di Ezio Abate –
Viaggio insolito in bicicletta nel paese delle aquile, tra il mare e le Alpi albanesi.
Amante dell’avventura e sprezzante del rischio nostrano, non curante dei consigli delle solite buone lingue, scartate a priori e a malincuore mete turistiche ambite come: Rimini, le Dolomiti, le Bahamas e la “Tunisia”, io ho scelto di farmi, da solo, un bel giro in bicicletta nella vicina Albania. Dopo la tranquilla attraversata Ancona – Durazzo in traghetto, eccomi smarrito e titubante pedalare sulla strada che conduce verso la parte sud di questa terra da qualche anno repubblica parlamentare. La strada e’ piatta, rettilinea con le sue insidiose buche e il traffico disordinato, gli automobilisti albanesi indisciplinati nei sorpassi; il sole che colpisce perpendicolare sui miei “garun”. La via e’ anche vita di tutti i giorni: contadini che vendono uva, meloni ed angurie di tutte le forme; bambini che pascolano pecore, capre, mucche solitarie dal fisico da far invidia alle cure dimagranti delle Tv locali italiane; bottiglie colorate piene di olio per auto, piccoli bar affollati di gente, per la maggior parte uomini che sorseggiano Coca-Cola o caffè, e i lavazho (autolavaggio) ad ogni curva. Io ciclista solitario, sudato, pedalo quando all’improvviso un sibilo scuote il mio orecchio sinistro, sono superato da un gruppo di bikers super accessoriati (casco, maglietta colorata con sponsor, bici con ammortizzatori, contachilometri e cardiofrequenzimetro, freni Abs), e’ questo forse il “famoso gruppo compatto”. “Che l’Albania sia terra di ciclisti?”. Dopo una salita torrida, giungo al Monastero di Ardenizza, di stile bizantino e con icone quattrocentesche dei fratelli Costantino e Attanasio da Korca che vi affrescarono le pareti. Accanto e’ sorto un albergo con il ristorante tipico. Passo la notte presso la casa di un contadino molto ospitale che preoccupato, mi informa che il Sud del paese e’ pieno di “banditos”, e che un uomo solo al comando rischia la vita. Io, al mattino, proseguo perplesso fino a Valona. E’ domenica, tutti sono in spiaggia: famiglie che fanno il picnic, gruppi di ragazzi che giocano a calcio o pallavolo sulla sabbia, ragazze in bella mostra in cerca di marito. E i “banditos”?!
Rimonto dolcemente verso il Parco di Llogarait con un coltello da pranzo fra i denti; ma incontro solamente ovini e caprini e asinelli, forse questi ultimi erano il mezzo di locomozione dei banditos? Sono stanco, esausto dalla tensione psicologica che da un momento all’altro sia assalito. Mi fermo presso una fattoria, un ragazzo sorridente mi viene incontro, parla italiano, io chiedo se posso fermarmi a dormire nel loro fienile. E’ subito amicizia, ospitalità, festa in questa famiglia albanese. Il padre fa il maestro, la mamma cambia vestito per l’occasione, la nonna fuma come tre turche, arriva anche lo zio ricco con 101 capre e Dorhi mi presenta i suoi due fratellini. Trascorro anch’io una domenica in famiglia. Alla sera si cena insieme: pasta e formaggio pecorino, carne e una grossa fetta d’anguria. Poi a nanna, al riparo da un forte temporale. Al mattino, un po’ emozionato, lascio i miei nuovi amici e proseguo verso il passo di Llogorait (oltre 1000 metri), fra pini, abeti e profumi mediterranei. Per tutta la giornata costeggio il mare: a volte accarezzandone le sue acque limpidissime, dall’alto notando i suoi colori nitidi e profondi di blu ed azzurro, le sue spiagge bianche con alcuni dei famosi ed ora variopinti bunkers antiinvasione. Attraverso agrumeti ed uliveti, villaggi tipici dalle costruzioni chiare, fanciulli alle fontane che riempiono variegate bottiglie, donne che lavano le stoviglie e i panni. Sono solo con il mio perpetuo pedalare, il sole rende arsa la mia gola, e’ un susseguirsi di saliscendi, la fatica e’ appagata dallo stupendo panorama. Giungo a Saranda, la città balneare più a sud dell’Albania, davanti alla piccola insenatura l’isola di Corfù, a qualche chilometro di bici la Grecia. Alla sera la gente si riversa sul lungo mare per la passeggiata serale, riempie i piccoli bar con musica americana, per un gelato, mangia nei ristorantini assistendo al tramonto. Riesco a trovare da dormire presso un privato, una famiglia benestante, un ricco come direbbe il mio amico Dorhi. A sud si trova l’antica città di Butrinto con i reperti archeologici più importanti del paese, citata da Virgilio nel terzo libro dell’Eneide, la sua nascita risale al VI secolo a.C.. Lasciata la spiaggia, mulino le gambe velocemente verso l’interno, dapprima il tragitto pianeggiante tra la campagna di granoturco e uliveti, poi s’inerpica con strappi perentori. Non c’e’ traffico, e’ silenzio. Risalendo ogni tanto mi volgo per ammirare il paesaggio e noto in lontananza una parte del percorso fatto il giorno precedente. Arrivo in cima al colle, la strada si allarga e si abbassa dolcemente verso la vallata, a destra porta al confine con la Grecia, mentre a sinistra tra lunghi viali alberati e ombreggiati procede armoniosamente verso Argirocastro. In poco tempo percorro i 30 km ed arrivo al bivio. Ascendo verso la cittadina, in basso, nuclei di edifici popolari del tempo comunista, in alto il forte, il castello e la parte vecchia della città con le sue case caratteristiche che ne fanno uno dei luoghi più belli e una città-museo. Lasciata la bicicletta in una stanza d’albergo, mi addentro nelle vecchie case di Argirocastro: tra vetrine di negozi artigianali e frutta, il barbiere con i suoi clienti in fila, i ristoranti pronti per gli avventori serali. Pochi stranieri si spostano da queste parti, ne ho contati una decina. Mi aggiro solitario, fotografo ogni angolo pure un vecchio quadro di eroi albanesi con la compagnia straordinaria di Garibaldi. I vicoli si riempiono la sera. Gli albanesi di solito mangiano molto tardi.
Questa e’ la città natale di Enver Hoxha. Prediletta dai pittori che ne ritraggono suggestivi quadri paesaggistici, nel suo antico castello e’ allestito il Museo Nazionale delle armi. Inoltre conserva una bella moschea ed il Centro Culturale Qendra Kultorore Murcali. All’alba lascio l’albergo Cajuti e la piazza principale con una mucca girovaga. Discendo tra le vecchie vie e imbocco la strada principale. Pedalo di buona lena verso Berat. Da queste parti e’ un susseguirsi di dolci colline e la mia bici ne segue silenziosa il profilo. Vigneti, campi per foraggio, villaggi e agglomerati di case di contadini. Sbuffa lento il treno e cigolano le vecchie pompe dell’oleodotto, l’asfalto abbraccia in un crepitio monotono le mie ruote. Il sole abbronza le mie braccia, mi fermo ad una fonte felice di rinfrescarmi. Uno spuntino veloce, risalgo in sella, imprimendo maggiore forza al mio passo, scollino tra frutteti e prati incolti, testimoni di un passato contadino duro ma fiorenti di raccolti. Berat e’ lontana, la pianura intorno a Fier sembra un inferno fa molto caldo. Volto a destra, scorgo lontano il borgo alto di Berat, altra città museo. Entro nella periferia dai condomini proletari, dalle mille antenne paraboliche tra panni sbiaditi, dai viali carichi di vita ma alquanto sporchi e disordinati. Dall’alto il centro storico con le sue mura e le poche torri rimaste, domina la città dormitorio sottostante. Davanti alla Moschea la fermata degli autobus per tutte le destinazioni, alcuni ragazzi vendono le banane, altri fermano i passanti mostrando loro svariati marchi e tipi di sigarette per l’acquisto. Un temporale rinfresca la serata lasciando dietro se’ tra gli edifici fatiscenti l’arcobaleno. Per me e’ stata una giornata lunga, la mia stanza si riempie di odori della cucina al piano inferiore. Dalla finestra vedo case vecchie, bimbi scalzi, seminudi giocare e rincorrersi sotto la pioggia battente, la stanchezza concilia il sonno.
Tra la frescura mattutina, attraverso i quartieri di Berat dove la vita e’ già in fermento. Dopo, ecco la pianura albanese bonificata nel periodo storico comunista, le cittadine industriali di Lushnje e Rrogozhine, il mio giro giunge ad Elbasan. Sotto un sole distratto, sudo la settima maglietta, quanto in battere di ciglia sono superato dal “famoso gruppo compatto”: in fila indiana e con cambi regolari, con i caschi dai mille riflessi, vedo i celebri ciclisti allontanarsi velocemente dietro un semplice dosso. Io penso: “Beati loro, hanno pure chi gli passa la borraccia con gli integratori, per me solo il sapore salato del mio sudore”. Giungo nel primo pomeriggio alla periferia di Elbasan, contraddistinta dalle sue ciminiere e i grandi stabilimenti anni venti di trasformazione e lavorazione del ferro. Ingaggio sul tratto piano, tutto alberato che porta in città, una gara con gli operai che ritornano a casa dopo il loro turno. L’aria dovunque e’ pesante, l’inquinamento atmosferico e’ certo, come quello nei fiumi dove ogni giorno sono riversati tonnellate di scorie, l’acqua cambia più volte colore. In città addento un hamburger made in Albania, non c’e’ male, ma forse e’ la solita fame, più in là una tavolata: il “famoso gruppo compatto”, dopo aver consultato la tabella calorica giornaliera, pranza con una grande spaghettata (quelli hanno il cuoco personale). Oggi la fortuna comunque mi assiste, seduto in un bar dall’insegna italiana, un ciclista solitario con la sua bici stracarica. Mi avvicino, attacco bottone, e’ tedesco di Berlino, io sono un po’ valtellinese e un po’ laghee’. Lo porto all’albergo e fissiamo l’appuntamento per la colazione mattutina delle
sette: insieme partiamo, dopo aver fatto un passo di circa 700 metri, per Tirana e poi si vedrà per il nord del paese. Ora non sono più solo, potrò scambiare pedalate e pareri, discussioni in compagnia, in lingua inglese. Dopo la colazione, percorriamo il viale alberato che porta alle ferriere, si svolta a destra, prendiamo la strada che in una cinquantina di chilometri ci condurrà alla capitale albanese. Il pezzo iniziale, che sale tra tornanti senza eccessiva pendenza, prosegue poi in altura con panorami e vedute sull’ Albania, tra pinete e vigneti; tracciato che fu costruito negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale dai fascisti italiani. La lunga discesa finisce proprio nel centro di Tirana. La città si annuncia con il suo inconfondibile traffico, il fischiettio inutile dei vigili, le bancarelle del mercato, i taxi sovraffollati, gli incroci con semafori che pochi rispettano. Alla ricerca di un albergo ci addentriamo in viuzze strette, sporche, risuonanti del vociare di bambini giocosi, mi ricordano quelle di Thamel (Kathmandu-Nepal). Nel pomeriggio assolato la città e’ deserta, noi due ciclisti latino – mitteleuropei visitiamo, con altri tre turisti indigeni, il Museo Storico Albanese: un viaggio dalla preistoria ad oggi della storia tormentata di questa gente. Davanti al Museo la Piazza Centrale con le fontane, la moschea e il minareto, il Palazzo del Parlamento e il grattacielo del Tirana International Hotel.
Dopo una merita e tranquilla dormita, partiamo di buon mattino; si raggiunge la strada che porta a Durazzo, poi si svolta a destra. Oggi vogliamo spingerci fino a Kruje: un tempo città fortezza a difesa delle incursioni degli Ottomani. Ci inoltriamo tra agrumeti e vigneti, all’ombra delle loro fronde la fatica ed il caldo si sentono meno. Veniamo superati dagli scalatori del “famoso gruppo compatto”. Il mio amico tedesco accenna ad un inseguimento, io tento di accodarmi e tenere il ritmo infernale, ma quelli hanno bici superleggere, il cambio elettronico, le nostre, invece, pesano oltre 30 chilogrammi. Dico a Ralf di lasciarli andare e gli passo la mia borraccia. Arriviamo a Kruje città contrassegnata dalla zona alta: con i resti della fortezza e la torre, come l’imponente statua dell’eroe nazionale storico Skanderbeg a cavallo, la parte vecchia con le poche case di legno lavorato. Da quassù si ammira il panorama sulla pianura albanese e il mare Adriatico con i suoi riflessi che ci giungono fino a noi. Nel pomeriggio mediterraneo visitiamo la zona della fortezza ed il vecchio agglomerato, senza le distruzioni e la poca manutenzione qui poteva esserci qualcosa di veramente singolare.
Ci godiamo, sorseggiando un caffè espresso sulla terrazza di un bar, il tramonto sul mare, con colori mutevoli dal giallo, arancione e rosso. In albergo e’ festa, c’e’ un matrimonio, le danze frenetiche ed il banchetto si protraggono fino alle 3 del mattino. Il giorno seguente il patto “italo tedesco: della pedalata d’acciaio” si dissolve, io proseguo verso il nord del paese, il mio amico alemanno va all’interno tra le montagne, le alpi albanesi. Ci lasciamo a malincuore. Dopo un’iniziale e reciproca titubanza, siamo diventati amici, più volte ci siamo offerti a vicenda da bere. “Buona fortuna Ralf ed in bocca al lupo. Scriviamoci al ritorno nella patria natia”. Di nuovo solo con il mio pedalare perpetuo. La strada pianeggiante, monotona porta a Lezhe. Quando io comincio a tossire, capisco che sono in prossimità di una zona industriale. Alcune ferriere, con gli altiforni, le ciminiere e il fumo che si propaga tutto attorno. Mi fermo per un caffè e tutti gli avventori mi chiedono dove vado, da dove vengo. Questi albanesi sono molto meravigliati e stupiti che io abbia fatto il giro in bici. Chiedo loro se hanno visto il “famoso gruppo compatto”. Un ragazzino, intento a mangiare una grossa fetta di anguria, mi conferma il passaggio da due ore e mi mostra soddisfatto la borraccia ancora piena ed una barretta energetica intatta. Io, seccato, azzanno con due morsi una pesca. “Ciao, devo andare”. Il sole comincia a battere sui miei “garun” indolenziti. E’ domenica mentre mi godo un po’ di riposo sulla solita veranda, del solito albergo a poche stelle, mi domando chissà dove pedala il mio amico germanico. Osservo passare la gente, noto che alcune ragazze albanesi sono carine. Ceno tutto solo, domani torno a Tirana e per l’ultima notte in Albania voglio dormire al Tirana International Hotel. E’ lunedì, tutti riprendono a lavorare. La strada e’ piena di gente che aspetta l’autobus che li porterà a destinazione. Tanti bambini, non c’e’ scuola, vanno nei campi ad aiutare gli adulti. Dopo 70 km. sono a Tirana, entro insieme al solito scompaginato e chiassoso traffico. Al Tirana Hotel monto fino al 13′ piano per una stanza con aria condizionata, telefono, radio e Tv, al prezzo di 130 $. Da cosi’ in alto vedo tutta la città, i rumori mi giungono attenuati. Domani ritorno in Italia. Scendo nella hall e subito mi accorgo di un gran via vai di gente, con magliette multicolori, macchine fotografiche e flash, registratori aperti. Entro in una sala attigua, e’ la conferenza stampa del “famoso gruppo compatto”. Coppe sulla sinistra, miss che baciano atleti con gli occhiali scuri, domande e sorrisi. Una giornalista orientale chiede ad uno dei bikers sul podio cosa lo ha interessato della città di Argirocastro, il biker risponde stupito che il Giro di Castro non lo ha ancora fatto. Un altro giornalista vedendo le mie gambe dall’abbronzatura da far invidia ai frequentatori delle famose isole Lampados, riconosce che sono anch’io un pedalatore perpetuo. Mi chiede quanto ho guadagnato per questo Tour d’Albania, gli sponsor, i rapporti usati. Io, in francese, rispondo che non ho sponsor ufficiali, che e’ tutto a mio carico, ed in quanto ai rapporti con la gente….L’intervistatore incalza chiedendomi perché sono venuto in Albania. Ad un accenno di mia replica lui se ne va sconsolato, preferisce la premiazione. La mattina dell’8 agosto, recupero la bici e pedalo sciolto verso Durazzo, di sera mi imbarcherò per Ancona. La mia mente, in questo tratto di strada facile, ritorna alle immagini delle giornate appena trascorse e si chiede perché in Albania. Scatto una foto ad un bimbo seduto che vende i suoi meloni, a contadini che lavorano sodo nei campi trascinando l’aratro. Forse la risposta e’ in loro.
Il traghetto salpa dal porto a tarda sera, siamo in pochi a bordo, solo turisti, per la maggior parte italiani. La scia, sempre più sottile, in lontananza, segna il distacco lento da questa terra. Poi le luci di Durazzo scompaiono nel buio lasciando il posto alle stelle che sono le stesse che brillano sul Lario, anche loro hanno visto l’Albania come il sottoscritto.
Arrivo a casa, c’è chi mi domanda di nuovo perché sono andato in Albania da solo, e… i banditi; qualcuno, anche sorridente, insinua che mi e’ andata pure bene, perché laggiù ti rubano tutto. Al termine di questo racconto, un po’ strano, mi chiedo chi vorrà pubblicarlo, a chi possa interessare che lo scrivente sia stato in Albania. Quale rivista specializzata voglia inserire questo pezzo. Fossi stato in Tibet a 5000 metri tra le vette himalaiane, oppure sulla mitica ed rovente Karakoram Highway o tra gli alti passi del Ladakh, al nord tra geyser della giovane Islanda, forse qualche redattore troverebbe lo spazio. Mi piacerebbe mostrare le mie diapositive in qualche scuola della mia provincia, ho fatto anche altri viaggi negli anni precedenti in bicicletta.
E poi il “famoso gruppo compatto” e’ stato ricevuto dalle autorità della propria città, con la banda e le majorettes, la festa in piazza e lo spettacolo pirotecnico serale. Io …… un lungo sorriso di mio figlio Stefano (due mesi e mezzo) dopo qualche ora di smarrimento, cosi’ piccolo deve già sopportare un genitore un po’ vagabondo e come dicono i
benpensanti: poco responsabile.
“Perchè l’Albania” vado chiedendomi da giorni lungo le strade alpestri di Traversa.
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