di Carlo Venturi –
“Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte”
Un sopravvissuto di Hiroshima
Che strana la vita.
Una persona legge, studia, si documenta per anni credendo di aver ormai fatta propria una determinata conoscenza, salvo poi rendersi conto che in verità certe cose è impossibile assorbirle.Si possono imparare formule matematiche, si può essere pervasi dalla musica o sentire i fremiti che l’artista, per mezzo delle proprie opere, riesce a infondere.Ma il dolore no, quello no.E me ne rendo conto solo ora. Ho sempre cercato di calarmi tra le righe di tutti quei libri sull’Olocausto che ho divorato fin dalla mia infanzia, nell’estremo tentativo di cogliere almeno per un secondo la sofferenza che quelle pagine volevano trasmettere, come se condividendo questo dramma, potessi in qualche modo alleviare il peso che il destino ha posto sulla vita di quelle sfortunate persone.
Per rendere giustizia alla loro memoria.Per non far sentire soli i sopravvissuti.E perchè interiorizzando il dramma, avrei potuto perpetuarne il ricordo, cosa che ritengo tuttora doverosa.
Accade poi che con una combriccola di amici un giorno mi ritrovi a salire una tortuosa collinetta verde e tranquilla,in una verde e tranquilla Austria, tra boschi e campi di grano.E’ una fresca mattina di luglio, ha appena piovuto e la natura sfoggia i suoi colori più vivaci, con un leggero vento che ne muove la chioma.Viene voglia di stendersi su un prato a dormire: la stanchezza del week-end viennese è forte.
Ma bastano poche curve per capire che l’uomo, con la natura, non ha proprio niente a che fare.Davanti a noi si erge una costruzione, una specie di fortezza simil-antica, muta, lugubre, che anche ad un ignaro visitatore incuterebbe timore.Ma noi non siamo ignari, siamo qui volutamente.Per capire.Per provare a capire.
Mentre ci avviciniamo, meccanismi inconsci del nostro cervello, o forse del nostro cuore, moderano il tono della voce, costringono la lingua a misurare le parole, rallentano i movimenti e così, con un ossequioso rispetto, iniziamo a muovere i primi passi in questa fortezza, con un’angoscia crescente che via via ci fa dimenticare le risate dei giorni precedenti, la comicità del viaggio, la tranquillità che la circostante natura ferace infonde.
Ma è giusto così, siamo a Mauthausen: macello, obitorio e tomba di migliaia d’esseri umani, luogo di morte e metro di misura della bestialità umana.
La visita inizia dalla Appelplatz, e già qui il nostro sapere svanisce, la voglia di raccontarci l’un l’altro tutto ciò che sappiamo e abbiamo letto a riguardo scema improvvisamente…ci rendiamo conto di persona che niente e nessuno sa cosa sia stata veramente la deportazione.Solo chi ha vissuto a Mauthausen ha il diritto di parlare.
Che ci blocca è tutto quel sangue di cui sono intrisi i muri e il terreno, un sangue invisibile ai nostri occhi ma non al nostro cervello.Così come il nostro udito non può sentire le urla e i lamenti che riecheggiano continuamente nell’aria,e che la nostra testa distingue chiaramente.Sembra di vederli, quegli esseri dimenticati da Dio, dormire in tre o quattro in questi lettini angusti e spartani o lavarsi il viso in questi rotondi lavabi di cemento: chissà cosa pensavano, chissà quanti drammi tra queste stanze, cose che non riusciremo mai ad immaginare, perché un dolore simile non fa parte del nostro bagaglio di esperienze umane e proprio per questo non è riproducibile dalla nostra mente.
Per lo stesso motivo non potremo mai capire se sono state la speranza o la disperazione a spingere i cinquecento russi ammassati nel famigerato Block 20, a tentare la fuga.Solo diciassette di loro furono premiati dalla sorte, per gli altri una raffica di mitra, in un ghiacciato inverno austriaco, pose fine alla sofferenza.
Ora c’è il museo del Campo, ricco di documenti, date, cifre che però la lingua tedesca non ci consente di apprendere appieno, ma solo di intuire.E le foto, decine di foto che abbiamo visto decine di volte nei film, nei documentari, tra i libri; queste foto sembrano qui diverse, sembrano più vere, sembrano vive.Sono fantasmi che ti accompagnano per tutto il resto della visita, perché ogni cosa che vedi ora con i tuoi occhi, ha lo stesso identico scenario delle precedenti immagini.
E sembra così di vederlo, l’ufficiale SS, iniettare benzina nei corpi morenti dei detenuti avvelenati nelle camere a gas; sembra di vedere i forni crematori caricati di esseri umani,ma in realtà sono lì, vuoti e freddi e pare impossibile che possano essere serviti a cancellare ogni traccia dell’esistenza terrena di centinaia di migliaia di vite.Ed è lo stesso con quel tavolo di marmo, dove i cadaveri venivano sezionati per rubare anche l’ultima briciola di umanità che rimaneva loro; con le celle delle prigioni, dove si ammassavano i prigionieri per testare nuovi farmaci; e lo è pure con quell’oscuro sottoscala, dove l’ignara vittima veniva accostata a un sedicente antropometro che nascondeva in verità l’ennesimo strumento di morte che la fantasiosa mente nazista aveva escogitato.
Saliamo le scale, torniamo all’aria aperta, ma la nostra mente è ormai bloccata ad una realtà di sessanta anni fa.Il filo spinato che fa da appendice alle alte mura di cinta ci ricorda ancora una volta quanti uomini vi si sono lanciati sopra, nell’estrema ricerca della morte, rimanendovi contorti in posizioni inumane, come burattini manovrati da mani inesperte.Usciamo dal Campo, lasciandoci per un attimo alle spalle l’orrore.Un leggero declivio verde ospita i monumenti commemorativi che ogni nazione ha eretto alle vittime della follia di Hitler; scendiamo lentamente il vialetto e ammiriamo la bella vista che ci regala la sottostante cava in disuso.Ma l’illusione è breve, perché sappiamo bene che questo è l’ultimo regalo dell’inferno di Mauthausen; i nostri occhi cercano già sulla destra la Scala della Morte: circa duecento gradini quasi verticali che i detenuti dovevano salire con blocchi di pietra di quasi cinquanta chili caricati sulle spalle.
La vediamo, è lì, dopo il monumento ai bambini di Mauthausen, e decidiamo di percorrerla. Il fatto che Anna e Cristina, stanche per il viaggio, ci aspettino a metà e che a noi che abbiamo proseguito sia venuto il fiatone,non lascia spazio ad altri commenti.Dal basso la cava e la Scala si ergono solenni e distinguiamo chiaramente anche il punto da dove le SS, stanche della monotonia della morte che le circondava, inventarono un nuovo tipo di divertimento: sul costone verticale soprastante la cava, mettevano in fila dei detenuti, soprattutto ebrei, e costringevano chi stava dietro a spingere giù chi stava davanti; se i colpi ricevuti dal rimbalzare sulle rocce non fossero stati sufficienti ad uccidere il malcapitato, l’annegamento nel laghetto sottostante sarebbe arrivato puntuale.Carlo prova a sollevare un masso che ancora qui giace, ma non ci riesce e allora ancora guardiamo questa maledetta Scala, cercando di ricostruire cosa doveva succedere quando qualcuno, esausto, crollava, facendo così ruzzolare tutti quelli che gli stavano dietro, in un groviglio di carne e pietre che per l’ennesima volta il crematorio avrebbe cancellato.
Risaliamo lentamente, il gruppo si ricompatta.Ci aspettano un migliaio di chilometri per tornare a casa.Inizia a piovere e uno sguardo cattura l’ultima immagine di Mauthausen, quella che porteremo con noi.
Viene voglia di chiedere scusa, ci si sente impotenti.
Ma è così che deve essere.
“Se Dio esiste, allora deve chiedermi perdono”
Iscrizione su una cella di Mauthausen