di Raffaella Toncelli –
Non poteva finire che a Auckland questo viaggio. E’ iniziato circa un mese fa, nell’isola nel Nord, eppure a pensarci mi sembra molto di più di un mese, sarà per la quantità enorme di posti diversi che ho visto, di immagini che si sono impresse nella mia memoria, per la varietà incredibile di persone che ho conosciuto lungo la strada. Qui il paesaggio cambia in poco tempo, la selvaggia Isola del Sud, con le montagne innevate che si riflettono nel mare mentre con il cuore in gola vedi le code delle balene che si immergono in profondità, lasciandoti nell’immenso vuoto di un cielo rigato di nuvole e di urla di gabbiani e albatros (vi è posto più desolato di Kaikoura in inverno?); le colline punteggiate dalle pecore che intravedi dal finestrino dell’autobus, chicchi di riso su una tovaglia verde; la nebbia che odora di zolfo che fuoriesce dalle profondità della terra, a Nord, a Rotorua, i geysers spettacolari che prepotenti cercano la via per il cielo, battendo, per l’ammirazione dei molti turisti accorsi a vederli, la forza di gravità. Non mi stupisce che sia stato girato qui il film ‘Il Signore degli Anelli’, non vedo l’ora che arrivi nelle sale italiane. Per quelli della mia generazione, che hanno speso molte sere nell’adolescenza a preparare avventure, a impersonare elfi, a sentirsi agili come ladri o potenti come maghi del settimo livello, questa terra è davvero un incantesimo divenuto reale, un luogo magico in cui stupisce non vedere all’orizzonte la goffa andatura di un orchetto o la lunga ombra scura di un ramingo. La Terra di Mezzo. E in mezzo a questa terra, in mezzo alla prateria sconfinata, al deserto, alle montagne, alle foreste, ecco le città, come oasi, come feudi incantati.
Christchurch ad esempio. Christchurch è un piccolo mondo a parte, un angolo d’Europa per il viaggiatore smarrito da tanta natura, che si e’ trovato a girovagare per l’isola del Sud, perduto. I giardini fioriti in inverno (anche i fiori sembrano essere confusi e impazienti di gettarsi in tanta bellezza), le cabine del telefono rosse, il tram vecchio stile, il fiume che attraversa la città, con i suoi argini verdi e ombrosi che, manco a dirsi, hanno per nome ‘Cambridge’ e ‘Oxford’. Tutto qui fa pensare all’Inghilterra. Come Alice nel Paese delle Meraviglie passi attraverso la porta della città e ti ritrovi dall’altra parte del globo, nella Vecchia Inghilterra. Poi ti guardi in giro e la mescolanza di razze, i tratti maori, asiatici, irlandesi, mediterranei che ti passano accanto, sfiorandoti, ti ricordano dove sei. Dove Oriente e Occidente si incontrano, senza scontrarsi. Nel punto di partenza.Sono tentata di proseguire ancora a sud, arrivare sulla punta estrema dell’isola e poi tornare su passando dalla costa ovest, la più selvaggia e sorprendente a quanto sento. Ma ho poco tempo, la mia vacanza purtroppo dura solo un mese e avevo deciso di spendere gli ultimi giorni a Auckland, devo mettermi in cammino verso il nord.
Il viaggio sarà lungo e lento, i treni qui sono pochi e poco veloci, perché tu abbia il tempo di goderti il paesaggio che stai attraversando, perché tu possa ammirare la Terra che farà sfoggio di tutta la sua potenza per stupirti. Sarà quasi una sfida tra te e lei. Ecco perché questo viaggio deve finire a Auckland. Perché Auckland è in sé una sfida, una sfida alla Natura, con le sue strade che dal mare salgono verso l’alto, dove la città diventa un grande parco, una sfida all’ingegno e al progresso, dai grattacieli alle barche, veloci, di nuovi materiali, fantasiosi e arditi, e, infine, una sfida al resto del mondo, a chiunque decida di mettere in dubbio il coraggio degli uomini neri dalla felce d’argento, che di sicuro sono pronti a scendere in campo, a cantare ancora il loro inno di guerra, a danzare per incutere terrore nell’avversario. Rimango affascinata da questo confine sottile, dall’equilibrio perfetto di questa città, dove mi sembra che i giochi non siano mai stati presi tanto sul serio ma dove la guerra, per fortuna, si fa solo per gioco. Dove non conta il risultato -per un accanito giocatore non potrebbe essere altrimenti- ma solo la sfida, l’adrenalina che accompagna il pensiero di un esito incerto.Per vederla tutta in una volta e tutta insieme, con le sue apparenti contraddizioni, con le sue ripide discese che diventano salite quando sei arrivato alla fine, devi salire sulla Sky Tower. Ha un bell’essere in bella mostra sulle pareti la scritta che dice che il vetro è abbastanza spesso da reggere il tuo peso, il cervello capisce ma sembra esitare nel mandare alle gambe il comando di stare in piedi su quel pavimento di vetro, trasparente membrana che ti divide da un vuoto di 300 metri. La Sky Tower è la terza torre in altezza nel mondo e, ancora una volta, l’unica che sfida il tuo coraggio, almeno nel pensiero. Sulla Sky Tower mi fermo a lungo, guardando il giorno che lentamente, in un’esplosione di colori fantastica, diventa notte, accendendosi delle mille luci della città.
La luce in Nuova Zelanda è diversa che in Europa, più forte, più netta, schietta come le persone che abitano questa terra, altrettanto calda. Ti colpisce al cuore, diventando parte di te, così come l’ospitalità delle persone, la garbata, gioviale presenza di questo popolo curioso, consapevole più di ogni altro di appartenere al mondo, di essere cittadino di un unico, globale, pianeta.Ferma a un semaforo, aspettando sul marciapiede il segnale verde per il passaggio dei pedoni, un signore mi domanda gentile da dove vengo. Mi volto stupita, chiedendomi se la domanda è rivolta a me, accorgendomi che, immersa nei miei pensieri, neppure avevo fatto caso al mio vicino. Dimentico sempre che, cos’ vicini al Monte Fato, non posso indossare l’Anello, sono visibile a tutti. Due occhi azzurri, sottili come due fessure in un muro alle quali si affaccia, spiando, un’anima curiosa, mi guardano bonari, aspettando una risposta, pazienti. E’ un uomo di mezz’età, alto, i capelli brizzolati che tiene raccolti in una coda di cavallo, ha l’aria divertita. Mi domando se si nota così tanto che sono un’europea in vacanza e, per un attimo, mi illudo che a tradirmi sia stata la cartina della città che tengo in una mano, rigorosamente chiusa, comunque.”Italiana”, rispondo con il mio accento che probabilmente non lascia dubbi. La faccia gli si illumina:”Ah, l’Italia, ci furono grandi pianti all’areoporto e sul molo quando gli italiani se ne andarono, dopo la Coppa America, molti cuori si spezzarono…” “Da tutte e due le parti”, aggiunge con un pizzico di malizia dopo una breve pausa. Parla lentamente, camminando piano su quelle gambe lunghe e nodose, mi racconta di quando era in Europa, mi dice di essere stato anche in Italia, che forse ci tornerà la prossima estate, che l’Europa però è troppo cara, un letto in un ostello costa l’equivalente di 60-70$NZ mentre qui ne trovi per 15$NZ. Si improvvisa la mia guida per il breve tratto di strada che facciamo insieme, mi spiega che un palazzo che fiancheggiamo ha una storia fitta di spie francesi e di intrighi internazionali. Mi chiede da quanto tempo sono lì, quanto ancora resterò, che cosa faccio, se ho già un posto per la notte. A una diffidente europea, abituata a non dare confidenza agli sconosciuti incontrati per strada, potrebbe sembrare fin troppo indiscreto, invadente. Ma io ormai sono qui da un mese, gli ultimi giorni li ho passati sempre viaggiando da sola e ormai sono abituata alle persone che si fermano per strada e ti chiedono se hai bisogno di aiuto solo perché stai consultando una cartina, alla cordialità che -penso arrossendo di vergogna- nella mia nazione avrei trattato con diffidenza, immaginandoci sotto cattive intenzioni.Parliamo camminando finché non arriviamo a un altro incrocio, da lì si vede il mare e il porto e le molte vele che impreziosiscono la baia come gemme che brillano al sole. Mi dice che la sua casa è lì giù, vicino alla banchina, una bella zona, piena di vita, lui svolta lì. Ci salutiamo come se ci conoscessimo da sempre, mi fa un cenno con la mano e mi sorride, mentre io faccio altrettanto, come se si aspettasse di rincontrarmi domani a fare la spesa o tra cinque anni in un’altra nazione, in Europa magari. Non ne sarebbe sorpreso, penso guardandolo andar via lungo la strada in discesa, quell’andatura dondolante, senza voltarsi. Ha qualcosa che mi ricorda i racconti letti sull’oriente, la calma dei monaci buddisti, la loro sapienza, quegli improbabili incontri che ti avvicinano all’Illuminazione. E ancora una volta si fa netta la sensazione di camminare in una terra di confine, nella piu’ orientale delle nazioni occidentali, dove Oriente e Occidente sono come due zolle tettoniche che si sono toccate, increspate, dando origine a queste isole, sparse nel mare.
Ci saranno ancora cuori spezzati domani quando il mio aereo partirà per riportarmi in Italia. Il mio senza dubbio. Ma neanche un rimpianto, non c’e’ posto per i rimpianti in Nuova Zelanda, terra di chi ha lasciato tutto alle spalle per affrontare un viaggio verso l’ignoto e i pericoli, di chi è partito senza sapere che cosa lo aspettava all’arrivo, forse senza sapere neppure se lo aspettava qualcosa all’arrivo. Eppure -ed è questo che ho imparato, che mi è stato rivelato sarei tentata di dire- questo non è l’arrivo tanto sognato, la meta finalmente raggiunta. La Nuova Zelanda, per coloro che vi abitano e per chi parte alla sua conquista e si lascia conquistare, è il punto di partenza. Giro ancora tra le dita la collana che porto al collo, un monile a forma di spirale, un osso intagliato di artigianato maori, un “carved bone” come lo chiamano qui. L’ho comprata a Picton, appena scesa dal traghetto che mi ha portato attraverso lo stretto di Cook, dopo aver passato una giornata memorabile a Wellington e prima di cominciare la mia avventura nell’Isola del Sud.
Al contrario di Frodo sono partita per il mio viaggio verso il Monte Fato senza niente al collo e torno a casa con qualcosa di prezioso, simbolo di una terra che mi ha stregata, “incatenata”. Per i maori, il significato di questa specie di spirale è “l’inizio”.