di Nigel Mansell – Luglio 2019
Penso: sono sardo, o meglio di origine sarda… eh però mica la conosco così bene la Sardegna… e poi: è mai possibile che non sono neanche mai stato a Cagliari?
Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi,
romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi.
Siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono
sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese.
Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo,
lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto.
Siamo il regno ininterrotto del lentisco,
delle onde che ruscellano i graniti antichi,
della rosa canina,
del vento, dell’immensità del mare.
Siamo una terra antica di lunghi silenzi,
di orizzonti ampi e puri, di piante fosche,
di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta.
“Noi siamo sardi.” di Grazia Deledda
Allora l’idea immediatamente successiva è stata quella di girarla tutta, e quale mezzo migliore può essere se non la moto?
Una Vespa per la precisione, per viaggiare veloci: sì ma non troppo. In piena libertà, potendosi guardare intorno senza avere un tetto sulla testa o delle portiere di acciaio che ti costringono, chiuso nella tua scatola di latta, a guardare di traverso dai finestrini. Ti puoi fermare quando e dove vuoi. E’ semplice: metti il cavalletto, appoggi il casco, e magari già con le infradito ai piedi, vestito come ti pare (non devi per forza abbigliarti da motociclista con casco integrale, guanti, stivali, giubbotto, ecc.), puoi andare direttamente in spiaggia o sederti in un bar a sorseggiare una ghiacciata ed invitante Ichnusa, meglio se non filtrata. Magari, perché no, leggendo la pagina sportiva dell’Unione Sarda: quest’estate noi tifosi rossoblù, dopo che se ne è andato il nostro pupillo sardo, speriamo solo che il Cagliari alla fine lo compri quel fuori classe uruguaiano. (Alla fine il Presidente ce l’ha comprato davvero Nandez!)
Vogliamo sbarcare a Porto Torres per poi ripartire da Olbia, facendo il periplo di tutta la costa, giù fino a Cagliari per poi risalire. Il nord possiamo trascurarlo, lo avevamo già visitato cinque anni fa, sempre in Vespa.
Faremo un po’ di tappe. Sì, è vero, è stressante fare e disfare i bagagli, ma è bello cambiare sempre prospettive, orizzonti e la gente intorno; e poi non vediamo altro modo per riuscire a girare in una settimana la Sardegna.
La Vespa è sempre la mia GTS 300 Super Sport. A mio avviso coniuga la bellezza e praticità dello storico scooter, con la modernità di un elastico e potente motore da quasi 300 cc., regolato dal variatore. Sì lo so, non tutti sono d’accordo, ma quello che conta è la libertà di viaggiare, unita alla comodità e praticità, e poi rimane comunque uno scooter diverso dagli altri che si distingue sempre per bellezza e praticità dai plasticoni che si vedono in giro. Diciamo che lo spirito con cui nacque la storica Vespa è sopravvissuto anche al nuovo millennio, sì è solo adeguato ai tempi.
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Dammi una Special, l’estate che avanza
Dammi una Vespa e ti porto in vacanza
Ma quanto è bello andare in giro con le ali sotto ai piedi
Se hai una Vespa Special che ti toglie i problemi
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“50 Special” di Cesare Cremonini
Una borsa davanti sul portapacchi, una tra i miei piedi dietro lo scudo. Lo zaino di Vanessa dentro nel bauletto e per finire uno più piccolo sulle sue spalle in modo che poggi sopra il bauletto posteriore e che quindi non le pesi. Sotto la sella una mia borsa con tablet, portafoglio ecc. Per non farci mancare niente, visto le temperature sarde, compriamo anche un piccolo ombrellone che leghiamo con uno spago, di lato, parallelo alla sella.
Ha ragione Vanessa, mi ha convinto. Dormiremo in città e ci sposteremo prevalentemente di giorno, non mi piace molto girare di notte con la Vespa: non è facile vedere al buio gli eventuali ostacoli che potrebbero esserci sulla careggiate: buche improvvise o può essere, animali selvaggi. Le strade sono molto isolate e non è che con il faro in dotazione si veda granché bene. Basta poi una piccola differenza del livello dell’asfalto per avere la sensazione di cadere: le ruote sono molto piccole, danno molta maneggevolezza ma in velocità si ha una sensazione di precaria stabilità.
L’itinerario è quindi deciso: sbarcheremo a Porto Torres, dormiremo poi due notti ad Oristano in città, quindi tre a Cagliari sempre in città e poi un’ultima notte a Cala Gonone.
Partiamo tranquilli, la Vespa è comunque bella carica. Lasciamo la nostra Cambiasca, paese rurale, anche se Vanessa non gradisce la definizione, proprio ai piedi della Val Grande; scolliniamo al Bien Pass e scendiamo proprio dove il Toce o la Toce (come dicono i puristi ossolani) finisce la sua corsa attraverso tutta la Val d’Ossola per formare il Lago Maggiore e la piana del Verbano; saliamo poi verso il Cusio e ci facciamo tutto il Lago d’Orta, poi Borgomanero, e infine scendiamo la morena che si affaccia su Romagnano, che continua poi a delimitare per molti chilometri l’inizio della Valle Padana dall’area Prealpina; infine imbocchiamo l’autostrada. Ma prima, a Romagnano Sesia ci fermano i Carabinieri, e qui, mannaggia, mi tocca scaricare tutti i bagagli per recuperare i documenti, che sono sotto a tutto nel bauletto.
Ci spostiamo poi sulla bretella di Piacenza per portarci sulla Milano-Genova, e infine usciamo a Busalla, lasciando definitivamente l’autostrada prima che diventi una sorta di stretta statale a due corsie, senza vie di fuga, con un serpentone di curve che non puoi percorrere a più di ottanta all’ora. Come spesso accade non riusciamo mai a imboccare la statale dei Giovi, ce la facciamo solo al ritorno, ma comunque è facile scendere a Genova. Tanto basta andare in direzione mare, non puoi sbagliare, e così raggiungiamo la costa nel quartiere di Sampierdarena.
Questo è l’itinerario che solitamene scegliamo, per limitare il più possibile l’uso dell’autostrada, che rimane veramente noiosa da percorrere in Vespa, a 100-110 chilometri orari: di più non è il caso di correre.
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Mare, mare, mare
Ma sai che ognuno c’ha il suo mare dentro al cuore sì
E che ogni tanto gli fa sentire l’onda
Mare, mare, mare
Ma sai che ognuno c’ha i suoi sogni da inseguire sì
Per stare a galla e non affondare no, no
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“Mare mare” di Luca Carboni
Come deciso, si passa il resto della giornata a Boccadasse, (sono quasi le due del pomeriggio), in attesa di imbarcarci alle sette di sera per partire poi verso le ventuno. Non in molti conoscono questo gioiello proprio dentro Genova, che potrebbe benissimo essere una località delle Cinque Terre. E’ quasi incredibile quando improvvisamente vedi la caletta, scendendo i gradini sotto la sua Chiesetta che si affaccia proprio sul mare, come di consuetudine nelle località liguri. Tra l’altro anche la chiesa merita di essere visitata: è molto particolare, puoi anche ammirare dei modelli di nave attaccati alle volte, e la mia fantasia mi fa associare questa chiesa a quella dove Ismael, prima di imbarcarsi sulla Pequod alla caccia di Moby Dick, assistette al sermone del curioso pastore.
È caldo, molto caldo. Dopo aver pranzato al solito ristorante della cooperativa dei pescatori, è il primo a sinistra scendendo le scale, ci abbandoniamo in spiaggia. Boccadasse l’ho sempre vista fuori stagione, malinconica nelle giornate invernali, su di giri in primavera, con qualche coraggioso nel tentativo di fare il primo bagno. Oggi invece la spiaggia è affollata. Si soffre tutti insieme sui sassi, che diventano roventi sotto il sole. Tra l’altro sono anche molto pungenti e scomodi, ed è per questo molto difficoltoso trovare la posizione migliore, peggio quando si tenta di entrare in acqua: sabbia qui proprio non ce n’è.
Umbre de muri, muri de mainé
Dunde ne vegnì duve l’è ch’ané
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“Crêuza de mä” di Fabrizio De André
E’ comunque sempre bello quando si prende la nave, dà la vera sensazione del viaggio, dello spostarsi verso luoghi che non conosci. Inquieta anche un po’, in vero, quando entri nella sua pancia per posteggiare la moto, ed inizi già a pensare a quel mare nero senza luci che ti aspetta, (facciamo sempre la tratta notturna), senza copertura telefonica e riferimenti di ogni sorta. E si spera sempre che il mare sia clemente e ci faccia dormire tranquilli!
Spettacolo nello spettacolo è il personale imbarcato, in questo caso quello della Tirrenia, ma sono poi tutti uguali. Ed è un déjà vu, ma sempre divertente, se non li prendi troppo seriamente. Ci sono tanti personaggi, tutti napoletani, come se fossero le eterogene comparse di una commedia di De Filippo. Un rigido organigramma, a noi sconosciuto, regola i compiti di ognuno: c’è chi da solo le chiavi della cabina o chi stappa unicamente le bottiglie alla tavola calda, poi anche chi, quest’anno è una novità, scalda solo delle tristi crêpes preconfezionate. Ognuno di loro cerca di fare il meno possibile, ma è attentissimo a guardare cosa fanno i colleghi ed ad imbastire colorite polemiche per un nonnulla, dimenticandosi del servizio che devono dare ai clienti, che a tratti vengono abbandonati a sé stessi. Quest’anno devono aver distribuito le nuove divise, ma si vede che era disponibile una sola taglia per tutti, ma lo spettacolo è esilarante. A quasi nessuno la misura va bene, forse il normotipo standard era Primo Carnera… C’è chi assomiglia a un bambino con i vestiti del papà, chi a Charlot o peggio a zio Fester della famiglia Addams. Ma poi è già di per se strana la divisa: assomiglia a quella dei ragazzi degli ascensori dei film americani degli anni trenta, ma forse anche un po’ a quella degli inservienti di uno scalcinato circo di provincia, ed in effetti lo spettacolo che ci offrono è clownesco.
Non andare mai in riserva in Sardegna, i distributori sono molto pochi e per niente funzionali: me ne devo ricordare, devo fare attenzione a tenermi sempre una certa scorta. Il primo che troviamo, appena sbarcati, non prende il bancomat. Passano i chilometri e ci fermiamo al secondo, ma questo è semplicemente chiuso. Il terzo invece ha finito la benzina. Finalmente ecco il quarto, ormai ad Alghero: ma c’è una fila numerosa. C’è una donna che non sa se la sua Panda va a benzina o gasolio, la aiuto a capirlo. Finalmente inserisce la carta, ma un ceffo sdentato, subentrato in un secondo tempo, si inserisce per selezionare a casaccio gli erogatori. Poi dice che vanta un credito di cinque EURO. Si crea allora un caos indescrivibile, che solo dopo parecchi minuti riesco a dirimere e fare finalmente rifornimento alla mia Vespa.
Ora seguiamo tutta la litoranea sino a Bosa e come sperimentato cinque anni fa, è sempre un percorso suggestivo da gustarsi a pieno. A tratti pare la costa oceanica di Capo Buona Speranza, o la brughiera delle Highlandes scozzesi. Dove possibile la gente si ferma per scattare fotografie suggestive, magari inerpicandosi sulla costa ai lati della strada, addentrandosi avventurosamente nella macchia mediterranea ai lati della strada, ma bisogna fare attenzione: la scogliera è molto scoscesa e a picco sul mare.
Come in effetti ci aveva consigliato il barista da me interpellato a Bosa Marina, a Cuglieri non c’è proprio niente: ma noi testardi ci siamo andati lo stesso. Nonostante un’improbabile, impotente ma grossolana basilica dedicata alla Madonna delle Nevi (la neve sul mare?), che si vede da tutta la cosa circostante, l’abitato non riserva nessuna sorpresa. Solo le solite case incomplete, senza uno stile, come in buona parte della Sardegna, deturpate poi dagli infissi in alluminio anodizzato degli anni ottanta. E’ tipico di molti posti della Sardegna l’aver distrutto quel poco di storico che avevano, sostituendolo con queste costruzioni senza stile, che non dicono nulla. Né parlano della storia dell’isola, né danno un senso di moderno, rendono solo tutto così ordinario ed avulso, omologato a quell’ansia e voracità di costruire, a dispetto di qualsiasi buonsenso, che ha ferito tanti paesaggi del sud Italia, ma anche di buona parte del Mediterraneo. La Costa di Cuglieri è invece favolosa, soprattutto la poco conosciuta Santa Caterina, che è incorniciata da due bianche scogliere calcaree che ricordano quelle di Dover. La sabbia è stranamente nera come quella delle spiagge vulcaniche. Ci addormentiamo perché siamo stanchi, non sembra ma ci si stanca molto di più a viaggiare in moto. Mi sveglio tutto sudato, il vento si è fermato, ma è tempo di alzarsi e riprendere la strada per Oristano, che ora è molto vicina.
Entriamo finalmente in quella che sarà la nostra prima tappa. E’ un’indolente Oristano quella che ci accoglie, mentre tenta di nascondersi dal sole assassino del primo pomeriggio, come un cane accaldato che si nasconde sotto una panca per cercare l’ombra. Prendiamo possesso della nostra camera e via a Tharros che ritrovo fantastica come la ricordavo. Le vestigia fenicie sono ancora imponenti e sono proprio sul mare. Fanno fantasticare di una civiltà potente e cosmopolita, che probabilmente aveva scambi culturali e commerci con tutto il mediterraneo, e probabilmente la Sardegna a quel tempo stava al centro di tutto. Intorno, da un lato il mare vivo, come dicono qui e dall’altro, quello chiuso del golfo. I due stagni e poi in fondo Cabras che pare bellissima da qui, mentre si specchia nell’acqua, ma che vista da vicino non lo è altrettanto.
Dove ci fermiamo a bere qualcosa, proprio sopra i resti storici, un bel gattone rosso pare il padrone di casa e si fa accarezzare… ma senza esagerare, sembra dire severo con i suoi occhioni sornioni. Tutti gli altri gatti che abbiamo visto sono magri e derelitti, ma anche molto paurosi e schivi: sembra che non ci sia la stessa nostra passione per i felini da queste parti.
Quando torniamo in albergo, i russi che avevamo lasciato a guardare il Gran Premio di Formula Uno sono ancora lì, tutti allegri e su di giri, dopo una giornata passata sicuramente a bere.
Alla sera Oristano si ravviva ed è un vero piacere sedersi sui tavoli sistemati per le strade chiuse al traffico. Ceniamo in un locale che ci consiglia la ragazza della reception del nostro albergo, che ha un bel viso da sarda barbaricina. Un avventore français mi parla nella sua lingua, ma agli altri si rivolge in italiano. Poi dice che mi ha scambiato per un francese, e non sarà l’unico in questa vacanza. E’ bello alticcio, gli hanno anche dovuto nascondere il mirto, ma non riescono ugualmente a congedarlo.
Stamattina un forte maestrale spazza tutta la costa, nonostante si fatichi anche in Vespa ad andare contro vento, giriamo buona parte delle spiagge da Is Arutas in su, ma devo dire che quella di Mari Ermi è la più bella, con una sabbia che sembra fatta di chicchi di riso.
Attraversiamo un paesaggio particolarissimo e variegato. I campi coltivati, con le balle del fieno appena raccolto, si alterano senza soluzione di continuità, agli stagni, alle saline e poi al mare.
L’entrata di Oristano proprio non la capisco, non trovo un bel viale diretto che porti al centro della città come mi aspetterei, ma mi perdo sempre tra vari sensi vietati od obbligati, che mi distolgono sempre dalla mia destinazione finale: così all’albergo ci torniamo sempre da una strada diversa.
Stasera, dopo quasi quarant’anni, torno a Torre Manna dove imparai a nuotare. C’è ancora lo stesso vento che ha sferzato per tutta la giornata il golfo, rendendo il mare aggressivo e nervoso. Torre Grande sembra deserta, ed è una sensazione da mare d’inverno, quella che mi coglie. Mi dicono che è una cosa recente, che solo poco tempo fa la movida verteva tutta qui, invece ora pare essersi trasferita ad Oristano centro: chi dice per volere politico, chi per paura dei controlli stradali per misurare il livello dell’alcol che ti sconsigliano di utilizzare l’auto…
Il giorno che imparai a nuotare, mi pare che fosse nel 1980, arrivammo qui da Tonara con la 127 beige di mio Zio. Era proprio il primo modello, per gli appassionati quelle che avevano solo due porte, cioè senza il portellone posteriore, ma solo un bagaglio che non si apriva quindi solidale al vetro. Fu un percorso da film western, ricordo che c’erano ancora delle strade sterrate da percorrere, il viaggio fu eterno. Non c’era l’aria condizionata, i vetri posteriori erano fissi, davanti oltre ai finestrini aiutavano un po’ nel ricambio dell’aria i deflettori che ormai sono spariti dalle auto moderne. L’autoradio mio zio non sapeva cosa fosse, ci si portava dietro allora la nostra radio a transistor, quelle con l’antenna telescopica che andava estratta totalmente, con il rischio di accecare qualcuno nella costrizione dell’utilitaria, sennò non si sentiva nulla. Ci sistemammo proprio sotto questa grande torre che vedo ora e mangiammo quello che, sempre troppo condito, ci aveva preparato mia nonna. Nonostante non ci fosse un bel sole, ma tante nuvole noiose e guastafeste, ci bruciammo lo stesso, ma come detto, insieme alle mie sorelle, imparai a nuotare.
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Sa fide nostra
no la pagat dinari
ajò! dimonios!
avanti forza paris.
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“Inno della Brigata Sassari (Dimonios)” di Luciano Sechi
Partiamo alla volta di Casteddu, percorrendo fino, per così dire al “capolinea”, la Carlo Felice, che è una sorta di autostrada che taglia tutta la Sardegna. Andando verso Cagliari pensavo di trovare sempre più secco invece si vede molto verde. Dentro Cagliari, come al solito quando entriamo in una città, ma anche quando ne dobbiamo uscire, ci perdiamo.
Mentre viaggiavo pensavo che i sardi sono molto differenti dagli italiani del nord. Questi isolani alla fine sono poi simili a tutti i popoli del mediterraneo. Che siano sardi, calabresi, tunisini o greci non cambia molto. Ed è vero allora che potrebbero essere i sardi i discendenti dei shardana questo mitico popolo che partendo dal medio oriente colonizzò tutto il Mare Mediterraneo. Ed essere forse i filistei tanto odiati dal popolo eletto, ma anche la tredicesima tribù di Israele, quelli che furono anche la guardia scelta del Faraone. Ma quello che ormai è certo è che siano il mitico popolo di Atlantide, spazzato via forse da uno tsunami. Infatti, come dimostrato, i Nuraghe sopravvissuti sono tutti danneggiati dallo stesso lato. Ma è un po’ tutta la storia del Mediterraneo che deve essere riscritta senza pregiudizi, perché nel passato è stata troppo aderente, ed ha pertanto cancellato, tutto quanto non fosse in linea con un’idea greco-romano-cristiana. Ma peggio è stato fatto per la storia italiana in generale: prima si è creato una sorta di canovaccio ideale, poi vi si sono cercate conferme: c’è stato allora attenzione solo prima per la civiltà ellenica, poi per i romani, il cristianesimo, e infine per il rinascimento e il risorgimento. Per fortuna il ventennio è stato ridimensionato, ma non c’è stato comunque spazio per le civiltà pre-romane e per tutti i popoli che sono stati definiti barbari ma che hanno forgiato la lingua e costumi della nostra nazione, per non parlare poi del medioevo tutto. In tutto questo, la storia della Sardegna è stata una di quelle che ha avuto la peggio. Ciò che era evidente è stato ignorato, quando non conosciuto non è stato approfondito.
Cagliari è una città bellissima, così moderna come non me l’aspettavo in Sardegna, ma anche così ricca di storia, con i suoi palazzi, e le sue vie, e poi i bastioni che parlano di una suntuosa regina dell’isola e del mare, cosa che non ha eguali nelle altre località sarde. E’ una capitale mediterranea, al pari di Genova, Napoli, Palermo o Marsiglia, ecc. … sia come bellezza che come importanza geopolitica.
Favoloso è il bastione di Saint Remy al quartiere Castello, da lì il nome sardo di Cagliari, Casteddu: la sua scalinata alla cui sommità c’è l’arco di trionfo, è un’immagine grandiosa. Da lassù puoi ammirare tutta la Cagliari che mette i piedi a mare, e godere di quella piacevole brezza che non abbandona mai questa bellissima località.
Il nostro albergo è proprio al centro, in una traversa vicino a Piazza Yenne, quella dove c’è il monumento che indica la partenza delle Carlo Felice, voluta dai Savoia per modernizzare l’isola, e che tagliando tutta l’isola arriva sino a Porto Torres.
Procurade’ ‘e moderare,
Barones, sa tirannia,
Chi si no, pro vida mia,
Torrades a pe’ in terra! ./..
”Su patriotu sardu a sos feudatarios” di Francesco Ignazio Mannu
Ma c’è anche il Poetto una splendida spiaggia, stile Rio De Janeiro, che i Cagliaritani hanno la fortuna di avere quasi in città: dobbiamo per forza visitarla. Passiamo la serata lì dopo aver visitato strada facendo la Sardegna Arena, proprio a fianco dell’ormai fatiscente Sant’Elia, una volta così moderno.
Fu edificato per il Cagliari scudettato del 1970, che lo aveva vinto l’anno prima al vecchio Amsicora, che mi pare anche di avere intravisto sempre in zona mentre tornavamo in albergo. Il Sant’Elia era stato addirittura uno degli stadi scelti per Italia 90, lo avevano anche ingrandito e in teoria modernizzato, aveva una capienza record per i tempi. Ora è lì, triste, in attesa del suo futuro, che sarà un’esecuzione a morte, ed all’apparenza pare dismesso da decenni e non solo da qualche anno.
In spiaggia un marocchino ci dà lezioni di marketing e storia in generale. Ci racconta tutte le sue strategie commerciali, che pare gli avessero fatto guadagnare un bel po’ di lire per trarre d’impaccio dai debiti suo padre in Marocco. Poi passa alla storia, che secondo lui ha come protagonisti i marocchini, che lui dice hanno salvato noi e l’Europa da Hitler liberandoci dal nazifascismo. Sì in effetti erano alleati con la Francia, ma io ricordo che le loro truppe di montagna fecero parecchi danni nel sud Italia, quando sbarcarono con gli alleati. Poi ci racconta della sua famiglia, della sua Mercedes-Benz 190 di trent’anni, appena comprata, e che in effetti rimane proprio una bella macchina. Mi vuole anche offrire una birra, che compra da un bengalese che gira con un frigo portatile per la spiaggia, ma non posso certo accettare.
Che sorpresa mi scrive mia cugina che studia a Cagliari così ci incontriamo per cena. Io potrei essere lo zio vista la differenza di età. Difficile da comprendere per noi il suo attaccamento all’isola, e a Tonara, così lontana e ormai solitaria a mille metri sul Gennargentu.
Stamattina andiamo verso destra a Chia e poi fino a Sant’Antioco.
Cagliari continua ad affascinarmi e stupirmi. Appena usciti dal centro c’è lo spettacolo ineguagliabile degli stagni con i suoi fenicotteri rosa. Passiamo anche da Capo Teulada in gran parte ancora militarizzata.
E’ una strada lunghissima, ma gli scorci e scenari sono bellissimi. Si possono ammirare le decine di calette bagnate da un mare dai colori sfavillanti, ogni volta diverso. Ed è riduttivo paragonarlo a quello dei Caraibi, perché il mare sardo non è per niente inferiore a quei mari, e la varietà è sicuramente superiore. Ogni spiaggia ha la sua sabbia: fine, a chicchi, scura, rosa, quarzata, ecc. e così i fondali sono tutti di una bellezza originale e particolare, sempre diversa e mai confrontabile.
Ci spingiamo appunto fino a Sant’Antioco dove una striscia di terra tra stagni e mare ci porta sull’isola e di là possiamo vedere anche l’altra isola attigua di Carloforte.
Sull’isola di Sant’Antioco, nei pressi del forte, una locandina racconta che a metà dell’Ottocento ancora ci si difendeva dai pirati saraceni provenienti dalla Tunisia, in questo caso corsari perché al soldo della Corona Inglese. Presero la cittadina e fecero anche prigionieri, tra cui due donne, che cita il testo, furono fatte schiave e poi fatte sfilare seminude come trofei, tra le vie di Tunisi.
Solito problema con i benzinai, pochi, molto pochi, i più chiusi. Dentro, nel bar attiguo ad uno di questi, le foto di quando aveva le insegne Saras, la società di Moratti padre, il nostro benefattore che fece vincere lo scudetto al Cagliari.
L’indomani, dopo un caffè al centro, chiedo informazioni su come raggiungere la cattedrale di Cagliari alla barista, tra l’altro molto carina e gentile. Ma alla domanda si rabbuia ed è disorientata, è come se le avessi chiesto indicazioni per andare su Saturno. Ma comunque la troviamo, lassù sui bastioni che dominano Cagliari con il suo porto e gli stagni che si perdono a vista d’occhio. Visitare le chiese delle città è capire la località in cui ti trovi. Gli stili, che il più delle volte si sono succeduti e stratificati, i dipinti e gli affreschi, i materiali utilizzati, trasudano storia e narrazioni che vengono da lontano: devi fare silenzio ed ascoltare, perché parlano tutt’ora. Ti raccontano delle popolazioni autoctone, degli invasori e dominatori, che a volte si sono fusi con la popolazione o sono stati subito ricacciati, delle mode e i gusti locali, oppure di quelli importati, degli stili architettonici propri del luogo o venuti di lontano con architetti stranieri che ai tempi andavano per la maggiore: e tutto rimane, lì immutato nei secoli, pronto a raccontarci, basta solo ascoltare.
A me per esempio piace osservare gli sfondi dei vari quadri delle varie natività, apparizioni, martiri o santificazioni, e via di conseguenza… perché se guardi bene, ci vuole attenzione, potrai vedere che di solito gli artisti hanno rappresentano i paesaggi locali come erano ai tempi che l’artista concepì l’opera.
Sotto al palazzo civico, proprio a due passi da dove come al solito ci tuffiamo nella colazione a buffet del nostro albergo, una mostra fotografica di Leopold Wagner che parla Sardegna rurale degli anni venti dello scorso secolo: ci sono le mie origini! Si vede la povertà estrema, soprattutto della Barbagia, quella descritta molto bene dalla Deledda, che le valse appunto un Nobel. Gente fiera, ma isolata, che pareva condannata ad un destino sempre uguale, nell’immutare dei secoli. Lavori pesanti: la pastorizia sfruttando animali indigenti, l’agricoltura in una terra avara e sassosa, o più raramente la pesca, anche se le coste non erano molto frequentate perché pericolose e infestate dalla malaria. Donne sottomesse, dedite a lavori ancestrali e impossibilitate a gestirsi un minimo di ozio per loro stesse. Si vede anche la spiaggia di Cala Gonone, quando era solo un luogo di sparuti pescatori, quando ancora non si sapeva cosa fosse il turismo.
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Nanneddu meu su mund’est gai,
a sicut erat non torrat mai.
Semus in tempos de tirannias, infamidades e carestias.
Como sos populos cascant che cane, gridende forte: Cherimus pane .
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“Nanneddu meu” di Peppino Mereu
Oggi invece andiamo a sinistra, ma è lunga fino a Villasimius. Tra curve e contro curve che risalgono le alture per poi ridiscendere in decine di suggestive calette dal mare azzurro, ho quasi il mal d’auto anche se sono in moto e guido io. Ci fermiamo allora nel primo locale sulla strada che troviamo. E’ un’enoteca, siamo a Solanas. Il gestore a malavoglia lascia la partita di scala per servirci birra e acqua e riprende subito a giocare. Apostrofa il suo antagonista con dotti e divertenti epiteti e noi ci divertiamo, ci dice addirittura di caricarci sulla Vespa il suo compagno di gioco, perché non lo sopporta più.
In spiaggia, a Simius, incontriamo dei ragazzi di Milano, uno con una Vespa automatica 50 cc. l’altro con una moto più grandicella. Anche loro stanno facendo il giro della Sardegna, stanno seguendo degli altri amici con un catamarano. Dicono che è un progetto della loro Università. Viaggiano adeguandosi alla velocità di navigazione del catamarano e poi dormono in spiaggia: io così non ce la farei mai.
Vanessa compra un bell’anello, lavorato in argento, da un pakistano. Lui lo tira fuori dal suo sacco, ricco di chissà quali tesori, così al primo colpo, indovinando i suoi gusti e stupendoci. Delle signore bergamasche, habitué della spiaggia, lo conoscono da anni, ci fanno vedere ciò che hanno comprato nel corso delle loro varie vacanze. Ed incredibile, contro ogni nostro pregiudizio, ritorna dopo parecchi minuti a darci dieci EURO, perché dice, si era sbagliato a darci il resto.
Si riparte, ci aspettano circa 211 chilometri sino a Cala Gonone. Sono molto preoccupato, mi pare una distanza immane da fare su strade che paiono molto intricate guardando la cartina o Google Maps. Ci facciamo così tutta l’Orientale Sarda che parte appunto da Quartucciu, fuori da Cagliari. All’inizio si sale molto sino a Burcei. La strada è isolatissima, controlliamo continuamente il serbatoio perché abbiamo paura di rimanere senza benzina. Non si vede in giro nessuno, solo le forme delle montagne che sembrano quelle del Nevada o dello Utah. Mi aspetto che dalle cima facciano capolino gli indiani per poi attaccarci e finirci.
Poi si inizia a scendere, lunghissimi rettilinei contornati da rigogliosi oleandri che sono intervallati da nervose varianti a esse per poi tornare nuovamente a essere rettilinei.
Ora siamo definitivamente di nuovo tornati in basso al livello del mare, anche se non lo vediamo perché siamo all’interno. Per alcuni tratti intercettiamo delle veloci varianti dell’Orientale, con le quali stanno cercando di modernizzare quest’importante arteria: ecco allora gallerie e viadotti, ma poi sempre si finisce per tornare sul tracciato originale.
Facciamo una variante all’Orientale. Ce ne distacchiamo e rimaniamo a valle invece che salire per Baunei, per poi, più avanti, iniziare a nostra volta di nuovo a salire per Urzulei. Qui cerchiamo di fare benzina, il bancomat come al solito non funziona, per fortuna abbiamo cinque EURO sfusi. Ora siamo stanchi, ci fermiamo a mangiare a La Ruota. Culurgiones, sebadas e Ichnusa non filtrata: ottimo. La birra sarda qui ha un sapore diverso, che non puoi rincontrare in continente, qui è davvero molto più buona: mi era capitato lo stesso con il sidro in Bretagna, o le birre della abbazie nelle Fiandre. Ci mancano ormai solo pochi chilometri ma ci aspetta il meglio. Intercettiamo nuovamente la SS 125, l’Orientale Sarda per l’appunto, e iniziamo a salire moltissimo. Ora siamo in cima, si sente il vento del mare del Golfo di Orosei, ma non lo vediamo. Viaggiamo in cresta, intorno paurosi strapiombi: quelli a destra che portano al mare e che appunto possiamo solo immaginare, e quelli a sinistra tra i massicci calcarei e le formazioni montuose che declinano dal Gennargentu. La vegetazione quest’anno grazie ad una primavera piovosa è verde come non l’ho mai vista. Ci sono molte piante fiorite.
Siamo in cima! Questo è il passo di Genna Silana sono 1.025 m.s.l.m., un traguardo per tutti, dai ciclisti, ai motociclisti, camperisti o semplici viaggiatori, che infatti incrociamo numerosi. Fermati i loro rispettivi mezzi, ognuno si guarda in giro convinto, non certamente a torto, come lo siamo noi del resto, di avere raggiunto la vetta di una strada favolosa. Si inizia a scendere. Intorno la flora colorata, e le macchie gialle della ginestra in fiore che colora le montagne. Poi la galleria che ci fa bucare le montagne e che liberò dall’isolamento Cala Gonone che ci aspetta là sotto, dove soggiorneremo stanotte.
Quando infine cala la notte, dopo che ci siamo sollazzati al mare, visto che è chiusa tra le montagne e il mare, Cala Gonone rimane un po’ più sola, ma è proprio questo il bello. Noi mangiamo ai Quattro Mori, poi scopriamo che c’è il concerto del figlio di Rocky Roberts che è bravissimo, e così facciamo un po’ tardi.
Al mattino partiamo per Orosei, dove andavo da bambino e mi piace tornarci ogni tanto. Negli anni ottanta era selvaggia e rurale, così lontana dalla Sardegna stereotipata dei VIP, con tanti difetti ma anche molti pregi. Con la puzza di vacca e galline, che giravano per le strade e quasi tre chilometri di nulla, tra campi coltivati e una striscia di asfalto, per andare alla Marina, completamente isolata dal paese. Sulle porte di legno degli intricati vicoli, leggevo ancora i timbri con l’indicazione dell’anno della disinfestazione del DDT, che venne operata subito dopo la fine della guerra per debellare la malaria. Le donne in costume e gli uomini in gambali sulla spiaggia, le baracche della gente dei posti vicini, soprattutto Galtellì dove passavano le loro povere e frugali vacanze. Il Cedrino che si guadava alla buona con le macchine, per raggiungere la spiaggia, che si perdeva a vista d’occhio, da Santa Maria fino a Osalla, non essendo interrotta dall’odierno porto. I due bar della Marina, poco più di due tettoie, che diffondevano le hit dai loro juke-box, dove qualcuno investiva sempre qualche monetina. Ora Orosei è cresciuta in fretta, forse non bene, con tanti stili diversi e soprattutto ormai non ha più l’anima.
Ad esempio a me piace la strada
Col verde bruciato, magari sul tardi
Macchie più scure senza rugiada
Coi fichi d’India e le spine dei cardi
Ad esempio a me piace vedere
La donna nel nero del lutto di sempre
Sulla sua soglia tutte le sere
Che aspetta il marito che torna dai campi
./..
“Ad esempio a me piace il sud” di Rino Gaetano
Se si monta in Vespa il pomeriggio, si attraversano paesi assolati, con poca gente in giro. Mi ricordano i pomeriggi indolenti da mia nonna a Tonara, quando il caldo mi stroncava e mi faceva desistere da qualsiasi iniziativa, ma tanto non c’era nulla da fare se non andare a prendere l’acqua alla fonte in cima al paese.
Arrivando da Dorgali incrocio le cave di granito. Trent’anni fa erano era una sola e molto più piccola, ora si sono moltiplicate mangiandosi una bella fetta di montagna.
Un’esercente di Orosei condivide con noi i suoi dubbi e non posso che darle ragione. Il caro dei traghetti, ormai in mano ad una sola persona, sta distruggendo il turismo, che così potrebbe essere indirizzato ad arte lontano dalla Sardegna, soltanto alzando il prezzo dei biglietti: e a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca sempre, come diceva qualcuno.
Ci vuole la continuità territoriale ed i mezzi di trasporto devono essere in mano ai sardi, altrimenti è come se la Sardegna fosse una colonia, con dazi e tutto quanto consegue dall’essere a tutti gli effetti, un possedimento oltre mare.
Oggi è caldissimo, quando ci mettiamo sulla strada verso Olbia sembra di morire. Poi finalmente ci appare la Tavolara come un veliero con tutte le vele spiegate gonfiate dal vento, che sembra puntare sulla vicina Olbia.
La strada statale 125 Orientale Sarda (SS 125), la più antica via di collegamento della Sardegna orientale, sì è rivelata una sorpresa. Io ne avevo sempre percorso alcuni tratti, non avendo mai visto la parte migliore, e mai avrei immaginato potesse essere così bella e suggestiva. L’Orientale può essere a tutti gli effetti la nostra Route 66 sarda!
Passiamo qualche ora, in attesa dell’imbarco, in giro per Olbia, camminando rasente ai muri per sfruttare quel poco di ombra che le case ci regalano. Oggi pare il giorno più caldo della vacanza.
Finalmente ci imbarcano, con la moto si fa sempre molto velocemente.
Sulla nave l’ascensore è impazzito, le varie mani inesperte hanno impostato più volte i piani ed ora è come se fosse dotato di vita propria. Sale e scende senza alcun apparente disegno, apre le porte solo per il tempo di farci guardar fuori e poi le richiude per ripartire. Al piano inferiore, una famiglia che aveva già imboccato le scale, con un sospiro di sollievo dice, ecco è arrivato finalmente! Precipitosamente ridiscendono le scale, che sconsolati avevano forzatamente scelto di risalire, ma sul più bello lui richiude le porte davanti ai loro occhi sgomenti, e riparte; noi non ci possiamo fare nulla anche se ne sembriamo i responsabili. Sicuramente loro hanno pensato che siamo stati noi a farlo ripartire. Riusciamo infine a scappare, tuffandoci letteralmente fuori.
Al mattino ecco la bellissima ed incasinata Genova, baciata dal sole dell’alba, che fa arrossire i suoi palazzi affacciati sul mare, proprio come se fosse una verginella, dimentica della sgualdrina nella quale si trasforma non appena scende la notte tra i suoi carruggi. La nave ci sputa sul continente, sancendo ormai la parola fine a questa fantastica vacanza. Il passo dei Giovi, poi la pianura padana, il lago e alla fine sono 1600 i chilometri totali percorsi, veramente un bel viaggio.
Quello che rimane è il ricordo di una bellissima avventura, l’impresa di avere girato quasi tutta l’isola. Abbiamo trovato una terra bellissima, aspra e selvaggia, piena di contraddizioni. All’apparenza pare che ci sia mancanza di iniziativa, come un’impossibilità per i sardi di prendere in mano il proprio destino per volgere le sorti dell’isola a loro favore, e far fruttare le ricchezze delle mille risorse che potrebbe offrire la Sardegna.
Non potho reposare amore e coro
pensende a tie soe donzi momentu.
No istes in tristura prenda e oro
né in dispiacere o pessamentu.
T’assicuro ch’a tie solu bramo,
ca t’amo forte t’amo, t’amo, t’amo.
Amore meu prenda de istimare
s’affettu meu a tie solu est dau;
s’are iuttu sas alas a bolare,
milli bortas a s’ora ippo bolau;
pro benner nessi pro ti saludare,
s’attera cosa non a t’abbissare.
Si m’esseret possibile d’anghelu
d’ispiritu invisibile piccabo
sas formas; che furabo dae chelu
su sole e sos isteddos e formabo
unu mundu bellissimu pro tene,
pro poder dispensare cada bene.
“A Diosa (No potho reposare)” di Salvatore Sini
E poi è come un mal d’Africa, e pure io che sono sardo, e che per questo sono molto più severo verso quello che mi pare non giri per il verso giusto, non posso che amarla e avere una sorta di saudade quando sono lontano da lei, qui in continente, (come dicono i sardi), al di là del mare.
Nigel Mansell
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