di Emanuele Meloni –
From Cagliari to Barcelona… From Barcelona to Madrid… From Madrid to Mexico city.
Sentimentale, l’originario motivo di questa trasferta, covata ed immaginata sotto un avvolgente alone di soporifera quiete familiare.
Avventuristico, ció in cui repentinamente si converte, le cui cause scatenanti della suddetta conversione inquadrabili all’interno della categoria della trascurabilità, in quanto provocatrici di noia e caratterizzate dal tedioso elemento del romanticismo.
Quanto segue è perlopiù tratto da personali appunti redatti durante il periodo in cui si svolgono le vicende raccontate, nonché un amorfo avanzamento di fatti e pensieri che hanno alimentato le sei settimane di questo mio solitario viaggio transoceanico.
Buona lettura.
SETTIMANA ZERO
13 Gennaio
Atterro un venerdì mattina, lo faccio prima che il sole appaia alle mie spalle a squarciare l’orizzonte. Lo faccio dopo aver sorvolato Santiago de Cuba e L’Avana.
I muscoli, le ossa stanche, fanno da contrasto ad un cervello come non mai elettrizzato. Percepisco un lieve, ma pungente timore.
Fisiologico.. diecimila chilometri mi separano oramai da casa e qui, sostanzialmente senza appoggio alcuno, un valigione in mano e uno zaino in spalla, possiedo il non inconsistente lusso di masticare piuttosto bene lo spagnolo. Ho bisogno di riposo.
Allacciare con i tassisti è un gioco. Gli incalzi domandandogli una banale informazione, delle volte futili richieste. Quasi in base ad un tacito patto di lavoro trasmutano in un libro aperto: fiumi di aneddoti e ragguagli fin quando non devono accostare per farti scendere. Si, perché sei arrivato a destinazione.
Il mio alloggio è ubicato fra le mura dell’antica residenza di Don Juan Manuel, caballero di alta casta, il cui personaggio si confonde con i miti e le leggende.
L’ostello è un flusso costante di girovaghi, studentesse, tedeschi dal tipico profilo turistico ai quali qualche borseggiatore è già pronto a dar l’assalto, inglesi giramondo, spagnoli e italiani vagabondi.
Non hai nemmeno raggiunto un sottile filo di conoscenza che già stanno lasciando vuoto e candido il loro posto letto, spariscono dalla mattina alla sera, si palesano e d’un tratto svaniscono, tali e quali a degli spettri.
È sufficiente scendere per i pochi scalini che connettono la stanza al cortile interno dell’antico palazzo, varcare la soglia del grosso portone in legno e svoltare il primo angolo: la città mi avvolge immediatamente. Non vi è fretta alcuna di andare a scoprirla, è lei a venirmi incontro. Le strade pedonali tappezzate di bar all’aperto, il costante risuonare di salsa dal loro interno, i venditori ambulanti di frutta tropicale e spremuta. Innumerevoli sfumature e particolari esotici mi trasportano in un battito di ciglia nel più autentico universo latinoamericano.
Il sole alto di mezzogiorno ti scotta la pelle, anche se è pieno inverno. Ti sfili la giacca, sbottoni un poco la camicia, un ultimo sorso di birra fresca, chiedi la cuenta e sgusci via, senza fretta.
Prima domenica.
La mattina stenta ad accendersi.
Il centro, la titanica piazza centrale, hanno sembianze affini ad un’arida landa desertica più che al cuore di una metropoli.
Per riuscire a consumare la colazione devo attendere fino alle nove.
SETTIMANA UNO
Sono parzialmente zoppo, ho una robusta fasciatura alla caviglia destra, non so esattamente il perché, ma suppongo sia conseguenza della scomoda posizione mantenuta durante il lungo volo di andata.
Non posso fare granché.
Ne approfitto per godermi il silenzio crepuscolare dell’ostello.
Andrò a letto presto, domani sarà una giornata lunga e faticosa.
Lungo la calle República de Perù, seppur posizionata in pieno centro historico, mi imbatto in scenari frugali, da cittadina di provincia.
I negozi a conduzione familiare ed i venditori ambulanti sostituiscono i centri commerciali incrociati poche centinaia di metri prima.
In questa strada si trova la mia lavanderia di fiducia.
Il profumo assuefante delle tortillas e delle carni in cottura che inebria i marciapiedi del centro è un ingannevole intrigo per le narici dei passanti.
Di certo non sarò il solo, ma consumare il pranzo in questa taqueria di strada non è stata la migliore delle decisioni. Dopo qualche ora infatti, puntuale, mi arriva lo scotto da pagare, la mia prima gastroenterite.
Discuterne con i locali mi rivela la consuetudine reiterata di questo problema fra i turisti, ed essi non di certo perdono occasione per inorgoglirsi, pavoneggiandosi per il loro stomaco di ferro.
Mercoledì 18 Gennaio.
Dopo aver trascorso qualche giorno nell’incertezza sfociante in sussulti di apprensione in virtù del congelamento momentaneo dei miei conti bancari, tiro un sospiro di sollievo appresa la notizia della risoluzione della rogna, e mi animo quindi ad esplorare finalmente il lato primordiale del Messico, quello prehispanico.
I retaggi del mondo indigeno appaiono evidenti anche in città: nella cucina locale, che eredita parecchi elementi della dieta azteca; nelle danze e nei costumi tradizionali; nelle strade e nei quartieri, spesso rinominati in lingua Nahuatl; nei lineamenti e nelle fattezze delle genti incrociate ogni giorno; nella ancor diffusa seppur spesso folkloristica pratica di mistici rituali.
Faccio conoscenza di Daniel. Il suo nome in Nauhatl è Citlalpilli, che dovrebbe significare, in base ad una ricerca approssimativa da me effettuata, “colui che proviene dalle stelle” o “colui che proviene da Venere”.
Daniel è un grande conoscitore della storia e degli antichi misteri della sua civiltà. Considera se stesso carnale successore e custode dei segreti che attorniano la cultura coltivata dai propri antenati.
-“Daniel, è difficile seguire gli insegnamenti dei tuoi antenati dovendo vivere con i ritmi della nostra società?”
-“Oggi non si è più abituati ad apprendere, a fermarsi ad ascoltare. La gente ormai da tanto, troppo tempo è diventata cieca e sorda agli stimoli dell’universo, perché vive di corsa, cercando invano di acchiappare un’illusione di felicità. Tuttavia esistono luoghi in cui è possibile riconciliarsi con se stessi, ascoltare il battito del proprio cuore. Raggiunto questo traguardo si è preparati per ricevere qualsiasi dono la natura sia in grado di offrire. Ma non c’è un luogo indicato per vincere questa sfida, ognuno deve impegnarsi a trovare il proprio, attraverso un faticoso e costante esercizio di apertura spirituale. Un luogo di pace non è per forza un luogo fisico, va innanzitutto cercato dentro noi stessi. Lo sciamano è il maestro in grado di insegnarti quest’arte.”
Egli mi farà da mentore durante il mio soggiorno e col passare delle settimane nascerà un rapporto di reciproca, profonda ammirazione.
Ma ho bisogno di qualcosa in più.
Ho bisogno di bruciarmi la pelle col calore di antichi fuochi.
I luoghi che un tempo furono dimora delle civiltà passate sono oramai celati dall’agglomerato urbano.
Per immergermi a pieno in quel mondo, attraverso tutti i miei sensi, devo lasciare la città, per scivolare verso la valle e le montagne circostanti.
Un luogo intoccabile, di un era remota. Non sembra roba di questo mondo.
Il vento delle anime che vi dimorano mi spira addosso e mi spinge ad una sua intima esplorazione.
Teotihuacán è in tutto e per tutto una metropoli antica, capitale dell’omonima civiltà, antecedente a quella Azteca, di cui quest’ultima ne è raccoglitrice di gran parte delle usanze, rituali e credenze religiose.
Quando i primi aztechi arrivarono nel sito di Teotihuacán non vi trovarono nulla. Una città fantasma, abbandonata tempo addietro, caduta in rovina. Probabilmente era stata logorata da guerre interne, incendiata, forse messa in ginocchio anche da siccità e carestie. Si stilano tuttora molte ipotesi.
Il mistero la fa da padrone.
La musica dal vivo nei locali notturni del centro addolcisce le sere di questo mio secondo fine settimana.
In un locale jazz per poter entrare sono obbligato a condividere l’unico tavolo rimasto disponibile con un ragazzo russo e con una ragazza per metà indigena, Xochitl. Il primo si alza subito, lei rimane in mia compagnia, compiaciuta.
-“Che problema ci potrà mai essere nello stare seduti con degli sconosciuti?”
-“Nessuno. Al contrario, sono uscita proprio con l’intento di scoprire nuove persone. Nulla di più interessante di stare al fianco di uno sconosciuto con qualche interesse in comune.”
-“Forse il ragazzo si è alzato perché non era proprio agio.”
-“Purtroppo l’umano si sta comportando sempre più come un robot, siamo preimpostati, incatenati ai nostri schemi. Sono felice di stare qui a parlar con te”.
Mentre il sole cocente della domenica pomeriggio mi penetra nella pelle, tuonano i tamburi che guidano le danze tribali e le mie narici inalano i densi fumi del copale ardente che fuoriescono dai turiboli in pietra.
La piazza è un ribollire di genti, suoni, profumi, sensazioni.
SETTIMANA DUE
Mi alzo prima che spunti il sole. Devo percorrere trecento metri lungo la via che dall’ostello mi porta all’angolo nel quale dovrei trovare la mia navetta per l’escursione.
L’Iztaccíhuatl è un vulcano dormiente che, insieme al ben più feroce Popocatépetl, domina la vallata scrutando severo e maestoso la città.
Attendo, inutilmente. Trascorre mezz’ora. Scopro che l’escursione è stata rimandata a giovedì.
Sto zitto, poi dedico non più di pochi istanti all’imprecazione, mi passa subito, non importa.
Decido dunque di investigare alcune fette della città su cui non mi sono ancora soffermato e mi rianimo immediatamente.
Coyoacán non sembra appartenere all’urbe. Non è ne metropoli ne villaggio.
Questo quartiere a sud della città appare come un’oasi, in mezzo al gran trambusto della capitale. Palazzi storici vestiti di tinte sgargianti fanno da scheletro al verde dei numerosi parchi, viali alberati, aiuole.
Una miriade di bancarelle e mercati danno vita a questo luogo in costante festa.
Mi soffermo su un venditore di latte di cocco e mi godo una tostada di polpo fresco.
Il sole ovviamente picchia forte.
Giovedì 26 Gennaio: Iztaccíhuatl.
Il furgone ci lascia al campo base a tremilanovecento metri di quota, dopo un’ora e mezza di tragitto attraverso gli ombrosi boschi di pino.
Zaino in spalla percorriamo tre chilometri di sentiero irto e insidioso, il sole allo zenit, le nubi sotto i nostri piedi.
Arrivati alla meta, dopo le consuete foto di rito, tre minuti di profondo silenzio pretesi da Ramy, la nostra guida, suggellano questo magico momento.
Alla scalata partecipa anche Pablo, un ragazzo argentino.
-“Sali spesso sulle montagne?”
-“Mai, oggi sono qui perché ho paura.”
-“Ovvero? che senso ha?”
-“Ho paura dell’altezza, infatti devo stare attento a non guardarmi indietro, non è facile per me.”
-“Perché hai partecipato allora?
-“Non sono mai riuscito a vincere questa paura. Forse da lei mi sono sempre nascosto. Oggi per me è una prova importante, magari non te ne accorgi ma ho l’adrenalina a mille. L’unico modo per sconfiggere i propri demoni è affrontarli a viso aperto. Sono molto speranzoso”.
Durante la discesa la visibilità è pari a zero. Ci vediamo avvolti dalle fredde, vaporose nubi invernali.
Incrociamo un gruppo di escursionisti che insieme al suo portatore si accamperà per trascorrere la notte; obbiettivo raggiungere i 5.286 metri della vetta entro le ventiquattro ore.
SETTIMANA TRE
Confondo giorni di vita mondana a giorni di esplorazione. Mentre mi concedo qualche bicchierino di liquore in più, si moltiplicano le conoscenze, tra le quali alcune femminili, sfociate in qualcosa di più di una semplice serata amichevole.
Il mio soggiorno si fa più spassoso e dilettevole.
Allo stesso tempo alimento le mie uscite in avanscoperta verso l’ignoto.
Martedì 31 Gennaio.
L’itinerario che mi conduce al parco archeologico di Tula, antica capitale dell’impero Tolteca, è lungo e si rivela più intricato del previsto. Dopo due ore di tram e due linee di bus verso nord approdo nel cuore della cittadina sotto un sole cocente. Sono le tredici in punto.
Da quel che ne posso sapere devo attraversare il centro storico e, dopo percorso un ponte sospeso, un quarto d’ora di salita sul versante di un colle mi separa dall’area archeologica; ahimè apprendo da una signora del luogo di una feroce inondazione che qualche anno fa quel ponte se l’è divorato. Mi vedo dunque obbligato a costeggiare il corso d’acqua per circa un chilometro fino al successivo attraversamento fluviale, tagliare lungo un cumulo di abitazioni senza intonaco, fra strade sterrate e auto semi distrutte.
Scopro quindi che l’ingresso verso il quale mi sto dirigendo è ormai da anni inutilizzato.
Allungo allora il mio cammino di un’altra mezz’ora in direzione del nuovo ingresso: ho il viso e le braccia stracotti dal sole, la maglietta inzuppata di sudore ed i piedi che ardono.
Non fa nulla.
Ne è valsa la pena.
Condivido la cima del tempio con un professore di storia:
-“Prima volta a Tula?”
-“Si primissima volta, la prima volta in Messico. E lei?”
-“Ci porto sempre i miei ragazzi. Loro però non ci tornano mai, la gente di Tula ormai non ci bada più. Ma immagino funzioni in questo modo un po ovunque, c’è tanto disinteresse. Io in compenso ogni volta sento qualcosa di nuovo, questo luogo ha da insegnare sempre qualcosa di diverso. Ci vengo ormai da più di quarant’anni.”
In effetti l’area archeologica è paradossalmente vuota.
Ma finalmente la seduzione di questo magico luogo viene rivelata.
Ancora una volta la storia, l’arcaico, svelano i doni del misticismo
Ancora una volta non mi resta che contemplare…
Mercoledì 1 Febbraio.
Eternalizzo il mio viaggio imprimendo per sempre sulla mia pelle il mitico serpente piumato. Quetzalcoatl per toltechi e aztechi, Kukulkan per i maya. Colui che dalle ceneri forgiò l’essere umano moderno, colui che gli conferì conoscenza e saggezza, colui che ne fece una creatura dedita alle arti e alle scienze, la cui figura divina si mescola con quella storica del poderoso re tolteca Ce Acatl Topiltzin.
Il percorso a bordo delle pittoresche canoe attraverso i canali di Xochimilco rappresenta la perfetta fusione tra la vita del mondo azteca, le sue originali rotte di comunicazione, con l’odierna vita mondana della capitale messicana. Vi trascorro goliardicamente il fine settimana.
SETTIMANA QUATTRO
Mi godo la tranquillità dei primi giorni della settimana vagando per il centro storico tra cocktail, tacos e prodotti di artigianato locale.
Scopro il caffè de olla, dalle connotazioni antiche, con i suoi sentori di cannella e che viene servito in caratteristiche tazze di coccio.
Sono giornate che si rivelano utili alla preparazione della breve avventura che mi attende a centotrenta chilometri di distanza dalla base.
Mercoledì 8 Febbraio.
Ho infatti deciso di trascorrere una notte nella vivace città coloniale di Puebla, quarto centro urbano della confederazione.
Passeggiare lungo le vie del centro mi pone dinnanzi al chiaro monopolio che la Corona spagnola ha ostentato in questi luoghi: classica geometria urbanistica ortogonale, architettura dai pregevoli retaggi barocchi, palazzi in stile coloniale, gli azulejos, ossia le decoratissime piastrelle in terracotta unite a formare splendidi mosaici, tipici in tutta la penisola iberica.
Faccio colazione con un prodotto anch’esso prettamente spagnolo, los buñuelos.
Durante l’itinerario mattutino che solca la città vecchia mi rendo conto dell’importanza che l’artigianato, l’arte, la musica, ricoprono su questa squisita località bohémien.
Durante il mio ultimo giorno a Puebla ho una sera di tempo per fare qualcosa di molto importante.
Dopo varie fastidiose fermate a bordo di vecchi autobus sforniti di ogni comodità riesco a raggiungere il parco archeologico della località di Cholula, poco prima della chiusura dei cancelli.
Giusto in tempo affinché possa osservare il bacio nefasto tra la leggendaria storia indigena e la prepotente dimostrazione di forza del mondo occidentale.
La chiesa di Nuestra Señora de los Remedios è stata edificata sulla cima di quella che si ipotizza sia la più grande piramide mai eretta dall’uomo, la Grande Piramide di Cholula.
È ormai notte quando faccio ritorno al mio ostello di Città del Messico.
La settimana scivola anonima fino al giungere della domenica.
Subisco la seconda cancellazione di un viaggio programmato. Compenso visitando palazzi storici ed una particolarissima libreria colma di volumi antichi, polverosi e malridotti, El Labirinto.
Mi rifocillo infine all’interno del gigantesco mercato rionale di San Juan, fra una brodosa trippa di maiale piccante e la popolarissima quanto paradossalmente introvabile barbacoa di agnello.
SETTIMANA CINQUE
Mercoledì 15 febbraio.
È l’alba quando approdo a Oaxaca. Da più di sette ore ho le natiche fastidiosamente incollate al sedile del bus che nella notte è salpato dalla stazione di San Lazaro.
Ho infatti percorso più di quattrocentocinquanta chilometri, in direzione sudovest, durante una notte pressoché insonne. Il lato interessante della faccenda è che non ho raggiunto la mia meta, bensì solo una tappa intermedia lungo il tragitto che mi condurrà al mio vero obbiettivo finale: l’Oceano Pacifico.
Tuttavia ho deciso di non procedere freneticamente verso la mia destinazione e mi regalo un’intera giornata di sosta nella capitale oaqueña.
Anche se le energie si affievoliscono e lo spettro del sonno si insinua nel mio corpo voglio in qualche modo ottimizzare la mattinata.
Dopo aver affidato il mio bagaglio alla reception dell’hotel mi tuffo alla ricerca di un mezzo che mi conduca fuori città. Ad una quindicina di chilometri, in cima ad un colle, esiste infatti un’area archeologica tra le più significative dell’intera Repubblica. Non ne so molto: era la capitale degli zapotecas, un’antica ed influente civiltà che dominava la valle di Oaxaca, di cui da quanto ricordo non si parla affatto nelle scuole europee.
Si chiama Monte Albán.
Rimango stupefatto. È un colossale agglomerato di edifici pregevolissimi. Non mi attendevo tanta maestosità e magnificenza. Un sito paragonabile per dimensioni, importanza e sofisticatezza alla già visitata e ben più nota Teotihuacan.
Mi ritrovo ancora una volta a bussare alla porta della dimora degli dei.
Giunto mezzogiorno non sono più in grado di continuare a mentire al mio corpo. Ho la palese necessità di buttarmi a letto e al rientro a Oaxaca gli occhi mi si spengono senza sforzo alcuno. Mi scaravento sotto una doccia divinamente liberatoria e dopo più di ventiquattro ore sprofondo finalmente in un sonno comatoso.
Recuperate totalmente le energie riesco ad incamminarmi verso il centro giusto in tempo per assistere da una terrazza alla struggente morte del sole all’orizzonte.
È qui che mi godo una delle serate più rilassanti ed intime di questo mio soggiorno latino.
Infatti nella notte a Oaxaca ogni piccolo locale, ogni angolo semi nascosto, ogni piazzetta appartata, pare essere in grado di donare una sensazione, un calore, un canto blues, il soffio di un sax, le movenze di un ballo latino, buon cibo, bei profumi, colori accesi, anime distese.
Mi pento di non esserci capitato prima.
La mattinata seguente è dedicata a sgomberare velocemente la mia stanza d’albergo per potermi precipitare in tempi utili nel piazzale da cui partono le navette che conducono a Puerto Escondido: ho intenzione di arrivare a destinazione ad un orario che anticipi il tramonto dietro l’oceano e che mi permetta quantomeno di godermi un paio d’ore prima che venga sopraffatto dalla stanchezza.
La navetta disegna una traiettoria interminabile tra le montagne avvolte dalla selva. Duecentosessanta chilometri di cui i due terzi curvilinei su versanti a strapiombo, snodati fra la maestosità delle foreste vergini. Il pericolo di uno scontro frontale è costante per via della quasi totale assenza di visibilità e della velocità a dir poco sostenuta del nostro autista. Una vera odissea su strada durante la quale ci punisce anche un acquazzone.
Solo una sosta fugace per rifocillarci e dopo chilometri e chilometri costellati da capanne di venditori di cocco e baracche in lamiera riusciamo ad acciuffare la meta.
Lo facciamo giusto in tempo affinché la natura possa offrirmi il regalo che desideravo ricevere.
Sono a malapena quattro i giorni che mi concederò in questo luogo, decisamente il più esotico visitato finora. Un paradiso terrestre. Ultimo lembo di terraferma che marca il principio dell’immensità dell’Oceano Pacifico.
Qui probabilmente più di ogni altra località anteriore mi sento sommerso dal clima latinoamericano.
Frutta tropicale, mojitos, pesce fresco di giornata, latte di cocco, platanos fritos. Prodotti a chilometro zero da consumare all’ombra di una palma, con i sensi addolciti dal fruscio delle onde abbattute sulla riva.
Un paio di giornate trascorse senza mai scollarmi dalla spiaggia e coronate da delle morbide serate al ritmo di salsa e free jazz.
Sabato mattina Juanito, un marinaio locale, mi consiglia di consumare il pranzo presso la baracca di Doña Juana, fronte alle imbarcazioni in legno cotte dal sole e dalla salsedine.
-“Prosegui ancora per cento metri, fino al palmeto che vedi laggiù. Chiedi di Doña Juana, lei stessa ti preparerà il taglio che preferisci e te lo arrostirà con le sue mani.”
-“Tu vai spesso a pranzare alla sua locanda, Juanito?”
-“Ogni giorno! Niente di meglio. Il turista medio è distratto e menefreghista. Si infila nei locali più costosi, dove la musica rimbomba più alta, dove le ragazze si vestono di meno. Non arrivano mai a godere di ciò che godiamo noi locali. Vai da Juana, non te ne pentirai.” Doña Juana è la matrona di una famiglia che si guadagna il pane salpando all’alba per raccattare ciò che in qualche ora il mare ha da offrire e cucinando all’aperto il prodotto freschissimo a qualche passante come me.
Luoghi, individui, situazioni d’altri tempi.
In tutto questo susseguirsi di bellezza trova il suo posto anche qualche disavventura tragicomica.
Non riesco infatti a scampare ad un ricovero per disidratazione a seguito di intossicazione, probabilmente d’ostriche.
Ne porterò il ricordo conservando i lori gusci pietrosi e ancor sprigionanti profumo d’oceano.
Ad ogni modo il tutto va scemando nell’arco di una mezza giornata, con una flebo collegata al braccio ed una buona dose di paura.
Non fa nulla. Fa parte del gioco.
A conti fatti Puerto Escondido è la degna e più goduriosa e più dolorosa conclusione del mio viaggio.
Le ultime giornate a Città del Messico trascorrono anonime, senza impregnarsi di chissà quale significato, se non quello di una percepita nostalgia, anticipatrice del viaggio di rientro.
Metto piede in Europa la mattina di sabato 25 Febbraio.
EPILOGO
CONCLUSIONI
Non obbligatoriamente dopo la fruizione di un racconto, per di più riguardante un’esperienza così fortemente personale, si debbono estrapolare dei commenti conclusivi.
Altresì di tale racconto ne è concesso il semplice ed effimero godimento.
Ciascun lettore le proprie conclusioni le tragga dunque autonomamente, sempre e qualora ne trovi lo stimolo e l’interesse. Personalmente posso solo regalare una modesta e cosciente riflessione.
Volendo andare all’esplorazione di un nuovo mondo e delle sue più recondite sfumature ho in realtà migliorato la conoscenza e la consapevolezza dei miei più interiori aspetti. Ho insomma scoperto una profonda parte di me stesso.