Puglia coast to coast

di Marco Brando –
Da Ginosa a Campomarino: dal lusso al panino in spiaggia
«E mo’? Speriamo che dall’altra parte ci sia più vita», dicono due turisti dalla cadenza laziale, sotto il sole a picco di mezzogiorno. La Puglia comincia duecento metri più in là, oltre un vecchio ponte abbandonato e il cavalcavia della Statale Ionica, proveniente dalla Calabria. Sotto scorre il Bradano. Un confine al di qua del quale, nel territorio lucano di Metaponto, ci sono le vestigia del tempio greco di Hera, moglie di Zeus, protettrice delle donne, del matrimonio, dei pascoli e della fertilità: due file di belle colonne doriche, lì da 2600 anni e vigilate da nessuno, manco da un cane randagio, malgrado un edificio deserto presidi l’ingresso e ci sia una recinzione nuova di pacca, con il cancello aperto. Superata l’italica tentazione (data la latitanza di chicchessia) di scrivere su un capitello «Sono stato qui!», con tanto di data, apprendiamo, grazie a un cartello, che per i colonizzatori greci la terra a Nord di questo tempio era già straniera. Però alla tentazione di spingersi più a Sud i greci non ressero. E superarono il Bradano, sulla costa dell’Ionio, diretti verso il luogo in cui sorse l’antica Taranto. E noi, 26 secoli dopo, li seguiamo idealmente e modestamente a ruota. Il nostro viaggio lungo gli ottocento chilometri di coste pugliesi – fino a Marina di Chieuti, poco prima del Molise – prende il via da qui, dal confine più meridionale; alla faccia dell’ulteriore tentazione di iniziare sempre tutto da Nord, anche se, per ovvie ragioni, chi oggi viene in ferie nel Tacco d’Italia giunge per lo più da lassù.
Insomma una pensata meridiana», questa scelta di partire da Sud; o, se vogliamo, una lancia spezzata a favore degli antenati greci, che da queste parti si dettero davvero un gran da fare, senza offesa per eventuali radici celtiche. L’obiettivo? Quello di fare una rapida incursione tra la natura e la gente, le scogliere e le spiagge, lungo i bordi di una regione che sta consumando – tra turismo «forestiero », rientro di emigrati e villeggiature più meno fugaci dei pugliesi delle città e dell’interno – il rito ancora molto pagano dell’estate.

Riecco dunque i due turisti provati dal solitario impatto con Hera. Potranno trovare al di là del confine tra Basilicata e Puglia un po’ più di vita? Oltre il Bradano la faticosa Ionica dà l’illusione di essere una superstrada. Illusione concessa per pochi chilometri. Quanto basta comunque per imboccare la strada diretta verso la prima Marina p u g l i e s e , quella di Ginosa, i l cui centro abitato è trenta chilometri più su, verso le Murge tarantine. I due turisti, ammesso che si siano diretti in direzione delle vaste pinete che si intravvedono verso il mare, la prima testimonianza di vitalità potrebbero raccoglierla imbattendosi in un pub dal nome sfizioso e un po’ ermetico: «Le Freak c’est Chic». Alla ricerca, in teoria, di fricchettoni modaioli; una specie che a Marina di Ginosa, tuttavia, più che in via d’estinzione non deve essere mai esistita. Descritto come «una deliziosa località balneare all’ombra di pinete e di dune sabbiose che si affacciano su un mare cristallino», questo paese è già il primo esempio dei generi di turismo che convivono, senza fondersi quasi mai, in Puglia.
Quali? Un’ipotesi di lavoro è questa: ci solo le località, non tante, destinate quasi solo al turismo di largo raggio (italiani centrosettentrionali e stranieri), come Otranto o Vieste; quelle, più rare, destinate ad un turismo misto, in cui giocano un ruolo anche i villeggianti locali o d’origine locale, come parrebbe Porto Cesareo; e quelle, numerose, destinate quasi esclusivamente alle vacanze di chi vive o è nato nell’area circostante. Come Marina di Ginosa, appunto. Dove – al di qua e al di là della ferrovia – si riproducono senza alcun patema, in versione smutandata e pareata, i ritmi dell’ ozio domestico, a base di mangiate, panni stesi e overdose di tv. Qui nessuno è straniero, nel senso che tutti si conoscono.
A giudicare dalle targhe delle auto, Marina di Ginosa è la seconda casa di tantissimi materani, più tarantini e baresi. Con qualche debolezza per la lontana riviera adriatica nordista, se si considera che incontriamo il Bagno Cesena e l’Hotel Emiliano, l’unico a tre stelle. Fatto sta che la vocazione alla «seconda casa » e la mancanza di criteri di sviluppo hanno creato, in riva ad una mare effettivamente bellissimo, un paesone non disordinato ma tutto uguale, con rari negozi, senza un’identità precisa; e forse riconoscibile solo da parte di chi ci va da sempre, con nuovi palazzotti ancor più anonimi in perenne costruzione. Morale: un turista «a largo raggio» qui verrà difficilmente, perché non sembra una località turistica normale e, oltre tutto, gli parrebbe d’essere in casa d’altri. Eppure la Puglia riserva subito sorprese. Perché Marina di Castellaneta, appena dopo, è una copia già più evoluta della prima, dal punto di vista dell’industria turistica. Il paese ha tanti stabilimenti balneari, una parvenza di lungomare, una pretesa di cosmopolitismo.

E, pochi chilometri oltre, la specie pare essersi evoluta ancora, come in una sorta di frenetico esperimento genetico tra meravigliosi pini d’Aleppo: ecco un varco con sbarra e guardiani, l’ingresso dell’oasi di Riva dei Tessali, con famoso campo da golf annesso; e il complesso di Nova Yardinia, polo turistico di nuovissima concezione nel Sud, che scommette sul turismo tutto l’anno e su hotel a cinque stelle lusso. Un pezzo riveduto e corretto, in meglio, di riviera romagnola, con un profilo internazionale; nato però quaggiù, in riva a un mare incomparabilmente più limpido dell’Adriatico settentrionale. Bello? Bellissimo. Ciò che colpisce, semmai, è la disparità tra aree vicine, anzi confinanti, ma pressoché impermeabili le une alle altre. Di rado i due gruppi di turisti, di lusso e di tipo «locale», s’incrociano. Un turismo a compartimenti stagni.
Fine degli esperimenti? Macché. Nella graduatoria dei «villeggianti » pugliesi, c’è anche la casta dei pendolari «mordi e fuggi». Dopo i villaggi turistici di lusso, ecco quasi subito il regno dei tarantini che dalle periferie «vanno al mare », il più vicino possibile. Ci sono angoli della costa ionica nord-occidentale che sembrano usciti da un film neorealista. Seguendo le frecce per Pino di Lenne, ci s’inoltra in un bella pineta da cui, nell’ordine, spuntano prima un agglomerato di finti trulli ancora in costruzione e poi una serie di vecchie casette in legno che paiono dacie russe: deve essere stato un tentativo di colonizzazione turistica finito male, cosicché ora solo alcuni bungalow sono utilizzati e i ruderi della piscina lasciano intendere che l’acqua ci deve essere stata in un’altra era geologica. Più avanti si apre una specie di fiordo formato dal fiume Lenne, che non solo ha creato una zona di paludi e canneti inattesa da queste parti; la furia dell’alluvione dell’altro anno ha spianato il pontile in cemento che stava alla foce creando un vasto estuario, scavalcato dalla ferrovia. Sulla spiaggia, oltre le dune presidiate da vecchie roulotte, la gente gioca a pallone, consuma panini e si dedica alla pesca. Sullo sfondo c’è già il profilo dell’area industriale.

Una ventina di minuti d’auto ancora: gru e ciminiere sono davvero vicinissime, Taranto è pochi chilometri e pare impossibile che il mare possa ispirare una nuotata. Invece qui c’è Lido Azzurro: nella pineta dietro le ultime dune un banchetto di tavoli da picnic mischiati a vecchie automobili, un proliferare di pasta al forno e griglie per arrostire il pesce, segnalano la festa della Taranto popolare. Ci lasciamo la grande città alle spalle, con il suo arsenale militare e le sue fabbriche.
Appena usciti dal capoluogo ionico, un cartello scritto a mano da un benzinaio avverte: «Per i turisti. Ultimo distributore fino a Gallipoli ». Pensiamo ad una trovata pubblicitaria, dato che per arrivare a Gallipoli dovremo percorrere più di cento chilometri. Sbagliato. E’ un cartello serissimo. Infatti lungo la strada s’incocciano alcuni turisti forestieri che elemosinano qualche litro di carburante. Pittoresco? Naif? Mica tanto. Più che altro fa imbufalire e rende la lontana cittadina cara a D’Alema una meta tanto agognata quanto improbabile. Anche perché dopo Taranto il mare torna di proprietà dei tarantini che hanno più chance di quelli di Lido Azzurro: tra pizzerie, chioschi, seconde case più o meno rifinite, spiagge più chic e lidi più folk (tutti presi d’assalto), qualche albergo e auto ovunque; fino a lambire le onde di un mare azzurrissimo, a tratti quasi caraibico. Ma non c’è manco un simulacro di pompa di benzina, un rudere di distributore, uno spacciatore clandestino di ottani. Si procede così, senza pigiare sull’acceleratore e centellinando la preziosa super, oltre le marine di Leporano, Pulsano, Lizzano e via elencando.
Ormai l’area dei tarantini di città sta finendo. Comincia la zona delle seconde case più stanziali, almeno in questi mesi. Un tipo ci confida che nell’entroterra, verso Maruggio, un distributore c’è: «Certo – ammette compassionevole – se uno non lo sa come fa ad avventurarsi ».
Siamo rincuorati da tanta comprensione e dalla prospettiva di un pieno. Anche se il sole picchia e il caldo provoca qualche allucinazione, mentre si osserva la sequenza di varia umanità che popola cale e scogliere. Anzi no, è tutto vero: due piccole suore vestite di bianco camminano in riva al mare tenendosi per mano, con l’acqua che supera appena le caviglie. Una visione che ci riconcilia col mondo. Alle porte di Campomarino sfioriamo di nuovo l’acceleratore, più sereni. E viriamo verso l’interno. Inseguendo il miraggio di un benzinaio.

Campomarino-Leuca: il regno delle seconde case
«Ahò, come va?». «Ovvìa, non si può stare tutto il giorno al sole». «Hai visto quel pirla che a momenti mi stende col vespino?». Passeggiando in estate per Campomarino, frazione marinara di Maruggio, si può dubitare d’essere in Puglia. Stessa impressione verso sera, quando plotoni di ragazzi intasano l’incrocio tra la litoranea e le strade che portano verso il nuovo porticciolo e l’entroterra. Si dirà: chiaro che gli accenti sono diversi, sono turisti. Ma no… Troppo facile. Perché qui aleggia un’atmosfera di consolidata familiarità, sia tra le generazioni più fresche che tra quelle più stagionate. Familiarità che mal si spiega ricorrendo al regola della semplice conoscenza estiva tra gente proveniente di mezza Italia. Tanto più che alcuni ragazzi sfoggiano anche un italiano con curiosi accenti francesi o tedeschi.
Il fatto è che nei paesi e paesini sfiorati lungo la strada proveniente da Taranto predominano i pendolari o i tarantini del capoluogo muniti di seconda casa. Da Campomarino in poi s’incontra un’umanità in parte diversa, per quanto a sua volta «villeggiante ». In che senso? Dopo un rapido sondaggio, svolto carpendo discorsi o chiedendo lumi ai baristi, s’apprende quanto segue: qui in estate vengono moltissimi pugliesi nati nella zona (o famiglie in cui uno dei genitori è nato in Puglia) che, per varie ragioni ma soprattutto per lavoro, sono andati a vivere nel Nord Italia o all’estero: emigranti veri e propri o gente che scelse la carriera militare o nella pubblica amministrazione. In questo periodo tornano nelle loro case, comprate o ereditate, più o meno ampliate e rimaneggiate. Tornano con figli nati a Milano o a Zurigo, a Lione o a Roma. Figli, alcuni già diventati padri, che hanno i loro bravi accenti d’originemache qui si sentono a casa loro. E in effetti è così. Perché dei famosi turisti veri e propri anche da queste parti non c’è quasi traccia o sono una minoranza.
Così capita a Campomarino come nel paese successivo, San Pietro in Bevagna: la leggenda narra che la nave che conduceva Pietro Apostolo a Romavi fece scalo per il rifornimento di acqua, grazie ad una ricca sorgente, tanto che probabilmente Pietro avrebbe celebrato qui i primi battesimi cristiani in terra italiana. Comunque, mentre Campomarino si sente a pieno titolo frazione di Maruggio, San Pietro, ufficialmente frazione di Manduria, è guardato con occhi bramnosi anche anche da Avetrana, che è più vicina. Si mormora che sia pure questione di tasse e gabelle, Ici e condoni inclusi. Sentimenti che non s’alleviano neppure considerando che entrambe le frazioni da fine settembre a fine maggio si spopolano e tutto chiude, perché non ci abita, in maniera stanziale, quasi nessuno.
Già, i condoni…Da queste parti su un mare bellissimo, che si potrebbe godere cinque mesi all’anno, si specchiano file e controfile di palazzine, villini, villette, casette, alcune costruite in parte, alcune in perenne edificazione. Le vie spesso, soprattutto a San Pietro, sono nate così in fretta che nessuno ha fatto in tempo, o ha avuto voglia, di dare loro un nome, così magari sono contraddistinte da una sigla, scritta col pennello su un muro. Viene in mente che 19 anni fa, nel 1985, Michele Serra, allora all’Unità, passò da queste parti per un viaggio lungo le coste italiane, da Ventimiglia a Trieste. Della zona scrisse: «Il mar Jonio, pulitissimo, fragrante di salmastro, ricchissimo di calette e ancora di sabbia fino a Leuca, è una miniera sfruttata poco ma quasi sempre male… E’ difficile percorrere lunghi tratti senza imbattersi in lottizzazioni, cantieri, costruzioni casuali e approssimative, insediamenti umani che hanno il classico aspetto di quel precariato cementizio che ha rovinato gran parte dei litorali italiani». Poi: «Il caos è spicciolo, diffuso, continuo; e aggravato dal senso di sciatteria che danno le case non rifinite per mancanza di denaro, per improvvise grane legali o per qualunque altro motivo ». Morale: «E’ un mare meraviglioso che non basta, da solo, a dare ordine e senso a uno sviluppo casuale e improvvisato».
Quasi vent’anni dopo l’impressione che si ha passando da queste parti non è molto diversa, sebbene si legga che, malgrado il condonismo continui a dilagare, qualcuno abbiamo messo saggiamente la testa a posto.
Anche Porto Cesareo, malgrado goda di un turismo che pare più composito, non si smentisce. Il «caos spicciolo» è accompagnato da quello chiassoso dei residence, alcuni ancora in costruzione, che all’ architettura mediterranea preferiscono catafalchi postmoderni e colori psichedelici da far invidia a qualsiasi ipermercato. Poco prima c’è la frazione di Torre Lapillo, che – malgrado l’aria un po’ abbandonata e le solite villette fin sulla spiaggia – ha un aspetto familiare e rassicurante. Giovanni, nel suo bar «Mare chiaro», sforna ottimi fritture di calamari, polpette di ricotta e chele di granchio fritte a prezzi d’altri tempi, in un atmosfera da anni Settanta. Ma non nasconde qualche brontolio: «Qui la stagione turistica vera dura poco più di un mese. Pochissimo per riuscire a fare progetti. Tranquillità garantita a parte, la gente non sa che fare. D’altra parte, se qualcuno volesse venire a villeggiare fuori da quel mese e mezzo di stagione piena, troverebbe tutti i negozi chiusi. E se ne andrebbe. Occorrerebbe programmare bene. Invece…».
Ne deduciamo che invece la pubblica amministrazione, qui come in vari comuni vicini, forse s’accontenta di quel che passa il convento del turismo da cinque settimane l’anno. Oltre tutto, a Porto Cesareo si comincia a sentir dire che «quest’anno ci sono in giro meno turisti dell’ anno scorso». Gli alberghi sono pochi. Proliferano invece gli appartamenti in affitto, qualche bed e & breakfast, rari agriturismo.
Anche il residence multicolore incontrato poca prima non sarà un hotel, ci dicono, ma verrà frazionato in appartamentini. Insomma, seconde case. E un’offerta di altre seconde case in un’area con pochi servizi turistici manterrà pure bassi i prezzi degli alloggi, ma continua a ghettizzare la stagione nelle poche canoniche settimane; senza stimolare la creazione di infrastrutture, servizi, luoghi di svago in grado di «catturare» turisti italiani e stranieri a cinque stelle, quelli che portano davvero tanti soldi e consentono investimenti. Insomma, ci vorrebbe un colpo d’ala, finora esibito solo dai gabbiani che passeggiano, al mattino presto, sul pontile di Porto Cesareo. Dopo il paesaggio cambia. Inizia la riserva naturale di Porto Selvaggio, da Torre Uluzzo a Torre dell’Alto. Un miracolo di scogliere alte quaranta metri, mare blu notte e pinete immense. Miracolo dovuto al coraggio della gente che nel 1980 ottenne dalla Regione l’istituzione del «parco naturale attrezzato», 424 ettari, per frenare altre colate di cemento, che già incombevano. L’idea di salvare questo tripudio di bellezza ha funzionato, anche sul fronte turistico. Qui cominciamo a sentire le voci di villeggianti provenienti dal resto d’Italia e a vedere targhe straniere.
Un’antica tradizione di villeggiatura dei benestanti dell’interno offre lungo la strada più interna ville liberty ben tenute. Sul mare, Santa Caterina e Santa Maria al Bagno, appoggiate alla roccia, malgrado qualche eccesso edilizio paiono ordinate, pulite ed eleganti, ricordano la Riviera ligure tra Rapallo, Portofino e Camogli.
Gallipoli ci accoglie col suo solito terribile grattacielo grigio, spaparanzato davanti al centro storico. Malgrado quell’ombra incombente, qui il turismo è internazionale. E la cittadina lo ha meritato, anche se potrebbe essere più pulita. La strada corre lungo la costa fino a Leuca, passando da una marina all’altra. Il «caos spicciolo » non demorde ma è meno sguaiato rispetto alla costa precedente il parco di Porto Selvaggio. Un enorme sedia a sdraio, alta almeno quattro metri, segnala che Marina di Pescoluse vuole essere ricordata come «le Maldive del Salento». Il mare se lo merita, il seggiolone un po’ meno ma non sta proprio malissimo, lungo la strada. Semmai lascia perplessi, poco più in là, una chiesa nuova nuova, che pare la via di mezzo tra l’elmo di un gladiatore e una pagoda giapponese. Non essendo banale, anche se costruita nel continente sbagliato, deve aver richiesto molte riflessioni. Almeno, ce lo auguriamo. Si va avanti. E una curva strettissima ci catapulta verso Santa Maria di Leuca, dove la Puglia, con l’Italia, finisce, puntando verso Oriente.



Leuca-Torre dell’Orso: qui il buon senso ha vinto sul cemento
Ore 12 del ventisette luglio scorso. S’arriva a Leuca sull’onda delle parole lette, a fianco del rinomato motto latino «De Finibus terrae», nel sito Internet del Comune di Castrignano del Capo: «Impossibile non perdersi nell’orizzonte dei due mari che si incrociano all’estrema punta d’Italia, Punta Meliso, e diventano Mediterraneo sul quel promontorio che è custode geloso della cultura del Salento. Santa Maria di Leuca, con le sue splendide ville ottocentesche, è uno dei luoghi più eleganti e suggestivi del Mediterraneo ». Vero. Tuttavia, malgrado le suggestive premesse, veniamo accolti da un quesito: «Ma proprio adesso, in piena estate, devono smantellare la strada e sfasciare il pontile? ». La domanda, posta da una turista molto milanese ad un’amica, non è per nulla retorica.
Appena dalla litoranea si precipita su Leuca, provenienti dalla costa ionica, ecco un cantiere, in mezzo allo slargo che precede il lungomare. Poi l’ormai ex pontile degli Inglesi trasformato in pietrame. Merito dell’ escavatrice che un mese fa tentò di portare a termine la sua missione: far spazio all’ idroscalo, inteso proprio come scalo per idrovolanti, che un Aeroclub locale, col beneplacito del Comune, avrebbe voluto, o vorrebbe, realizzare lì davanti. L’amica della milanese comunque risponde: «Si vede che nelle altre stagioni non hanno avuto tempo». Risposta di circostanza ma sbagliata. Sembra proprio che la piena stagione sia il periodo peferito per smantellare e demolire.
Per quel che riguarda l’idroscalo, ci sono ancora le tracce della recente rivolta della gente del posto: poche centinaia di persone stanziali durante l’inverno, più battaglioni di villeggianti e plotoni di ambientalisti. Ora il pontile non c’è quasi più, troppo tardi; ma forse non ci sarà neppure l’idroscalo. In compenso, si preferirebbe una rete fognaria efficiente, giardini con giochi per i bambini, servizi un po’ più seduttivi per i turisti. In verità da queste parti – a giudicare dai cartelli di protesta scritti dai nemici degli idrovolanti – la gente mostra un po’ d’insofferenza verso il «lontano» municipio di Castrignano del C a p o , a qualche chilometro nell’entroterra: si sentono sottovalutati, malgrado quel municipio debba la fama a questa famosafrazione. «Vogliamo più attenzioni concrete e meno retorica », diconovari commercianti.
Tanto è vero che alcuni residenti più o meno stanziali hanno riso un po’ amaramente quando il 20 giugno scorso è stato costituito il Principato di Leuca, con tanto di cerimonia con costumi e pergamene e sponsorizzazione comunale. L’occasione? »L’insediamento del Principe Paolo Francesco I di Barbaccia degli Hohenstaufen… alla presenza delle autorità civili, militari ed ecclesiastiche presso Villa Reale La Meridiana, sede ufficiale del Principato e del Sovrano Ordine Teutonico». Lo si legge nel sito dell’Ordine, che, per quanto teutonico, è aggiornato sulle nuove tecnologie e fornisce pure la lettera con cui il Comune «formula i migliori auspici per la costituzione del Principato di Leuca, augurandosi che nel rispetto delle leggi dello Stato italiano e della religione cattolica possa realizzare un’utile opera di marketing territoriale». Marketing? Auguri. E pensare che Santa Maria di Leuca, malgrado nuovi principi e futuri idrovolanti, mantiene un fascino particolare. Vengono in mente le parole con cui Franco Antonicelli – uno dei più noti intellettuali piemontesi del Novecento, con radici pugliesi – scrisse nel 1954 in occasione di un viaggio nella zona in compagnia di Italo Calvino (riproposto nel volumetto Finibusterre, Besa editore): «Correvamo verso un punto preciso, un nome, uno scoglio, in cui con la Puglia finiva anche l’Italia. Ora la testa, la chioma dell’Italia si sperde in monti e foreste di altri paesi, e i confini non si avvertono,mail mare è l’infinito, il mare è il vero limite di un paese. Anche Reggio è alla fine della Penisola, ma subito dopo c’è l’isola e subito dopo l’Africa; non c’è il senso di perdersi. Ma a Leuca sì». La sensazione è ancora la stessa, mezzo secolo dopo, correndo verso il capo estremo del Salento e verso quel «bianco faro che – come scriveva Antonicelli – provava la luce nel suo occhio d’insetto».
Dopo Santa Maria di Leuca la litoranea procede verso Otranto, attraversando varie marine e due cittadine linde e pulite, Castro e Santa Cesarea Terme. Se prima di Leuca le spiagge s’alternano a basse scogliere, dopo, procedendo verso Nord, la costa diventa scoscesa, a picco, segnata dai fichi d’India, dai muretti a secco. Di fronte, nelle giornate limpide, s’intravede l’ombra della prima isoletta greca, Othonoi, al largo di Corfù; e il telefonino, a volte, si connette addirittura alla rete ellenica: col rischio di farci trovare sul conto telefonate internazionali, ma con il piacere di constatare che siamo proprio su quell’antico confine tra noi e l’Oriente.
Una decina di chilometri dopo Leuca s’incontra il Ciolo, una ponte a strapiombo su un fiordo d’acqua spumeggiante. Dal ponte – che compare in un film del 2002, diretto e interpretato da Sergio Rubini, «L’anima gemella» – ogni tanto c’è chi si tuffa, con un salto di oltre dieci metri. In fondo c’è una grotta in cui l’acqua è fredda e blu, dai riflessi incredibili, con i piccioni appollaiati sulle pareti. Si scende verso il mare, riparato, lungo un sentiero che parte accanto a un piccolo bar. Un’Acapulco di casa nostra, in questa insenatura dove, non a caso, fanno buoni affari tre o quattro ristoranti, per non parlare del Gibò, il night che accoglie vip, aspiranti vip o osservatori di vip provenienti da tutta la Puglia e dintorni.
Se al Ciolo la folla c’è sempre, poco oltre ci si può imbattere in zone più tranquille.E’ il caso di Marina Serra, una frazione di Tricase cui si giunge scendendo per una ripida stradina piena di tornanti. In fondo, sulla scogliera, poca gente; e, lungo la strada, un simpatico parcheggiatore, Maurizio, non più giovanissimo, che vigila con grande pacatezza su i rari automobilisti che scelgono i trecento metri di strisce blu per parcheggiare. A proposito, lungo tutte le coste salentine le strisce blu sono state disegnate ovunque, anche dove non c’è nessuno né a vigilare né a parcheggiare; come se ci si augurasse che, nel dubbio, qualche svizzero o varesotto ligio al dovere un grattino possano decidere di grattarlo davvero. In ogni caso Maurizio ogni tanto si sofferma a meditare guardando il mare. Un esempio di calma olimpica: «Quest’anno c’è meno gente. Me lo dicono anche i colleghi. Ma speriamo in agosto». Come sempre. Di certo, i 51 chilometri percorsi dal nastro d’asfalto che unisce Leuca e Otranto costituiscono una tra le più belle litoranee italiane. Il paesaggio a tratti pare quello delle scogliere islandesi, miracolosamente baciate dal sole. O una savana, che si getta in un mare sempre accarezzato dal vento. Castro e Santa Cesarea sono all’altezza. Pare che da queste parti la frenesia cementizia sia stata quasi del tutto sedata dal buon senso; e, forse, dall’amore a prima vista che il panorama suggerisce. Santa Cesarea gode del privilegio di poter contare sugli stabilimenti termali, in grado di garantire una stagione più lunga. Castro è una meta costante di visitatori, grazie pure alla grotta Zinzulusa; anche se non si capisce perché, con tutto quel mare azzurro lì sotto e nei dintorni, la gente faccia la coda per tuffarsi in una piscina vicina al parcheggio della famosa caverna. Mistero… E poi ecco Otranto: anche se forse il centro è diventato fin troppo «turistico», un po’ artificiale, parlarne bene è quasi scontato, sebbene di strada se ne debba fare ancora. Una strada imboccata quando, nelle pinete vicine ai laghi Alimini, nacque nel 1970 uno dei primi villaggi, il Club Med, seguito da molti altri. «Le cinque vele ottenute per il miglior mare d’Italia sono il punto di partenza per ogni ragionamento», affermaRenato Bruni, direttore dell’Hotel Solara. «Quest’anno le presenze sono in calo ovunque, ma Otranto riesce a tenere bene», aggiunge Ernesto Refolo che, con i l socio Stefano Rizzo, gestisce la «Croce del Sud Viaggi».
La strada continua lungo le coste dell’Adriatico, tra spiagge e scogliere, con tratti molto belli e non solo per mare: è il caso dei laghi Alimini. Vi si possono noleggiare canoe. E avere visioni: ecco un vero taxi di Milano che si materializza tra i pini, guidato da un vero taxista meneghino. Allarmato dalla nostra sorpresa, ci rassicura: «Sono fuori servizio. E sono qui in ferie». Ricomparirà, poco dopo, a Sant’Andrea, di fronte a faraglioni e archi di roccia. Tassinaro originale in vacanza o autentico miraggio estivo? Se fossimo turisti milanesi in crisi d’astinenza metropolitana, dovremmo davvero cominciare a preoccuparci…
Ancora pochissimi chilometri ed ecco la spiaggia stracolma di Torre dell’Orso.

Da San Foca a Torre Guarceto, le cabine diventano case
Torre dell’Orso – nella Marina di Melendugno, di cui è una frazione – pare una cittadina in pieno fermento. C’è un’atmosfera, come dire…, romagnola. Le rosticcerie arrostiscono a più non posso. La pasticceria sull’incrocio principale sforna paste e pasticcini. Le bancarelle gestite da alcuni cinesi lasciano intendere che gli affari si fanno, altrimenti non sarebbero giunti dalla Cina fin quaggiù. Non solo. C’è anche spazio per la trasgressione: dietro l’insegna “Il Canapaio”, ecco un negozio che propone, in franchising, prodotti derivati dalla canapa indiana e relativi accessori, più magliette e gadget vari dedicati al tema. Ovviamente un cartello avverte che pipe, pipette, grossi bocchini e cartine non sono che roba da collezione; mica servono per fumare davvero.
Tuttavia – di fronte ai rassicuranti striscioni che annunciano, secondo tradizione, la “Sagra te lu purpu” e ai paciosi manifesti che propongono la “Festa della cucuzzata” – qualcuno potrebbe davvero essere tentato, per una volta, di trasgredire, tradendo sia “purpi” che “cocuzze”. Altroche Amsterdam.
Infatti, non si sa se per merito della trasgressione o della tradizione, qui s’incrociano sia villeggianti con radici pugliesi che g i o v a n i con tutti gli accenti d’Italia.
E la spiaggia all’ombra della torre è assai affollata. Le ragioni per cui questa località piace a tanta gente forse non è chiara, ma di certo funziona. C’è da dire che tutto il litorale da qui alle frazioni marinare di Lecce, fino a San Cataldo e oltre, è affollato. Man mano che si procede verso Nord aumentano i pugliesi e diminuiscono i forestieri. Tuttavia di gente ce n’è. E, sebbene pure qui si segnali una flessione di turisti, se ne vede molta.
La vicinissima San Foca (per i perplessi: dal nome di un martire cristiano ai tempi dell’imperatore Traiano) non smentisce questo andazzo. Anche se il palazzotto che accoglie oltre centocinquanta immigrati giunti in Italia clandestinamente, posto all’entrata del paese, crea qualche scompenso: almeno a chi non è abituato a vedersi di fronte, tra un canneto e la spiaggia affollata, una costruzione che pare proprio un carcere, anche se tanti assicurano il contrario. E’ il Centro di permanenza temporanea Regina Pacis, ma, a torto o a ragione, fa venire in mente nel suo piccolo, soprattutto Regina Coeli, il vecchio penitenziario romano.
Ci sono telecamere ovunque, alte cancellate, reti ancora più alte, panni stessi sui bordi di piccole finestre, carabinieri di fronte all’ingresso che guarda la spiaggia, nel canneto retrostante, dentro i recinti.
C’è da osservare che sulla spiaggia, trenta metri avanti, la vita balneare scorre implacabile. Anche se il 12 luglio scorso l’odore dei lacrimogeni giunse fino alle prime file di ombrelloni, a causa di una manifestazione pro-immigrati. Oramamme in bikini con bimbi al seguito passano davanti alle reti del centro: al di là ci sono due ragazze, sedute su una panchina, non lontano da un carabiniere. Paiono orientali. Salutano i bimbi, i quali rispondono al saluto. Il tutto mette abbastanza tristezza e induce all’augurio che le «autorità competenti», da Roma in giù, sappiano quel che fanno.
La strada si lascia alle spalle San Foca e raggiunge San Cataldo. E’una delle cosiddette frazioni marinare di Lecce, tutte servite da una linea di autobus urbani. Insomma, è proprio il mare dei leccesi di città e bisogna ammettere che qui hanno usato la mano (dal punto di vista del cemento) in maniera un po’ meno pesante rispetto ai tarantini. Tra gli ombrelloni sventola una bandiera nera dei pirati, con tanto di teschio e tibie, certamente un gesto scaramantico.
Marina di Frigole, rispetto a San Cataldo, un debole per il cemento invece ce l’ha: non ci sono condomini spacciati per villette, in compenso le cabine, quelle dove i bagnanti si spogliano, sono di cemento e si sono spinte fino sulla riva del mare, marciapiedi compresi. Manca solo la metropolitana. Alcune casette, un po’ più a ridosso, hanno l’aria di essere state cabine poi amalgamatesi per diventare, appunto, casette: forse non è così ma sarebbe bastato buttare giù qualche muro tra una cabina e l’altra.
Le antiche torri costiere, più o meno cadenti, proseguono, accerchiate dalle relative frazioni. L’ultima è Casalabate, luogo di villeggiatura privilegiato dagli abitanti di Squinzano, Campi Salentina, Trepuzzi, più qualche forestiero. Squinzano lo vorrebbe tutto per sé; e infatti nel sito internet del Comune si legge che Casalabate «ha un solo requisito negativo: quello di giacere in territorio dipendente dal capoluogo di provincia e di essere soggetto, quindi, amministrativamente, al Comune di Lecce». In verità una signora, da dietro il banco del suo bar-rosticceria- appartamento, ci dice che pure da queste parti ci sono meno villeggianti: «Sono tutte seconde case, più appartamenti in affitto, che in parte sono rimasti vuoti pure in agosto. Mai successo. Ora la folla c’è solo nei fine settimana, anche se dicono che il campeggio è pieno». Però il tempo qui sembra essersi fermato: non ci sono obbrobri edilizi vistosi, la gente conversa ancora fuori dalla porta di casa, riunita in crocchi; e le vie sono piene di paciosi venditori di frutta fresca, lupini e arachidi, trecce d’aglio, peperoni secchi, angurie, cesti di vimini, vasi di terracotta. E s’organizzano cacce al tesoro e tombolate. Trenta o quarant’anni fa la sceneggiatura doveva essere identica.
Se Casalabate ha una sua fisionomia, invece le marine di Lecce più prossime al capoluogo qualche problema d’identità ce l’hanno: un manifesto chiama a raccolta «tutti i proprietari di unità immobiliari di Torre Chianca, Case Simini, Zona Gelsi, Spiaggia Bella e Torre Rinalda. Tema: «Problematiche del litorale interessato in continuo degrado dopo la non conferma dell’assessorato alle marine e il poco impegno dimostrato dal consiglio litorale». Vogliono una farmacia, un ufficio postale e un ambulatorio medico. In bocca al lupo.
Ancora pochi chilometri e lo scenario cambia di colpo. Non solo perché la provincia di Lecce lascia il posto a quella di Brindisi. Uno stradone offre la maggior concentrazione mai vista di lampioni alimentati da pannelli solari, come se qui l’energia elettrica normale fosse una rarità. Tuttavia, tra un lampione e l’altro, spunta un’enorme ciminiera, in lontananza: quella della megacentrale termoelettrica Enel di Cerano. E’ intitolata, come recita una grande scritta posta su una facciata, al solito incolpevole Federico II, cui evidentemente tocca cuccarsi, oltre agli onori per esser stato il primo vero affezionato turista tedesco di Puglia, anche l’onere di prestare il proprio nome a qualsiasi cosa, compreso il mastodonte elettrico. Viene in mente quel che ci raccontò Al Bano, che abita a Cellino San Marco, qualche chilometro nell’entroterra. «Da bambino, all’inizio degli anni Cinquanta, i miei genitori, che erano agricoltori, mi portavano al mare a Cerano: un posto bellissimo, non c’erano ancora le centrali. A noi toccava raccogliere giunchi per costruire le ceste; il nostro asino poteva fare il bagno, per rinforzarsi ».
Altri tempi? Eppure, verificare per credere, il mare di fronte alla centrale ha ancora i suoi fan: una freccia con scritto «Lido Cerano » indica una strada che s’inoltra tra pini, cipressi, pioppi e vigneti. E sbuca davanti ad uno stabilimento balneare, decoroso e non affollato, che s’affaccia sulla baia. La gente prende il sole, nuota, chiacchiera, incurante della centrale Enel, vasta come quattro stadi di calcio e alta come un palazzo di trenta piani, ciminierona esclusa. In fondo basta guardare sempre davanti a sé o a destra, senza mai girarsi verso sinistra, verso il catafalco. E il luogo pare pure bello, così come l’acqua è limpida e pulita. Un posto da intenditori, evidentemente, anche se a un profano può sfuggire quale sia il suo fascino. D’altra parte anche chi decide di installare cartelli deve esserne convinto, visto che – accanto alla freccia – ce n’è anche una che, nella stessa direzione, indica un «Belvedere». E infatti, superata la centrale, su un dosso c’è uno slargo con vista sul mare e sulla centrale. Geniale. Non resta che dirigersi, superate Brindisi e Punta Penne, verso la non lontana Oasi naturale di Torre Guaceto, una delle più belle della Puglia. Chiedendosi quale sia la ragione per cui c’è chi preferisce prendere il sole schivando l’ombra di una ciminiera. Perché una ragione ci deve pur essere…

Da Torre Guaceto a Monopoli, ignorate spiagge da sogno
Si lascia la superstrada e ci s’inoltra verso la costa, dopo aver superato un piccola masseria che vende frutta e ortaggi ai bordi della carreggiata. Un tempo qui sbarcavano gli arabi, i saraceni, durante le loro scorribande lungo l’Adriatico. Prima ancora era un luogo prediletto dagli uomini dell’età del bronzo, messapi e micenei. Insomma, una vera chicca, da sempre. Tanto è vero che nel XVI secolo il marchese spagnolo Ferdinando De Alarcon fece costruire una torre di avvistamento per tenere d’occhio la baia. Perché questa zona era una specie di stazione di servizio, ben riparata dal vento, lungo chilometri di costa arida: vi si poteva trovare acqua fresca, indispensabile per dissetare marinai di ogni razza, religione e risma. E così la torre in questione prese il nome del luogo, Guaceto, che deriva dall’ arabo “gawsit” e significa “luogo di acqua dolce”.
E oggi? Oggi l’intera area, in provincia di Brindisi e nel Comune di Carovigno è una delle oasi naturalistiche più belle dei litorali italiani, affidata dallo Stato alle cure del Wwf. Con la differenza, rispetto a cinquecento anni fa, che di spagnoli non c’e’ piu’ traccia (e, d’altra parte, è una delle categorie di turisti stranieri meno rappresentati in Puglia e Sud Italia, forse perché si sono tolti lo sfizio quando qui erano i padroni i casa), tanto meno di marchesi; in compenso qualche arabo c’è: vende asciugamani e parei ai bagnanti che scelgono questa zona della costa per bagnarsi e prendere il sole.
L’acqua dolce a disposizione, sotto forma di una solitaria fontana pubblica dell’Acquedotto pugliese, c’è sempre; ma la gente preferisce trascinarsi dietro enormi “frigobar” e/o fare la coda davanti al pulmino che vende panini, birre, bibite varie e patate fritte, serviti da gentile ragazze col camicie bianco sopra il costume da bagno. Infatti il novanta per cento dei bagnanti s’affolla nei paraggi di parei e panini, trascurando il resto. Un vero peccato, perché è come se la folla – accompagnata da centinaia di automobili per fortuna “confinate” in un parcheggio a pagamento – si fosse fermata a gozzovigliare sull’ uscio di casa. Il fatto è che in questa splendida oasi – provare per credere – ci sono, poco lontano dai due lidi presi d’assalto, alcuni angoli di paradiso, tanto da far rimpiangere i soldi spesi per trasvolate ai Caraibi in cerca di spiagge quasi uguali ma più affollate. Certo, bisogna aver voglia di sudarsele le spiagge caraibiche di Torre Guaceto. Nel vero senso della parola. Perche’ per arrivarci si deve camminare almeno per tre quarti d’ora, o pedalare per una ventina di minuti, sotto il sole cocente d’agosto, a meno che non si parta al mattino presto. Un tragitto, tutto sommato breve, che non scoraggia i ruspanti turisti nordici, i villeggianti italiani ecologisti e naturisti (intesi come nudisti) e molte coppie omosessuali in cerca di privacy. Come testimoniava, urlando nel telefonino, una signora romana giunta ansimando fino ad una delle prime zone isolate: «Bello è bello. Eccome. Ma fa un cardo che se more. E poi oltre a essere tutti nudi so’ pure… gay (a dire il vero, la vivace signora ha usato un termine molto più romanesco, ndr)». In verità i gay, come sempre, non danno fastidio a nessuno. E qui è difficile che qualcuno dia fastidio. Tra un bagnante e l’altro, nelle spiagge e negli anfratti lungo la bassa costa rocciosa, ci possono anche essere trecento metri. Insomma, bisogna avere il coraggio di farsi la camminata assolata (o una pedalata con le bici a noleggio nello stand dell’Oasi, come abbiamofatto noi) e il paradiso è alla portata di tutti: non c’è solo il mare, diviso in tre zone potette a seconda della rilevanza naturalistica, ma anche una cosiddetta zona umida, formata da sorgive d’acqua dolce che alimentano canneti estesi fino ad Apani, graditissimi a tante specie di uccelli; poi c’è la macchia mediterranea: timo, ginepro, pino d’Aleppo, mirto e via elencando. Proprio la prova ginnica, pur se modesta, richiesta per goderne, dà un’idea delle due categorie in cui sono divisi i bagnanti: quelli pigri, la maggior parte, e quelli disposti a qualche piccolo sacrificio. Mentre pedaliamo al fianco di una famiglia di sudatissimi bergamaschi, consideriamo che i pugliesi – sarà che tutto questo ben di Dio l’hanno sempre a disposizione, anche se pochi conoscono l’esistenza della riserva di Torre Guaceto – appartengono quasi integralmente alla prima categoria. Perché? Un po’ deve essere questione di pigrizia, un po’ questione di affetti: nei confronti della propria automobile, s’intende. Pare proprio che l’osservazione antropologica del bagnante con automobile lungo le coste pugliesi confermi un affetto quasi kamasutrico tra il primo e la seconda. Altrimenti non si spiegherebbe per quale motivo il lido successivo a Torre Guaceto, procedendo verso Nord, all’altezza di Punta Penna Grossa, mostri torme di bagnanti accatastati gli uni sugli altri, con l’amata utilitaria parcheggiata a non più di quaranta centimetri dall’ombrellone, dalla suocera e dalla carrozzina del bambino.
C’è una tale folla di gente e di quattroruote che anche la più affollata delle spiagge di Torre Guaceto pare quella desolata dell’isola di Robinson Crusoe. Come se le ferie se le fossero meritate le automobili invece dei loro proprietari. Eppure poco più in là c’è lo spazio per parcheggiare con comodo…
Commossi da tanto inspiegabile affetto tra l’uomo e la macchina, proseguiamo in direzione di Bari, lungo quel dedalo di strade liquidate ovunque, sui cartelli, con l’ingiusto epiteto di «viabilità di servizio». In realtà consentono di raggiungere tutte le cale e calette, ma chi non è del posto viene tenuto accuratamente all’oscuro ed è confinato nella superstrada. Tanto da rischiare di perdersi il semplice ristorantino di Ninì a Specchiolla: si chiama Tav, che sta per «tiro a volo»; infatti qui si pratica ancora il tiro al piattello, sul mare, mentre, tra i cinque o sei tavoli, si pratica la degustazione dei prelibati piatti di pesce, preparati con la giusta lentezza da Ninì. Una goduria che induce a perdonare persino una coppia di chiassosi fidanzati milanesi, decisi a farsi confessare che quelle cozze gratinate al momento si posso ottenere anche con il loro forno a microonde.
Inizia un tratto di costa in cui sono nati parecchi complessi residenziali formati da ville e villette: i più noti sono quelli di Rosa Marina e di Monticelli. Si tratta di aree presidiate e recintate, che rendono anche difficile raggiungere il mare, se non si é nella schiera dei residenti. Ci sono barre mobili e guardiole. Sono per lo più seconde case: a Rosa Marina prevalgono i baresi del capoluogo (compreso, tra gli ospiti, il nuovo sindaco Michele Emiliano) e non c’è barese di un certo rango che non voglia far sapere di avere la sua brava villetta qui (o qualche amico in grado d’ospitarlo); a Monticelli il rango regge ma, a prima vista, i baresi “di città” sono meno. Per entrare a Rosa Marina bisogna aver l’invito di uno dei “proprietari”, come ci dicono al posto di blocco. Altrimenti, nisba. Per intrufolarsi a Monticelli, dove evidentemente vige un regime più democratico, basta avere la pazienza di attendere che qualcuno entri o esca, sollevando la barra. Si riesce ad intrufolarsi persino con l’auto, anche se poi non si da dove andare.
Dopo Rosa Marina, Torre Canne: con le sue terme, la sua aria molto mediterranea, il suo faro e scarse brutture edilizie, ha un aspetto e un’atmosfera tutto sommato gradevoli e rilassanti. Nell’entroterra, intorno a Ostuni, spopolano gli agriturismo dai prezzi non sempre abbordabili, dove villeggianti stranieri (s’incrociano parecchi inglesi) e italiani settentrionali si godono una vacanza intellettuale in stile toscano, pendolando tra il mare e la Valle d’Itria. Uno degli ultimi presidi brindisini è Savelletri. Un paese normalissimo, se non fosse che qui si consuma il rito della scorpacciata di ricci: non solo nei ristoranti ma, soprattutto, ai margini di baraccotti in cui il prelibato animaletto spinoso viene servito a colpi di cinquanta esemplari a testa, con tanto di mollicoso pane pugliese, necessario per spazzolarne con cura la polpa.
L’epicentro della ricciomania è il piccolissimo borgo di Forcatella, tra gli scavi di Egnazia e Savelletri, con sistemazione molto spartana e vista sulla scogliera: ottimi ricci appena pescati, sarde al limone, volendo una spaghettata, piatti di plastica, tovaglie di carta e bidoni per buttare quel che resta del fiero pasto. I prezzi sono assai meno spartani. Ma si deve essere sparsa la voce che nell’entroterra ci sono quei turisti intellettuali inglesi e settentrionali, tentati in maniera irresistibile da proposte culinarie molto naif e pittoresche. Una tentazione irresistibile anche per i gestori dei baraccotti, che però ai ricci preferiscono, ovviamente, i turisti, adeguando i prezzi a questa preferenza. Ancora pochi chilometri ed eccoci in provincia di Bari, a Monopoli.

Da Monopoli a Giovanazzo, centri storici da sogno ma senza turisti
Dopo Torre Canne, ecco Monopoli. E’la prima cittadina barese che s’incontra venendo da Sud. La costa è diventata rocciosa. Ma a segnare l’ingresso nel Barese è anche, appunto, il barese: inteso come dialetto e accento, molto diversi da quelli, percepiti da Leuca fino a Ostuni. Pure qui gli “indigeni” avvertono subito il forestiero del fatto che «il dialetto parlato a Bari non si capisce», vantando le qualità della propria cadenza: tuttavia il suddetto forestiero stenta a capire gli uni e gli altri, se davvero parlano il proprio amato idioma, in cui si nota solo lo stagliarsi, ecumenicamente, della classica «O» contratta. D’altra parte – qui come altrove nela variegata Italia dei campanili, ma forse con una leggera insistenza in più – la questione del dialetto è un fatto di principio: ognuno rivendica il primato di parlare quello più elegante, riferendosi alla «lingua» dei paesi vicini con qualche spocchia.
Nell’impossibilità di vantare radici locali e non capendo, altrettanto ecumenicamente, alcun dialetto della zona, possiamo solo dare credito a tutti e non capire (quasi) nessuno. La città ci accoglie con un lungomare in allestimento e la sua periferia arroccata sulla scogliera: sul bordo di una piccola insenatura un paio di vecchi cartelli avvertono che il terreno è franoso e che è pericoloso, anzi vietato, sostare. In realtà il messaggio non è chiaro: è pericoloso stare sopra la scarpata o sotto, nella spiaggetta?
Il rischio non c a m b i a granché, a causa dell’inesorabile forza di gravita’. Tuttavia forse l’ambiguita’ consente di far finta di niente; e poi non c’è scritto «è severamente vietato », con l’avverbio che, come ama ricordare Enzo Biagi, solo in Italia viene spesso usato per sottolineare che in altri casi qualcosa può essere blandamente vietato.
Cosicché il blando divieto viene digerito dalle frotte di bagnanti assiepati sotto la potenziale frana con beata spensieratezza: c’è chi prende il sole, che si tuffa, chi nuota, chi fa merenda. Non lontano una coppia, ai margini della scogliera, si bacia. Poco dopo la strada s’imbatte nella mole del castello di Monopoli, ben tenuto, proteso verso il mare, oltre le case. Pare che blocchi la strada; e un tempo di certo serviva anche a questo scopo. Però ci si può inoltrare nel centro storico della cittadina, che è bellissimo. Entrarci con l’auto pare un pochino uno sfregio a quelle antiche strade incassate nel borgo. Ma non è vietato, neppure blandamente. Così ci s’insinua tra famiglie sedute al fresco sull’uscio, panni stesi, vicoli che si diramano come le dita di una mano, col mare che compare e scompare tra archi e finestre.
Morale? Il centro storico di Monopoli meriterebbe di essere conosciuto meglio dai turisti, ma non se ne incontra neppure uno. Scarsa pubblicità? Può darsi. Di certo i centri storici di molte cittadine rivierasche baresi sono forse i più belli della Puglia ma non sono altrettanto conosciuti, neppure dai pugliesi. Il tour, da queste parti, raggiunge al massimo Polignano a Mare e Trani. Luoghi meritevoli, certo; ma il fascino di paesi meno, o per nulla, visitati – come Monopoli, Giovinazzo, Molfetta – pare proprio un patrimonio non adeguatamente sfruttato per rendere più interessante e gradevole il soggiorno da queste parti. Peccato.
Monopoli lascia spazio alla zona balneare di Capitolo, forse una delle uniche aree balneari in provincia di Bari attrezzata per favorire un turismo che non sia solo quello «a corto raggio » di pugliesi e lucani, ma anche di respiro nazionale e internazionale; tanto più che da qui sono facilmente raggiungibili, nell’entroterra, la valle d’Itria con i suoi trulli e le grotte di Castellana. Qualche camper tedesco o francese s’incrocia. La litoranea raggiunge ben presto Polignano a Mare: il seduttivo borgo antico a strapiombo sull’Adriatico e la fama di Domenico Modugno ne fanno una meta, come dicevamo, abbastanza nota. Tuttavia anche qui si lamenta un calo del turismo: i ristoranti, all’ora di pranzo, sono quasi vuoti e non è un buon segno, in agosto per giunta.
Comunque, di certo Polignano è un paese romantico, da cartolina. E, infatti, se ci sono pochi turisti, si materializzano invece coppie di sposi ovunque, inseguite da fotografi, cameramen e parenti. Non c’è scalinata (decorata spesso dalle poesie di un poeta locale), muro con vasi di fori, balconcino sul mare, scorcio di scogliera, in cui non s’incoccino coppie appena sposate: impegnate in pose così plastiche che più plastiche non si può, con occhi che si guardano languidi e il bouquet in bella mostra. Se il Comune decidesse di far pagare un pedaggio agli sposi che scelgono Polignano per loro album di nozze potrebbe anche riempire le casse, alla faccia dell’austerità governativa. Ma oggigiorno ci mancherebbe una tassa sui matrimoni, in stile medievale. Meglio non infierire. Intanto ci sono buoni nuotatori che si danno da fare proprio nello specchio d’acqua di fronte agli sposi e alla Cala Porto, che è in via di consolidamento, con gli operai al lavoro sospesi tra il mare e la roccia. Cala Paura – malgrado il nome – è un’oasi, anche se affollata, tra piccole case bianche, barche colorate e bagnanti dall’aria domestica. Subito dopo San Giovanni con la sua abbazia, un altro gioiellino poco noto.
Pochi minuti d’auto e spunta Mola di Bari: pare una copia in piccolo del capoluogo, con la gente che prende il sole sul molo. Da qui in poi inizia il lungo, lunghissimo, tratto di litorale pugliese compreso nel territorio del Comune di Bari, da Torre a Mare fino a Santo Spirito, passando per le spiagge cittadine di Torre Quetta e Pane e Pomodoro, a Sud, e quelle del quartiere San Girolamo (San Francesco e Trampolino) a Nord. In tutto, oltre 35 chilometri, un record. Torre a Mare ha l’aria del paese vero e proprio, con una bella piazza rifatta accanto alla torre e un piccolo lido con pontile e ragazzini. La frazione è preceduta da un agglomerato cementizio non troppo attraente, dove sopravvive qualche villetta liberty e in cui si stagliano il Lido del Carabiniere e un misterioso fortilizio che appartiene, leggiamo, al «Distaccamento di Torre a Mare della III Regione Aerea – zona militare»: in verità entrano ed escono famiglie in tenuta balneare.
Non è finita. Usciti da Torre a Mare c’è il Lido della Polizia di Stato, lindo e pulito. Di certo, da queste parti – almeno d’estate – non mancano presidi delle forze dell’ordine. Il borgo è «presidiato » pure da una gradevole statua in bronzo, che rappresenta un tipo nudo in procinto di infilzare una piovra. L’altro anno, in occasione dell’inaugurazione da parte del sindaco, qualcuno disse che il tipo aveva proprio la faccia dell’allora primo cittadino, Simeone di Cagno Abbrescia. Malgrado le smentite, a ben guardare, il sospetto resta. Con questo dubbio superiamo una curva per sbattere (metaforicamente, non vorremmo fare danni) contro i palazzacci di Punta Perotti, l’ecomostro che tutti c’invidiano. A forza di vederlo e sentirne parlare, un giorno forse ne avremo pure nostalgia. Sulla spiaggia di Torre Quetta, malgrado l’amianto e i relativi divieti, alcuni ragazzi s’apprestano a praticare il surf a vela. “Pane e pomodoro”, lido redivivo purché non piova e le fogne non debordino, è un tripudio di tuffi e lazzi. Superata la Fiera del Levante, davanti alla quale nella notte si consuma il rito del polpo alla brace sulle bancarelle, comincia con la serie di lidi per baresi che continueranno a Palese e a Santo Spirito. O meglio: Santo Spirito sarebbe il lido dei bitontini, cui una volta la frazione apparteneva: i quali sono pure un po’arrabbiati perché tutti dicono che il Comune di Bari, consapevole dell’infiltrazione di extra-comunali (e pure di qualche extracomunitario), incassa le tasse ma non ricambia con adeguati servizi. Di certo, molte case e i tanti residence sono popolati da cittadini di Bitonto: e altri ne giungono la sera, per concedersi la classica passeggiata estiva. Emiliano, pensaci tu… Al sindaco, per riuscire a toccare la sensibilità dei santospiritesi (si dirà così?) in caso di comizio, potrebbe essere utile sapere che tre dei pilastri dei fan di Santo Spirito sono: numero uno, la gelateria sovrastata dalla scritta “Qui si gode”, che compare pure in alcune foto d’epoca esposte in un bar vicino, a testimonianza del fatto che da queste parti si godeva già almeno negli anni Venti (per altro, lo testimoniano anche alcune belle ville d’epoca incastrate tra le imprese dell’edilizia post anni Sessanta); numero due, il vergalone, nome attribuito ad uno scoglio, la cui punta affiora appena al centro del porticciolo e che è stato meta di generazioni di bagnanti; numero tre, il profumo del mare, da queste parti garantiscono sia più intenso che altrove (in effetti, una sniffata pare confermare la teoria), forse grazie ad un tipo d’alga. Dopo Santo Spirito il Comune di Bari finisce. E si entra in quello di Giovinazzo, il cui bel centro storico è stato restituito negli ultimi anni all’antico splendore.

Da Giovinazzo a Manfredonia: i giapponesi si fermano solo a Trani
S’arriva a Giovinazzo, diciotto chilometri dopo Bari. E si resta a bocca aperta. Nel nostro caso un po’ meno, perché non è la prima volta. Ma i forestieri che finiscono qui, probabilmente quasi per caso, mostrano l’aria di coloro che hanno appena scoperto un tesoro ignoto ai più. Infatti sono ancora pochissimi, persino in Puglia e forse persino in provincia di Bari, coloro che ne conoscono il centro storico, affacciato sul mare con la sua cattedrale, i palazzi nobiliari, i vicoli, le volte, le antiche chiese. Un piccolo gioiello, ristrutturato e recuperato negli ultimi anni con rispetto per la struttura originale, affacciato sul mare.
In un assolato primo pomeriggio entriamo nel centro storico medievale attraverso l’arco di Traiano, unico varco nelle mura aragonesi che circondano il porto naturale. Non c’è anima viva o quasi. E’ l’ora della siesta. Per la cronaca, quell’arco si chiama così per un ragione precisa: è formato da quattro colonne miliari della via Appia beneventana, una delle «autostrade» degli antichi romani. Secondo la leggenda, il nome deriva da «Iovis Natio», cioè , perché sarebbe stato fondato da Perseo. Comunque ai tempi dell’impero romano si chiamava Natiolum, poi divenuto Iuvenis Netium: una città fortificata, costruita per raccogliere i profughi peuceti scampati alle guerre puniche. Una divagazione storica per significare che questo paese ha tutto per diventare una meta turistica di qualità. Il fatto che non s’incontri un turista vero e proprio (cioè, non pugliese) – già un po’ meno raro nella successiva Molfetta e piuttosto diffuso a Trani, subito dopo – è una rappresentazione lampante della scarsa capacità della Puglia di sfruttare le proprie risorse. Ovviamente non è possibile prendersela con la piccola amministrazione comunale. D’altra parte sono tante, troppe, le località del Tacco d’Italia con un fascino paragonabile a quello dei numerosi paesi della Toscana o dell’Umbria che, appunto, del loro antico fascino hanno fatto la principale fonte di reddito. Eppure paesi come Giovinazzo restano al palo, pur essendosi garantiti – grazie alla recupero del nucleo storico e alla nascita di vari locali – le scorribande serali dei baresi.
Invece la scarsa dimestichezza con le esigenze dei turisti «a largo raggio» si può verificare costatando che alle tre del pomeriggio di un giorno d’agosto non c’è un ristorante aperto. I rari baristi con le saracinesche alzate ci guardano, allorché chiediamo un panino e una birra, con l’aria di chi ha chiesto una dose di cocaina. Alla fine un bar ci serve un toast, frutto di non si sa quale catena umana, dato che, pur essendo gli unici clienti, ci è stato consegnato dopo mezz’ora, con la nostra birra che ormai pareva un brodino. Masiamo certi che se qui si facessero arrivare un po’ di turisti «bisognosi» e danarosi, la specie dei baristi giovinazzesi s’evolverebbe in fretta.
Dopo Giovinazzo il mare si scorge in lontananza, perché i campi coltivati arrivano fino a pochi metri dall’ Adriatico, come alcune piccole fabbriche e cantieri. Le spiagge, frequentate soprattutto da ragazzi, ci sono ma non si vedono. Molfetta ha un centro storico altrettanto bello, appena più noto, e un porto peschereccio che è stato a lungo la maggiore risorsa. Un’altra corsa tra mare e orti ed ecco Trani: ci offre il suo antico porto, che pare disegnato. Tra reti stese ad asciugare e le ultime bancarelle dei pescatori davanti alle barche, un’apparizione: un signore con un ombrellino giallo, inseguito da un plotone di giapponesi, diretti a ranghi serrati verso la cattedrale. Un avvistamento raro, da fanatici del touristwatching (disciplina inventata or ora e dedicata alla caccia indolore di turisti rari).
Per la cronaca, i giapponesi, in Puglia, si vedono di rado e concentrati in tre posti, come prevedono rigidissimi (per loro rassicuranti) cerimoniali turistici: Castel del Monte (la cui vicinanza con Trani deve aver suggerito una deviazione), Alberobello e Lecce. Gli spendaccioni nipponici (una recente indagine di Unioncamere svela una spesa media giornaliera pro capite di 570 euro) al mare comunque prediligono la cultura, l’arte e lo shopping di capi firmati. In spiaggia, insomma, non li vedremo mai.
E pure a Trani sono stati dei fulmini: giù dal pullman, raffica di foto, di nuovo sul pullman; e via. Roba quasi da non crederci. I pescatori che con le loro canne si davano da fare ai piedi della cattedrale manco se ne sono accorti. Forse non se n’è accorto quasi nessuno. In ogni caso Trani è frequentata da molti vacanzieri «a largo raggio», spesso reduci da Castel del Monte o diretti lassù. Qui i ristoranti si sono evoluti da tempo: ambienti rustici ma in genere ben tenuti, camerieri professionali, prezzi, ovviamente, per turisti.
Bisceglie, «città dei dolmen e dei Normanni» (come recita uno slogan) è una grande città e al primo impatto non lascia sperare grandi performance in stile balneare. Ma dopo aver superato la scogliera mostra alberghi, lidi, scogliere, dove intere famiglie con guanti da cucina si dedicano alla raccolta di ricci o molluschi. Ed ecco le spiagge sabbiose di Barletta: altro che «Pane e pomodoro», senza offesa per i baresi. La città non arriva sul mare, a parte il porto con i suoi silos; dal punto di vista di un bagnante, non è uno spettacolo in armonia col resto. Pazienza: la litoranea di Ponente, con due chilometri di spiaggia libera, e quella di Levante, con spiagge libere e lidi a pagamento, offrono spazio a più non posso. E il mare ha persino meritato la «Bandiera blu». Anche qui, tuttavia, i bagnanti sono solo biscegliesi o persone che vengono dai paesi dell’entroterra. D’altra parte Barletta non sembra voglia pretendere di diventare una stazione balneare aperta al turismo nazionale e internazionale.
Obiettivo che invece ha Margherita di Savoia, tanto è vero che qualcuno ricorda ancora un cartello stradale, alle porte della cittadina, che fino a un paio d’anni fa la definiva Santa Margherita di Savoia ( una “contaminazione” col nome della località ligure in cui pare incorrano in molti). Fatto sta che l’ambizione di Margherita di Savoia pare scontrarsi con un look adatto, anche in questo caso come in altri, ad un tipo di villeggiante molto locale. Senza offesa per nessuno, la cittadina pare un po’ lasciata andare: con facciate disomogenee e scrostate, marciapiedi dissestati, prezzi in compenso piuttosto alti. Un’aria consunta che difficilmente può spingere turisti che hanno percorso oltre mille chilometri in auto a scegliere di fermarsi qui, malgrado le grandi spiagge dall’aspetto versiliano con stabilimenti balneari, forse non a caso abbastanza deserti. In piena stagione all’ora di pranzo i negozi (almeno, così è capitato il 5 agosto scorso) sono tutti chiusi, difficile anche trovare un posto in cui pranzare: dopo varie ricerche, ci siamo trovati bene all’«Invidia», pub e pizzeria con musica portoghese di sottofondo, ragazza slava ai tavoli e stile tendente verso il trandy (il mistero del nome del locale? Beh, è il cognome del proprietario…), che la sera propone musica dal vivo in quello che diventa un «lounge bar». E dire che di argomenti per potersi proporre meglio Margherita di Savoia ne avrebbe. Le antiche terme, ad esempio. E le bellissime e altrettanto antiche saline, le più grandi e spettacolari d’Europa: riserva naturale statale dal 1977, habitat per i fenicotteri e altri uccelli come la sterna zampenere, il gabbiano roseo, il gabbiano corallino e l’avocetta. S’estendono lungo la costa per venti chilometri, spingendosi nell’interno per cinque, su una superficie di 4500 ettari. Percorrere l’istmo tra le saline e il mare, limitato da basse dune, è un’esperienza unica, quasi onirica, dopo centinaia di chilometri tra gli ulivi. Terme e saline che, con il mare, potrebbero essere una risorsa in grado di attrarre turisti anche da molto lontano, senza doversi accontentare di quel che passa il convento. Vedremo.
Comunque di certo la situazione non scompone gli ausiliari di sosta di Margherita, che ci hanno appioppato una multa da 33 euro per non aver esposto il grattino dopo le 15. Ecco la cronaca di un dialogo alla Ionesco. «Senta – diciamo all’ausiliario, rintracciato mentre vagava verso l’orizzonte – avremmo grattato il grattino se alle due del pomeriggio avessimo saputo dove comprarlo». Risposta: «Si compra nei negozi». «Erano tutti chiusi, abbiamo cercato per mezz’ ora». «In effetti a quell’ora sono quasi tutti chiusi. Riaprono nel tardo pomeriggio. Ma sarebbe bastato mettere i lampeggianti e attendere che passassi io, dopo le 15». «Un’ora con i lampeggianti accesi in attesa? E poi io sono qui di passaggio…». «Comunque quella più che una multa è un avvertimento. Se mi dà un euro siamo a posto». «Bene. Ma se non l’avessi rintracciata lungo la strada avrei preso la multa. O no?». «Esagerato. Prima di tre giorni non l’avremmo spedita e si figuri se in tre giorni non ci saremmo incontrati ». Inutile spiegare ancora che «siamo a Margherita di Savoia davvero di passaggio». Ci arrendiamo, felici di aver risparmiato 32 euro. Dopo le Saline, Zapponeta, poi Siponto, con le sue belle pinete e i suoi bufali. Infine ecco Manfredonia e, alle spalle, il massiccio scuro del Gargano.

Gargano, il paradiso selvaggio finalmente con i turisti
Chi giunge a Manfredonia per la prima volta, malgrado sia sul mare, s’aspetta una città industriale e basta. Quella creata decenni fa all’inizio del Gargano con la tipica lungimiranza di allora: quando si riteneva che uno stabilimento petrolchimico fosse – qui come a Marghera, davanti a Venezia, tanto per fare solo un esempio – quel che meritava un mare implorante, invano, d’essere destinato al turismo.
Sarà che si sente parlare in continuazione del petrolchimico (a un tiro di schioppo, anche se amministrativamente è nel Comune di Monte San’Angelo, appollaiato qualche centinaio di metri più in alto). Sarà che si sente litigare sull’efficacia dei cosiddetti «piani d’area», la cui solo definizione – «strumento programmatico attuativo laddove sia necessaria una concertazione di soggetti diversi per definire scelte, previsioni ed interventi », ecc. ecc. – cozza come un caprone contro l’idea di farsi una nuotata. E poi c’è quel lungo terminal scuro che sembra collegare la costa direttamente con l’orizzonte… Insomma, niente nuotata? E’ fondata l’impressione del forestiero al primo approccio? Invece – udite, udite… – Manfredonia non è soltanto una città industriale.
E non solo per merito di Siponto, che la precede a Sud, o di Mattinata, che inaugura la costa turistica pugliese per eccellenza, quella garganica, a Nord. In questa città il legame con il mare, e la testardaggine di chi pare non essersi voluto arrendere nella tutela delle proprie radici, si percepisce subito. Pochi giorni fa è stato inaugurato dal Comune il Lungomare del Sole, dopo due anni di lavori, lungo la strada che collega la cittadina con Siponto: un paio di chilometri nuovi di zecca, adatto per passeggiate, relax, attività sportive, svago, chiacchierate, grazie ad ampi marciapiedi, piazzole e terrazze, piste ciclabili, panchine, un po’ di verde, statue interessanti, come quella al pescatore. Sembra un’idea non proprio originalissima, in teoria; ma in pratica, lungo gli oltre seicento chilometri di costa pugliese che ci siamo già lasciati alle spalle, spesso l’idea stessa di «lungomare attrezzato » pare fantascientifica, visto che tante località con l’idea fissa d’essere «turistiche» non ne hanno neppure qualche metro.
Oltre tutto, Manfredonia non ha la pretesa di rivendicare una vocazione per la villeggiatura, ma il lungomare l’ha creato almeno per i propri cittadini. I quali hanno pur qualche diritto a svagarsi in santa pace, perbacco! Così lungo la passeggiata, alla vigilia dell’ inaugurazione ufficiale, abbiamo incontrato tanta gente a passeggio: ad esempio, una signora affettuosamente accoccolata accanto al suo cane boxer, entrambi in contemplazione del mare; e una coppia di sposi col seguito di fotografi e teleoperatori, in posa plastica sui muretti. Fenomeno, quest’ultimo, osservato, durante il viaggio «coast to coast», solo a Polignano a Mare. E quando gli sposini scelgono un posto per farsi fotografare, e per angustiare così figli e nipoti per decenni con le relative foto, c’è da giurarci: la scelta è azzeccata.
E la nuotata? Ebbene sì, a Manfredonia si nuota: c’è la «spiaggia del Castello », che deve il suo nome al Castello Svevo, alle sue spalle, con sabbia bianca e sottile, divisa in lido in concessione e libero. Alla fine del centro abitato – dalla baia di Calafico, a ridosso dell’ Enichem, fino all’Hotel Gargano – c’è poi una zona che i cittadini di Manfredonia chiamano «l’acqua di Cristo », tanto è (o sarebbe) ancora pulita. Mica è un’invenzione dell’ultimo minuto: lì sgorgano tante sorgenti d’acqua dolce, già dedicate oltre duemila anni fa ad Ercole per le loro virtù terapeutiche. Con l’avvento del Cristianesimo, furono riconsacrate a Gesù Cristo. Fatto sta che, malgrado l’Enichem, quell’acqua viene ancora raccolta e bevuta, in virtù delle sue qualità salutari. Insomma, le industrie ci sono, ma al mare si va ancora e per giunta bagnandosi in acque «mitologiche».
Come se non bastasse, non manca neppure un accenno all’antica tradizione pastorale: abbiamo visto un gregge di pecore arrivare al galoppo proprio su questo tratto di costa, tra i palazzi e la scogliera, mettendosi a brucare ciuffi d’erba in mezzo ai bagnanti, per nulla intimiditi. Ancora meno intimiditi tre grossi cani bianchi da pastore al seguito dei suddetti ovini: dimenticati i doveri professionali, si sono accovacciati, per rinfrescarsi, in riva al mare.
Detto questo, bisogna sapere che, in effetti, dopo Manfredonia inizia il Gargano, di cui è così facile parlare bene che ci è parso giusto rendere l’onore della armi alla testarda e industrializzata Manfredonia (e pure all’ormai ex delfino Filippo, fatto secco all’inizio di agosto, che non a caso stazionava qui davanti). Comunque, è giusto ricordare che il promontorio del Gargano è lo sperone d’Italia, percorso da chilometri di coste selvagge e frastagliate che cominciano qui e terminano a Rodi Garganico, passando per Mattinata, Vieste e Peschici.
La strada a quattro corsie ben presto diventa la solita curvosissima litoranea, di recente graziata dall’impatto delle auto grazie alle nuove gallerie che scavalcano Mattinata. Dopo la località Macchia, iniziano i lidi, ben presto lindi e organizzati come Dio comanda e come ogni turista disposto ad arrivare fin quaggiù pretende. Lo devono aver capito fin troppo bene pure quelli del posto, dato che fin da prima di Mattinata, ancora con vista su Manfredonia, solo parcheggiare l’auto costa 5 euro al giorno. E non ci sono alternative. I prezzi, man mano che si prosegue verso il cuore della costa garganica, aumentano, anche se almeno qui la qualità dei servizi e del mare li giustificano in buona parte. Ecco frotte di villeggianti in moto, in auto e in camper, provenienti da tutta Italia e dall’estero, fermarsi a guardare panorami strabilianti, con le pinete che raggiungono il mare, che avvolgono aguzzi promontori e abbracciano archi di pietra e faraglioni.
Di fronte a questo spettacolo, qualche scarpata scelta per scaricare di sotto schifezze (pneumatici, materassi e via scaraventando) passa, quasi, inosservata (quasi…). La strada è faticosa, per quanto affascinante. Sarà per tutta questa fatica che il Gargano, anche se è un promontorio, ben presto offre quella sensazione d’«essere lontani» che spesso si prova quando si è su una piccola isola. Un’isola attaccata alla terra ferma, ma pur sempre un’isola.
Vengono in mente gli articoli scritti all’inizio del secolo scorso da due noti giornalisti dell’epoca, Francesco Dell’Erba (di origini viestane, redattore del Giornale d’Italia e corrispondente, da Napoli, del Corriere della Sera) ed Antonio Beltramelli. I loro reportage sono stati riproposti da Mimmo Aliota, del Centro Studi Cimaglia, in Vieste nel primo Novecento, edito da Litostampa, con gli auspici della Società di Storia Patria per la Puglia. Allora per andare da Foggia a Vieste ci volevano sedici terribile ore di carrozza. Dell’Erba scriveva che spesso i viaggiatori dovevano procedere a piedi «o perché un uragano ha rotto un ponte o perché la strada è franata o perché è troppo ripida la salita ». Insomma, una vera Odissea, che rendeva il Gargano «sconosciuto in gran parte agli abitanti della provincia stessa, quasi stranieri gli uni agli altri». Infatti, commentava Beltramelli nel 1906, «queste sono le dolcezze a cui deve sottoporsi colui che abbia in animo di visitare una fra le più belle regioni d’Italia. Perché il Gargano è sì un luogo di incanti e di meraviglie, una delle più belle regioni d’Italia, ma è anche fra le regioni più dimenticate del nostro bel Regno».
Ancora oggi la strada, malgrado le nostre automobili iperaccessoriate con l’aria condizionata, rende l’idea di quel che devono aver passato i nostri avi, come testimoniano gli affari che le farmacie lungo il percorso fanno vendendo pasticche per il mal d’auto, qui indispensabile come l’aspirina. Dopo l’ennesimo tornate e l’ennesimo saliscendi, si vede finalmente la freccia per la mitica Pugnochiuso. In questo caso non bisogna scomodare Ercole. Basta ricordare il presidente- padre-padrone dell’Eni del Dopoguerra, Enrico Mattei, la cui fatiche contro le allora «sette sorelle» del petrolio non furono seconde alle altrettante fatiche di Ercole: con esiti, purtroppo per Mattei, non altrettanto positivi, anzi proprio spiacevoli, dato che morì in un misterioso incidente aereo nel 1962. Comunque tre anni prima, nel 1959, il presidente dell’ Eni stava volando a bordo del velivolo personale lungo la costa viestana, quando – passando sopra Pugnochiuso e per nulla intimidito dal nome presessantottino – avrebbe detto, estasiato: «Ma questo è il Paradiso! ». Così furono messe le fondamenta del suo centro turistico, all’ inizio degli anni Sessanta. L’idea funzionò; e scosse la gente di Vieste, poco lontano da qui. Quella gente alzò gli occhi dai propri orti e mosse così i primi passi l’ormai fiorente e consolidata industria del turismo garganico. Anche il lussuoso villaggio voluto da Mattei, ereditato dal gruppo Marcegaglia, resiste con i suoi prati verdi. Fu una rivoluzione insomma, che non poteva che nascere da Pugnochiuso. E poi dicono che i nomi non contano…

Isole Tremiti, una gita con il conto salato
Si sbarca dal catamarano partito un’ora prima da Vieste, pensando di fare il classico giro delle isole: arrivo alle 10, partenza alle 17. E ci si arena quasi subito dopo lo sbarco, illuminati dalla seguente affermazione: «Mica voglio tanto. Vorrei solo che l’architetto Renzo Piano mi desse un consiglio per risistemare un pochino l’ingresso del mio locale e la parte posteriore. Così poi, quando lascerò tutto a figli e nipoti, saranno più contenti». La causa dell’arenamento? Il senso del dovere associato a un obiettivo: spiegare a nonna Sisina da San Nicola – Isole Tremiti, 22 chilometri a Nord del Gargano, provincia di Foggia – che il megarchitetto interplanetario, ai prezzi correnti del nostro mercato e del suo prestigio, per rifarle la veranda potrebbe esigere legittimamente come minimo un miliardo del vecchio conio, come direbbe Bonolis. Di certo Piano – che a San Giovanni Rotondo nel luglio scorso ha inaugurato la nuova cattedrale dedicata a Padre Pio e che in Puglia ha pure firmato lo stadio di Bari – alla nonna farebbe un corposo sconto, malgrado sia un genovese doc. In ogni caso Sisina, dotata di notevole senso dell’umorismo e di un’inesauribile parlantina, non demorde neppure di fronte al miliardo: «Quando è stato qua a pranzo con sette amici, il 3 luglio, proveniente da San Giovanni Rotondo, mica avevo capito chi era.
Anche il nome non mi diceva granché. Poi mio figlio mi ha spiegato… Comunque io il caffè, allora, non glielo l’ho fatto pagare, a prescindere: vuol dire che lo considererò una caparra sul conto che mi presenterà per il locale». Il «locale» è una piccola trattoria da una trentina di coperti che presidia il portale d’ingresso dell’abbazia fortificata. Sisina, che tutti ma proprio tutti chiamano nonna e per la quale chiunque è uno dei nipoti (difficile decifrare quali siano quelli veri e quelli «adottati»), prepara un menù fisso a base di squisiti «piatti poveri delle nostre isole». Li illustra facendo una specie di comizio non appena si sono raggruppati almeno cinque o sei nuovi clienti: pasta con melanzane, pomodori e capperi dell’isola: più insalata tremitese (mozzarella, capperi, pomodori, olive e olio), perché ha un certo punto si è detta: «Ma davvero alle Tremiti devo servine la solita insalata caprese?». Menù fisso: 13 euro. La nonna infine prepara, extra menù, la sua famosa coppa degli innamorati (una specie di sangria – signora, non ci uccida … – con biscotti locali): utile, previo rito propiziatorio da lei stessa officiato, alle coppie; concessa anche a eventuali single, occasionali o per vocazione, senza rito. Se si è fortunati, si può gustare persino la sua mitica (nel senso che per noi resta un mito, su questo fronte siamo stati sfortunati) torta di melanzane al cioccolato. Di cui, dichiara la signora, va pazzo anche il tremitese d’adozione Lucio Dalla, suo amico e «nipote », che alla retrostante Cala dei Benedettini ha dedicato l’altrettanto mitica canzone «Com’è profondo il mare». Dalla nonna non si trova né pesce («Ne ho dovuto mangiare così tanto per decenni che non posso più vedere neppure il tonno in scatola», ama ripetere) né carne: «Quattro anni fa, quando da Bari sono tornata vivere qui, dove sono nata, inaugurai il ristorante con i soliti piatti che offrono tutti i ristoranti: oh, non veniva nessuno… E io lì, seduta su una sedia al centro del locale, a chiedermi perché non venivano. Finché m’è venuta un’idea. Ho detto alla ragazza che avevo preso a lavorare con me: sai scrivere su un cartone parole come paninoteca, insalateria, bruschetteria? Insomma, qualsiasi cosa purché non sia la parola ristorante? Detto fatto, ecco i cartelli, che sono ancora lì fuori. Da allora, tutto è andato a gonfie vele ». «A proposito – aggiunge Sisina – dicono che parlo troppo. Sarà anche vero. Ma qui, al di fuori dei due mesi e mezzo di stagione turistica, rimaniamo solo in quindici, inclusi carabinieri e finanzieri. Durante il resto dell’anno sto così zitta che a volte mi viene il dubbio di poter riuscire a riprendere a parlare».
Ci crediamo, tanto più che la sua storia di ristoratrice e di residente fuori stagione ci consentono di capire un po’ di più lo stile di vita isolano. Sebbene sia difficile, adesso, immaginare il deserto invernale. In agosto, soprattutto la domenica (il nostro impatto per giunta risale all’8 agosto), qui pare d’assistere allo sbarco in Normandia. Quello dei pendolari della gita giornaliera, provenienti da tutti i centri del Gargano e da Termoli, in Molise. In testa hanno tutti il giro- lampo delle isole. Eccole qui: San Domino è la più grande, con i suoi pini d’Aleppo che giungono fino al mare e tutti i villaggi turistici e gli hotel; San Nicola è il centro amministrativo, col municipio, e la zona monumentale; c’è pure Capraia, detta anche Capperaia, a causa delle piante di capperi che, prima, vi crescevano rigogliose.
Poi c’è il piccolo e brullo isolotto di Crepaccio. Al largo c’è Pianosa, riserva protettissima. Anzi, tutte le Tremiti dal 1989 sono riserva marina integrale. Dire che sono belle, anzi assai belle, è prevedibile. Quindi lo diamo per scontato. Quelli che non sono affatto scontati, alle Tremiti, sono i prezzi. Il catamarano, comodo, da Vieste, costa 29 euro andata e ritorno a persona. Un normale pranzo costa almeno altrettanto, se va bene (Sisina esclusa, che è clemente, ma bisogna scovarla). Sbarcare costa un euro di tasse a sostegno del parco (giusto), l’ascensore per risalire fino al centro di San Nicola un altro euro, così come un caffè al banco. Una bottiglia d’acqua minerale da un litro e mezzo minimo costa due euro, un gelato confezionato quasi il doppio rispetto alla terraferma. Un euro mezzo a testa costa superare con alcuni motoscafoni, equiparati a «trasporto urbano» il tratto di mare tra le due isole maggiori. Morale: un persona per stare qui sette ore può spendere facilmente 70 euro, prezzo di un volo Bari-Londra a/r con qualche compagnia «low coast». Una famiglia- tipo di quattro persone di euro ne spende quasi trecento, costo individuale di una settimana «last minute» in Tunisia, pensione completa. Troppo per una gita alle Tremiti? Oppure, è il prezzo da pagare per tanta bellezza? La nostra impressione è questa: se i prezzi galopperanno ancora, il turismo del pendolare potrebbe andare in crisi. La suddetta famiglia, in un’epoca in cui le vacanze sono sempre più brevi a causa dell’esagerato costo della vita, con quei 300 euro può starsene altri tre giorni in albergo o altri cinque in campeggio, sul Gargano.
Di certo, a rigor di logica, conviene, se proprio non si resiste al fascino dell’ arcipelago, stare per una settimana in qualche villaggio turistico di San Domino. Almeno non ci si stressa con la maratona della gita giornaliera in balia del caldo e dell’ acqua a due euro a bottiglia. Infatti sull’assolato pontile di San Nicola, cui attraccano tutti i battelli e da cui partono tutti i motoscafoni, si può assistere a scene surreali: gente che si fa ombra a turno e a vicenda, pur di non dover chiedere ospitalità a qualche bar a cinque stelle lusso; un’intera famiglia, nonna compresa, accalcata in un metro quadro, ricavato tendendo un pareo tra due barche sulla piccola spiaggia; un gabbiano che fa la coda assieme alla gente per bere un po’ d’acqua da una smilza e solitaria fontanella. Fantasie? Macché, abbiamo le prove fotografiche.
In compenso la vita isolana offre anche quadretti e personaggi da non perdere. Esempi? Beh, Sisina è sempre Sisina. I carabinieri girano con una leggera divisa molto casual o ancche con t-shirt d’ordinanza, infradito e boxer da bagno blu con stemma dell’arma e regolamentare righina rossa di fianco. Simpaticissimi e, come sempre, rassicuranti. Oltre tutto, se l’Arma mettesse in commercio quei boxer, farebbe un sacco di proseliti (sono in vendita?). Simpatici pure gli uomini delle Fiamme gialle – con scarpe da jogging, pantaloni corti, in tinta con i colori della Gdf – che vigilano sugli attracchi. I gabbiani, come s’è visto, credono d’essere i piccioni di piazza San Marco, a Venezia, e si comportano di conseguenza. Il deposito bagagli promette, per iscritto, di poter custodire a prezzi modici anche le suocere. E’ poi curioso constatare che i lavori di consolidamento della scogliera sotto l’abbazia di Santa Maria (3 milioni di euro) sono legittimamente svolti da due ditte giunte dalla lontanissima provincia di Belluno, il «Consorzio triveneto rocciatori» e «Dolomiti Rocce» (ma non sono proprio le Dolomiti a sbriciolarsi? E quando una ditta pugliese andrà lassù a dar loro una mano?). E via di questo passo.
Morale? Se le Tremiti fossero un pochino meno care, ebbene sì, anche la gita giornaliera, per quanto faticosa, sarebbe quasi obbligatoria. Se la parte posteriore all’Abbazia dell’isola di San Nicola non fosse in preda ad un degrado indescrivibile, sarebbe anche meglio. E se, sempre a San Nicola, il monumento dedicato a perseguitati politici spediti qui al confino da Mussolini non fosse semiarrugginito, con il basamento crepato e le scritte in parte divelte, anche la nostra memoria storica se ne avvantaggerebbe. Basterebbe poco. Su su, coraggio.

Ecco Vieste, la vera capitale del turismo pugliese
«È per la mancanza quasi assoluta di strade che il Gargano è rimasto da parecchi secoli indietro nei progressi della civiltà».
«Siamo riusciti ad arrivare fin dove siamo arrivati senza porti, senza aeroporti, con strade sgarrupate… La prima affermazione è datata 1906 e porta la firma di Francesco Dell’Erba, di origine viestane, corrispondente da Napoli del Corriere della Sera e redattore del Giornale d’Italia. La seconda affermazione è stata sottoscritta nel 2004 da Luigi Manzionna, pioniere del turismo a Vieste (sette strutture, tra alberghi e villaggi, con trecento dipendenti fissi), nonché presidente del «Consorzio operatori turistici pugliesi ». Aggiunge: «Una volta in Puglia si prediligevano i petrolchimici. Noi abbiamo sempre ritenuto che l’unica vera industria locale è quella del sole: agricoltura e turismo. Ed eccoci qua».
Sono passati novantotto anni da quando Dell’Erba scrisse quelle righe; e le cose sono molto cambiate. In agosto a Vieste, capitale – sul fronte della qualità e della quantità – del turismo pugliese, c’è stato il pienone, pur con qualche defezione da parte dei cari tedeschi, latitanti in tutta Italia. Nella cittadina s’incontrano pullman di turisti svizzeri, olandesi, boemi: in giro anche molti russi. Un abisso da quando, come raccontava quel giornalista, l’arrivo a Vieste di un forestiero, dopo sedici ore di diligenza da Foggia, diventava un grande evento, di cui si parlava per giorni. Era il paese più isolato del Gargano, tanto da essere soprannominato «La Sperduta»; un lembo d’Italia così irraggiungibile che ancora si usa dire, da queste parti: «Accidi u re e scapp’ a Vieste», «Uccidi il re e scappa Vieste». Finché nel 1964 la Snam inaugurò, grazie ad Enrico Mattei, il villaggio di Pugnochiuso. Fu il boom, che sconvolse un’economia fino ad allora basata sull’ agricoltura e la pesca.
Oggi il Gargano è un efficiente «divertimentificio », paragonabile alla riviera romagnola ma con un mare e una costa assai più belli (per non parlare del Parco del Gargano, della Foresta Umbra e delle isole Tremiti). «I tedeschi sono stati i primi a scoprirci, addirittura negli anni ’60, quando gli italiani manco sapevano bene dove fosse la Puglia», ricorda oggi Manzionna. In alta stagione solo a Vieste la popolazione passa dai 15.000 residenti ad oltre centomila.E i turisti «estivi » sono, lungo la costa garganica, più di due milioni. Oltre il doppio, secondo alcune stime che riguardano anche l’ospitalità sommersa. Nella regione è l’area con la maggiore «densità» di turisti. «Una volta la stagione durava venti giorni, ora quattro mesi», afferma l’assessore al Turismo Carlo Nobile, artefice di una serie d’iniziative che hanno portato il paese al centro dell’attenzione (il «Viestefilmfest », la riqualificazione del centro storico, il premio giornalistico «Il Trabucco »).
Nel 2004 il problema consiste nel riuscire a stanare i turisti anche durante la bassa stagione: «Farli venire in agosto è più semplice. Ma, ad esempio, senza un aeroporto vicino in grado di accogliere i charter perché mai un milanese dovrebbe venire qui per una settimana a giugno, quando da Milano può andare più facilmente sul Mar Rosso? E perché un tedesco dovrebbe sobbarcarsi due giorni d’auto?», aggiunge Manzionna. E dice: «Oggi l’aeroporto civile più vicino è quello di Bari: a quasi duecento chilometri e senza collegamenti. Non possiamo essere noi imprenditori a costruire le grandi opere necessarie. Ci devono pensare lo Stato e la Regione». Tutti problemi che non si notano mentre si prende il sole sulle spiagge – curate e pulite come Dio comanda, con tutti i servizi che un turista esige in cambio di conti altrettanto esigenti – e si passeggia nel centro storico di Vieste, ricco di ristorantini con le luci soffuse e di negozi di artigiani. Basta spostarsi verso Nord-Ovest, doppiando la punta estrema del Gargano, per notare che quei problemi si fanno più evidenti, in maniera direttamente proporzionale al calo dell’intraprendenza dei servizi turistici.
Da Vieste a Peschici s’attraversa un pineta bellissima, dalla quale partono lunghe strade private: percorrono quelli che erano vasti feudi agricoli, conducono fino al mare, raggiungendo spiagge incantante come Cala Lunga. Il parcheggio – 3 euro al giorno (più 13 per l’ombrellone in prima fila) – è curato da un signore di mezz’età che, come leggiamo su un cartello, si chiama Islam. «Nome o cognome?». «Nome, nome … – dice – Ho avuto un papà arabo». E’ nato qui, parla con l’accento di qui. E al ritorno ci restituisce i tre euro («Vi siete fermato poco. Mica siamo attaccati ai soldi»). Grazie. Peschici per certi versi è più genuina di Vieste anche se un po’ meno organizzata, almeno dal punto di vista «romagnolo ». E poi siamo arrivati lì nel primo giorno del «black-out idrico» d’agosto su questo lato del Gargano: termine tecnico, che – dal punto di vista della gente – è sinonimo di un’incazzatura terribile. Il centro è caratterizzato dalle lampie, cupole grigie che sovrastano case bianche, nello stile delle casbah arabe. Nel libro Il cafone all’inferno Tommaso Fiore, descrivendo l’ansia di giungere fino alla cittadina durante il suo viaggio, si chiede: «Come sarà Peschici? Tante volte ne abbiamo sognato, tante volte ce l’han dipinta, pittori, disegnatori, poeti, una bellezza nuda e primitiva che si crogiola al sole». Poi: «Ecco, dietro ai pini, l’apparizione sospirata: un dolce biancore, una soavità di grigio…».
Fiore pubblicò queste parole nel 1955. All’epoca era ancora una «terra di grandi proprietari, tre o quattro famiglie che … posseggono terre a non finire, e non le coltivano». Di turisti non c’era neppure l’ombra. Oggi, se a Vieste nel centro ci sono solo ristorantini trandy, a Peschici hanno capito che conti da 30 euro in su per un pranzo sono per pochi eletti: cosicché in Piazza IV Novembre – attorno alla roccia con l’orma pietrificata di un dinosauro in ferie da queste parti alcuni milioni d’anni fa – tra le 12,30 e le 15,30 le panchine sono presidiate non solo da prevedibili gruppi di ragazzi ma anche da classiche famiglie con prole: addentano pizze, panini e tramezzini. I commercianti si sono adeguati e in ogni angolo c’è un negozio che fornisce quel tipo di materia prima. Deserti i ristoranti. La bruschetteria con tovaglie di carta ci offre antipasto, primo, secondo, acqua, vino sfuso, frutta e caffè a 22 euro. Una famiglia-tipo (quattro persone) ne avrebbe spesi cento. Ecco scoperta la ragione per cui vengono preferite le panchine accanto al dinosauro.
Dopo Peschici la strada s’arrampica fino al belvedere del Monte Pucci, accanto all’omonima torre: ospita un venditore di verdure essiccate e sott’olio. Sotto una scaramantica treccia d’aglio un cartello con scritto a pennellate: «Affittasi appartamenti con i prezzi modici». Sano avvertimento. In basso, la spiaggia dove finisce la ferrovia circumgarganica, con la stazione di Peschici – Catenella. Un vagone dipinto dai graffitari è fermo sotto il sole: tocco di modernità per questa caratteristica ferrovia che parte da San Severo. Nata nel 1931, è stata la prima a trazione elettrica in Italia. Oggi è più utile per scopi turistici che per chi ha fretta. Sempre Fiore ricorda che «quando venne inaugurata non mancò un poeta che scrisse…: “Miracolo si compie per volere di Dio, nel nome di Benito Mussolini”». Nel progetto originale il percorso doveva essere di 168 chilometri, mentre dal 1931 la ferrovia s’è fermata a 79: è rimasto il nome, circumgarganica, ma non la funzione. Per fortuna da tempo la società «Ferrovie del Gargano » ha puntato, sensatamente, sui pullman.
Man mano che si procede verso Rodi Garganico il look da turismo internazionale si squaglia: Rodi è una tipica cittadina meridionale frequenta da un turismo meno elitario, con lidi più spartani. Il Gargano da qui in poi rinuncia alle sue asprezze mediterranee per regalarci lo spettacolo dei laghi di Varano e di Lesina: sembra d’essere piombati di colpo nella laguna veneta, con paesi dai nomi strani – come Largolungo – che s’affacciano su specchi d’acqua vastissimi e inattesi, protetti da una riserva naturale. La strada provinciale 41 percorre l’istmo tra il lago di Varano e il mare, pochi accessi conducono ad una «vera» spiaggia tropicale, una volta superate pinete e dune. Poca gente, che predilige la natura agli svaghi dei centri maggiori.
Dopo, il tratto tra Torre Mileto e il Lido omonimo attrae decine e decine di camper, tra ragazzi che pattinano e tedeschi che provano sui prati gli «aquiloni» dei loro surf. L’erba raggiunge persino i bordi della spiaggia di Cala del Principe e gli ombrelloni paiono piantati in un campo da golf.
Ed ecco il lago di Lesina, lungo e stretto. La Marina di Lesina, semplice ma decorosa, con spiagge analoghe a quelle di Varano, è all’estrema frontiera settentrionale del Parco delGargano. Intorno campi sterminati di pomodori, proprio nel periodo della raccolta. Cosicché Lesina, affacciata come una piccola Grado sulla sua laguna, sembra pure una piccola Harem: ci sono decine di ragazzi neri e gruppi più piccoli di arabi e di slavi. La gente del posto pare non vederli, vivono un po’ a compartimenti stagni. Quei ragazzi lavorano nei campi. E lo spettacolo di una masseria diroccata, alle porte del paese, in cui sono ammassati molti africani, tra panni logori stesi e barattoli usati come pentole, fa pensare a quanto lontani, seppur vicini, siano altri «accampamenti» di lusso destinati ai turisti del Gargano.
Marina di Lesina dista dall’ultimo lido pugliese quindici chilometri in linea d’aria, 26 di strada, perché s’aggira la foce del Fortore. Marina di Chieuti è una piccola frazione. Ci fa davvero sembrare d’essere tornati all’esordio di questo viaggio d’ottocento chilometri lungo le coste pugliesi: pare una versione liofilizzata di Marina di Ginosa. C’è una strada statale che l’affianca a monte, la ferrovia che attraversa il centro abitato; poi ci sono le pinete e una spiaggia, con lo stabilimento balneare; un hotel e appartamenti in affitto; una «Bandiera blu» per l’acqua pulita. E’ meta soprattutto della gente dell’entroterra. Ancora un chilometro e mezzo sulla Statale Adriatica 16 e, dopo un campo in cui pascolano centinaia di oche, un breve ponte attraversa il torrente Saccione. Al di là inizia il Molise. Per accorgersene bisogna saperlo, perché nessun cartello segnala il confine, se non quello che comunica la fine delle competenze dell’Anas pugliese e l’inizio dei quelle molisane (è importante saperlo?). Più rassicurante un cartello all’antica: «Arrivederci a Marina di Chieuti».
Arrivederci, Puglia. Abbi cura di te.
* Questo itinerario e’ stato pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno Puglia nell’ agosto 2004. Potete leggere altri scritti di Marco Brando nel suo Blog personale www.professionereporter.splinder.com

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