Scesa da poco da un Jumbo Jet, all’aeroporto di Dong Muang, mi ritrovo seduta accanto ad un ragazzo appena ventenne, l’autista della limousine. Mi sta accompagnando a Pattaya. Lì cercherò i miei ricordi, per ricucirli insieme e, provare ad accettarmi quale mi ritrovo adesso.Una persona interiormente diversa e cresciuta troppo in fretta.
“Vedi, lungo questa strada, c’era una recinzione, lunga e forte, che cercava di trattenere le tigri al suo interno” dico. “Non ci sono mai state tigri da queste parti, madame!”
Guardo il viso del mio vicino nascosto dietro a dei Ray Ban troppo scuri.
“Oh si che c’erano! E una volta hanno anche azzannato un bambino che era riuscito a sconfinare nel loro territorio!” Silenzio. Allora cambio argomento: “Ho visto costruire questa strada sai. La stavano tagliando nella giungla, lunga e dritta come una ferita. Qui degli uomini e delle donne lavoravano dall’alba al tramonto. Delle ceste di ratan venivano riempite di sassi, caricate sulle spalle, e depositate su dei camion. I lavoratori calzavano solo delle semplici “Bata” e spesso i loro piedi venivano morsi dai cobra disturbati.Tutto questo per permettere agli americani, sempre più numerosi, di raggiungere velocemente una delle loro basi militari che si trovava vicino a Pattaya. Da li sarebbero partiti per andare a combattere nel Vietnam. Si chiamava “Utapao”! Partivano ogni mattina, i famigerati B.52, per ritornare alla sera. I piloti allora, cercavano la compagnia delle dolci ragazze thai e le portavano nell’unico albergo che c’era, il N
Gli chiedo di fermarsi, lungo la strada, dove è apparsa una piantagione d’ananas, e nonostante la stanchezza, le tante ore di viaggio accumulate, scendo dall’auto, per lasciarmi andare a perdere tempo, a respirare in un clima tanto gradevole per me. Cammino tra i raccoglitori sorridendo, congiungendo le mani così, com’è usanza qui.
“Sawasdee”, “Buongiorno”e loro contenti giù a tagliarmi un frutto fresco dietro l’altro, ridendo dei vestiti pesanti, toccando i miei capelli biondi.. Ebbene si! Si!… li ho ritrovati.Questa è la mia gente…sto tornando a casa!”
Prem depone i bagagli all’ingresso di un albergo, relativamente nuovo e a me sconosciuto di Pattaya Sud, che con gran sorpresa, adesso si fa chiamare “Pattaya City”.
“Come City”? Dov’è il villaggio dei pescatori? Dove sono i sampan con le reti?” Dov’è il tempietto che sorgeva in quest’estremità della baia?”
Prem alza un braccio e indica con il dito un luogo sacro riccamente ornato d’oro e specchietti, che erge su una collina, al posto delle decine d’alberi di teck.Mi guarda e vedendomi confusa sorride, risale in macchina e avvia il motore pronto a ripartire per la capitale. “Buona vacanza madame, verrò a riprenderti per ricondurti a Bangkok quando vorrai” e mi lascia sola con tutte le mie perplessità.
E va bene! Eccomi qui! Seguo un boy fino alla stanza dove mi aspetta un cesto di frutta esotica, un biglietto di benvenuto scritto in quattro lingue ed un invito per un cocktail nella terrazza che s’affaccia sul mare.
L’albergo è splendido, come tutti gli alberghi nel paese, sempre in competizione tra loro in quanto a sfoggio d’eleganza e offerte di servizio. Cerco di liberarmi in fretta dall’ultima sensazione di stress europea, immergendomi nella percezione magica, di trovarmi in compagnia di persone che non possono essere materialmente qui con me. Le sento ridere, scherzare tra loro e con me, battibeccarsi l’un l’altro e trasmettermi una grande gioia di vivere.
Sono felice? Si, per qualche attimo, sono felice. Rido con loro all’unisono e mi lascio andare su di un letto troppo grande per me sola, di traverso, con indosso ancora parte dell’abbigliamento invernale, infilato in un altro continente tante, troppe, ore prima…
Ripenso al nome: “Pattaya City” e mi viene da ridere! L’hotel si trova all’estremità sud della baia, proprio alla fine del “Village”, com’era chiamato il quartiere composto da locali notturni, tutti rigorosamente all’aperto dove si poteva vedere passando, come a teatro, tutto ciò che accadeva. C’erano gli americani allora grandi e grossi, con ragazze thai sulle ginocchia. Piccole donne, quasi bambine dai lunghi capelli lisci e neri. Giovani allegre e vocianti che vendevano sesso con la mente rivolta a Budda. Accettavano dollari con il pensiero rivolto verso le famiglie lasciate a casa, nei paesi di un Nord povero e rurale. Che contrasto! Ragazze dal seno piatto e dalla carnagione di pesca con degli uomini grossi e pelosi, supervitaminizzati, capelli tagliati a spazzola, esseri senza cervello né pensiero, con due soli elementi del corpo attivi, la bocca per ubriacarsi e il resto per scacciare la paura.
Una paura incalzante che li avrebbe poi piegati senza misericordia sotto la forza d’altri piccoli uomini gialli, tutti con lo stesso nome “Charlie”.
Era solo una strada in fondo, a formare un unico bordello, un corto tratto che congiungeva una punta della baia alla giungla. Io la chiamavo “la strada perduta” perché lì, tutti stavano perdendo qualche cosa d’importante, avvolti nell’euforia che offre un paese confinante con la guerra.Le ragazze stavano dando l’addio alle tradizioni, alle persone amate, l’addio alla capanna coperta di foglie di banano, al bufalo sottomesso al giogo, alle risaie e alle rincorse felici lungo i klong. Gli americani avevano salutato una patria distante, un college lontano, i canti domenicali in una piccola chiesa anglicana. “Addio” al baseball rimasto laggiù. “Addio” al promesso sposo venuto quaggiù….
“Perché lo fai Chanit?” domandavo alla ragazza distesa su una sdraio in riva al mare.
“Così posso aiutare la mia famiglia, mandare dei soldi a casa, far studiare il mio fratellino, comprare un altro bufalo…” e sorrideva senza smettere di guardare il suo uomo che sguazzava poco lontano dalla riva come un bambinone. Ecco ciò che sconcertava in quelle giovani, la loro completa disponibilità di sentimenti. Si affezionavano persino ai loro sfruttatori e soffrivano quando questi sarebbero poi partiti. Talvolta rimanevano in attesa di bebè, meticci che sarebbero diventati bellissimi. Avete mai visto un bambino biondo, occhi verdi dal taglio orientale e la pelle ambrata? L’aborto non era mai preso in considerazione e la vita sarebbe continuata per loro prostituendosi, ancora e ancora, aggiungendo bambini ad una famiglia sempre più numerosa da mantenere. E si affezionavano sempre, niente riusciva a distruggere il loro candore!
Mi sveglio congelata da un aria condizionata che gira al massimo. Per me senza il cambio del fuso orario sono le 10 del mattino, qui appena le quattro.
“E adesso che faccio!” mi dico girando per la stanza e spogliandomi finalmente da panni troppo pesanti…Alzo la cornetta e telefono a Roma, a Walter.
“Che tempo fa lassù?” chiede
“E che ne so..è notte fonda e in stanza c’è l’aria condizionata!”
“Beata te! Qui sta quasi nevicando…”
Devo aspettare l’apertura del ristorante per scendere a far colazione. Potrei alzare nuovamente la cornetta ed ordinare ciò che voglio. Il servizio in camera è disponibile 24 ore di seguito qui, ma non vorrei disturbare chi forse si trova disteso in un momento di pausa. So bene che per quattro soldi qui si lavora 12/13 ore di seguito, senza mutua, pensione o riconoscenza.
Indosso quindi sandali e shorts, dopo una lunga doccia ristoratrice e mi reco sulla spiaggia. In Thailandia mi sento tranquilla. Non succede mai niente che tu non voglia che accada. C’è il rispetto qui, per tutti, anche se troppi occidentali lo ignorano. Non c’è da stupirsi quindi se una donna gira da sola, o se due uomini si abbracciano. Fa parte del loro modo di pensare buddista, una filosofia difficile da comprendere e ancor più da accettare. I Thai non dimenticano mai il ciclo delle rinascite, così un bonzo potrebbe essere stato un fratello in una vita passata, una studentessa una madre, e altri legami famigliari potrebbero unire chiunque ad un pescatore, un contadino, una ballerina o un gay. Così tutti convivono tranquilli rispettandosi e non smettendo mai di sorridere.
Questo era il modo di vivere che io ricordavo in un Thai.
Cammino piedi nudi adesso, sentendo il piacere d’una sabbia finissima scivolarmi tra le dita. Rasento l’acqua tiepida e calma del mare che si sta lentamente alzando con la marea. Alzo gli occhi ad un cielo pronto a tingersi di rosso e abbraccio, con lo sguardo, la baia nel suo insieme, nel suo tutto. Le albe e i tramonti sono veri e propri incantesimi della natura, ai tropici, ripetitivi come il susseguirsi dei giorni, eppure sempre diversi. Tutto si svolge molto rapidamente. Ti siedi in riva al mare, hai appena il tempo di fumare una sigaretta e l’incanto è già finito.
Voglio vivere il più possibile la vita locale, mischiarmi con la gente, ritrovare forse qualcuno che ho conosciuto, curiosare tra la vita delle nuove generazioni e il mutare dei tempi, avvenuto in un periodo così breve. Perché se i cambiamenti si susseguono in tutto il mondo, qui le trasformazioni sono addirittura fulminee. Ci vogliono anni per costruire un grande albergo da noi, qui un paio di mesi soltanto.Ci vogliono secoli per costruire un pezzetto di metropolitana a Roma. Qui bastano pochi mesi per sotterrare i “klongs” facendoli diventare autostrade. Purtroppo si distruggono anche foreste trasformandole in spiagge o paesi che in altrettanto pochissimo tempo diventeranno porti o città. Bisogna correre in Thailandia, e correre veloci per assaporare ciò che resta di tradizionale e genuino.
Da noi, in Europa, il Natale è trascorso da poco, mentre qui sta esplodendo la stagione balneare che confonde l’odore degli abbronzanti con quello della frutta tropicale, il profumo intenso dei fiori rigogliosi con quello inebriante degli incensi.
Uscendo dall’albergo, questa mattina, guardo in alto, al nuovo imponente tempio che ha preso il posto dell’altro, umile e fragile e decido di andarlo a visitare. Prendo così una camionetta, una di quelle collettive che si fermano dove vedono una persona in attesa, seguono un percorso flessibile e ti fanno scendere proprio dove vuoi.
Nel tempio, incontro solo qualche bonzo qua e là che si ferma a chiedermi da dove vengo. Per tutti ho una risposta diversa, ora dico di provenire dalla Francia, ora dalla Scozia oppure dall’Italia, tanto so benissimo che sono solo dei nomi per loro. Di noi altri, conoscono solo una fisionomia diversa, un’arroganza a loro sconosciuta, spesso una mancanza di rispetto. Inoltre, temono il valore dei nostri soldi con i quali ci arroghiamo il diritto di comperare tutto.
Poco distante, c’è la spiaggia, parzialmente nuova, di Jomtien. E’ diversa dalla baia che ho appena lasciato. La spiaggia è più larga, l’acqua chiarissima, non ancora battuta da decine d’imbarcazioni.
Mi immergo nelle acque tiepide, prestando attenzione a non calpestare i ricci di mare, facendomi largo tra le miriadi di pescetti che abitano le acque basse. E nella gioia e nell’entusiasmo mi allontano un po’ troppo fino ad abbracciare con lo sguardo questa seconda baia, ancora incontaminata.
Pranzo in costume, ad un tavolo in comune con i Thai, vicino alla spiaggia, avendo cura di indossare shorts e maglietta, per rispetto verso questa gente per cui le nudità sono un’offesa, un affronto verso il loro credo. Il pesce abbonda e anche i pasti più umili sono presentati con fantasia e raffinatezza.
Si ride, si scherza, senza comprenderci; si è sciolti e sereni….
In Thailandia e a Pattaya più che mai, è alla sera che tutto si esalta. Le strade si riempiono di bancarelle, emergono dal nulla mercati, illuminati a giorno a mostrare meravigliosi frutti esotici, che è un peccato consumare, banchi ricoperti di fiori tropicali, e non è raro vedere dei passanti con dei gibboni giocosi sopra la spalla, o degli elefantini passeggiare come cani insieme ai padroni. Allora tutto si trasforma in gioia. Ti fermi ai carrettini per gustare un dolcetto, più in là compri una maglietta, dopo aver sudato sette camice per barattarne il prezzo, altrimenti che divertimento c’è! Io baratto sempre per ore, poi finisco con il pagare il primo prezzo richiesto, tanto mi sono divertita lo stesso….
I ristoranti all’aperto si riempiono di persone allegre e mangione, mentre i turisti del “tutto compreso” si richiudono nei locali con l’aria condizionata.
Venivamo sempre da questa parte della baia a mangiare la sera, quando eravamo residenti, la mia famigliola ed io. E i posti sono sempre gli stessi: tavoli in riva al mare, piedi sulla sabbia, sciacquio in sottofondo e sopra la testa, la luna come il lampadario più prezioso.
Ebbene, in questi momenti mi sento confusa ad essere sola, a mangiare da sola. Per fortuna c’è sempre qualche bambino che si avvicina per vendermi dei fiori e che faccio accomodare vicino a me offrendogli un grande gelato. Mi tiene compagnia e impedisce alla malinconia di raggiungermi. Ci raggiungono invece altri bambini, tutti con qualche cosa da vendere e vedendo il loro amichetto comodamente seduto a riempirsi la pancetta, gli si fanno intorno con cinguettii strani, poi si siedono a loro volta intorno a noi. E ci sarà gelato per tutti e incomincerà la “nostra” festa privata, quella che ogni sera della mia permanenza rallegrerà, ora un ristorante ora l’altro.
E’ quando sono nella stanza d’albergo, che cerco di personalizzare con tutto il disordine possibile, che mi trovo, mio malgrado in difficoltà. Ora gli occhi non si distraggono più da ciò che mi accade intorno durante la giornata. Le orecchie non rimbombano più di mille suoni diversi. L’unico profumo che sento adesso è quello delle saponette e dei bagni schiuma che filtrano dalla porta del bagno lasciata aperta. Allora il silenzio diventa un tuono, uragano dentro, e la pelle è percossa da fremiti così come avviene quando si è preso troppo sole! Ed è triste. Non c’è nessuno con cui condividere una complicità di pensiero. Nessuno da cui ricevere il bacio della buonanotte, quel bacio che ti copre e ti fa sentire finalmente al sicuro.
Il più delle volte cerco di concentrarmi su un libro, per accorgermi poi di essere rimasta troppo a lungo su una stessa pagina. Qualche volta accendo la TV che trasmette in una lingua che non è la mia, e, pur comprendendo mi pare si rivolga a tutti meno che a me. Così apro la finestra del balcone. L’aria fuori è umida e appiccicosa e già si mischia con quella congelata dell’interno formando un pasticcio atmosferico ancor più sgradevole. Infine mi chiudo nella stanza e lascio liberi i pensieri di vagare dove meglio credono, fino al momento in cui, anch’essi stanchi, mi concederanno un’altra notte di sonno agitato…
Oggi ho scelto un posticino a ridosso degli scogli che si gettano in verticale sulla sabbia impalpabile per prendere parte al giorno che si sta alzando. Già un cane randagio mi si è accucciato vicino. Ce ne sono tanti qui e nessuno fa loro del male, e nemmeno se ne curano, così loro si arrangiano come possono, anche elemosinando un pezzo di pane ai turisti solitari come me. In lontananza vedo avvicinarsi una barca di pescatori…ora si ferma. La bassa marea le impedisce di avanzare oltre. Un gruppo di uomini appare sulla spiaggia. Si tirano su i lembi dei calzoni e s’incamminano nell’acqua, verso la barca. Quando la raggiungeranno saranno fradici fino alla cintola. Li vedo raggruppati intorno all’imbarcazione, gesticolano, contrattano, poi si caricano dei fardelli sulle spalle e ritornano verso la riva, uno alla volta. Quando sono abbastanza vicini posso osservare il loro carico. Sono pesci enormi: barracuda, pesci spada e altri a me sconosciuti. Li depositeranno sul retro delle camionette parcheggiate lungo la strada, su carrettini e persino sui manubri delle loro moto, prima di ritornare verso la barca per munirsi di un altro carico. Adesso i pesci riportati sono più piccoli e saranno lasciati sulla spiaggia, dove delle donne, munite di buste ne prenderanno qualcuno, solo il loro fabbisogno, senza togliere ad altre la propria razione. Tutto questo in silenzio, come in processione, come in un rituale. I pesci più grossi saranno venduti ai ristoranti, quelli medi ai venditori di strada quelli piccoli sfameranno i poveri… Alla fine resteranno dei pescetti ormai intrisi di sabbia, e allora sarà il cane a lasciare il mio fianco per avvicinarsi ai rimasugli e mangiarli.
Aveva meno di tre anni il nostro piccolo quando siamo venuti a Bangkok
E, con il passare dei mesi, la guerra nel vicino Vietnam si era intensificata e ci trovammo a condividere piscina, abitudini e talvolta la tavola con i militari americani.
Spesso un giovane in divisa mostrava le sue armi al nostro cucciolo. Allora Walter andava su tutte le furie. A casa nostra non sarebbero mai entrate nemmeno armi giocattolo…mentre lì, i B. 52 passavano proprio sopra le nostre teste al mattino, partendo da Utapao con il loro carico di morte, le bombe, per portarle e farle cadere a solo mezz’ora di volo da noi. Li contavamo mentalmente: “uno..due..dieci!” e alla sera al loro ritorno li ricontavamo e ci sussurravamo:
“…Ne mancano due….ne mancano tre…”
Ci trovavamo a Pattaya, quando il presidente Johnson annunciò l’inizio di trattative di pace. Una pace che non sarebbe mai arrivata, se non con la sconfitta degli Stati Uniti d’America, ben sette anni dopo, quando eravamo tornati in Italia da tempo.
Noi, in Italia, ormai non ci trovavamo più a nostro agio. Si soffriva di nostalgia, prigionieri in una casa dalle mura di mattoni, emarginati da persone egoiste e accapparatrici. E lottavamo con tutti i mezzi per ritornare il più spesso possibile al nostro “niente” che era il nostro “tutto”. Inoltre una guerra ingiusta stava continuando nel Sud Est Asiatico estendendosi anche, seppur in maniera diversa, nella vicina Cambogia.
Noi, volevamo a tutti i costi fare ancora parte del gruppo di volontari che partiva alla sera, con dei fragili sampan, , lasciando le spiagge sicure per costeggiare i confini tra la Thailandia e la Cambogia, alla ricerca di corpi feriti sulla battigia, caricarli e riportarli verso la sicurezza di una Croce Rossa Internazionale.
A Pattaya inoltre avevamo dovuto lasciare i nostri animali, gli amici, il nostro modo di vivere, di girare sicuri e liberi ovunque.
Ci mancava il non poter prendere una barca com’eravamo usi fare, sceglierci un’ isola dove approdare, una di quelle che si vedevano dalla riva, di quelle che vedono i miei occhi adesso. Fermarci sottovento e gettare in mare un filo di nailon con due ami attaccati ad una estremità per pescare, uno dopo l’altro pesci grossi e colorati. E mentre il pescatore che ci accompagnava, ne tagliava solo i filetti per cucinarli sulla stessa barca, su un piccolo braciere, noi si nuotava senza paura. Non importava se sotto i nostri piedi nuotavano anche pescecani o barracuda…
Ci mancava il nostro modo dinnocolato di camminare lungo i campi per raccogliere ananas, trovare mango o noci di cocco dal succo dissetante e sostanzioso, il poter comperare interi caschi di banane, quelle piccole da noi sconosciute, così zuccherine da formare da sole una cena.Ci mancava quel modo magico di stare insieme, l’abbracciarci e stringerci sempre, insomma essere felici. Per questo facevamo i salti mortali per prendere l’aereo almeno ogni due mesi e ritornare per qualche giorno a “casa”.
Fu in uno di questi viaggi che, giungendo da Roma, ci trovammo schiacciati all’aeroporto d Bangkok da una moltitudine di soldati. Stavano ritornando negli Stati Uniti con le divise lustre e i petti gonfi su cui brillavano medaglie e decorazioni, pronte ad essere mostrate con orgoglio in America. Vedendo tutto ciò il nostro “piccolo” divenuto ragazzo ora chiedeva: “Si ricevono medaglie anche per uccidere?..”
“Ahia, mi sono fatta prendere in castagna” penso, e lo sguardo si posa sul libro dalla copertina tutta italiana posato sulle mie ginocchia.Sono talmente dispiaciuta per aver sciupato una giornata così, che non rispondo nemmeno. Anzi mi giro a guardare il mare.
Perché sono sola? Il fatto è che avevo sentito il bisogno di ritornare in Thailandia e viaggiare in solitudine.Volevo visitare il paese in introspezione, rivivere nel posto che avevo così ben conosciuto e vissuto per anni e dove mio figlio era cresciuto.
Ora, davanti a noi, si sta avvicinando sempre più la baia semicircolare di Pattaya. Non c’é più la fitta vegetazione ad accogliere i naviganti, solo ammassi di cemento, alberghi, ritrovi, grattacieli, revolving restaurants, case per massaggi, Mc. Donalds, pizzerie “Hunt”. Anche i mercati si sarebbero aperti da li a poco, lungo il viale che costeggia la spiaggia, dove si mercanteggia di tutto, al suono tintinnante delle piccole voci asiatiche, che imitano così bene il nostro modo di vendere. Quel tipico guardare di traverso il probabile acquirente e poi esclamare: “Ci rimettooo!”
Questa non è più la mia Thailandia. Non la riconosco, eppure so bene che per ritrovarla dovrei solo spostarmi un poco più in là, così come stanno facendo gli elefanti, quando si ritrovano in una boscaglia povera e ormai priva di vegetazione. Indietreggiano nella giungla rimasta intatta, almeno per un poco!
Devo andare verso Sud, o più a largo sull’oceano, oppure verso il Nord, all’interno delle foreste tropicali! Ma intanto sono qui a Pattaya, ad assaporare l’amaro di una disfatta della natura, delle tradizioni, di una gentilezza repressa in un popolo che noi occidentali abbiamo trasformato così.
E’ quasi mezzogiorno ormai, il sole picchia a mille sul lungomare.Tutti i turisti si sono già imbarcati per le stesse mete e qui sono rimasti solo pochi motoscafi a solcare le onde, portando avanti e indietro degli sciatori d’acqua improvvisati che cadono in continuazione… Mi ricordo di un pomeriggio in cui due motoscafi solcavano lo stesso tratto di mare quasi affiancati. Uno trainava una fune dritta in verticale su cui era appeso un uomo ciondolante da un parasailing in alto nel cielo, l’altro trainava un’altra fune tesa in verticale al limite della quale si teneva aggrappato un bambino sul suo mono sci, il nostro bambino. All’improvviso l’uomo alla guida del primo motoscafo si mise a zigzagare pericolosamente sulla superficie dell’acqua guardando solo in alto per cercare di tenere su il suo cliente, e si dirigeva velocemente proprio sulla traiettoria della nostra imbarcazione:
“Buttati Roby…Lasciati andare…” gridavamo gesticolando Walter ed io in direzione del piccolo cercando di superare il frastuono dei motori …Furono attimi di terrore, ma nostro figlio comprese, lasciò la presa e mentre la sua fune correva ormai libera sull’acqua il bolide gli passò solo vicino a tutta velocità…Roby era salvo, si era buttato evitando l’incidente per un paio di metri soltanto! E mentre lo andavamo a recuperare il nostro cuore continuava a battere all’impazzata. Più tardi, sulla spiaggia, l’incauto conducente si scusò, con le mani giunte. Un paio di giorni dopo un altro suo cliente fu fatto atterrare male con il parasailing su cui era appeso ed invece di planare sulla spiaggia si trovò ad abbracciare una palma. Fu il suo addio alla Thailandia e alla vita!
Continuo nella passeggiata, coperta dal solo costume da bagno e i soliti sandali, la consueta borsa a tracolla contenente pantaloncini, maglietta asciugamano e appesantita da almeno un paio di libri. Mi fanno ridere i turisti che incrocio sul mio cammino, pare che si portino dietro una casa, ingombri come sono di cineprese, macchine fotografiche e copricostume che non indosseranno mai. “Non fotografare! Guarda invece! Quello che incamerano i tuoi occhi è prezioso, non quello che rimane stampato sulla carta” mi diceva sempre Walter. Così ho smesso di fare “clic”.
Un bimbo sui cinque anni corre felice tra una palma e l’altra della “passeggiata”. Si nasconde, poi riappare giocando a nascondino. Un omaccione gli si avvicina. Un olandese forse, si inginocchia alla sua altezza e lo accarezza. “Sarà….” Ma anche a me viene spontaneo di precipitarmi verso di lui, prenderlo in braccio e cercare la sua mamma che ci osserva a poca distanza. Glielo riporto e mi metto a chiacchierare un poco con lei mentre l’omaccione si allontana senza voltarsi…
Alle nove di un altro mattino attraverso la “Via del male”. Mi guardo attorno curiosa. Molti sono gli alti seggioloni rovesciati sui banconi, ove la sera prima erano seduti grassi tedeschi o scandinavi con in braccio le solite esili thailandesi, le figlie forse di quelle che avevo incontrato anni prima, o altre piccole contadine arrivate come le precedenti.
Sono cambiati i clienti, non più americani pieni di dollari, molti dei quali passati per caso, per spassarsela un poco, prima di morire nel Sud Est Asiatico. Questi “nuovi clienti” sono senza scrupoli, di una volgarità ancestrale e di una cattiveria innata.
Vista così, al mattino, mi pare una stradina d’educande, immersa in un sole pieno e accecante. Le bottiglie di birra vuote hanno sostituito i bicchieri colmi di wiskey e sono le stesse ragazze che si offrivano la sera prima probabilmente, quelle intente a ripulire ora,ciò che una baraonda selvaggia ha lasciato la notte precedente. Se le guardi, vedi che hanno gli occhi gonfi, qualche segno di violenza sul viso ed un’espressione di rivalsa per un candore rubato o mai conosciuto! Fa già caldo. Ovunque le piante crescono rigogliose qui, e i locali sono sempre molto attenti nella manutenzione e pulizia delle strade.
Arrivavamo fino ad un vecchio albero, nel nostro passeggiare con nostro figlio alla sera. Era il limite oltre il quale non andavamo, evitando di fargli conoscere così, un lato della vita troppo spinto per un ragazzino. Ma una sera ci fu un black out. Tutte le luci si spensero. Si fermarono tutte le attività e furono proprio le “signorine della notte” nella loro allegria a divertirsi, a sparpagliarsi oltre il percorso a loro permesso, spogliandosi completamente e correndo per tutta la strada, al lume della luna, superando il vecchio albero e correndo nella la nostra direzione. Le loro voci risuonavano come campanelli a festa. Scherzavano, abbracciavano il ragazzino, lo riempivano di baci, con gioia, prima di ritornare, con la luce dai loro “uomini” compagni d’una notte. Tutto era stato così gioioso e naturale! Uno scherzo, un gioco, una voglia di vivere che i thailandesi non hanno mai abbandonato!
I Tramonti sono unici, e mi piacciono immensamente. E’ l’ora in cui la spiaggia si ripopola della sua gente. I ragazzi, terminata la scuola vi si radunano per giocare al Tacrò. Calciano con i piedi nudi una durissima palla formata da strisce di ratan. Le donne, fasciate nei loro sarong multicolori vi vengono a passeggiare con i bambini. Gli uomini, ormai liberi dal lavoro, vi si radunano a chiacchierare.
Quando ho qualcosa da assorbire dentro mi metto in cammino! E oggi lo smaltimento è pesante, visto che ho deciso di arrivare all’altra punta della baia, fino a raggiungere “casa mia”. Laggiù, solo quattro chilometri di spiaggia più in là, c’è Pattaya Nord!
Laggiù c’era la nostra casa – albergo, il nostro parco, le nostre bestie, e tutto ciò che era la nostra vita! Laggiù, forse c’è ancora il mio letto sfatto, il disordine, i libri abbandonati ovunque, il profumo dell’incenso, le bucce delle piccolissime banane nel cestino, l’accappatoio dimenticato in piscina, i nostri corpi addormentati…Laggiu’!
Il lungomare è sempre bello e largo. La passeggiata, all’ombra di alte palme,divide la spiaggia dalla strada. Gli alberghi sono numerosi e molti espongono cartelli con offerte speciali. Sono alberghi dalle forme strutturali più svariate, da quello con l’entrata a pagoda, all'”O-One” che ha forma di nave, con tanto di prua rivolta verso la spiaggia. Bastano pochi passi per raggiungere la sabbia, gettarvi sopra il borsone e immergermi tra le onde. E lo faccio, lo faccio spesso lungo questo percorso. Voglio che duri a lungo, forse per ritardare il mio arrivo all’altra punta, forse per assaporare ad ogni passo o a ogni bracciata , un flash, un’immagine, un ricordo di questo posto tanto amato.
Facevamo parte di un gruppetto di giovani che rideva a crepapelle correndo sull’arenile infuocato all’inseguimento di una venditrice. Lei aveva fretta di tornare a casa e camminava veloce sull’arenile a piedi nudi. trasportava due ceste piene di frutta, appese ad una lunga stecca flessibile, che teneva appoggiata su una spalla. A turno, rubavamo ora una banana, ora un ananas o un mango e poi le correvamo davanti, mostrandole dispettosi. Lei ci chiedeva di pagare. Allora rimettevamo i frutti nei cesti rendendone pieno uno e svuotando l’altro. Così le ceste non si mantenevano più in equilibrio sull’asta. E la donna era costretta a fermarsi per rimettere le ceste in bilancia. Rideva, parlando un thai dialettale. Le “erre” diventano “elle”. Finché una piccola folla prese parte al gioco. Gente locale, sempre pronta a partecipare quando c’era allegria.
Ed eccomi giunta all’estrema punta Nord della Baia! Sopra gli scogli dove era nascosto un semplice “tempietto degli spiriti” adesso troneggia il secondo albergo più grande della baia, il Dusit Resort. Cerco il “nostro” e lo trovo con un po’ di difficoltà. Il vecchio e una volta solitario “Nipa Lodge” ha cambiato nome.
La ricercatezza dei particolari manca, come manca la delicatezza d’espressione e d’educazione tra i suoi ospiti. E’ tutto un chiamarsi a gran voce da una parte all’altra, un urlare storie personali e critiche offensive.
Una sera di Capodanno, dopo una cenetta intima al lume di candela, lasciamo che il nostro piccolo continuasse per suo conto la festa ai bordi della piscina. I camerieri lo coccolavano, offrendogli gelati e dolcetti.Le luci diffuse dai torcieri ai bordi della piscina, ne illuminavano il fondo dove si riflettevano le stelle. Le tavole erano imbandite e un’orchestra suonava motivi light. Gli ospiti si erano vestiti da sera con abiti che risaltano così bene le abbronzature. D’un tratto il nostro ragazzo, dieci anni allora, si diresse verso una signora seduta ad un tavolo, le prese la mano tra le sue e baciandola la invitò a ballare …Io sono dietro una siepe, come allora. Lo rivedo danzare come un piccolo Lord, con una bella dama e come allora,mi commuovo.
Ridiscendo le scale che mi porteranno all’uscita per riattraversare la strada e ritrovarmi sulla spiaggia privata. Ci sono sempre le sdraio allineate Un gruppetto di thai offre massaggi, giri in barca, water sky, parasailing e altro ancora. Mi siedo,gambe incrociate sul bagno asciuga in tempo per vedere atterrare un “cannotto” a pochi metri dalla riva.
“E questo che cos’è?”. E ‘proprio un cannotto che trasporta due persone più il conducente, attrezzato sia per volare che per navigare.
Questa poi! Basta ho visto a sufficienza. Sulla strada fermo una camionetta che mi riporterà nuovamente all’altra estremità della baia, vicino al Royal Cliff. Giunta al mio albergo telefono a Prem e lo prego di venirmi a riprendere, poi preparo la valigia in tutta fretta. Ho voglia di ritornare a Bangkok, di fuggire di nuovo. Ho voglia di ricostruirmelo questo paese, ricostruirmelo dentro, ricominciando da capo.
“Sei stata felice qui?” mi chiede Prem guidando veloce e sicuro. Lo guardo e sorrido a modo suo. Lui non può sapere quanto quella frase si allarga nel mio mondo emotivo passato a Pattaya. La strada si consuma velocemente anche se più di un ora ci separa ancora dalla capitale. “Vedi li stanno costruendo un aeroporto nuovo, farà concorrenza a quello di Hong Hong per grandezza e funzionalità” m’informa ad un certo punto.
Più in la per fortuna c’è ancora la piantagione di ananas! E ci sono isole da qualche altra parte e giungle, popoli nomadi, bufali e risaie…
“Ci fermiamo? ” “No grazie” rispondo “Tira dritto”.
E tanto per passare il tempo, o meglio per curiosità, mi chiede come è il paese così lontano dal suo, nel quale normalmente vivo.
“Fa freddo, molto freddo. La gente è coperta di indumenti pesanti in questa stagione, e sulle montagne nevica.”
“Snow? Can you explain what is snow?”
“Se posso spiegarti cosa è la neve? Sono batuffoli che cadono dal cielo al posto della pioggia, dei fiocchi bianchi e leggeri tutti diversi tra loro. Se li guardi con una lente, puoi vedere che sono formati da veri ricami di ghiaccio, ma devi fare in fretta perché poi ogni fiocco di scioglie tra le tue mani”
“Mi stai prendendo in giro?” dice. “No davvero, è così, però la neve può anche ammucchiarsi e restare a lungo sulla terra e…” e questo sforzo nel cercar di spiegare un effetto atmosferico dura un bel po’. Spiegare ad un thai che cosa sia la neve e’ un’impresa davvero ardua. Per fortuna lui si distrae fermando l’auto sul ciglio della strada. Scende e lo vedo parlottare con una venditrice di fiori, poi ritornare porgendomi un enorme mazzo di orchidee dal colori piu’ rari. “For you!” dice semplicemente e si rimette alla guida.
Le orchidee! mi accorgo solo ora di non averne parlato in questo racconto. Comunque e’ tardi, ci stiamo avvicinando a Bangkok.
Prem mi lascia davanti allo “Shangrì La” dove subito i miei bagagli vengono catturati. “Ciao” dico in italiano al mio nuovo amico stringendo i fiori tra le braccia. “Sawasdee” mi risponde “Buona fortuna” poi voltandosi per l’ultima volta nella sua lingua aggiunge:
“Così una volta c’erano le tigri lungo la strada per Pattaya eh?”
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