Da Tamanrasset a Djanet: Hoggar e Tassili. 26 ottobre – 6 novembre
Premessa. Alla partenza dall’Italia e anche nei primi giorni del viaggio non avevo alcuna intenzione di tenere un diario né di mettere per iscritto le considerazioni sull’esperienza che andavo a vivere.
Poi, invece, all’improvviso la penna si è messa a scrivere… Non intendendo, tuttavia, aggiungere nulla a quanto ho scritto in quei luoghi, sono spiacente di non poter trasmettere le emozioni vissute fino a quel momento e anche in seguito, soprattutto quelle dell’Eremo, che hanno lasciato un segno indelebile dentro di me; e il pensiero scritto sul registro dei visitatori rimane lì a testimonianza di ciò.
Aggiungo, soltanto, che l’alba vissuta lassù minuto per minuto, in un’atmosfera profondamente intima ed estasiante, ci ha dato in dono il sorgere del Sole della Vita.
Traversata da Tamanrasset a Djanet.
27/X/04, ore 13,15. Sosta al ritorno dall’Eremo di Foucauld, verso Tamanrasset.
Esistono parole per descrivere le sensazioni e le emozioni vissute lassù sull’Eremo o durante il viaggio o adesso? Per chi dovrei descriverle, poi? Queste esperienze vanno vissute, non raccontate o descritte. Ognuno, infatti, ricava da esse le sensazioni e le emozioni più personali e intime, in ambito spirituale, interiore o puramente edonistico-culturale, comunque apprezzabili.
E’ particolare e personale il contatto che ognuno di noi ha con la natura in cui siamo immersi, nel silenzio che ci circonda e ci avvolge col suo misterioso linguaggio. Ciò che vediamo appare erroneamente uniforme per l’aridità esasperante del territorio immenso che attraversiamo. In realtà, la varietà delle rocce, dei colori e delle forme, alternate alle distese sabbiose e alle piccole dune viste finora, alle sorprendenti apparizioni inaspettate di una strana vegetazione lungo il letto di quelli che furono o sono saltuariamente dei fiumi (uadi), mostra una vitalità reale di questo territorio, rappresentata anche dalla presenza timida quanto incuriosita di gazzelle e dromedari e asini, quando non anche di tuareg incontrati nei pressi dei pozzi d’acqua.
Dunque, il deserto non è arido perché morto, forse è stanco della lunga e lontana storia che ha vissuto (lo vedremo dai graffiti del Tassili), forse si difende e respinge lo sconquasso terribile che l’uomo altrove sta procurando alla nostra terra.
Abbiamo incontrato dei bambini che non si sono avvicinati e anche chi l’ha fatto non ci ha rivolto la parola, per timidezza o riservatezza, quasi senza alcuna curiosità di vedere degli uomini “civili”.
Questo deserto parla con il suo immenso silenzio, con la sua vita nascosta, non è per nulla desideroso di essere invaso dalla “civiltà”. Si lascia attraversare da quei pochi curiosi o ricercatori dello spirito, a patto che non deturpino con l’asfalto il territorio.
Ieri sera abbiamo trascorso la prima notte all’aperto, dovrei o avrei voluto dire notte di stelle, se non fosse per quella splendida luna piena che ha illuminato il cielo e la terra, oscurando pertanto le stelle tanto desiderate. Abbiamo visto e vissuto l’alba e il tramonto dell’incandescente sole, come anche il sorgere dell’imperiosa luna alla scomparsa del giorno.
30/X/04. Stiamo attraversando una vastissima interminabile area piatta, un plateau lungo 100 km, mi dicono. Sembra che potresti correre per settimane senza mai raggiungere l’orizzonte, “il mare”. E i miraggi continui avallano l’idea.
La notte scorsa abbiamo dormito ancora all’aperto. Mi sono svegliato più volte, ammirando quell’incredibile luna a picco sopra di noi, in un silenzio che non era rotto nemmeno dal nostro respiro. Prima di andare a dormire ho passeggiato per un po’ lungo il letto del fiume, dove avevamo organizzato la sosta notturna. Cosa c’è di meglio nel deserto che dormire nel morbido letto di un fiume, sotto un tetto di stelle, con la luna come abatjour: è proprio un hotel a…mille stelle!
Ho osservato la luna che sorgeva da est come fosse il sole, dall’altra parte i nostri amici tuareg e i miei compagni di viaggio seduti intorno al fuoco a bere il the, a fumare una sigaretta, a fare due chiacchiere di fine giornata.
Il nostro autista Nassri è molto bravo nella guida sulla sabbia e appare straordinario il suo senso d’orientamento in luoghi che, ai nostri occhi, non mostrano segnali o punti di riferimento evidenti.
Al pozzo di Tireine ci aspettavamo di incontrare i Tuareg accampati, ma non c’era nessuno, solo i segni del passaggio di numerosi dromedari. Abbiamo approfittato per lavare (!) la macchina: qui è un lusso!
Siamo in vista delle dune dell’Admer. Sono le 11,30 e sembrano a portata di mano. Vediamo quanto impieghiamo a raggiungerle.
Alle 12,10, però, lasciamo le dune lontano alla nostra destra e ci fermiamo per la sosta all’ombra di un enorme masso. Alla fine del pasto (alla fine, meno male!) vedo un minuscolo insetto camminare sulla nostra stuoia: una zecca! L’allarme si è trasformato prontamente in una strage: ne ho uccise 39! Questa è l’eredità che lasciano i dromedari nei luoghi di sosta, oltre alle palline di sterco. I miei amici mi rimproverano, bonariamente, di aver alterato l’ecosistema del deserto. Non ho pianto.
Siamo finalmente in mezzo alle maestose dune. Sembrano banali mucchi di sabbia. Sono convinto che ci vorrebbe più di un’ora per salire in cima ad esse.
E’ un mare incontaminato di sabbia dalle onde sinuose e dai colori incantevoli, quanto delicati.
Il Pittore ha realizzato un quadro con i fiocchi! Qui il nulla si identifica con il tutto.
Camminare con le vetture su queste dune non è per niente facile, ci vuole grande esperienza e il nostro autista-guida ce l’ha. La seconda vettura, invece, presenta più volte qualche problema meccanico.
Siamo accampati ai piedi di una grande duna, che abbiamo subito scalato di corsa (si fa per dire).
Viene il fiatone a salire, i piedi affondano morbidamente, la meta sembra lì, ma non si arriva mai.
E’ solo un problema di ansia, in realtà vorremmo essere già lì per non perderci nemmeno un attimo dell’infinito sguardo che ci aspetta.
Il solito the attorno al fuoco, una passeggiata per apprezzare attoniti lo spettacolo intorno a noi, con il cielo a due passi pieno di stelle e la luna, che per fortuna tarda a sorgere.
La notte giunge attesa e desiderata, per poter sognare quello che abbiamo in mano.
Sono venuto nel deserto a piedi nudi e con l’animo aperto alla verità, nel silenzio rispettoso della natura che ci è stata donata. Il contatto dei piedi nudi con la sabbia finissima e delicata, soffice e accogliente delle bionde dune è il segno della continuità del nostro essere uomini con la madre terra.
(Dai dialoghi notturni in tenda: uno dei doni che Enzo vuol fare alla nostra guida Nassri è un’acqua di colonia francese. Pensando al recente passato dell’Algeria, ho osservato: ”Non sarà, forse, un regalo ironicamente allusivo?”. Grandi risate).
Il giorno dopo, grande show offerto da Nassri: su queste distese di sabbia verrebbe voglia di sciare come fossero di neve, tanto sono lisce e impalpabili; la nostra macchina, poi, sembra proprio un gatto delle nevi, con tutti i ghirigori che il nostro autista ci offre.
A spasso tra le dune, girovagando in lungo e in largo tra orizzonti infiniti, usciamo come ubriachi da questo tour del 31 mattina, prima di fare ingresso a Djanet.
Non saranno state allucinazioni?
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Escursione – trekking sul Tassili.
2/XI/04. La dura scalata di ieri a Jebbaren, dove abbiamo goduto la vista, oltre che del paesaggio roccioso, soprattutto degli stupefacenti graffiti datati da 2000 fino a 9000 anni a.c., è ormai un ricordo. La soddisfazione di vedere questi antichissimi reperti, dipinti, con colori derivanti dall’ocra e dal caolino locali, sulle pareti di rientranze, che sono vere e proprie nicchie, al riparo dalle intemperie, supera di molto il senso e i segni della fatica impiegata per raggiungerli. Vi sono rappresentati, in un impressionante stato di conservazione, anche in strati sovrapposti, figure umane in scene di caccia, pastorizia, pesca e di combattimento, eleganti danzatrici, il famoso “gran dio di Sefar”, le “teste rotonde” e animali come bufali, mufloni, antilopi, giraffe, struzzi, dromedari…, segno di una lontana vita tutt’altro che arida in questi luoghi.
Così oggi di nuovo di buon mattino abbiamo intrapreso la scalata del Tassili. Dopo aver attraversato grandiosi e profondi canyon, superato dei passaggi stretti o a strapiombo, siamo giunti a Tamrit, luogo di sosta.
In un anfratto tra queste altissime e possenti rocce ho trovato un posticino adatto a scrivere queste righe. L’ho riconosciuto subito, perché davanti a me spunta, stranamente rigogliosa, una piccola sorprendente palma. E’ un mistero come essa abbia trovato l’humus adatto per nascere e crescere, dato che a vista d’occhio ci sono per chilometri e chilometri solo aride rocce.
La visita del luogo, che facciamo nel pomeriggio, ci mostra un paesaggio surreale, tra queste rocce che si stagliano maestose e multiformi, tra un canyon e uno spiazzo.
Verso la fine del giro, a differenza di quanto mi era sembrato prima, vediamo altre palme, oleandri e soprattutto i millenari cipressi, che incredibilmente continuano a trasmettere, come i graffiti, una testimonianza di vita di questi luoghi, un tempo sicuramente floridi.
La serata si conclude intorno al fuoco con la gustosa “taghella”, un pane senza lievito cotto sotto la sabbia e coperto dalla cenere e dalla brace.
Il tradizionale the, infine, ci manda a letto per far riposare i nostri piedi per il giro di domani.
3/XI/04. Mi sono fatto la mansarda sul Tassili. Sono salito a piedi nudi su uno di questi torrioni di roccia alto quasi 20 metri. C’è una grotta, con tetto basso, dove si potrebbe anche dormire o stare sdraiati a guardare e pensare. Rispetto ai miei amici ho potuto ammirare dall’alto il luogo che visiteremo più tardi. E’ come stare in terrazza a New York, a guardare i grattacieli della città.
Quassù, naturalmente, ho eretto il mio mucchietto di pietre, a testimonianza del mio passaggio e a suggello della presa di possesso.
Nel silenzio assoluto (i miei amici, la guida Abdellah e il cuoco Milud riposano) questi canyon di roccia bruna si stagliano imponenti da millenni, custodendo, consapevolmente, qua e là pregevolissimi graffiti, che ci rappresentano una vita che fu.
Stasera mi sono particolarmente goduto la riunione attorno al fuoco. Il nostro asinaio sembra un simpatico furetto, tutto sorrisi, parla come se avesse le pile Duracell, un peperoncino. Compie con rapidità e sicurezza la tradizionale preparazione del the (chai), che poi ci offre ripetutamente nei bicchierini.
Più tardi si avvicinano altri due tuareg di un campo-sosta poco distante; mi sembrano i re magi che vengono a far visita al Bambino nella grotta dove siamo sistemati.
Prima di entrare in tenda per la notte, uno sguardo prolungato allo stupendo cielo stellato.
Non credo ai miei occhi per tutto quello che sto vivendo.
4/XI/04. All’ombra del cipresso millenario di Tamrit abbiamo creato l’area di sosta più suggestiva del nostro viaggio. Ci vogliono almeno cinque uomini per abbracciarne il tronco, i suoi rami hanno l’aspetto incanutito di chi ha vissuto mille vite. Non poteva mancare che mi arrampicassi su questi rami per legare la nudità dei miei piedi alla vetustà maestosa e paziente di un albero che vuole ancora vivere.
L’ultima sera sul Tassili ci vede ancora riuniti attorno al fuoco per la cena e poi per il the. Il dialogo incomprensibile e indecifrabile degli amici tuareg è affascinante e fa da sottofondo alla mia voglia di ammirare, sdraiato, il cielo stellato. Hagi, il nostro asinaio, si mostra ancora una volta giocoliere del the. La preparazione di questa bevanda è una vera cerimonia, un rito ricco di significato per questo popolo nomade (ancora per poco?) e questo piccolo tuareg lo fa con grande naturalezza e dedizione.
Sarebbe bello concludere questo viaggio con un’altra notte di stelle all’aperto, ma c’è un po’ di vento e comunque è piacevole stare tutti insieme nella tenda.
5/XI/04. E’ l’ora del ritorno. Un ultimo sguardo al cipresso millenario, che lasciamo al suo destino, mentre si nasconde ai nostri occhi tra le rocce che attraversiamo durante la discesa.
I nostri passi sono ancora validi e sicuri sul terreno pietroso e scosceso, ma il nostro animo è un po’ intristito, consapevole che il sogno del nostro viaggio sta per concludersi. Rivedere a ritroso queste rocce maestose e attraversare i canyon imponenti è come fare un ripasso di quello che con entusiasmo abbiamo vissuto qualche giorno fa.
6/XI/04. Passeggiata a Djanet per una visita al mercato, tra mille colori sgargianti, donne ermeticamente chiuse nei loro abiti, uomini dediti alla vendita o girovaganti, apparentemente senza meta, o sdraiati all’ombra ai lati delle strade. Datteri all’infinito, come le mosche.
In questo clima di apparente desolazione danno persino fastidio le Toyota, segno di un’altra vita.
Nel pomeriggio, in un campo di fronte alla mia camera del residence, tre ragazzini si divertono a cacciare le cavallette (ce ne sono a migliaia). Ricordo che anch’io, circa 50 anni fa, andavo scalzo nei prati intorno alla casa a caccia di lucertole o di api o di mosche cavalline o di cicale…
Oggi da noi non si fa più.
Tutto o gran parte di ciò che abbiamo visto è stato documentato.
Le foto più belle e significative, naturalmente, rimangono solo nei nostri occhi.
nicola
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Viaggio di Enzo D’Amore, Mario Speranza, Nicola Samà.
Equipaggio tuareg: Nassri, esperto autista-guida-factotum, Milud, cuoco sopraffino (ricordo le uova sode con le sue impronte digitali), Kassim, 2° autista a volte un po’ imbranato, Abdellah, guida del Tassili che parla italiano (“…ammirate il giraffo, danzatori, bagnatore…”), Hagi l’asinaio, il più simpatico. Da ricordare, per la squisita e puntuale ospitalità, Kirani, direttore dell’agenzia e del residence di Djanet.
Punti principali del percorso: Tamanrasset, Assekrem (Eremo di Foucauld); cascate di Tamekrest (frizzante doccia fredda all’alba! E dicono che nel deserto non c’è acqua…), uadi di Tin Tarabine, torrioni di Ouflakit, dune dell’Erg d’Admer, Djanet e le sue palme; Jebbaren, Tamrit, Sefar, con i graffiti testimoni di un passato millenario.
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Sono rimasto veramente affascinato dalle emozioni che l’autore ha saputo ricreare e trasmettere. Ho trovato molto suggestive la..
anzi le … molteplici descrizioni del deserto algerino, che hanno reso bene la varietà di un habitat che muta aspetto e umore come un vero essere vivente.