Viaggiatori, semplici turisti: in fondo quando si parte siamo tutti un poco uguali e in coda al banco del check-in è difficile distinguerci.
Tutti infastiditi se c’è da aspettare per qualche disguido, tutti sempre smarriti e pronti a seguire la fila che pare più corta o quello che di noi sembra avere le idee più chiare e la soluzione migliore, salvo cambiare idea al prossimo che si presenta con una soluzione che ci pare al momento migliore. E’ per questo forse che mi piace viaggiare da solo, io e Anna, per non essere accomunato anch’io ai turisti e per potermi tenere distaccato, un passo indietro.
Si parte con la Ryan Air, compagnia economica, molto economica: le valigie a Orio al Serio le dobbiamo inoltrare a mano sulla rulliera e saliamo a piedi sull’aereo attraversando la pista, oggi c’è il sole ma chissà quando piove.
Sull’aereo non hai diritto proprio a nulla e tutto si paga, pare proprio di viaggiare su di un autobus con le ali.
George lo steward nordico e algido come nei migliori luoghi comuni sui britannici impartisce lezioni sul modo di operare, in un inglese impeccabile e oxfordiano, a una terrorizzata Assunta hostess alle prime armi, italiana e scura, sempre come nei migliori luoghi comuni sugli italiani. Seduti di fronte a noi sui sedili di servizio li osserviamo, la vittima e l’aguzzino, e inevitabilmente parteggiamo per la nostra connazionale anche perché Gorge pare ha un’aria molto antipatica. Mentre le interrogazioni si fanno sempre più fitte e i cicchetti diventano insostenibili, la povera Assunta sembra sull’orlo di una crisi di pianto: è dura per tutti lavorare.
Non è che si arrivi proprio nella capitale francese, si atterra invece a Beauvais circa 70 Km da Parigi: allora tutti sui pullman che ci aspettano all’uscita di questo piccolo aeroporto sperso nella campagna francese. Dai finestrini il verde e il giallo dei campi coltivati dopo vari chilometri lasciano il posto al grigio dell’anonima periferia comune a ogni metropoli sino a quando da lontano non si vede svettare la torre di ferro che sembra costruita con il meccano da un bambino affetto da una precisione e dedizione maniacale. Poi si scivola via tra i boulevards e le avenues, come il Péloton del Tour de France quando si avvicina al gran finale costeggiando la Senna. Scendiamo a Porte Maillot al cospetto dell’enorme torre dell’Hotel Concorde. Qualche giro a vuoto con le borse pesanti sulle spalle e sotto il sole che qui tramonta molto tardi, e finalmente imbocchiamo le scale che ci portano sotto terra per il metro. A sera ormai tarda riemergiamo dal sottosuolo nella zona dell’Opera per raggiungere il nostro albergo l’Hotel des Arts incastonato in una zona a traffico limitato chiamata Cité Bergère. E’ il frutto di una dritta di un’amica, un foglietto con il nome e il numero di telefono che per anni, almeno tre se ricordo bene, avevo tenuto in un angolo del portafoglio.
Per la strada la gente è multicolore e variegata come tanti gusti di gelato nelle vaschette del bancone della gelateria. Una volta le grandi città mi facevano paura: avevo il timore di diventare un nulla di fronte a quella moltitudine di persone, case e auto rombanti; ora è invece proprio questo che mi affascina. Ognuno fa quello che gli pare, ora per esempio passa un tipo con una sorta di mini-abito femminile appena sotto il sedere abbracciato alla sua giovane e bella fidanzata, più in là una bicicletta a tutta velocità, che non si capisce come, emette un rombo che imita quello di una motocicletta a scoppio. La gente è attiva come se fosse giorno anche se è oramai l’una di notte di un giovedì. La osserviamo fino a tardi dai tavoli del bar dove gustiamo due deliziose crèpes avec deux boules de glace accompagnate da una ghiacciata e frizzantissima Perrier.
La cena era stata molto particolare, svoltato l’angolo del nostro albergo abbiamo scoperto il Limonare, un ottimo locale dove si servono piatti tipici e veloci ascoltando la musica dal vivo. Questa sera una ragazza accompagnata solo da un chitarrista ha cantato canzoni piene di significato e sofferte, per i francesi, noi l’abbiamo solo potuto intuire e non abbiamo non potuto apprezzare la musicalità della lingua. Dopo, a piedi dalla fermata del metro Grand Boulevard nei pressi del nostro albergo ci eravamo spinti sino all’Opera, la Madeleine e poi sino a Place de la Concorde. Abbiamo poi dato un’occhiata all’arco illuminato lassù in cima, in seguito siamo scivolati sulla rue de Rivoli per ammirare il Louvre di notte con le sue piramidi lucenti e in lontananza la Tour che infine, improvvisamente scintillante, ha doppiato la mezzanotte.
Venerdì 12 agosto 2005
I mussulmani credono che il paradiso sia una verde oasi dove scorre l’acqua in abbondanza. Oggi quando stanchi per il continuo camminare nelle vie di Parigi ci siamo abbandonati nei prati di Place de Vosges, tra le fontane zampillanti e il verde dell’erba ho pensato di averlo raggiunto quel paradiso.
Camminiamo camminiamo, fino a quando le caviglie sembra si aprano in due, ma non possiamo fermarci: dietro ogni angolo, all’aprirsi di un boulevard davanti a noi o nel vicolo più nascosto c’è sempre una sorpresa qui per noi a Parigi.
Abbiamo cominciato con la Tour Eiffel, ma non ci siamo saliti, la fila era già troppo lunga, io c’ero anche già stato e Anna non ne era molto interessata. Ci siamo allora imbarcati per una crociera sulla Senna contornati da una folla di giapponesi assatanati. Immagino che tra le varie azioni che deve intraprendere il vero uomo giapponese per affermare la sua posizione di predominanza rispetto alla donna, ci siano quelle volte a conservare quelle priorità ascrivibili solo al sesso maschile, come guidare la macchina o avere l’ultima parola, ma soprattutto non cedere mai la telecamera. Il giapponese tipo potrà al massimo barattare una maggiore richiesta di autonomia della donna cedendole l’uso della macchina fotografica ma non certo la facoltà di realizzare il film delle vacanze di Parigi. Questi uomini riprendo di tutto, anche la più piccola stupidata, e quando si intercettano negli obbiettivi fra di loro, iniziano a riprendersi a vicenda soddisfatti. Alla fine della crociera eravamo esasperati, non sono stati fermi un attimo hanno saltato senza sosta da un lato all’altro della barca lanciando gridolini di eccitazione e schiamazzi di richiamo non appena si profilava un monumento da riprendere o fotografare.
Per il resto è stato piacevole, la temperatura era ideale e il sole, seppur nascondendosi qualche volta dietro le nuvole, non si è dimenticato di cosa ci si aspetta da lui per il mese di agosto.
Con la metropolitana ci si muove veramente bene a Parigi e dopo l’iniziale e comprensibile periodo di adattamento, grazie a lei ci si trova come tra le vie di casa. Oggi abbiamo preso una linea che in alcune parti attraversa Parigi su di un viadotto ferrato che mi ha ricordato una scena di “Ultimo tango a Parigi” quando uno sconsolato Marlon Brandon passeggia a fianco dei suoi piloni metallici. Ma la sorpresa più grande è stato scoprire che invece che viaggiare sui binari ha gomme come quelle di un camion: non l’avrei mai immaginato.
Abbiamo poi deciso di vistare Notre Dame, per strada ci siamo fermati nei vicoli dei Marais in un simpatico localino di ispirazione bretone, dove abbiamo gustato dopo le entrées di rito, due ottime crèpes sarrasines con del sidro fresco che mi ha ricordato una vacanza tra il Finistère e il Morbihan.
Dallo stretto ma simpatico tavolino ci siamo persi a osservare il flusso dei turisti e dei parigini che ininterrotto ci sfilava accanto. Mi sono goduto soprattutto la scena esilarante di un maturo signore, con coda e barba incolta, probabile vezzo della giovanile contestazione all’ordine precostituito, fare i capricci contro la sua famiglia a quanto pare rea di non ascoltare le sue richieste e infine prendere di gran carriera la via del ritorno. Solo dopo le estenuanti trattative delle due figlie, dalle quali la moglie si è chiamata fuori, sono poi riusciti a riportarlo alla ragione, senza poter però evitare che il capofamiglia tenesse il muso nei confronti della moglie, ostentando anzi un atteggiamento di sfida, con le braccia conserte e senza rivolgere la parola a nessuno.
Dopo la pausa di Place di Vosges si è poi deciso, con ancora negli occhi la splendida cattedrale gotica prima visitata, di arrivare sino a Montmartre per vedere il Sacre Coeur. All’uscita della metropolitana una moltitudine di esercizi pubblici dedicati esclusivamente alla cura dei capelli delle donne nere: intrecciatrici di capelli e trecce finte, parrucche e parrucchieri specializzati nel lisciare e stirare i capelli, nel colorarli o chissà che altro, forse unicamente per fare assomigliare le teste delle donne di colore a quelle delle europee.
Gli scalini laterali che ci hanno portato alla basilica bianca che sovrasta Parigi sono ripidi come una scala marinara. Il santuario è relativamente recente e mi ha dato una sensazione di finto e ricostruito rispetto a tutto quanto visto in città, se non fosse che all’interno, a lato della navata, la statua del sacro cuore di Gesù mi ha colpito, i suoi occhi mi hanno immobilizzato, era come se mi guardassero. Non ho potuto non fermarmi a pregare tra la moltitudine di gente con le loro lingue diverse che mi passavano accanto.
Siamo poi scesi dalla scalinata principale saturata dalla gente, dai colori e dalle parlate eterogenee, mentre ci riempivamo lo sguardo con il colpo d’occhio della sottostante, vasta e distesa Parigi. Nella strada che taglia in due la scalinata un artista di strada, un improvvisato e simpatico quanto matto regolatore del traffico che nel suo modo buffo di muoversi e nel prendere in giro i turisti che attraversavano strappava applausi a più riprese alla gente seduta a riposarsi sui gradini.
Ci siamo spinti sino a Pigalle è d’obbligo, il Moulin Rouge e quell’aria di proibito che attira tutti i turisti in visita a Parigi. Devo dire però che il tutto è abbastanza volgare senza essere affatto provocante o eccitante, il grande mulino a vento pare fatiscente e i vari locali che promettono spettacoli particolari sono molto squallidi. Tende rosse nascondono le entrate e brutti ceffi piantonano gli ingressi con arie proprio poco raccomandabili.
Alla sera dopo cena nella zona dei quartieri latini, è ormai l’una, la strada si riempie improvvisamente di pattinatori in linea, sembra una gara o qualcosa del genere, ad aprire il corteo gli stessi gendarmes in pattini.
Sabato 13 agosto 2005
Stamattina al risveglio è come se nella notte mi fosse passato sopra un camion: camminare tutto il giorno ti distrugge, ci fanno male i piedi e i legamenti; ma purtroppo è l’unico modo per visitare la città e la voglia di scoprirla è talmente forte che ci dimentichiamo presto dei nostri dolori. Siamo sempre i primi a far colazione nella stretta ma accogliente saletta a fianco della reception, dove gustiamo i croissants salati e senza marmellata o cioccolato, mentre perdo coscienza osservando i disegni allucinogeni della frutta sulla tappezzeria.
Andiamo subito a visitare il cimitero di Père Lachaise al limitare di Parigi dove tra gli altri è sepolto Jim Morrison. Abbiamo vagato per un po’ senza orientarci tra le tombe. Il cimitero è solcato da vie come un paese, ci sono anche grandi strade trafficabili. I monumenti funerari sono tutti grigi, realizzati in calcestruzzo che nel corso degli anni ha perso i pezzi o si è inclinato donando all’insieme un’atmosfera di semi abbandono. Nonostante la nostra guida comprata in Italia e i pannelli segnaletici all’interno del cimitero abbiamo avuto qualche difficoltà a trovare la tomba. Una volta raggiunta è stata però una vera delusione. Una piccola lapide senza foto, del resto come tutte le altre, con pochi fiori, sotto la quale James Douglas Morrison riposa come dimenticato. Il suo sepolcro è abbandonato a se stesso e preda dell’incuria, tutto quello che butta la gente, specialmente sigarette intere è come se profanasse la sua ultima dimora. Delle transenne ci tengono distanti e non ci permettono di avvicinarci. Osserviamo così di lontano la tomba di questo mito del rock e io non posso non pensare se fosse ancora vivo: sarebbe forse oggi un tranquillo e anziano signore, magari in vacanza in Florida che rinnega il rock perché oggigiorno dice non ha più nulla da dire.
Ci siamo poi fatti tutti gli Champs Elysées, maestosi e grandiosi ma ormai colonizzati dai marchi e dagli slogan dei prodotti delle multinazionali, uguali ovunque, a Parigi, New York, Milano o Torino.
E’ inutile negarlo, quando si affrontano i luoghi affollati si pensa subito che si potrebbe cadere vittima di un attentato. Ormai è un fatto con cui bisogna fare i conti. Dietro Notre Dame un turista ha dimenticato la valigia. Si capisce che è una dimenticanza: non è nascosta, è in evidenza in mezzo al passo. Comunque le forze di Polizia si mobilitano. Noi che stavamo sonnecchiando sulle panchine del parco siamo stati svegliati dai fischi emessi da uno zelante agente che con il suo fischietto intimava ai turisti di allontanarsi dalla zona. Poi l’abbiamo visto armato di un nastro di PVC a strisce bianche e rosse delimitare la zona e prepararsi al peggio. Quando pareva che la situazione sarebbe ormai degenerata l’ignaro proprietario attraversando la zona off-limits, non degnandosi neanche di guardare l’allarmato agente e parlando con non curanza al suo telefonino, si è ripreso la valigia dimenticata.
In precedenza avevamo consumato un ottimo pranzo presso Aux Trois Bourriques nella zona di St. Germaine des-Prés, simpatico locale dove ci siamo sistemati all’esterno. Ormai ci siamo fatti furbi, l’acqua è meglio non prenderla visto che costa una fortuna, quanto una bibita, ci facciamo invece portare une caraffe d’eau che è gratis e il celeberrimo vin de pays che non è male e dovrebbe essere il nostro vino della casa.
Passeggiando ho trovato un simpatico negozietto con gli eroi delle bande dessinées: ho dovuto per forza acquistare un piccolo Tintin con il suo inseparabile Milou.
Fantastici poi i giardini di Luxembourg, un polmone verde che mi ha ricordato molto Central Park. Un riposino al sole sulle sedie di metallo disseminate lì per lo scopo e poi ci gustiamo il rito dell’aperitivo che qui è in voga come da noi.
Domenica 14 agosto 2005
E’ bello perdersi tra le vie dei Marais, nelle case di St. Germain o nei locali dei Marais alla ricerca di un luogo particolare dove pranzare, guardare la carta esposta, dare una sbirciata all’interno del locale: c’è gente, non c’è nessuno, forse non è il caso, andiamo. Evitiamo con cura i locali italiani dove non si mangia comunque mai strettamente italiano ma un qualcosa di simile e sono frequentati esclusivamente da quei turisti italiani che non possono dimenticare la pasta e non si vogliono sforzare ad assaggiare qualcosa di diverso. Ci piace sedere di fuori, osservare la gente, i parigini diventati di tutte le razze. Mi pare vivano in modo più disinvolto che da noi, non mi paiono vittime delle mode come noi, hanno uno stile quasi studentesco dall’aria vagamente di sinistra. Con le loro biciclette malandate o gli scooter dalle carrozzerie quasi sempre deturpate perché stazionano per strada, si muovono velocemente tra le rues che noi confondiamo se non guardiamo continuamente la cartina. Nonostante quello che si sente dire la gente è anche molto disponibile e gentile, anche nel fornire informazioni e siamo sempre stati trattati in modo molto garbato; da parte nostra abbiamo sempre cercato di esprimerci in francese senza pretendere che fossero loro a capirci come fanno alcuni nostri connazionali.
A vederla da fuori, con gli occhi del turista, sembra proprio una bella vita, i parigini sono molto attenti alla cultura e paiono educati al gusto del bello, amano questa città che è favolosa e ne sembrano molto orgogliosi.
Questa mattina ci siamo mescolati tra la gente del Marché d’Aligre. La verdura e la frutta sono freschissime, i frutti sono sovrapposti in castelli immaginari, le erbe aromatizzate a mazzi sui banchi diffondono il loro odore nell’aria, i venditori cercano di richiamare l’attenzione in mille modi, ci facciamo convincere e compriamo della frutta.
E’ sempre bello partecipare a quest’antica arte del vendere destinata ormai a sparire dai nostri paesi. Questo mi fa pensare a un manifesto pubblicitario di un noto grande magazzino pasticciato nella metropolitana: chi ha scritto dice che lui con le altre grandi catene di distribuzione hanno rovinato il piccolo medio commerciante. Penso che tra un po’ gireremo in un’europa tutta uguale fatta di enormi centri commerciali e negozi fotocopia l’uno dell’altro in franchising, si annulleranno le differenze e saremo tutti come clonati.
Oggi alla Bastille mi hanno avvicinato degli italiani, una famigliola: è qui la Bastiglia? Si certo signora. No, non la piazza, noi intendiamo il palazzo della Bastiglia! Mi dispiace Signora ma l’hanno distrutta durante la Rivoluzione!!! Mi scusi ma non siamo molto aggiornati.
Dopo aver visitato il museo di Orsay situato nel bellissimo terminal ferroviario recuperato in modo splendido ci siamo accasciati sulla scalinata osservando un artista di strada esibirsi con il suo flauto. Stasera è purtroppo l’ultima sera, abbiamo fatto il possibile per viverli intensamente questi giorni e ne siamo un po’ provati. Usciamo comunque alla ricerca di un posticino particolare, e per fortuna nei pressi di Place dei Vosges incappiamo in un raffinato e particolare locale di nome Page 35 dove sulle pareti sono esposti moderni quadri volendo acquistabili. La cantina è molto ben rifornita, il cameriere e quello che penso sia il titolare sono molto presenti e gentili, ci godiamo così l’ultima cenetta a Paris.
Lunedì 15 agosto 2005
All’alba lasciamo Parigi. Il nostro tassista addormentato e sbadigliante guida in scioltezza nelle strade deserte delle cinque di mattina fino a Porte Maillot dove sempre al cospetto dell’enorme Hotel Concorde che quattro giorni fa ci aveva accolto ci attende la navetta per Beauvais. Partiamo lasciandoci alle spalle Parigi mentre la radio diffonde le note di una malinconica Pausini arrivata fin qua.
Al check-in abbiamo la sfortuna di capitare nelle mani di una nuova impiegata che pare faccia esperienza supportata da un’altra che sembra ne sappia meno di lei: così passiamo quasi un’ora in attesa.
I controlli antiterrorismo sono accurati mentre l’altoparlante diffonde la voce esasperata di una zelante impiegata che dopo i continui richiami minaccia la distruzione di un bagaglio abbandonato. La sala d’attesa per la gate numero due, la nostra, non è che un tendone improvvisato da sagra paesana e regna una certa confusione nell’organizzazione.
Purtroppo a causa motivi di salute pare molto gravi di un passeggero, dalle facce spaventate delle hostess che cercano di ostentare una certa sicurezza, apprendiamo che dovremo dirottare su Francoforte affinché possa essere soccorso come il caso richiede. E’ strano penso, visto che ormai mi pare fossimo dalle parti di Lione o al massimo Torino, che l’unico aeroporto che ci potesse ospitare fosse proprio uno scalo minore di Francoforte dove atterra la Ryan. Atterriamo in questo piccolo aeroporto di campagna, piove a dirotto rispetto al sole che avevamo lasciato a Beauvais. Siamo tutti preoccupati, non si sa nulla e i sanitari saliti a bordo si attardano intorno al paziente senza sbarcarlo. Passano i minuti e siamo tutti preoccupati, sia che per la persona che sta male di cui non abbiamo nessuna notizia, sia che per il doppio atterraggio e decollo: il fuori programmo ci fa sentire molto insicuri e ci ricorda comunque che volare rimane comunque ancora un’operazione abbastanza complessa e rischiosa.
Non tutti i mali vengono per nuocere e grazie al fuori programma riesco ad ammirare dall’alto il mio Lago di Mergozzo, poi una volta atterrati una corsa verso casa: Anna ha solo mezz’ora di tempo per ripartire verso il suo posto di lavoro.
Che dire, sono stati giorni e notti intense; tre giorni e quattro notti. Parigi è molto bella, ma io sono forse di parte, amo la cultura e la lingua francese, la gente e il loro modo di vivere. E’ una nazione millenaria ricca di cultura e storia di cui ne va molto fiera, ma non per ripiegarsi su stessa e auto celebrarsi, ma anzi per usarle come slancio verso il futuro. Quando si viaggia tra i monumenti e i luoghi dove si sono svolti gli avvenimenti salienti della lunga vita di Parigi non si avverte quella sensazione di passato remoto comune per esempio a Venezia, quell’aria di grandezza mai più raggiungibile della Roma antica o la modernità di New York, ma anzi ci si rende conto di essere in un luogo che è stato e sarà ancora per molto uno dei centri del mondo.
Devo comunque segnalare che a noi italiani è stato fatto notare dai preposti organismi europei che è vietato usare il plurale della valuta comunitaria e cioè Euri (che in fondo è anche simpatico e dissacrante), mentre a Parigi mi è capitato di leggere all’imbarco dei bateaux mouches su di un cartellone la parola declinata al plurale: Euros.
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