di Fausto Toccaceli –
Foto di Marcella Catignani
Lamu – Kenya
L’oceano che sbatte su Lamu, all’ est che guarda l’India, rugge e schiuma; dentro il canale, rivolto a Manda, attraversato da sambuchi* silenti, accarezza la pelle e stende i nervi…Figure di uomini, muli e gatti…Variopinti fiori di buganvillee risvegliano l’anima; baobab d’acciaio, ricchi di solitudine, abbracciano nuvole sparute e un sole indolente.
Coralli, pesci liberi e pescatori ancor più liberi: un tutt’uno che si confonde con le lontananze.
Passeggiare tra i vicoli di Lamu è come fare un passo indietro nel tempo. ‘Jambo!’, grida qualcuno che si vuol far notare. Anche un guaritore, oltre a improvvisate guida turistiche, occupa con fogli di giornale stesi a terra la piazzetta stretta tra la porta principale – racchiude il mare dentro una cornice – e il palazzo del Governo: vende pozioni magiche, miscugli vegetali. Di lato la piazza voci inconfondibili annunciano il grande mercato coperto: ‘colori’,frutta e verdura. Nel vicolo di presso un venditore di batik espone le sue opere. Compriamo un ritratto del “Che”; lui, trasognante, giura che quello è un pezzo unico… – Non è vero; tant’è che due ore dopo, ripassando di lì, rivediamo la stessa effigie con il medesimo cappello nero. Di là a poco, dietro una persiana, – nessuna finestra a Lamu, e tantomeno vetri – la voce di Marianne Faithfull (icona pop, conosciuta in questa isola frequentata dagli hippie negli anni 70) sgranata da un puntina oramai consunta, intona ‘How many worlds’: scende lieve la nenia, come l’ombra delle palme da cocco.
La melma, nelle fogne scoperte, scorre lenta; trasporta schiuma di sapone di cenere e di marsiglia fino a scomparire sotto un lungo muro di pietra. Nella via principale, polverosa, – l’unica sopra cui possa transitare un’ambulanza che periodicamente corre verso l’ospedale costruito alla fine del paese – sorgono le costruzioni “storiche”, le più attraenti: due vecchie moschee, la chiesa cattolica, il museo, ristoranti – costosi ma non di lusso – e un vecchio cinema stile parrocchiale e, tra tutte, spicca la facciata della Western Union: una vecchia palazzina coloniale, dipinta di bianco, con in fronte un porticato retto da quattro imponenti colonne, ora adattata a banca. Un uomo e una donna, in divisa militare, seduti negli angoli del palazzo nei pressi di due bombarde ottocentesche, abbracciano un fucile e controllano l’ingresso dei clienti; – la scena riporta all’ovest americano nella metà dell’ 800 – sembrano in attesa di Jesse Woodson James e la sua banda. All’interno del villaggio i vicoli si fanno sempre più stretti; donne ricoperte dal niqab, attraversandoli nella direzione a noi opposta, per paura di essere fotografate, portano le mani al viso – come se ci fosse ancora qualcosa da nascondere. Una barbieria vuota, – la si riconosce per la seggiola in legno formato trespolo, lo specchio e per le donnine vestite succintamente appese al muro – all’interno neanche il barbiere, solo un vago profumo di acqua di colonia inglese, magari portata da qualche pirata preda di un bottino antico.
Quando partiamo per visitare le rovine di Takwa (città Swahili sull’isola di Manda, edificata nel 1664) la marea sta crescendo, ma non è ancora al culmine. Una foresta a pelo d’acqua limita il mare: sono mangrovie. L’albero tropicale mostra – nella bassa marea – le sue radici contorte, inarcate, che plasmano un intrico imperforabile. Usciti dal canale principale – che divide Lamu da Manda – ci immergiamo tra un verde compatto che racchiude un naviglio; si stringe, si stringe fino a che le mangrovie riescono a toccarci. L’acqua appare stagna; solo le foglie in movimento, nel nostro senso di marcia, testimoniano l’arrivo della marea; l’acqua si annerisce e il fondo si avvicina; si avvicina a tal punto che il badan* si insabbia. Hakuna matata!! (nessun problema), borbotta il “capitano”. Il motore – utilizzato solo in casi eccezionali, come questo – rugge ma lo scafo non si muove…Ora, anche alghe verdi e bastoni fradici, strappate dalle eliche, fanno compagnia alle foglie che ci superano e si disperdono. In fondo, distante un centinaio di metri, si scorge la rada di approdo: bene, si va a piedi; l’acqua non arriva al ginocchio.
Le rovine di Takwa appaiono poco dopo. Una radura sovrastata da rade acacie abissine ci porta all’ingresso della città abbandonata. All’interno colossali baobab fanno la guardia alle rovine inclinate. Il ragazzo addetto ci accompagna tra stipiti e colonne fino al rudere più grande, più rappresentativo: la moschea – o ciò che ne rimane. Ancora silenzio, rotto dal cantare di qualche chiurlo qua e là. Fa caldo; l’acqua potabile è ormai tiepida; la stanchezza si fa sentire. L’ incaricato ci porta sopra un poggio ad ammirare l’oceano disteso: emette ruggiti, spuma di bianco. Due pescatori, di ritorno, ci offrono polipi vispi e cicale nere come la pece…Peccato, che non si possano mangiar crudi.
Tra il mare …L’odore del frangipani è forte e nasconde il sudore della pelle umana. Brezza, quasi assente, solo un alito per stemperare l’aria. Il sole va giù dentro l’oceano e la marea cresce…cresce, cresce, fino a farti pensare che non sarà più possibile muoversi da lì, – e sono appena trascorsi due giorni – che il tuo sogno è vero e… che la gente sorride perché capisce tutto di te, guardandoti negli occhi: “ Welcome mzungu” (benvenuto straniero bianco). Ti sdrai sopra pensieri di infante, scevri da asti e commiserazioni…Galoppi, galoppi, sopra uno sconfinato oceano che ha conosciuto tutto,,,visto tutto,,,sopra un’acqua silente anche se spumosa,,,nelle pozze che la bassa marea ha lasciato qua e là, indicate da pietre scure, spugnose. Sulla spiaggia spopolata e liscia come il marmo – nessuna impronta di essere vivente – la sabbia affonda almeno di un palmo sotto i passi necessariamente lievi… sembra neve fresca. Le vele dei dhow* si gonfiano insieme al primo alito, poi si sgonfiano col ritorno della bonaccia…E tu, stai lì, continui a non muoverti e pensi che rimarrai su quell’isola ancora per tanto tempo…un tempo indefinito. (Inossidabili sessantenni, venuti chissà da dove, trascorrono; hanno barbe lunghe sopra tuniche bianche, strusciano i muli di passo nei vicoli stretti…Non hanno più trovato la strada del ritorno o forse, non l’hanno più cercata…Echeggia Don Chisciotte nel sentire uno di loro dire : “Qui, io so chi sono”).
Il silenzio è onorato nella sua serenità. La sera cala e la luna sale riflettendosi sull’acqua rotta da leggere increspature che si formano al passaggio di sambuchi in ritardo..Ed io e Sandro stiamo lì, in silenzio, ad aspettare i tartari (oggi al – Shabaab), come il tenente Drogo e il maggiore Matis, appoggiati ai merli della fortezza Bastiani, affascinati dalla fortezza, estraniati dal vecchio mondo occidentale. /…E’ che è scesa la notte e i barbari non arrivano…E ora che sarà di noi senza barbari?…/. Anche Kavafis se ne va, rimangono solo i sambuchi che fendono il riverbero della luna e oscurano il mare…
Nella notte poi, quando anche il velo è calato: ‘Allah,,,Allah’; è solo un muezzin che non è riuscito a prender sonno…Ragli di asino in amore e un abbaiar di cani in lontananza ci rimanda già al mattino conseguente. Tu chiudi gli occhi e speri che l’indomani, all’alba, tutto ricompaia…dietro il cigolio del portone del palazzo di re Shazenan, per l’uscita della bella Scheherazade… sopra un canto antico… insieme alla corsa di bambini scalzi…
Se qualcuno vuol visitare Lamu, lo faccia pure …ma senza far rumore.
*sambuco, badan, dhow = barche a vela di diverse dimensioni
…Ancora su lamu – Kenya
I muri sono bianchi a Lamu…per almeno tre piani: riflettono il sole…altrimenti, sarebbe fuor di misura.
A lamu, quando i muli si fermano e abbassano gli occhi… è il tempo del riposo.
L’ultimo raglio del giorno arriva puntuale, come il destino.
Luci fioche e odorose balbettano, rischiarano gli androni e le giacche dei fornai.
Le canne dei solai sono ben secche; scricchiolano nella notte; sembra rumore di ossa infrante.
I cuscini sono comodi a lamu, soffici…e le pulci si trovano bene.
Il mare increspa: è un miraggio. Lo guardo con piu’; attenzione: è immobile, finto – un timballo?.
Si canta allora, si guarda il cielo illuminato, mai scuro.
Il ragazzo mi racconta che il padre fuma marijuana dall’età di dieci anni.
Ha avuto otto figli, sostiene, ma non ha mai smesso di fumare.
Una donna passa senza rumore; è vestita del niqab…
(“O profeta, dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate. Allah è perdonatore, misericordioso” – Sura 33:59)
Avrà la perla di Nazar?. Ha gli occhi che respirano…Batte un khamsae se ne va.
Recita favole il muezzin; favole sapienti…intriganti.
La palma sovrasta l’isola: è lunga è curva…sembra un eterno inchino.
L’albero del pane agita le fronde all’arrivo di un alito robusto.
Il capitano afferma che i “mzungu” non vengono piu’ perche’ hanno paura dei pirati.
Il pesce palla respira e si disseta. Il reef corallino è la sua casa…Nessun timore dei pirati.
Un bambino indossa un lungo vestito bianco – a tratti – e già prega il suo dio;
troverà la pace un giorno…ne sono sicuro.
Il pesce, pescato con la fiocina, era buono oggi; l’aragosta ancora viva; io l’ho vista mentre stringeva le chele e tintinnava i pinnacoli. La legge della natura recita che il piu’ debole soccombe sempre…Io, dico che non lo so.
I muri sono solidi a lamu e le buganvillee risplendono sempre.
Le barche…sono scarpe…I sambuchi veleggiano all’infinito, anche nella rada…
Sono padroni dell’aria – di chi la alita -, dell’acqua e del silenzio.
Affaticati ambulanti, dopo una giornata di lavoro, chiudono le imposte…socchiudono gli occhi.
I gatti sono immobili a lamu…Tutto è immobile nella mobilità piu’ assoluta e assolata.
…L’assolo di un pescivendolo mi porta a dire: “Nessun problema se il sole domani perderà e se ne andrà – sarà così!?”.
Il pipistrello, sazio del pasto, gira ancora in tondo…E’ un’ombra, nulla piu’
Non ho mai sentito parlare con voce alta a lamu e, neanche visto mai nessuno correre…Mi chiedo il perche’, mentre un vecchio, con la barba tinta dall’henna, soffia dentro un flauto di bambu’.
Il ragazzo dice che la frutta e la verdura arrivano via mare dal continente. Io penso che a lamu gli indigeni, non hanno tempo…Sempre assorti a guardare il mare e a cuocere granturco (importato dal continente).
I bambini sorridono, sostengono che a scuola vanno volentieri. Anche alla scuola coranica, dove insegnano a comprendere le parole di Allah… e a capire come si usa l’ascia bipenne…stanno bene.
Gli anziani portano tutti il bastone…insieme alla loro dignità.
Si è vivi a lamu…piu’ di quanto si possa penetrare l’ espressione “vivere”.
Buon viaggio a lamu.
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