottomano, caratterizzata da una modernizzazione accelerata, si è voluto apposta lo spostamento della capitale nel centro geografico del paese e, soprattutto, in una città piuttosto nuova, senza i “pericolosi” retaggi della tradizione, storici e politici di Istanbul. Comunque Ankara è proprio bruttina (e così mi appariranno tutte le altre cittadine che vedrò: bruttine e tristi). Brutte strade, brutte case poco curate anche se nuove (ma è nella cultura turca, nomadica!), bruttissimi negozi. Insomma, un aspetto tra il tetro e il pacchiano, anche in centro. Fra l’altro il traffico di oggi sembra impazzito, spesso siamo immobili e ci vorrà del tempo per giungere al Museo delle Civiltà Anatoliche. La spiegazione di Sed è assolutamente impagabile perché altrimenti mi sarebbe riuscito difficile accostarmi a un museo di questo tipo. Invece si è trattata di una parentesi molto interessante su popolazioni che rappresentano niente meno che la culla della civiltà: gli ittiti, i lidi, i medi ecc. così, a questo punto, posso dire di avere apprezzato soprattutto la statua della debordante “dea madre” e quella di Cibele, con il suo buffo e affabilissimo gran sorriso. Vediamo anche una riproduzione di Re Mida e, ancora una volta, come ha ragione Sed quando fa notare la ricchezza dell’offerta storico-culturale di questa terra, e la sua arretratezza nel saperla sfruttare appieno, soprattutto a livello di marketing! In effetti, all’uscita dal museo non starebbe male un bel Coffee Shop con rivendita di cancelleria, tazze e gadgets colorati ispirati ai personaggi della storia e della mitologia ittita.British Museum e Louvre docet!! Comunque, lasciando chi di dovere a riflettere sulle strategie migliori per promuovere il turismo culturale in Turchia, giunge per noi il momento di andarcene finalmente in Cappadocia.sempre che riusciamo a sfuggire all’infernale traffico di Ankara! Vista la lentezza con la quale ci muoviamo e il dedalo di strade chiuse nel quale spesso ci troviamo invischiati, si decide di non fermarci al mausoleo di Atatürk. Per fortuna, però, possiamo ammirare almeno una notevole statua equestre del fondatore della patria.andiamo, volevo ben dire che avremmo lasciato la capitale senza aver visto riprodotti in bronzo i baffi del mitico padre dei turchi!
Comunque il sollazzo dura poco perché anche oggi ci aspetta una trasferta piuttosto lunga. Memori dell’esperienza messicana, io e la Sandra cerchiamo di prenderla con filosofia: almeno qui non ci sono autisti che ci propinano nenie insopportabili sbraitando e urlando come invasati! Anzi, il nostro autista è veramente bravo, guida con molta prudenza (c’è chi dice troppa) e non ci farà mai passare brutti momenti in tutto il viaggio. Inoltre, sono previste alcune piccole soste allo scopo di alleggerire la costrizione dell’autobus. La prima fermata che facciamo è per vedere con i nostri occhi un lago salato (Tüzgölü?): una enorme fascia bianca sempre più abbagliante a mano a mano che ci avviciniamo. Inizialmente ci cammino sopra in maniera piuttosto circospetta, ma presto risulta evidente che non c’è nulla da
temere: niente pozzanghere e neppure sabbie mobili.questi paesaggi suggestivi mi stanno creando un po’ di fisime! In ogni caso essi riescono non so come a catturare sempre la nostra attenzione, tanto che riusciamo a far tardi anche nell’ammirare la distesa a perdita d’occhio di un nulla bianco e deserto! Il tragitto prosegue su strade secondarie, consentendoci di ammirare scenari pittoreschi e non monotoni, perché passiamo attraverso piccoli paesini situati sull’altopiano. Finalmente una Turchia abitata! Non parlo della folla di Istanbul o di Ankara: le grandi masse mi sembrano simili in tutte le metropoli; quello che si avverte è ovunque una folla indistinta di gente affannata e stipata, frettolosa o annoiata.certo, magari con il velo o i baffi, intenti a vendere pistacchi piuttosto che papaia, tuttavia rimane un’impressione indistinta quella che si avverte. Invece, attraversando le salite e le discese dell’altopiano, le stradine di grigi paesini con i bambini che sbucano dai vicoli e le donne che trascorrono la serata sui tetti, piatti e senza tegole, mi rinviano un senso di umanità preciso e definito. Durante il percorso avevamo visto talvolta la gente nei campi e ora queste persone, o altre come loro, se ne tornano a casa salendo su trattori che le riporteranno chissà dove questa sera, per poi ripartire al mattino. Sono brevi scorci, pochi momenti, ma sono queste rapide immagini vive a non fermarsi solo all’altezza degli occhi, entrando più in profondità.
La nostra tabella di marcia prosegue con insperata rapidità, tanto che c’è tempo per una sosta a Kaimakly, la città sotterranea. Interessante e sorprendente il sistema abitativo delle popolazioni dell’Ipogeo, ma la visita in cunicoli profondi anche venti metri sottoterra mi crea un po’ di ansia così, devo ammetterlo, la mia, più che a una visita, somiglia ad una traversata con lo scopo di guadagnare l’uscita il più rapidamente possibile! C’è di buono che, vista la rapidità, mi rimane un po’ di tempo in più per guardarmi attorno e scattare alcune foto del villaggio. In effetti mi
rianimo: dopo una giornata che ha previsto il museo, il lago salato e la città sotterranea, a quest’ora ho proprio voglia di aria e persone vive!
Finalmente giungiamo a destinazione ed io e la Sandra ne siamo particolarmente felici perché, con l’aiuto prezioso di Sedat, prenotiamo nientemeno che una seduta al bagno turco dell’albergo! Eh sì, volevamo proprio togliercela la curiosità di sperimentare questa chiccheria, anche se devo ammettere la nostra pressoché totale ignoranza in materia di Hamam (perché non ho visto il film di Ozpetek?!?). Vista la nostra notevole goffaggine il risultato, devo dire, è stata una serata più che altro buffissima! Innanzitutto ci accingiamo all’esperienza piuttosto convinte che ci sia una distinzione fra uomini e donne, sia negli ambienti del trattamento sia nella persona che lo esegue. In secondo luogo, povere ingenue, dopo una rapida doccia ce ne scendiamo tranquillamente vestite senza porci troppi problemi, convinte che ci verranno forniti teli, asciugamani o quant’altro: ma non è esattamente così! Mentre aspettiamo, dalla pesante porta di legno che introduce al locale esce un simpatico giovanotto in calzoncini, tutto bagnato e apparentemente piuttosto provato. Si rivolge a noi e ritira i nostri tagliandi, chiedendoci anche se indossiamo il costume. Alla nostra risposta negativa ci indica delle piccole salviette di cotone a scacchi bianchi e rossi che, pare, dovremmo utilizzare per coprirci. Ma dai? Come no! In realtà ci proviamo, ma davvero non ho capito in che modo doveva essere indossato quell’affare. Così, siccome i costumi li abbiamo al piano di sopra, decidiamo che è meglio far aspettare il tipo cinque minuti, mentre io mi fiondo a raccattare i famosi bikini dal profondo delle nostre valigie. Una volta indossati i costumi ci sentiamo un po’ meglio, salvo poi dover calzare delle specie di zoccoli spaiati, dalla fascia larghissima, che rendono ogni passo un attentato alla nostra stessa vita. ma tutto sommato, visti i presupposti, si tratta del male minore rispetto al pensiero di quello che troveremo al di là del portone di legno. Ci viene un po’ da ridere! E va bè, l’abbiamo voluto noi e adesso dobbiamo subire! Quindi entriamo. Ci troviamo in un unico ambiente con una fila di rubinetti alle pareti piastrellate che gettano acqua molto calda, e con un muretto tutto intorno che funge da sedile. Ci si siede accanto al lavandino, raccogliendo l’acqua dal lavabo con delle ciotole di rame per poi gettarsela addosso. Al centro del locale c’è un grande piano di marmo, caldo, sul quale ci si sdraia e viene praticato dapprima il lavaggio con il guanto di crine, poi il massaggio con il sapone. Tutto questo ci è solo vagamente chiaro mentre oltrepassiamo la soglia del bagno turco ma, fortunatamente, dentro ci sono altri due signori del gruppo i quali ci faranno da esempio. Sottolineo che i due signori compongono una coppia, donna e uomo (?!), al che decidiamo che trattasi di bagno turco misto. Del resto, vediamo anche che, inequivocabilmente, il massaggiatore della situazione è proprio il brillante giovanotto che ci ha ritirato i tagliandi.per essere una pratica nella quale doveva esistere la più rigida separazione di genere, è pieno di uomini qui dentro! Va bè, non è un gran problema: viste anche le nostre facce vagamente perplesse la situazione è più buffa che promiscua! Inoltre mi dico che, a questo punto, da buona occidentale devo fare l’emancipata.e poi il trattamento è così veloce che non vale certo la pena fare delle storie, perché quasi non ce ne si accorge! Quando tocca a noi la coppia di signori se n’è già andata e l’energico giovanotto procede con guanto di crine, schiumatura, massaggi, colpetti, rivolgimenti a pancia sopra e pancia sotto, di nuovo getti d’acqua calda, infine doccia fredda.et voilà, les jeux son faites! A parte il solletico tremendo (alla fine rideva pure il tipo!) e il fatto che, al momento di alzarmi dal piano di marmo scivoloso, stavo per involarmi sul pavimento, devo dire che è stato piuttosto piacevole e rilassante, anche se decisamente breve. Rimane la curiosità di sapere quanto questa pratica sia effettivamente di uso comune in Turchia, soprattutto fra le donne e, in questo caso, mi chiedo quanto spesso capiti loro che a praticare il trattamento sia un uomo! Fatto sta che alla fine noi ci siamo piuttosto divertite e la notizia pare spargersi rapidamente. Già a cena gli altri del gruppo ci chiedono incuriositi cosa ci abbia combinato il ragazzo.ma noi cerchiamo di mantenere l’alone di mistero accennando la più ovvia delle risposte: cose turche! Tra l’altro, la mia beatitudine è un po’ guastata dall’accorgermi che, dopo il trattamento, mi ritrovo con uno strato di abbronzatura in meno.non l’avevo considerato! Che tristezza, tutta la mia fatica di questa estate che se ne va in fumo.anzi no, in vapore! Anche perché dopo il bagno turco mi sottopongo a un’ulteriore doccia per lavarmi i capelli e, a questo punto, ne esco con la pelle squamata, le dita raggrinzite e i piedi palmati. In effetti tutto questo lavarsi, questa sera, mi ha un po’ stancata e me ne vado a letto, beandomi però della mia soave essenza di fresco bucato!
Venerdì, 27 agosto 2004
Sembra incredibile ma neanche il passaggio in lavatrice riesce a spezzare la mia insonnia. Le ore notturne trascorrono abbastanza in bianco, così mi alzo che sembro uno straccio slavato ma, almeno, sono contenta perché oggi andremo a zonzo per la Cappadocia! Il primo impatto con le peculiari formazioni rocciose di questa regione è dalle parti di Avanos e, anche se un po’ ci aspettavamo quello che avremmo visto, gli spettacolari scenari hanno su tutti un effetto di entusiasmo elettrizzato. Davvero bello. Io poi sono anche contenta perché finalmente oggi si cammina: ci aspettano scalate, salite, discese e scarpinate varie. Che meraviglia muoversi! Mi sento come un monellaccio costretto sul banco di scuola, finalmente lasciato libero durante la ricreazione. La prima tappa dell’itinerario odierno si svolge piuttosto rapidamente. Abbiamo circa mezz’ora per aggirarci tra le rocce ad ammirare paesaggi, fare foto e, per chi ci riesce, persino fare acquisti alle bancarelle. Naturalmente io e la mia “compare” non facciamo in tempo neanche a guardarle, le bancarelle così, onde evitare di romperci una gamba su e giù per le ripide rocce, decidiamo che, anche per oggi, è meglio mettersi il cuore in pace e lasciare perdere gli acquisti per dedicarci esclusivamente all’ammirazione spassionata di quanto ci circonda. Un po’ ci dispiace la rapidità con la quale siamo costretti a muoverci, però è anche vero che, date le distanze, bisogna rassegnarsi alla “sindrome del
giapponese”: autobus, scarico passeggeri, minutaggio per foto e bancarelle, ripartenza. Pazienza. Dopo il primo veloce impatto con le guglie rocciose della Cappadocia ci aspetta Zelve, dove ci fermiamo più a lungo per ammirare come merita questo luogo bellissimo. Si tratta di una vera città rupestre (tra l’altro abitata fino agli anni cinquanta del Novecento) con abitazioni, una chiesetta, la moschea con il minareto fatto a campanile (eh, questi architetti di
passaggio!) e con le pittoresche, carinissime piccionaie che servivano affinché i piccioni potessero depositare il loro guano, poi utilizzato come fertilizzante. Zelve mi è piaciuta tantissimo. Muoversi in un simile scenario fiabesco e scoprire scorci da fotografare mi ha, semplicemente, reso contenta. Inoltre, la chiesetta rupestre di Zelve mi ha fornito l’occasione per imparare qualcosa che non sapevo, e che mi ha fatto riflettere. Ossia che, in questi luoghi, è presente un tipo di croce definita “gloriosa”, con i bracci di uguale lunghezza, utilizzata dai primi cristiani per sottolineare con forza la venuta, i miracoli e quindi la gloria del Signore, piuttosto che la sua sofferenza e passione, allo scopo di attirare, in questa maniera “lusinghiera”, nuovi proseliti alla religione cristiana appena nata. Devo dire di non avere mai pensato, finora, alla croce come a un simbolo di sofferenza: forse è superficiale, ma per me essa è essenzialmente un simbolo di fede. Però riconosco che è molto vero: quale simbolo di maggiore sofferenza di quello richiamante la crocifissione di un uomo che poi, per chi crede, è dio stesso? Questo mi colpisce, e penso che, paradossalmente, è in un paese musulmano che riconosco un inedito approccio al simbolo della mia religione. E’ bella questa cosa e, in questi luoghi di ritrovamenti e reperti, è anch’essa, a suo modo, un’inaspettata scoperta.
Prima del ritorno in albergo per il pranzo e di una sosta post-meridiana (di cui non tutti sono contenti e neppure noi), ci fermiamo a visitare una scuola per il perfezionamento del tappeto, il quale rappresenta non solo una delle più alte forme di artigianato del paese, ma anche una vera e propria forma d’arte. Ci viene mostrato il famoso doppio nodo che differenzia i tappeti turchi da quelli di altri paesi mediorientali. Grazie a questa caratteristica la loro compattezza aumenta, così come crescono il materiale e il tempo di lavorazione richiesti. Unitamente al fatto che nei tappeti turchi non verrà mai utilizzato il misto seta, poiché la seta spezza tutti gli altri tessuti, tutto questo li rende estremamente pregiati. Le ragazze al telaio sono carinissime e invitano la Sandra a fare un nodo. Lei riesce abbastanza bene: è entusiasta dell’esperienza così come del meraviglioso mondo dei tessuti e dei tappeti! Poi lo fanno fare pure a me, il nodo, ma io sono decisamente negata e rischio di rovinare il povero tappeto. Comunque, le ragazze regalano a entrambe dei fili di seta che ci legano al polso a mo’ di braccialetti, e noi siamo loro gratissime per questo piccolo gesto! La visita continua con l’osservazione della lavorazione dei bachi da seta. Non ne avevo mai visti e li trovo proprio bellini. Poi impariamo un paio di cosette sulla colorazione naturale della lana e infine .arriva il momento della televendita! Sul serio, il tizio esegue una presentazione dei diversi tipi di tappeto e, coadiuvato da due assistenti, si esibisce in un piccolo show all’altezza dei migliori banditori televisivi. Devo ammettere che la dimostrazione risulta davvero interessante e divertente, concludendosi con l’esterrefatta visione da parte nostra di un tappeto volante. umorismo turco? No, simpatico, dai!
Dopo tante nozioni acquisite alla nostra conoscenza ci aspetta il meritato pranzo che, però, non ricordo con particolare gioia. Eh già, comincio ad avere un po’ di rigetto verso i cibi propinatici dagli alberghi.per fortuna che, almeno, ci rimane la consolante certezza di finire il pasto con un delizioso budino, di cui i turchi sono maestri (grazie alla loro origine
nomadica!) e che non ci fanno mai mancare. Comunque è necessario nutrirci, questo è certo, anche perché ci aspetta un pomeriggio intenso! La prima tappa consiste in un blitz ad una gioielleria. Io mi lustro un po’ gli occhi con turchesi, opali e filigrane d’argento, però mi sento vagamente oppressa e ripiego presto su una panchina, fuori all’ombra. Fatte contente le sciüre, che escono tutte soddisfatte, e i loro mariti i quali, secondo me, sotto sotto in questi frangenti si sentono particolarmente utili nonché appagati, andiamo a Uçihisar. E’ davvero spettacolare la visione di quello che sembra un castello modellato con la creta, stagliato in cima ad un alto monte che domina in maniera sontuosa la valle e le sue formazioni rocciose. Dopo un rapido colpo d’occhio io e la Sandra ci dividiamo: lei si occuperà di fotografare la favolosa cittadella, io farò un breve giro a tutta velocità .dall’altra parte della strada! Basta davvero poco, e dopo pochi metri niente più autobus, niente più turisti, niente più bancarelle: solo case grigie senza tetto, alcune antenne paraboliche e stradine sonnacchiose abbagliate dal basso sole pomeridiano. Vedo delle persone, mi salutano. Mi
avvicino: sono due donne giovani, quattro bambini e una anziana signora sedute fuori dalla porta. Chiedo loro se posso fotografarli e ne sono contentissimi! Dopo avere radunato tutti i bimbi scatto questa strana foto in controluce. Una delle donne mi parla in inglese e ci capiamo: io le do la penna e lei va a prendere un pezzetto di carta sul quale mi scrive l’indirizzo. Mi sembra giusto e, anzi, vorrei proprio vedere i loro sorrisi timidi quando riceveranno le foto!! Distribuisco loro le uniche caramelle che ho con me (orribili Hall’s alla menta forte), signore comprese, e ci salutiamo calorosamente. Non so se sono più contenta io o se lo sono loro. Faccio un altro giretto e scatto ancora un paio di foto, poi mi fiondo al pullman perché ho il terrore di arrivare in ritardo. Infatti la nostra precisissima guida, pur con il suo tono affabile, sa essere particolarmente convincente nel raccomandarci la puntualità: e insomma, sia come sia, mi farebbe impressione far arrabbiare un turco! Per questa volta la passo liscia e così sono pronta per Göreme, la valle delle chiese rupestri. Anche in questo caso i superlativi si sprecano: è davvero incantevole! Poiché appare evidente l’impossibilità di una visita di gruppo a causa dell’eccessivo affollamento, degli ambienti troppo piccoli e della manifesta incapacità di adottare lo stesso passo, Sed ci illustra brevemente gli aspetti artisticamente principali del sito, poi siamo ancora liberi di esercitarci a fare le “giovani marmotte” esplorando cavità, attraversando archi o salendo scale a pioli. E’ pomeriggio inoltrato e la luce bassa rende ancora più affascinanti questi scenari di un bianco quasi abbagliante. Ma il tempo, come sempre in questi giorni, è tiranno. La nostra perlustrazione è piuttosto rapida, poi però c’è tempo per una visita particolare ad una chiesetta che custodisce l’affresco di un viso di Madonna impressionante per la sua dolcezza. Infine, la comitiva ripete per l’ultima volta il rito della giornata, risalendo sull’autobus per ridiscenderne poco dopo. Ed ecco tutto intorno a noi i camini delle fate: formazioni rocciose di forma conica, di colore bianco, sormontate da lastroni di pietra grigia che hanno impedito loro di erodersi all’azione degli agenti atmosferici, come ha invece fatto il terreno circostante, di costituzione vulcanica e friabile. Oramai è tutto il giorno che osserviamo pietre e rocce, ma ogni nuovo scorcio ci lascia ammirati. Non c’è niente da fare: il paesaggio della Cappadocia è proprio incantato. Si è alzata la luna fra due camini di fata, è quasi piena e mi sento proprio contenta degli spettacolari scenari naturali, davvero unici, che ho visto oggi. Penso che vale la pena di venirli a vedere, e tuttavia non è da meno, nella mia giornata, il ricordo della rapida spedizione per le stradine sonnolente e popolate di Uçisahr nel pomeriggio assolato.
Sabato, 28 agosto 2004
Anche oggi la sveglia sarebbe alle sette, a parte il fatto che un autobus s’è messo serenamente a strombazzare il clacson sotto la nostra finestra intorno alle 5.45, consentendomi magnanimamente di assistere all’alba su una lunga strada deserta intervallata dai pali della luce. Non solo ma, una volta sveglia, ho potuto anche ascoltare incuriosita il brusìo operoso che sottintendeva la preparazione del mercato settimanale, proprio nello spiazzo di fronte a noi. Eh già, son fortune! Oggi la giornata non si prospetta particolarmente entusiasmante, infatti ci aspettano dodici ore di trasferimento fino a Pamukkale ed io, come se non bastasse, già appena alzata mi accorgo di essere inspiegabilmente immalinconita. E’ proprio strano, perché sono contentissima di essere qua e del nostro giro. Allora saranno forse le scarse ore di sonno, oppure una luna un po’ storta, ma stamani mi sento grigia come le case dei villaggi turchi, e con nessuna prospettiva in grado di sollevarmi particolarmente lo spirito nelle prossime dodici ore di strada.Così pensavo, mentre ancora non sapevo che il mio incongruo stato d’animo costituiva semplicemente l’infausto presagio di una balorda giornata trascorsa sotto il segno della “punizione di Mevlana”, la quale avrebbe scatenato ogni piccola contrarietà che, finora, aveva risparmiato il nostro ameno gruppetto di buontemponi in vacanza! Ma andiamo con ordine. La mattina, in attesa che si radunino tutti per la partenza, faccio un giro nel famoso mercato allestito all’alba perché vorrei fare una foto. Passeggio tra le file dei banchi di frutta abbastanza serena, ma dopo un poco comincio a sentirmi osservata perché sono decisamente l’unica persona non turca che si aggira per il mercato, per di più senza scopo apparente e con una macchina fotografica in mano. Non che nessuno palesi alcunché, intendiamoci, sono io che mi appaio vagamente ridicola e mi sento un pesce fuor d’acqua, anche perché non immagino assolutamente cosa possano pensare loro. Del resto, mi rendo anche conto che questi sono pregiudizi belli e buoni: cosa possono mai pensare? Niente, solo di trovarsi di fronte ad una turista che non ha niente di meglio da fare che scattare foto simil-esotiche in un mercato turco! Comunque, oramai ci sono e decido di fare questa sospirata foto: però non mi sembra il caso di dilungarmi come mio solito nella ricerca dell’inquadratura e così ne esce una schifezza. Pazienza, non ho saputo reggere: per fare una bella foto avrei semplicemente dovuto avere più tempo e meno occhi puntati addosso! Va bè, so di essere eccessivamente impressionabile ma a questo punto, zitta zitta, mi ritiro in buon ordine e mi ri-infilo nel gruppo. Nel nostro tragitto verso Pamukkale ci attende una sosta a Konya per la visita al mausoleo di Mevlana, fondatore della setta sufi dei dervisci danzanti. Sedat ci offre una preparazione alla visita davvero coinvolgente. Ci ricorda che la danza consente loro di seguire il proprio ritmo interno ed è il modo con il quale i dervisci comunicano con Dio. La danza va eseguita con il palmo di una mano rivolto verso l’alto e l’altro rivolto verso terra: mentre il primo guarda verso dio l’altro guarda verso la terra, e la danza rituale eseguita dall’uomo è il modo attraverso cui il Cielo e la Terra entrano in comunione. Mi colpisce particolarmente la durezza del noviziato degli aspiranti dervisci, la richiesta della loro obbedienza assoluta e il fatto che non viene lasciata loro alcuna “seconda possibilità” (quando trovano le scarpe girate dalla parte opposta all’ingresso devono lasciare il noviziato, senza spiegazioni). La Sandra nota invece il messaggio di grande tolleranza espresso dalla figura umile di Mevlana, il quale dice nel suo
poema: “venite tutti, anche voi idolatri”. Ci viene poi svelato inaspettatamente il “mistero dei rosari”: ci era sembrato di riconoscerne uno nel tesoro del Topkap׀, poi di vederne sgranare un altro da un anziano signore seduto sulla porta della propria bottega, e non sapevamo cosa significasse. Semplicemente, anche nella religione islamica esiste un rosario che, però, è composto da trentatré grani e serve per pronunciare tre volte ciascuno i novantanove nomi di dio. E’ particolarmente suggestivo un esempio del rosario recitato ad alta voce, ed è indubbio il carattere davvero poetico posseduto da questo tipo di riti. Del resto, la curiosità di conoscere meglio la religione islamica è stato un aspetto che, sin dall’inizio del nostro soggiorno, ha coinvolto sia me sia la Sandra, infatti entrambe attendevamo particolarmente questa visita ad uno dei maggiori centri spirituali del paese. Ecco, questo è il punto. Il posto si rivela addirittura il più visitato dell’intera Turchia perché Mevlana è grandemente venerato da tutti i fedeli musulmani e così, più che alla visita al mausoleo, assistiamo al pellegrinaggio di una folla vociante e orante di fedeli. Ne abbiamo sentore sin dall’ingresso, dove c’è una fila enorme per entrare, compostissima per la verità, che aspetta pazientemente sotto il sole. E questo va benissimo, solo che il posto è piccolo e noi siamo letteralmente trascinati dai fedeli che si muovono in modo caotico, in preda alla frenesia di fotografare, toccare e pregare.tutto questo è forse un po’ lontano dalla mia idea di spiritualità! Nel mausoleo non trovo riscontro all’immagine di poetico e composto raccoglimento che mi ero fatta, e dichiaro la mia inadeguatezza a capire tutto ciò. Ve bè, ricordando anche che Mevlana avrebbe detto di non volere che nessuno più lo cercasse o si recasse sulla sua tomba dopo la morte, rifletto sull’evidenza della somma imperfettibilità di noi, deboli esseri umani. Inoltre, vagamente spero che il saggio Mevlana, da una parte, scusi noi per essere venuti a disturbarlo e, dall’altra, sia indulgente verso lo scetticismo che, mio malgrado, mi ha un poco preso in questi minuti. Tuttavia, molto presto sono costretta ad ammettere che alcune energie negative sembrano aggirarsi nei dintorni così, chiaramente senza alcuna intenzione di essere dissacratoria o blasfema, ma con l’intento di sdrammatizzare, credo che il giusto Mevlana si sia offeso per qualche atteggiamento inopportuno, e ci risevi delle prove per scontare la superficialità da noi dimostrata verificando il nostro rigore. In effetti appare subito piuttosto chiaro che lo scetticismo sarà punito. Innanzitutto, mi finisce il rullino proprio nel momento in cui mi accingo a fotografare la cupola verde del mausoleo. Mentre lo sostituisco, la macchina si inceppa e la leva che gira la pellicola appare come morta. Aiuto!! La foto non riesco a farla perché è tardi e dobbiamo risalire sul pullman però, inspiegabilmente, una volta usciti dal mausoleo la macchina fotografica riprende a funzionare. Ma non è finita qui! Non faccio in tempo a gioire che arriva Sonia a comunicarci il cambio di orario del nostro volo di lunedì. Si partirà non più alle 16.30 ma alle 23.15 con arrivo all’una e mezza di notte. Uffa, che stress. Si affaccia la brillante prospettiva di un arrivo a Bologna nell’orario in cui non ci saranno treni fino al mattino dopo, giorno nel quale dovemmo iniziare a lavorare. Che bello! Comunque, siccome tanto non possiamo farci niente, io e la Sandra attendiamo gli eventi, rimuginiamo silenziosamente e, soprattutto, cerchiamo di prenderla con filosofia. Io poi mi sento ancora troppo abbattuta per preoccuparmi ora: ci penserò in un altro momento! Anche perché è pure ora di pranzo, e chissà che a stomaco pieno non si ragioni meglio. Il nostro rancio quotidiano ci aspetta al Caravanserraglio di Sultanhan׀, e devo dire che il pasto di oggi si rivela sorprendentemente buono, seppure un po’ scarsino. Anche l’edificio, in sé, è pittoresco e mi piace. Concluso il pranzo indugio un po’ in giro poi, ad un certo punto, mi viene in mente che potrei fare una foto ma, come ultimamente mi accade spesso, è già tardi, mi viene un po’ di ansia, faccio di fretta e mi riesce una foto orrenda. Mi sembra chiaro che oggi non è
giornata: ho toppato tre foto su tre, evviva! Che sia la punizione di Mevlana?
Con tutto questo entusiasmo mi accingo a trascorrere le altre sei ore che ci separano dalla destinazione di oggi. Percorriamo una strada statale piuttosto monotona. Io e la Sandra siamo entrambe taciturne, ma abbastanza contente di dedicarci ai nostri libri per il resto del tragitto. Se ci fosse silenzio sarebbe quasi l’ideale, ma oggi l’umore degli altri sembra andare nella direzione opposta al mio. Tutti sembrano piuttosto euforici e su di giri. In particolare, i tipi dietro di noi ciarlano e ridacchiano convulsamente, mentre quelli davanti si stanno raccontando la storia delle loro vite dal periodo del servizio militare ai giorni nostri in un tono monocorde, vagamente pedante ma inesorabile (andranno avanti per ore, ore e ore!!). Va bè, è nel loro diritto: noi, per vincere la monotonia della strada, insistiamo tenacemente ad aggrapparci ai nostri libri. Errore.Il viaggio si rivelerà tutto tranne che monotono! Le cose filano abbastanza lisce fino alla prima sosta ma, pochi minuti dopo la ripartenza, dobbiamo fermarci nuovamente al primo centro di servizi disponibile perché una ragazza si sente poco bene. Ripartiamo, però dopo alcuni chilometri la ragazza si sente ancora male quindi cerchiamo di nuovo un posto dove fermarci. L’attesa ci causerà un po’ di ritardo, ma neanche troppo; inoltre, l’importante è che questa volta la ragazza sembri sentirsi meglio, così tutti ripartiamo abbastanza tranquillizzati. Tranquillità che durerà poco, perché è a questo punto che si abbatte su di noi lo spiacevole episodio del “falsario”. In poche parole (perché non è necessario dilungarsi per evidenziare la grettezza di cui ci rendiamo protagonisti), una volta che il nostro Sed approfitta del tempo a disposizione sul pullman per raccogliere la cifra spettante per gli extra, viene fuori che è stata data una banconota che potrebbe essere falsa. Non solo: la banconota è palesemente malridotta, sbiadita e rattoppata con lo skotch. La domanda -opportuna- di Sed è: qualcuno riconosce come sua questa banconota -implicitamente: utilizzata certamente nella più perfetta buona fede-? La risposta è “Sì, è falsa. No, non è falsa. Io lavoro in banca: certo che è falsa!” Sta di fatto che, in questo bailamme vociante, la banconota passa di mano in mano senza che nessuno la riconosca come propria e la sostituisca. Se prima ero triste, adesso sono proprio amareggiata. E che vergogna. Devo dire che la cosa ci demoralizza non poco, e ci crea un certo risentimento nei confronti del gruppo il quale, comunque, appare anch’esso ovviamente piuttosto destabilizzato. In definitiva, io ricomincio a respirare in maniera vagamente normale solo dopo che viene fatta una colletta per riversare quella somma: anche se non sarebbe giusto perché si permette al responsabile di questo bello scherzo di rimanere tranquillamente “impunito” e, soprattutto, perché il fatto di avervi posto riparo non cancella l’amarezza per essere stati coinvolti in una situazione a dir poco meschina e imbarazzante. Comunque, a quel punto non c’era altro da fare e va bè, la vita continua: però, davvero, che tristezza.
E non è finita qui. La “punizione di Mevlana” ci colpisce ancora una volta, in questo caso giustamente per punirci della nostra pusillanimità. Così accade che, in questa meravigliosa giornata, un altro ostacolo si frappone al cammino verso Pamukkale perché incappiamo in alcuni lavori che bloccano il transito della strada. Spegniamo il motore ed in poco tempo, su questa che sembra una sperduta stradina tra i monti, si forma una lunga fila di mezzi davvero anomala. Non so quanto tempo stiamo fermi, ma di certo l’ora di arrivo si allontana sempre più. La gente forse è un po’ esasperata e forse anche sovreccitata dall’episodio del “falsario”, ma mi sembra che molti comincino ad andare decisamene sopra le righe. Seguono: ripartenza, suggestivo tramonto con luna crescente sull’altopiano, canti sguaiati dietro di noi, cicaleccio a ciclo perpetuo davanti a noi, domande poste da oche giulive e foche monache (quanto sono acida, lo so), teatrini vari e un sentimento di frustrazione crescente. Il morale mi si risolleva un poco in occasione di una sosta rigeneratrice con yogurt al miele ed annessa festa di matrimonio, alla quale partecipa gente che sembra davvero su di morale. non lo credevo più possibile in questa grottesca giornata! Infine, dopo altra strada e altra strada ancora, non potevamo non giungere alla meta. Scendiamo in un alberghetto degno del nostro balordo peregrinare odierno, in cui ciascuno ha davvero messo in mostra il peggio di sé. Siamo tutti totalmente stravolti, ed io non so quanti altri condividano il mio pensiero ma, per oggi, ne ho avuto proprio abbastanza della nostra presenza reciproca, quindi io e la Sandra ci sottoponiamo al rito del buffet il più velocemente possibile, per poi battere immediatamente in ritirata nella nostra stanzetta al piano terra infestata dalle zanzare. Finalmente, un po’ di silenzio!
Domenica, 29 agosto 2004
Come ormai accade costantemente la sveglia è alle sette, per chi riesce a dormire fino a quell’ora, e la partenza alle otto. La notte sembra aver portato consiglio perché la gente mi sembra un po’ più misurata. C’è aria da ultimo giorno di scuola mentre aspettiamo l’arrivo dell’autobus davanti all’albergo. In effetti la comparsa del pullman e di Sedat è salutata da qualcuno a braccia alzate con grida di vittoria! Per l’ennesima volta esercitiamo il consueto rituale della salita sul mezzo ed in pochi minuti giungiamo alle cascate pietrificate di Pamukkale. Il colpo d’occhio è davvero unico e, ancora una volta, è Sedat che merita una menzione speciale per la sua attenzione ai tempi delle visite. Infatti, riusciamo a goderci la nostra passeggiata fra la roccia calcarea e la tiepida acqua delle piscine prima della calata delle orde turistiche che, appunto, immancabilmente incrociamo lungo la via del ritorno. Bravo Sed! Camminiamo con calma fino al limite transitabile sguazzando con i piedi nell’acqua e, guardandomi intorno, mi accorgo che c’è molta foschia. Chiaro segno che ci stiamo lasciano il clima secco della Cappadocia decisamente alle spalle e, con essa, l’intera vacanza!
Infatti dopo le cascate non ci aspettano altro se non Perge e Antalya, la nostra destinazione finale. Così ci rimettiamo in marcia senza indugi fino alla sosta per il pranzo, che è prevista sulle rive di un ameno laghetto, chiamato Seldagölü, dall’acqua blu-blu e sorprendentemente tiepida, a circa mille e duecento metri di altitudine. Questa volta apprezzo la sosta in modo particolare, anche perché l’acqua e il sole caldo mi fanno venire una gran voglia di mare, e di poter poltrire beatamente al sole senza vincoli di orari.Ma è solo un sogno ad occhi aperti, perché non faccio in tempo a sognarlo che è già ora di ripartire! Io e la Sandra anche oggi siamo abbastanza silenziose: certo siamo un po’ stanche per il ritmo sostenuto di questa settimana, ma siamo anche vagamente preoccupate per il destino che ci attenderà domani. E poi, c’è poco da fare, la fine incombe e il ritorno anche! A Perge siamo “adottati” da due o tre cagnetti che si affezionano istantaneamente a noi e ai nostri gelati tanto che non ci mollano un attimo, giungendo anche a distendersi beatamente sull’erba, senza perdersi nemmeno una parola di quanto Sed ci racconta sulle rovine dell’antica città classica. Fino all’ultimo la nostra guida è impeccabile, riuscendo ad essere coinvolgente anche in materia di antichità greco-romane grazie certamente alla passione che ci mette, che è evidente e genuina, e grazie al suo talento nel raccontare, davvero notevole. Così rimane concentrato e professionale fino alla fine, imperturbabile come un lord inglese anche quando alcune sciüre si fanno prendere dall’entusiasmo e dalla crisi pre-separazione, avvinghiandoglisi addosso! Comunque, i “racconti” di Sed terminano a Perge con le agorà, le colonne di marmo e le fontane romane e, a questo punto, dispiace anche a me non ascoltare più le sue spiegazioni così coinvolgenti. Non mi seccherebbe ascoltare un bell’intervento del nostro brillante Sed sulle bellezze della rossa Bologna o le meraviglie bizantine di Ravenna. In effetti, con la Sandra concordiamo che, se venisse dalle nostre parti, potrebbe considerarsi invitato in cambio di un bel giro turistico! Facciamo la nostra passeggiata sulle rovine di Perge dove il mio giro termina con una foto abbastanza metaforica scattata con la luce ocra del tramonto. Si riparte: questa è davvero l’ultima volta e accade che i minuti conclusivi del tragitto siano particolarmente scombinati e frenetici, senza che io abbia ben capito che ne sarà di noi. Forse è che non abbiamo ancora neppure esternato il fatto che questa settimana è giunta al termine ed oramai non c’è più tempo ma, a questo punto, mi coglie uno smarrimento quasi esistenziale! In un attimo ci ritroviamo nella hall a smistarci nelle varie stanze senza aver potuto salutare nessuno: con gli altri ci vedremo a cena ma non ho salutato né l’autista che è stato così bravo né, soprattutto, Sedat, che pare se ne vada subito. Sarà una cavolata, ma mi fa venire una gran malinconia questa partenza frettolosa e impersonale nell’atrio di un albergo, dopo una settimana in cui questo tipo ci ha parlato talmente di sé da farci sembrare di conoscerlo da tempo! Va bè, lui non ci conosce, ma a noi sembra di conoscere lui, e il noncurante distacco mi appare davvero troppo impersonale: altro che lord inglesi, qua mi sembra di avere a che fare con dei pinguini! Noi due aspettiamo giù per potere dire due parole a
Sedat: la Sandra accenna un saluto, tuttavia si vede che lo sbigottimento è uno stato d’animo comune a più persone di quante immaginavo, perché poi Sed non ci delude, e rimanda la partenza in modo da salutarci con un po’ più di calma a cena. E così si fa! Il nostro impareggiabile Sedat mi sembra decisamente stanco e provato, forse come non mai in questa settimana la quale, del resto, se è stata stancante per noi che non dovevamo fare altro che seguire docilmente i piani, figuriamoci per lui che i piani doveva organizzarli! Comunque, abbiamo voglia di fare le cose per bene, e Sed passa fra i tavoli a salutare tutti un po’ come fanno gli sposi, per non deludere nessuno! Arriva anche da noi, la Sandra lo saluta e io pure.o almeno cerchiamo di farlo, perché veniamo prevaricate da una delle sciüre più assidue la quale, evidentemente, non è in grado di aspettare il proprio turno e comincia a starnazzare il suo entusiasmo (sono troppo acida, lo so!) proprio quando stiamo cercando noi di dire due parole. Va bè, c’est la vie: tanto queste sono le situazioni in cui le cose non dette rimangono comunque molte di più di quelle dette, mentre ci si limita a solite frasi di circostanza. Chi lo sa, magari è meglio così. In ogni caso ciò che spero è che Sedat abbia avvertito la stima genuina che nutriamo nei suoi confronti e che, nonostante tutto, si sia trovato bene perché, devo dire la mia, credo per vari motivi che ci sia voluta una gran pazienza da parte sua, in questi sette giorni! Alla fine l’uscita di scena del nostro Sed è in grande stile, al grido di hip hip urrà, ringraziamenti, persino rossori.poi: applausi, sipario, fine. Va bè, tutto sommato son contenta. Il clima da ultimo giorno di scuola persiste ed io e la Sandra facciamo la nostra prima e ultima (che vergogna!) uscita serale in Turchia insieme ad altri del gruppo. Girovaghiamo per il centro e per i negozietti, passeggiamo lungo il porto ammirando i caicchi ormeggiati e saliamo su, alla rocca, dove prendo un classicissimo çai alla mela mentre ci raccontiamo aneddoti, pettegolezzi e indiscrezioni di questa nostra settimana, facendoci delle gran risate. Ed è questa l’immagine che conserverò di questa serata, pur senza averla fotografata: grandi risate e luci sul molo.
Lunedì, 30 agosto 2004
Ce ne siamo andate a nanna alle due e mezza e mi sono svegliata alle sei.lo sapevo che non sarei riuscita a dormire nemmeno stanotte! E con il “dritto” che si profila anche per la prossima nottata di rientro, le prospettive non sono delle migliori. Nel frattempo continuo a rigirarmi nel letto finché arriva lentamente l’ora di colazione, che per me e la Sandra sarà il momento in cui salutare definitivamente i nostri compagni di viaggio tra cui, in particolare, la piccola Alice dagli occhi di gatto e i suo genitori Bruno e Rosalba. Portiamo a termine anche questo commiato, poi noi saliamo in camera mentre il resto del gruppo si prepara all’ennesima trasferta, con tutto il dispiegamento di bagagli schierato nella hall. Quando riscendiamo ci troviamo “padrone” dell’albergo: pare ci siamo solo noi! Così inizia l’avventura della nostra giornata fai-da-te ad Antalya, il cui programma prevede acquisti, regali (finalmente!) e, se ce ne sarà il tempo, mare. Ci muoviamo a piedi verso il centro e devo dire che avanziamo un pochino circospette perché, dopo una settimana di convivenza con gli altri, quasi ci sentiamo sole e, soprattutto, fa un po’ strano affrontare la città senza lo schermo ovattato del gruppo. Inizialmente mi sento vagamente destabilizzata, ma basta poco per abituarsi alla nuova condizione: infatti, molto velocemente, si fa strada una gradevole sensazione come di indipendenza ritrovata! Fatto sta che l’inizio della nostra perlustrazione non è molto incoraggiante perché, subito, si avvicinano due tipi il cui approccio è un po’ pesante, ma per fortuna abbastanza presto lasciano perdere. Per il resto, quello che scopriamo è disponibilità (il tipo del tè alla mela), ospitalità (quello che prontamente tira fuori le seggiole per farci esaminare le spilline in tutta tranquillità), gentilezza (il tipo che ci regala i braccialetti con l’occhio di Allah: troppo carino!) e simpatia (fortissimi i due tassisti). Certo, qualcuno rimane sulle sue ma ci mancherebbe altro, non pretendo certo tappeti rossi e amabilità disneyana: sarebbe fin noioso! Soddisfatte dallo shopping, finalmente cariche di pacchetti e sportine torniamo in albergo per pranzo, preparandoci poi per il mare. Constatiamo che come sempre Sed, questa volta in versione angelo custode, è stato preciso e di parola. Infatti, dopo il cambio del nostro volo, ci aveva assicurato che si sarebbe occupato di farci avere l’appoggio dell’albergo fino a quando sarebbe stato necessario, e così è stato! Non solo, ma al minimo disguido è bastato pronunciare il suo nome che tutto si è miracolosamente risolto. Non ho parole, fra un po’ si scoprirà pure che ‘sto ragazzo possiede proprietà taumaturgiche!
Tranquillizzate dal fatto che potremo contare sul punto di riferimento dell’albergo per l’intera giornata, ci apprestiamo finalmente a raggiungere il mare. Fermiamo un bel taxi giallo (anzi, taksi) per Konyaalt e facciamo quattro chiacchiere con l’autista, che parla un po’ di inglese. Ci racconta che ha tre figli, che sta leggendo un libro su Atatürk prestatogli dal figlio, universitario, e che non vuole pagamento in monete di euro, ma solo in banconote. La Sandra affronta il battesimo del traffico turco con un po’ di ansia, e questo non porta molta fortuna perché ci vengono a sbattere nella fiancata sinistra. Tuttavia l’incidente strappa al nostro sportivo tassista solamente un paio di sospiri, uno scotimento pronunciato del capo ed un eloquente “Allah, Allah!”, ma poi riparte più sereno che mai, fino a lasciarci davanti ad una bella spiaggetta sassosa. Dunque io e la mia “compare” ci sollazziamo beate al sole di questa calda giornata anche se, guardandoci dall’esterno, ci sembriamo due povere pellegrine perché siamo qui, convintissime, ma ad una rapida occhiata risultiamo evidentemente le uniche straniere in questa piccola spiaggia abbastanza affollata, anche perché oggi è festa in Turchia (festa della vittoria: le case e i palazzi sono drappeggiate da bandiere e ritratti di Atatürk!) e ci sono parecchie famigliole locali con tantissimi bambini. Mi assale un po’ la sindrome degli occhi puntati (aiuto, mi sembra che mi guardino tutti!), però vedo che in realtà sono io l’unica a farsi dei problemi, perché dopo cinque minuti ciascuno continua a farsi decisamente i fatti propri e a non filarci per niente. Tuttavia mi conforta il fatto che ci sono anche molte donne, tra cui parecchie sono vestite ma diverse indossano costumi (però non ho visto bikini, tranne i nostri!). Per finire il quadretto, c’è da dire che ci facciamo proprio ridere perché, anche se avevamo con noi i costumi, non ci siamo portate da casa teli da spiaggia, così utilizziamo con nonchalance due fantastici asciugamani da bagno: uno bianco e l’altro azzurrino con i fiorellini.che tristezza! Va bè, sono dettagli; infatti ben presto ci rilassiamo e ci godiamo le prime tre ore di vero relax di questa faticosa settimana! E’ davvero una meraviglia: la brezza di mare è piacevolissima dopo il caldo e la grande afa di Antalya, e il mare è proprio blu.non verde come da noi, ovviamente, e non azzurro come ai Caraibi, ma proprio blu dipinto di blu! Ed è increspato di bianco visto il vento di oggi, che ci regala lo spettacolo dei cavalloni nei quali, circondate da schiere di bimbetti strillanti di gioia divertita, ci tuffiamo anche io e soprattutto la Sandra, che in acqua si sente proprio nel suo elemento. Che bello!
Il ritorno incombe troppo presto, ma inevitabile, e comprende una deviazione alle poste centrali per spedire le cartoline (ma dove sono le buche per le lettere in questa città?!) su un taxi guidato da un certo Mustafa, il quale ha una gran voglia di chiacchiere e, in effetti, pur parlando solo turco, non tace un attimo. Sembra voglia comunicarci qualcosa sulla televisione
italiana: parla a raffica poi ci guarda interrogativamente, al che noi possiamo solo rispondere nel modo più convincente possibile con una serie di efficaci yes, very good e O.K.! Nonostante il dialogo poco edificante (però mi piace il turco: una specie di miscuglio fra russo e tedesco), Mustafa alla fine accetta anche il pagamento con monete di euro, alzando le spalle con un energico tamam! (d’accordo!). O.K., in questa giornata spezzettata in tante tappe anche questa è fatta. Ceniamo in una tristissima sala da pranzo vuota, con una sensazione tipo “la musica è finita, gli amici se ne vanno.” a base dello stesso menù sia del pranzo che della cena precedenti. O meglio, per essere più precisi, non con lo stesso menù bensì con le stesse pietanze.ma va bene così: è tutto molto adeguato allo stato d’animo corrente. Anzi, per esorcizzare la tristezza ci facciamo pure una bella foto nella sala deserta, con il cameriere che ci accende gentilmente tutte le luci per farla venire meglio! A questo punto rimane spazio solo per un’ultima paranoia: speriamo che quelli dell’agenzia non si dimentichino di noi, e che ci vengano a prendere, e che il volo sia in orario.e così è! Incontriamo nuovamente anche Francesca e Alberto, i due ragazzi di Macerata che erano in un altro albergo e sono gli unici del gruppo a rientrare con il nostro volo. E per fortuna! Perché sono stati a dir poco gentilissimi offrendosi di accompagnarci in auto fino al casello di Cesena.
Sono quindi le tre e mezzo del mattino quando ci congediamo da loro con il debito per lo meno di un caffè, e con questo ennesimo saluto mettiamo definitivamente la parola fine ad un viaggio dai molteplici commiati. E dalle molteplici impressioni. Naturalmente le impressioni a caldo hanno bisogno di essere metabolizzate; e chi può dire se, ciò che sembra sia rimasto, penetrerà in fondo con il tempo o scivolerà via? Comunque, al di là di una più profonda consapevolezza, quello che sicuramente resteranno sono le immagini. Per me Istanbul rimarrà la visione azzurrina delle cupole e dei minareti che sembrano venirti incontro dal mar di Marmara. L’Anatolia è una distesa vastissima di campi gialli di spighe tagliate, e bruni di terra già arata, e di puntini verdi di alberi da frutto incastonati fra corone di monti. Per il resto, se non sapevo bene cosa aspettarmi dalla Turchia prima di partire (avrei trovato un paese più occidentale o più orientale, rigidamente chiuso nelle proprie tradizioni o aperto, arretrato o moderno, democratico o militarizzato?), devo dire che ancora non sono riuscita a farmi un’idea precisa, perché i miei sette giorni sono stati troppo frenetici e, in un certo senso, superficiali. Tuttavia, quello che di sicuro ho visto è la convivenza fra tutti gli opposti. Non so quanto questa sia penosa o difficile ma, certo, esiste. E si innesta in un contesto che spicca per la sua dinamicità, nel quale si nota che molto è già stato fatto ma che molto ancora rimane da fare. Non mi aspettavo di vedere tanti veli e tanti impermeabili completamente abbottonati, ma è ciò che ho visto. Non mi aspettavo tanta gentilezza e così poca diffidenza, per quello di cui ho potuto accorgermi nel nostro contesto “protetto”. Non mi aspettavo ragazzi spesso carini e occhi così frequentemente chiari. Non pensavo che questa terra vissuta con curiosità, ma anche con un po’ di diffidenza, mi provocasse un’impressione sorprendentemente intensa, che però non basta a sciogliere le contraddizioni e le ambiguità di un paese grande e complesso come la Turchia. Non mi aspettavo di intravedere in questo paese una noce, dalla scorza dura ma dal cuore tenero; anche se non so dire se nasconda nel suo nucleo più profondo un seme ancora più duro: del resto, sarebbe presuntuoso e superficiale pensare di scoprirlo in questo modo e in sette giorni. Non credevo, infine, che questo paese sfuggente mi riservasse un ricordo così inaspettatamente dolce, ma non come lo zucchero, bensì come spezie dal sapore penetrante e per me indecifrabile.
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