Africa

Bekopaka autoroute

di Marco Cavallini –
Continuo a leggere notizie angoscianti sul Madagascar, paese poverissimo e popolato da gente pacifica sempre sorridente e disponibile, e mi tornano alla mente i tanti momenti e i tanti incontri indimenticabili vissuti durante le mie visite, e allora perchè non raccontare qualcosa …. così per cercare di regalare un pò di attenzione ad uno dei tanti paesi dimenticati dai mass-media ma purtroppo non dai grandi interessi, e magari serve un pò anche un semplice racconto di viaggio magari scritto maluccio.
Arrivato all’aeroporto di Tana (popolare abbreviazione di Antananarivo, n.d.r.) mi dirigo subito agli imbarchi nazionali per prendere il volo per Morondava, ma non prima di essere stato intercettato da due infermieri che mi porgono due pastiglie contro il colera (sempre pronto a mietere vittime in varie zone dell’isola rossa!) e un bicchiere d’acqua. Mentre mi allontano per appoggiare il bagaglio, con le pillole in mano, vengo seguito dall’infermiere che mi cura perchè “pare” che i vazaha (termine malgascio per indicare gli stranieri) abbiano la pessima abitudine di tenere le pillole sotto la lingua per poi sputarle nella toelette.
Salito sul TwinOuter (piccolo e “spettacolare” aereo da 18-20 posti che rappresenta la maggioranza della flotta aerea malgascia), grazie all’effetto-culla che mi fanno gli sballottamenti, vengo subito colto dal sonno per poi svegliarmi mentre l’aereo barcollando punta verso una pista invisibile, mimetizzata in un paesaggio da favola dominato da migliaia di baobab, ma guardando la tranquillità degli altri (pochi!) passeggeri mi convinco che non stiamo precipitando ma che quella striscia marrone che piano piano appare alla visuale è proprio una specie di pista d’atterraggio!

Arrivato a Morondava e superato il rumoroso sbarramento dei taxisti, comincio subito a cercare informazioni per organizzarmi il viaggio agli Tsingy di Bemaraha, uno degli obiettivi naturalistici di questo mio viaggio, ma la strada da fare è decisamente lunga e impegnativa. E’ necessario noleggiare un 4×4 con autista e quindi anche trovarsi un qualche compagno di viaggio per suddividere la spesa, e allora capita il caso di incontrare Bernard: un giovane maestro svizzero arrivato sull’isola rossa per fare visita ad un vecchio zio trasferitosi lì da anni a coltivare la sua passione botanica, che certamente qui ha trovato la sua realizzazione vista la quantità di piante uniche (tra cui gli stranissimi baobab, le piante carnivore e molte curiose specie di piante grasse, nonchè un’infinità di orchidee) che popolano l’isola. Pare che circa l’80% tra flora e fauna qui presente proliferi soltanto in Madagascar, anche se purtroppo i continui disboscamenti attuati per coltivare (bruciando le foreste!) o per raccattare legname hanno piano piano ridotto l’isola da un giardino strepitoso ad una terra bruciacchiata con solo qualche rara e protetta “aiuola”!

Alle 5 della mattina partiamo, e appena usciti da Morondava ci immettiamo sulla Statale, una lunga pista sabbiosa contornata da cespugli e piante che non ci permettono una grossa visuale dell’ambiente circostante: sembra semplicemente una striscia di sabbia rossa che lotta per non essere riassorbita dall’immensa foresta circostante. Dopo una quindicina di chilometri ci troviamo nell’Avenue du Baobab, una delle zone più famose del Madagascar dove migliaia di baobab contornano la strada, e si differenziano dai loro parenti del continente africano perchè invece di presentare una grossa “chioma”, sopra il loro massiccio tronco (sembrano dei patatoni!!) presentano solo radi ciuffetti, fino al “monumento degli innamorati”, due baobab intrecciati che per il loro significato hanno purtroppo subito la triste abitudine delle incisioni delle iniziali delle coppie di innamorati sul proprio tronco.
Malgrado i salti (quante craniate!!!) e gli insabbiamenti, Bernard si addormenta per poi risvegliarsi quando ci troviamo di fronte allo Tsiribihina, un importante fiume che dovremo attraversare per riprendere la strada, e non trova di meglio da fare che procurarsi, in modo tuttora a me oscuro, due bottiglie fresche di birra, la famosa Three Little Horses (la cui traduzione “casualmente” mi suona molto famigliare!) che ci beviamo mangiucchiando dei pesciolini fritti su un tavolo nello spiazzo vicino a riva, senza accorgerci che intanto tutta la gente si è spostata e all’improvviso ci troviamo circondati da una numerosa mandria di zebù (le mucche con la gobba, n.d.r.!!!) arrivate sulla riva per abbeverarsi ….. e io mi sento tanto Ernesto Calindri!! :-))
Però resta il problema di procurarci la benzina e dopo una lunga trattativa, mi vengono portate alcune casse da dodici di bottiglie di birra che però contengono benzina(!!), quindi fatto il pieno saliamo in auto sulla chiatta quasi manuale (di ponti non c’è traccia!) che ridiscenderà lo Tsiribihina per alcuni chilometri fino a ritrovare la pista.
Appena sbarcati incontriamo un canadese che da alcuni mesi sta arrancando in bicicletta per l’isola.

Riprendiamo quindi la strada in un ambiente un pò più brullo, caratterizzato dalla presenza di baobab più giovani e sottili di quelli visti finora, che io ribattezzo “baobini”!! 🙂
E quando ormai giunge il tramonto ci troviamo all’ultimo fiume, però dobbiamo abbandonare il mezzo e possiamo attraversare soltanto grazie a delle piccole canoe (su cui ovviamente bisogna stare immobili!) e in venti minuti di buio pesto arriviamo sull’altra sponda e finalmente chiedo (ovviamente solo adesso, perchè stamattina mi ero cambiato le mutande!!) se il fiume è popolato da coccodrilli e altrettanto “ovviamente” mi viene data risposta positiva!
Ma adesso il problema è come raggiungere l’alberghetto dove dovremmo passare la notte, è già buio pesto, le zanzare cominciano a farsi sentire e la stanchezza per il viaggio anche, quindi l’idea di farci una camminata al buio di un’oretta non è certo stimolante … ma sotto un’enorme acacia vediamo parcheggiato un fuoristrada, praticamente un miraggio (!!), carico di casse di birra e sacchi di patate e carote, che sta aspettando l’ambasciatore francese e due suoi ospiti momentaneamente impegnati in una battuta di caccia, visto che per molti francesi dall’innato spirito colonialista l’isola rossa altro non è che un terreno di caccia, in tutti i sensi! (:-
Non che ci piaccia molto la compagnia, ma la stanchezza prevale sull’etica e ci facciamo dare un passaggio, “comodamente” seduti e legati sul tetto del fuoristrada, per rimanere però a piedi dopo pochi chilometri, ovvero alla prima grossa buca; ma dopo mezz’ora a favoleggiare su un’ambita quanto improbabile zuppa di birra a base di patate e carote, la fantasiosa e vitale arte d’arrangiarsi, tipicamente africana, dell’autista ha la meglio e la macchina riprende il cammino.
Arrivati a destinazione nel piccolo villaggio di Bekopaka, mi trovo subito davanti ad una bistecca di carne di zebù con ai lati una salsina verde, in cui con “prontezza” intingo la carne per poi rimanere un buon dieci minuti con la bocca aperta e senza parole (strano a credersi, ma vero!!) in attesa che si spenga il clamoroso incendio che ho in bocca!

Dopo il giusto riposo, all’alba siamo subito in piedi per incamminarci verso gli Tsingy ed essendo piovuto durante la notte ci viene sconsigliato di andare al Grande Tsingy (per visitarlo bene ci vorrebbero comunque tre giorni e va fatto in periodo assolutamente secco!) quindi ci dirigiamo verso il piccolo. Sulla riva del fiume ci sono tutte le donne di Bekopaka (un villaggio popolato prevalentemente durante la stagione asciutta) che l’una con l’altra stanno lavorando alle capigliature e rimango estasiato ad osservarle mentre suddividono la superficie cranica in 8 parti facendo altrettante trecce che poi annodano tra loro fino a trasformare la testa in una bellissima composizione artistica, che sfoggeranno in occasione della grande festa di stasera per l’Ambiente!
La moglie di Marcel (la nostra strepitosa guida malgascia!) mi invita a danzare con lei stasera perchè ci sarà anche un grande concorso, ovviamente mi rivolgo “preoccupato” a Marcel dicendogli che non so ballare ma lui mi zittisce immediatamente asserendo che con due birre sarei diventato un grande ballerino e che sua moglie ci tiene a classificarsi prima di lui nel concorso, bella prospettiva!!! :-))

Davanti al sentiero da cui si accede al piccolo tsingy, c’è una tenda canadese: per sei mesi all’anno è la casa di JeanClaude un geologo francese che vive sei mesi a Mahajanga e negli altri sei mesi lavora alla conservazione di questo patrimonio naturale e che ci accopagnerà durante l’escursione. Prima di tutto ci prega di stare molto attenti a dove mettiamo i piedi perchè, oltre ad essere estremamente pericoloso camminare dentro e sopra gli tsingy in quanto sono formazioni calcaree erose dall’acqua ed estremamente alte e appuntite per cui una caduta potrebbe essere anche fatale, è molto importante essere delicati in quanto si rischia di romperle. Da qui Jean Claude prende spunto per dichiararsi molto contento delle notevoli difficoltà che bisogna superare per raggiungere questo meraviglioso luogo, difficoltà che fanno sì che soltanto pochi turisti riescano a metterci piede limitando quindi la possibilità di fare danni irrimediabili e che lui quando sente che la famosa pista da Morondava in futuro potrebbe essere sostituita da una strada asfaltata va in panico, molto meglio che la Bekopaka Autoroute rimanga così com’è con la sua sabbia e le sue buche micidiali, che possono scoraggiare molti turisti ma che senz’altro sono un’ottima barriera di sicurezza per questo delicatissimo ecosistema.

Durante la camminata Jean Claude si accorge prima che è sparita una corda (indispensabile per muoversi in sicurezza tra le lame acuminate!) e poi che in una piccola grotta c’è un’anfora e soprattutto che c’è della cenere calda, e il discorso cade inevitabilmente sui Vazhimba. I Vazhimba sono una popolazione pigmea considerata tra i primi abitanti dell’isola rossa e di cui si sa pochissimo se non alcune leggende, tra cui quelle che sostengono che molti di loro non hanno mai avuto contatti con le altre popolazioni malgasce o occidentali, e che vivono in zone inaccessibili della foresta primaria o nelle immense grotte e cavità presenti nel Grande Tsingy e tuttora inesplorate.
Caratteristica degli Tsingy, oltre alle sue forme acuminate, sono i piccoli canyons che si riempiono d’acqua nella stagione delle piogge, le piante grasse dalle forme diversissime e che riescono a prendere vita in punti anche assai complessi della formazione calcarea nonchè gli immancabili lemuri, i primati che vivono soltanto sull’isola rossa costituendone uno dei maggiori simboli e che si differenziano in diverse sottospecie, tra cui i lemuri notturni di cui potrò ammirare gli occhi che mi osservano circospetti dal buco di un tronco e i favolosi sifaka talmente curiosi che anche se tu non li vedi nel fitto della foresta, loro sono sicuramente ben piazzati con la famiglia al completo che ti osservano.

Quando chiedo perchè si chiamano tsingy, il sempre sorridente Marcel dà un colpetto ad una lastra calcarea facendomi ascoltare il suono che ne deriva, appunto “tsing” da cui deriva il nome onomatopeico (così com’è la derivazione di tante altre parole della lingua malgascia) della stessa formazione calcarea.
Prima di concludere l’interessante camminata-arrampicata decidiamo di scendere in una grotta: si scende di parecchie decine di metri aiutandosi infilando le mani nelle tante fessure ma Marcel dopo una decina di minuti con modo decisamente tranquillo ci invita a non mettere le mani in una determinata fessura, noi guardiamo e vediamo un ragno bianco-marrone grande quanto un palmo di mano, fermo immobile, quindi notata la tranquillità del tono di Marcel gli chiediamo che effetto farebbe su di noi quel ragno per sentirci rispondere sempre con estrema tranquillità “non ci sarebbe nemmeno bisogno di portarvi in superficie”!
Continuiamo a scendere ma con maggiore attenzione, sentiamo rumori strani in lontananza e Marcel continua a pronunciare una parola francese che ho già sentito ma di cui non ricordo il significato; arrivati in una specie di salone immenso e con magnifici stalagtiti, Marcel mi invita a battere le mani e io (sempre più suonato!) convinto di fare una prova per l’eco le batto e subito mi ricordo che la famosa parola francese significa “pipistrelli” e sono anche decisamente grandi!! L’uscita dalla grotta sarà estremamente veloce!! :-))

Tornati alla base ci mangiamo una bistecca, ovviamente senza salse (!!), e poi ci cimentiamo nella gara di ballo. La festa si tiene nell’aula della scuola e noi siamo gli unici due vazaha e di conseguenza anche i due che destano maggiore curiosità e veniamo trattati come ospiti importanti (….ma quante birre ci offrono!!??), la festa è decisamente importante per il villaggio e tutti sono vestiti al loro meglio: le donne con i capelli intrecciati e gli uomini con i vestiti più belli o gli accessori più intriganti, magliette di squadre di calcio e occhiali a specchio!! La serata è semplicemente eccezionale (musicalmente domina il grande Jao Joby) e non mancano le standing ovation per Bernard che insieme alla cognata di Marcel lotta per la vittoria finale (io mi piazzerò in un discreto e sorprendente quarto posto … ma avevo bevuto una birra in meno!!!) ma alla fine dovrà cedere di fronte alle peripezie della coppia favorita, i due maestri che anch’essi si trasferiscono qui sei mesi all’anno per continuare gli insegnamenti.
L’ultimo giorno è ovviamente e interamente dedicato al duro rientro, e tra buche, guadi e salti, a circa 40 chilometri da Morondava, quando il buio sta calando, incontriamo un camion militare che avanza a passo d’uomo sulla sabbia: da sopra il cofano ci salutano, è il ciclista canadese che in cambio di un passaggio (arriverà l’indomani al tramonto!) è stato assunto, insieme alla sua torcia, come fanale!!
Arrivati all’alberghetto di Morondava, una piccola folla ci attende … per chiederci com’è stato il viaggio, se abbiamo avuto problemi e soprattutto cosa ne pensiamo delle loro bellezze naturali e allora mi trasformo in cantastorie con un pubblico educato e attentissimo di adulti e bambini.

Quando preparavo i miei viaggi in terra malgascia sapevo sempre che i pericoli più grossi erano rappresentati dai coccodrilli e da qualche insetto, sapevo che la gente malgascia pur nella sua drammatica povertà ha una dignità e una disponibilità eccezionali ma adesso so che probabilmente non si erano ancora fatti i conti con il progresso e con quei grossi interessi che quatti quatti portano il caos anche tra le popolazioni più pacifiche! (:-

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Marco

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