La quiete dell’assolato cortile e’ interrotta improvvisamente da una nota lunga e cupa.
Infastidito, un gruppo di rondini spicca il volo garrendo e noi, riemergiamo dal torpore in cui il caldo e il pranzo mancato ci avevano fatto cadere. Alziamo gli occhi verso il suono, affrontando, senza occhiali, il sole dei 3000 m. Prima che riesca mettere a fuoco i monaci al fianco della ruota della vita che troneggia sull’edificio principale del monastero, vengo colpito ancorada un’altra lunga nota emessa da una buccina fatta con una conchiglia rivestita di argento, seguita da un colpo di gong.
Quattro giovani monaci arrivano correndo, hanno stivali ed il tipico copricapo giallo della setta gelupka. Ancora un richiamo; direi che è la versione tibetana della campanella della scuola che fa accorrere sulla gradinata di accesso del tempio decine di ragazzetti. Arrivano a piccoli gruppi , tutti con stivali, cappello e mantello porpora.
Quelli già seduti iniziano a salmodiare dei mantra e a farsi scherzi come tutti gli scolaretti del mondo.
Altri ragazzini continuano ad arrivare in frotte frettolose richiamati dai due monaci sul tetto che aumentano al frequenza dei loro concertini.
Quando sono arrivati tutti, ad un cenno dei cerimonieri gli studenti si liberano degli stivali, li abbandonano sulla scalinata e corrono all’interno del tempio.
Tutto all’improvviso e abbastanza rapidamente, tanto che rimaniamo un po’ di tempo ad osservare la massa di stivali di cuoio scuro sulla pietra bianca della scala prima di reagire e da bravi turisti correre ad andare a ficcare il naso per vedere cosa succede.
Una Puja”. I bambini sono tutti seduti e cantano dei mantra accompagnandoli con leggeri movimenti della testa e del corpo. Cembali, gong, pifferi e trombe tibetane fatte con tibie umane e argento, fanno da sottofondo musicale. Alcuni addetti girano tra le panche con grosse teiere di ottone piene di chà, il the tibetano a base di the appunto, sale e burro di yak, che in parte viene bevuto ed in parte mischiato con la stampa, farina di orzo tostato, che è la base della alimentazione delle popolazioni tibetane. Il tutto secondo un preciso cerimoniale.
Consumato il pranzo (sigh!) e terminati i mantra inizia quello che intuiamo essere una lezione.
Un maestro, camminando tra le panche, espone e pone delle domande a questo o a quell’altro alunno incitando alla risposta con singole battute di mano.
La cosa meravigliosa è che quando uno sbaglia tutti ridono per sdrammatizzare e mantenere sempre serena l’atmosfera.
Finita la lezione un monaco anziano attacca un’altra serie di mantra con voce profonda, a cui rispondo in coro i bambini. Ancora musica, ancora mantra, poi improvvisamente silenzio. La lezione – cerimonia è finita. Riposte le ciotole di legno, recuperati i sacchetti personali della stampa, gli studenti corrono fuori a riprendere gli stivali, qualcuno li indossa, qualcuno no. Poi velocemente tornano ad altre faccende, disperdendosi per il monastero.
Normale routine per loro, per noi un esaltante premio per la fatica che abbiamo dovuto sopportare per essere qui a Labrang, il monastero della setta dei berretti gialli, più importante di tutta Cina, il secondo in assoluto.
Si trova vicino alla città di Xiae , nella prefettura Aba, ha parzialmente resistito all’assalto della rivoluzione culturale mantenendo intatto circa la metà dei sui edifici e della sua spettacolare lamaseria, che conserva ancora antichi portali di legno finemente intagliati e dipinti.
Funzionano ancora molti istituti universitari, tra i quali quello di medicina tibetana, con le sue gigantesche e odorose statue di burro di yak colorato, che dopo circa un decennio di maturazione vengono fatte a pezzi e usate come farmaci, tra magia ed erboristeria.
Arrivare fin qui per ora non è facile, due giorni di autobus cinese (da paura), soste in paesi stile far west, dormendo in alberghi dove il proprio sacco a pelo è d’obbligo. Ma se questo è il prezzo per tanta bellezza e pace ben venga. Il cielo offre un azzurro spettacolare che solo l’alta quota può regalare e che fa da degno sfondo ai muri di calce bianca o dipinti di rosso bruno, con i tetti di fascine di legno arricchti dalle sculture rappresentanti uno degli otto simboli del buddismo.
La quiete che regna all’interno dell’impianto monasteriale, non viene mai turbata dalla pur febbrile attività e quando il sole è forte i porticati dei cortili sono un ottimo riparo.
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