di Maurizio Fortunato –
Ogni viaggio è un pezzetto della nostra anima che ricomponiamo, alla ricerca dell’ultimo tassello che ci sveli il mistero della nostra esistenza. In ogni viaggio un sottile filo guida i nostri passi, si può partire con l’intimo desiderio di una meta da raggiungere, o ci si può aspettare di essere travolti lungo il cammino, con la semplice speranza di non rimanere delusi. Ad ogni viaggio cresce la nostra ansia di scoprire nuove meraviglie, di lasciarsi incantare da un cielo diverso in ogni luogo eppure sempre lo stesso, lungo sentieri polverosi percorsi infinite volte, dentro antiche rovine mute di un clamore passato, persi in una strada del mondo affollata di vita. E per quanti viaggi abbiate intrapreso, per quanti luoghi visitato, nulla vi può preparare a questa esperienza, perché il viaggio in Libia può divenire il percorso per la ricerca del significato più profondo del proprio io. Soli sulla vetta di un monte, immersi nell’assordante silenzio d’un infinito accecante, sferzati dal vento come spighe dorate in un campo di grano maturo, mentre il lento fluire del tempo muta la forma della vita spostando un granello di sabbia dopo l’altro, in un mare che di giorno risplende al sole e al tramonto si accende di tenui sfumature rosa fino a scomparire nel buio più profondo, lasciando negli occhi solo un ricordo di luce…. Mai come in questo viaggio mi riesce difficile dipanare quel filo conduttore che segna il ricordo delle emozioni vissute, tante sono le cose che ancora oggi permeano la mente di vivide immagini in un indissolubile intreccio…. I maestosi resti archeologici lasciati in eredità dai greci, dai romani, dai bizantini, un’autentica epopea storica da vivere d’un fiato attraverso tutti i luoghi di cui è punteggiata la costa mediterranea, senza dubbio i più affascinanti tra quelli che ho avuto modo di visitare nel Nord Africa…. Le stupende atmosfere del deserto, in un continuo mutare dall’alba al tramonto di paesaggi, luci, colori…. L’arte rupestre, misteriosa traccia di quei popoli che hanno abitato in epoche remote il Jebel Acacus, testimone muta dei cambiamenti climatici che hanno trasformato un’immensa foresta equatoriale, percorsa da grandi fiumi e popolata da una miriade di animali, in un arido deserto…. La scoperta di un popolo ospitale che ci ha sempre manifestato, in ogni luogo dove ci siamo recati, il piacere di poterci incontrare…. E tra tutto questo, il sentimento più forte, quella sensazione di contatto con la parte più intima di noi stessi che solo la solitudine del deserto ti sa regalare…. Ho visto lo stupore tramutarsi in gioia, la gioia farsi lacrima, la lacrima brillare un solo istante prima di morire in un caldo abbraccio…. Ho visto occhi serrati al mondo spalancarsi sull’infinitesimo, alla ricerca, dentro le oscurità dell’anima, della vera ragione del nostro esistere…. ”Gli uomini viaggiano per stupirsi degli oceani e dei monti, dei fiumi e delle stelle, e passano accanto a se stessi senza meravigliarsi” ( Sant’Agostino ).
17 Maggio 2005
Genova – Roma – Bengasi – Susa
Il viaggio ha inizio di buon mattino con il volo di trasferimento che da Genova mi porta a Roma, dove alle 13.00 è previsto il volo di linea della Libyan Aerlines, la compagnia di bandiera nazionale, per Bengasi. Il nostro programma, organizzato dal tour operator di Roma Time-Out, prevede la visita della Cirenaica, con i siti archeologici di Cirene, Apollonia, Qasr Libia e Tolmeita, quindi il trasferimento con volo interno a Tripoli per visitare il bellissimo sito di Leptis Magna. Successivamente di nuovo un volo interno verso la città di Sebha alle porte del Sahara, da dove ha inizio il tour in 4×4 che ci porterà nel Jebel Acacus, ad ammirare i paesaggi e le antiche incisioni rupestri custodite nel deserto. Sulla strada del ritorno visita dell’Erg Ubari e dei laghi della zona, quindi il ritorno a Tripoli, sempre in aereo, per visitare la città ed il sito di Sabratha prima del nostro rientro in Italia. Arriviamo a Bengasi in orario atterrando su quella che mi sembra essere l’unica pista del piccolo aeroporto. Su un lato fanno bella mostra di se vecchie carcasse di aerei militari recitante da piccoli muri intonacati di fresco, non si capisce bene se come forma di sicurezza o di abbellimento. Non c’è traccia di altri aerei oltre al nostro e a piccoli cargo di compagnie africane. Siamo alla fine del periodo di maggior afflusso turistico, ora che la Libia ha ufficialmente riaperto al turismo internazionale, ma come avremo modo di scoprire più avanti questo si rileverà un gran bel vantaggio perché ci permetterà di girare tranquillamente nel paese senza incontrare praticamente altri gruppi organizzati. E di godere inoltre di un periodo climatico stupendo, con temperature miti e cielo turchese lungo la costa mediterranea, dove normalmente in inverno e in primavera non è difficile incontrare giornate piovose, con un clima asciutto nel deserto, dove le temperature prossime ai 40° di giorno scenderanno gradatamente di sera senza provocare però il temuto sbalzo termico, e senza infine dover fare i conti con il famigerato ghibli, che quando spazza l’aria con i suoi venti può procurare più di un problema. In sostanza, vista l’esperienza diretta, è un periodo che mi sento di consigliare vivamente. All’arrivo, ore 15.00 locali, un’ora avanti rispetto all’Italia, la stessa quando da noi c’è l’ora legale, facciamo conoscenza con la nostra guida locale Ahmed, un ragazzo molto simpatico e gioviale dalla parlantina sciolta e dall’italiano fluente, che ci aiuta subito nel disbrigo delle formalità doganali e che ci accompagnerà per tutta la durata del viaggio. Insieme a lui c’è un altro ragazzo, praticamente il suo alter ego dato che mastica poco d’italiano e non è un gran chiacchierone, ma che soprattutto, come scopriremo in seguito, non è una guida bensì un poliziotto incaricato della nostra sicurezza. Più probabilmente a mio avviso, vista l’assenza di pericoli evidenti, per controllare che qualcuno del gruppo non commetta sciocchezze infilandosi in qualche guaio, come quei turisti tedeschi sorpresi anni fa alla partenza con il calco di un’incisione rupestre come souvenir !! (ma dico io ) Da allora non è più consentito girare da soli per il paese e anche in caso di viaggiatori indipendenti, al di fuori dei tour organizzati, oltre al visto è richiesto l’invito di un’agenzia turistica locale che faccia da garante. Appena fuori dall’aeroporto approfittiamo della presenza di un ufficio cambi per acquistare un po’ di moneta locale, il dinaro ( inutile portarsi dei dollari visto che ormai l’euro è normalmente accettato anche qui ). E’ difficile dire quanto convenga cambiare, in Libia attualmente non esistono circuiti internazionali per prelevare con i bancomat e le Carte di Credito sono ancora pressoché sconosciute, le spese più frequenti le incontrerete per approvvigionarvi di acqua da bere, circa 5 dinari al litro nei bar un po’ meno nei piccoli market, ( per il deserto normalmente viene fornita dal tour organizzatore ) e per poter usare la macchina fotografica o la telecamera, 5/10 dinari, nei siti archeologi e nei musei, ma considerate anche, come è stato per noi, che facilmente il vostro accompagnatore locale sarà in grado di cambiarvi della moneta allo stesso cambio praticato ufficialmente. Ricordate infine che in Italia il dinaro vale praticamente come i soldi del monopoli e che dovrete necessariamente riconvertirlo prima della partenza, per sicurezza tenete la ricevuta di cambio perché potrebbero richiedervela. Finalmente saliamo sul pulmann e partiamo alla volta di Susa, una piccola città fondata nel 1897 da un gruppo di profughi mussulmani in fuga da Creta, che sarà la nostra base per l’esplorazione della Cirenaica. Lasciata Bengasi ci inoltriamo nel Jebel Akhdar, zona delle Montagne Verdi, la catena montuosa più alta della Libia settentrionale, la quale dopo una prima parte arida, ad onor del nome, inizia a presentarsi con un susseguirsi di campi coltivati a grano, piantagioni di olivi, viti, mandorli e grandi appezzamenti di campi verdi dove pascolano tranquilli greggi di pecore, capre e perfino dromedari. Nei pressi della cittadina di Al-Bayda la strada inizia a salire. Siamo in vista del fiume Wadi al-Kuf che in questa zona crea una serie ininterrotta di belle gole e ripidi canyon, teatro negli anni a cavallo tra il 1920 e il 1930 di accanite battaglie tra i patrioti libici, guidati dal leggendario Omar al-Mukhtar, e gli occupanti italiani del maresciallo Badoglio. Superato un moderno ponte, costruito su un affluente del Wadi al-Kuf, la strada verso Susa inizia a scendere aprendosi in una bella valle con magnifiche vedute della costa. Sono ormai le 19.30 quando arriviamo all’ El Manara, un moderno e confortevole albergo situato proprio nei pressi dell’ingresso del sito archeologico di Apollonia.
18 Maggio 2005 Cirene – Apollonia
Oggi dedicheremo la giornata alla visita della Cirenaica, iniziando dal più importante sito archeologico della zona, l’antica città greca di Cirene.
Cenni Storici
Il mito sulla fondazione della città, come quasi tutti i miti dell’epoca, vede gli dei ed i comuni mortali avvinti e travolti dalle stesse umane passioni. In questo, si narra del rapimento d’amore di cui rimane soggiogato il dio Apollo allorché il suo sguardo ha modo di posarsi sulla leggiadra figura di Cirene, una ninfa amante della caccia, assorbita in quel momento in un’accanita lotta con un leone. Apollo incantato dalla bellezza e dalla forza della ninfa la ghermisce, trascinandola in volo sul suo carro dorato. Nel punto esatto in cui i due amanti atterrano, sulle coste libiche appunto, verrà successivamente edificata l’antica colonia greca. Più prosaicamente la storia racconta che la fondazione della città si deve a un piccolo gruppo di cittadini fuoriusciti da Thera, l’odierna Santorini, che spinti da motivi politici e demografici abbandonarono la loro isola nativa per trovare nuove terre fertili da colonizzare. La scelta del luogo, già abitato da tribù locali, si rivelò ben presto felice e dall’anno della fondazione, nel 631 a.C., la città cresce e si sviluppa rapidamente tanto da attirare cosi altri coloni dalla madre patria. Cirene raggiunge il suo massimo splendore politico e culturale nel IV sec. a.C., quando insieme ad altre quattro colonie della zona da origine alla famosa federazione greca conosciuta come Pentapoli, di cui assume il ruolo guida. Nel 331 a.C. anche la Pentapoli greca in terra libica rimane soggiogata sotto l’espansione dell’impero di Alessandro Magno perdendo cosi il suo status indipendente, che riacquisterà solo per un breve periodo, alla caduta di quest’ultimo, prima di passare sotto la dominazione dei faraoni egiziani della dinastia dei Tolomei e dei romani in seguito, i quali la ricevono in eredità nel 96 a.C. dal faraone Tolomeo Apione insieme a tutta la Cirenaica. La storia della città, divenuta nel frattempo un importante centro del grande impero romano pur riuscendo a mantenere intatta la sua originalità ellenica, assurge nuovamente alle cronache in seguito alla furiosa rivolta della comunità ebraica che tra il 115 e il 117 a.C. la distrugge mettendola a ferro e fuoco. Ricostruita per volere dell’imperatore Adriano la città assume una connotazione più marcatamente romana, anche se il periodo di rinnovata vitalità ha vita breve perché il declino istituzionale ed economico di cui cade vittima l’impero finirà per travolgere anche Cirene stessa, già duramente provata nel breve volgere di un secolo da due devastanti terremoti ( 262 e 365 d .C. ). Durante la successiva occupazione bizantina Cirene diviene un centro cristiano di minore importanza, perdendo cosi il suo primato regionale a favore della vicina città di Tolmeita, prima di cadere nel 693 d.C. sotto la spinta dell’avanzata islamica in Nord Africa.
Lungo la strada che dalla costa risale dolcemente la valle si incontrano i resti delle antiche necropoli greche scavate direttamente nella roccia e riutilizzate in seguito anche in epoca romana e bizantina. Di certune rimangono tracce distinte nella specifica peculiarità della moda e dei costumi del periodo in cui furono realizzate, alcune sembrano rappresentare dei templi in miniatura ornati con piccole colonne scolpite e rappresentazioni di divinità, altre sono caratterizzate da angusti locali attigui privi di decoro, altre infine sono semplici sarcofagi ricavati direttamente sul luogo della sepoltura. Prima di entrare nel sito archeologico ci fermiamo ad ammirare dall’alto il tempio di Apollo, edificato come racconta la leggenda nel punto esatto in cui il dio e la ninfa approdarono in terra di Libia. E’ una giornata limpida con un cielo terso e turchese come solo queste latitudine sanno rendere, la temperatura è già discretamente alta, ma grazie all’aria secca ed asciutta quasi non ci si fa caso. Appena varcato l’ingresso del sito archeologico, la cui visita richiede non meno di 3 h circa, si incontra il grande Gymnasium costruito dai greci nel II sec. a.C. ed utilizzato come principale centro sportivo della città. La grande palestra centrale all’aperto era circondata su ogni lato da una fila di colonne doriche che delimitavano un corridoio coperto e chiuso su un lato da un alto muro. In epoca romana l’area fu trasformata in un Foro dedicato alle discussioni politiche ed all’amministrazione della giustizia con annesso un tribunale. Il maestoso ingresso, ben visibile ancora oggi, era formato da quattro colonne doriche a sorreggere l’architrave del tetto. Subito dietro il Gymnasium si trova un piccolo Odeon dedicato al dio Apollo, costruito con granito di Assuan e marmo di Baros in Grecia, utilizzato nel periodo ellenico per le rappresentazioni teatrali. A fianco una pista di atletica, lo Xystos, sfruttata dagli atleti per i loro allenamenti quotidiani. Sul lato sud-occidentale del Gymnasium si trova invece la Skyrota, la via principale della città di Cirene, ornata in un primo tratto denominato Portico delle Erme da grandi statue raffiguranti le Cariatidi, immagini dei semidei Ercole ed Ermete. Successivamente i romani prolungarono la strada fino a raggiungere l’Agora, trasformandola cosi in un viale cerimoniale. Lungo la Skyrota si trovano dapprima un altro piccolo Teatro costruito per gli spettacoli musicali e successivamente l’imponente casa di Claudio Tiberio Giasone Magno, personaggio influente e gran sacerdote del dio Apollo, risalente al II sec. d.C. L’ingresso della casa era costituito da un grande cortile aperto che si apriva direttamente sulla via principale. Utilizzato come empluvium per la raccolta dell’acqua piovana era decorato con mosaici raffiguranti tra l’altro Arianna e Dionisio ( attualmente asportati per una migliore conservazione). Sull’ingresso si aprivano varie stanze interne tra cui una sala da pranzo estiva con il pavimento in marmo, da cui l’ospite ed i suoi commensali potevano godere di una magnifica veduta sulla vallata mentre banchettavano. Accanto a questa sala si trova la stanza denominata della Quattro Stagioni, cosi denominata per via del grande mosaico sul pavimento in cui una fanciulla viene rappresentata ai quattro angoli abbigliata con i costumi tipici delle stagioni dell’anno. Tra i resti archeologici, qui come in altri punti del sito, si trovano le stilizzazioni scolpite di un’antica pianta oggi scomparsa, il silphium, simile all’odierno finocchio selvatico che all’epoca nasceva spontanea nella zona. Molto ricercata ed apprezzata nell’antichità per le sue virtù curative, speziali e afrodisiache, contribuì in maniera determinate alle fortune di Cirene. Proseguendo lungo la Skyrota arriviamo all’Agorà, la grande piazza pubblica vero fulcro della vita cittadina. Circondata da templi ed altri edifici adibiti a funzioni civili poteva trasformarsi da semplice mercato a luogo di ritrovo per assistere a cerimonie religiose e politiche. Sulla destra si trova un Monumento Navale, restaurato di recente, edificato dai Tolomei nel III sec. a.C. per celebrare una vittoriosa battaglia. La statua rappresenta una Vittoria protesa sulla poppa di una nave alla base della quale sono raffigurati due delfini e i tritoni di Nettuno. In fondo alla piazza si trovano i resti del Santuario di Demetra e Kore, realizzato in una non comune forma circolare ed abbellito con statue di divinità femminili della fertilità sedute ed in piedi, quest’ultime aggiunte nel periodo romano. Ogni anno vi si svolgeva un festa molto importante a cui partecipavano solo le donne e che rievocava il mito di Demetra. All’interno e subito intorno all’Agorà si trovano altri edifici, come il Tempio delle Basi Ottagonali o la Tomba di Batto, il capo dei coloni greci che fondarono la colonia di Cirene, ma il loro stato di conservazione non ottimale li rende poco interessanti e di difficile individuazione. Dietro l’Agorà una strada costruita dai Bizantini scende dalla cima della collina verso la zona sottostante del sito archeologico caratterizzata dal grande Santuario di Apollo. Lungo la discesa si trovano i resti delle antiche Terme di Artemide Diana risalenti al periodo greco, scavate interamente nella roccia sono le uniche del genere mai ritrovate. Tra le varie stanze, scarsamente illuminate da un’apertura praticata in alto, quella che si è conservata meglio è il calidarium dove si notano ancora le vasche per l’acqua calda e le piccole celle scavate nella parete che fungevano da deposito per gli abiti. Alla fine della discesa si arriva nei pressi della Fontana di Apollo, una sorgente naturale utilizzata in passato come complesso termale conosciuto con il nome di Bagni di Paride. Il Santuario di Apollo nei pressi è un insieme di più templi ed edifici religiosi, tra cui il Tempio di Apollo vero e proprio, uno dei più antichi della colonia di Cirene. Costruito nel VI sec. a.C. venne successivamente dotato di file di colonne sui quattro lati a racchiudere l’originale spazio aperto che fungeva da area sacra. Ricostruito nel IV sec. a.C. subì la completa distruzione durante la rivolta ebraica, i resti visibili oggi risalgono al più recente periodo romano del II sec. d.C. Di fronte al tempio si trova un grande altare monumentale utilizzato per i sacrifici dedicati al dio e un bellissimo Nymphaeum, fontana sacra, con due leoni ai lati. Su un lato del tempio di Apollo si trova il Tempio di Artemide ritenuto più antico del santuario stesso. Da qui parte il sentiero che conduce al grande Teatro di Cirene, edificato dai greci nel VI sec. a.C. e modificato successivamente dai romani che lo trasformarono in un anfiteatro, da qui si gode una magnifica vista verso il mare. Purtroppo oggi appare piuttosto dimesso e molti dei livelli che un tempo potevano ospitare circa mille spettatori sono crollati sotto il peso del tempo. Tornando indietro verso l’uscita settentrionale del sito archeologico si incontrano le antiche Terme Romane. Costruite nel I sec. d.C. sotto l’imperatore Traiano furono successivamente restaurate dall’imperatore Adriano, come ricorda una lapide che si trova in quello che era il frigidarium, dopo i danni provocati dalla rivolta della comunità giudaica di Cirene. Quello che resta del complesso termale, decorato con mosaici e colonne in marmo cipollino, comprende altri vani come il tiepidarium ed il calidarium, ed uno che fungeva da spogliatoio in cui fu rinvenuta la statua delle Tre Grazie conservata ora nel museo della Jamahiriya di Tripoli. All’uscita dal sito ci rechiamo a pranzo in un vicino complesso chiamato resort Cirene, dove la caratteristica sala da pranzo è stata ricavata direttamente nella roccia, un modo per creare un ambiente isotermico con una temperatura gradevole rispetto alla calura esterna. Dopo il pranzo riprendiamo il pulmann per spostarci più velocemente nella parte del sito, in cima alla collina, che ospita il maestoso Tempio di Zeus. Il tempio è il monumento più importante dell’antica Cirene, dedicato alla principale divinità del pantheon greco superava in dimensioni lo stesso Partenone di Atene. Lungo il perimetro esterno era circondato da una doppia fila di colonne cosi come all’interno del santuario vero e proprio dove venivano celebrati i riti in onore del dio. Distrutto come gran parte della città durante la rivolta ebraica venne restaurato dall’imperatore Adriano nel 120 d.C., ma dovette subire un nuovo rovescio a causa, questa volta, del terremoto che colpì tutta la zona nel 365 d.C. Quello che è possibile ammirare oggi si deve all’abile opera di restauro condotta dall’equipe del prof. Stucchi dell’Università di Roma che ha parzialmente ricostruito l’antico tempio, solo qui abbiamo la ventura di imbatterci in un piccola comitiva di turisti francesi dopo aver praticamente visitato il sito di Cirene in perfetta solitudine. Terminata la visita dell’interessante sito di Cirene ritorniamo brevemente in albergo in attesa di visitare il sito archeologico di Apollonia, il cui ingresso dista appena poche decine di metri, sviluppandosi lungo un tratto di costa direttamente sul mare.
Cenni Storici
La nascita di Apollonia avviene in un periodo successivo a quella di Cirene, con lo scopo dichiarato di dotare quest’ultima di un porto marittimo per favorirne gli scambi commerciali ed aumentarne cosi il prestigio e la prosperità. Apollonia rivesti questa funzione anche sotto il periodo della dominazione romana, fino a diventare per un breve periodo anche la sede del governatore della provincia. Il terribile terremoto che colpi la zona nel 365 d.C. causo gravissimi danni alla città ed al suo porto, che quasi scomparve inabissandosi nelle acque del mediterraneo, iniziando così a segnarne il declino nel periodo romano. Con l’avvento dei bizantini Apollonia recupero in parte la sua prosperità. I resti visibili oggi risalgono in maggioranza a quel periodo, V-VI sec. d.C., in cui vennero edificate cinque basiliche recuperando in parte marmi ed altri materiali dalla vicina Cirene, cosa che valse alla città l’appellativo di “città delle chiese”. Con l’invasione islamica la città cade nuovamente in disgrazia e i suoi edifici spogliati sono utilizzati come materiale da costruzione per edificare, poco più a monte, una città per i profughi mussulmani in fuga dall’isola di Creta.
Appena dopo l’ingresso del sito archeologico si incontra la basilica denominata Chiesa Occidentale in cui convivono elementi tipici bizantini, colonne di marmo bianco, ed elementi greci prelevati da Cirene, colonne di marmo verde cipollino. Nei pressi si trova un battistero tipico dell’epoca, realizzato al livello del pavimento permetteva al battezzato, scesi alcuni gradini, di immergersi quasi completamente in una vasca colma d’acqua per uscirne poi purificato dal lato opposto. Questo tipo di battistero era comunemente usato nei primi periodi del cristianesimo come simbiosi del battesimo di Gesù nelle acqua del Giordano. Proseguendo lungo un sentiero si arriva nella più grande e meglio conservata Chiesa Centrale, probabilmente edificata in onore di San Marco. Anche questa basilica era adornata da colonne in marmo verde cipollino sulle quali era scolpita una croce cristiana che sormonta il globo di Atlante, a rappresentare l’universalità e il dominio del nuovo credo. Poco fuori della chiesa si è conservata una sedia in pietra utilizzata dal vescovo, sembra per trovare riposo dopo aver presieduto alle funzioni liturgiche. Intorno alla chiesa si notano i resti di antiche terme del periodo romano e bizantino, mentre più discosto si trova l’edificio che ospitava il governatore bizantino. Proseguendo lungo il sentiero si arriva ad un quartiere di case bizantine su cui si affaccia la Chiesa Orientale edificata sui resti di un tempio greco, qui il marmo cipollino è utilizzato anche per il pavimento ed i rivestimenti murali. Edificata nel V sec. d.C. era la più grande della Cirenaica, con la navata centrale separata dalle quelle laterali da due file di colonne. Di li a poco il sentiero si affaccia direttamente sulla spiaggia, di fronte alla quale si trova l’isola di Hammam, che prima del terremoto del 365 a.C. era unita alla costa nel punto in cui si trovava l’antico porto, inabissatosi in seguito al disastro naturale. Lungo la parete rocciosa si trovano alcune grotte utilizzate nell’antichità come depositi e fornaci per la produzione di ceramiche e sfruttate oggi da gruppi di giovani, rigorosamente solo uomini, per cuocere spiedini di carne su braci improvvisate. Alla fine del sentiero si arriva direttamente sopra i resti del grande Teatro Greco, che dopo il terremoto, come lo è oggi, è scivolato in avanti venendosi a trovare proprio a ridosso del mare. Il teatro non venne mai utilizzato dai bizantini perché ritenuto un luogo sacrilego, che sfruttarono invece la collina sovrastante per farne una necropoli, come testimoniano diversi sarcofagi. Terminata la visita del sito ne approfittiamo per fare un bagno nella spiaggia sottostante, un tuffo e via data la temperatura dell’acqua non proprio calda. Dopo la cena che consumiamo in albergo, per inciso non aspettatevi molto dalla cucina libica perché è piuttosto monotona e nemmeno lontana parente di quella stupenda marocchina, usciamo a fare un giro. Giro che termina molto velocemente essendo Susa una piccola cittadina non ancora abituata al turismo di massa, per fortuna, e che come il resto del paese non offre molto per passare la serata. Personalmente spero che rimanga cosi il più a lungo possibile. Allora per chiudere la giornata ci ritroviamo tutti con la nostra guida Ahmed a bere un tè alla menta nell’unico bar aperto, proprio dietro l’hotel, e a chiacchierare amabilmente, non senza qualche punta di asprezza quando la conversazione scivola sulla condizione delle donne, sulle differenze tra la nostra cultura e la loro.
19 Maggio 2005
Susa – Qsar Libia – Tolmeita – Bengasi – Tripoli
Lasciamo di buon mattino la cittadina di Susa e ripercorrendo la stessa strada dell’andata ritorniamo a Bengasi, dove ci attende un volo interno con cui raggiungeremo Tripoli. Durante il tragitto il programma prevede due soste per completare la visita della Cirenaica nella sua parte più occidentale, una per ammirare gli stupefacenti mosaici bizantini di Qsar Libia ed un’altra per visitare il sito archeologico dell’antica colonia greca di Tolmeita. Qsar Libia è una piccola cittadina che assurge alla ribalta della cronaca nel 1957, quando in seguito ai lavori di scavo di una diga vengono riportati alla luce i resti di un’antica basilica bizantina. Cosa ancora più stupefacente fu ritrovare il pavimento della chiesa in ottimo stato di conservazione, cesellato finemente da eleganti pannelli a mosaico raffiguranti soggetti religiosi e mitologici. Arriviamo sul sito dopo aver percorso circa un’ora di strada da Susa, nei pressi di quello che era un piccolo forte di presidio del periodo turco, successivamente riutilizzato anche durante l’occupazione italiana. Appena dopo l’ingresso un sentiero si fa largo tra i campi verso est per arrivare sul luogo dove sorgeva la Chiesa bizantina, della struttura originale rimane traccia nell’abside, nella navata centrale e nella sala posteriore che accoglieva i fedeli dove sono stati rinvenuti i mosaici, come si intuisce dagli spazi rimasti desolatamente vuoti dopo che quest’ultimi sono stati asportati per collocarli nel vicino museo appositamente costruito. I resti della chiesa non sono stati valorizzati e gli scavi sembrano ora abbandonati all’incuria del tempo dopo alcune opere di sistemazione effettuate da archeologi inglesi, cosi come affermato dalla guida, su cui ci sarebbe più d’un particolare da obbiettare. Ma il vero tesoro sono i bellissimi mosaici custoditi ora nel piccolo museo del sito, proprio di fronte all’ingresso di un’altra chiesa bizantina utilizzata dagli italiani come alloggio per le truppe. In un miglior stato di conservazione, ma nella quale non furono rinvenuti mosaici belli come nella prima. I 50 pannelli sono della dimensione di circa mezzo metro quadrato e dopo essere stati inseriti in un telaio di legno sono stati appesi alle pareti dell’unica sala del museo, mentre sul pavimento è collocato il grande mosaico che ricopriva la navata settentrionale della chiesa. I soggetti raffigurati nei pannelli sono per lo più divinità precristiane, figure mitologiche e animali di tutte le specie, tra i più significativi il pannello n° 3 che rappresenta la città di Teodora ed il 28 che raffigura una basilica con la facciata ornata da colonne. Ma il più importante da un punto di vista storico è il pannello n° 48 , una delle rarissime rappresentazioni del faro di Alessandria, con la figura del dio Elio nudo che in cima al tetto regge nella mano destra una spada con la punta rivolta verso il basso ed appoggiata sullo specchio di ferro del faro. Uscendo dal museo si può salire sulle mura del vecchio forte da cui si gode una bella vista sulla pianura circostante. Lasciata Qsar Libia riprendiamo la strada per Bengasi, effettuando una deviazione verso la costa per visitare il sito dell’antica colonia greca di Tolmeita fondata nel IV sec. a.C. La città, una di quelle che formavano la famosa Pentapoli greca, ebbe un ruolo rilevante anche durante il periodo romano prima di iniziare una lenta decadenza con l’avvento delle invasioni arabe. Il cielo si è improvvisamente incupito e per un breve momento lascia scivolare verso di noi una leggera pioggia, quasi il preludio ad un temporale che non arriverà mai. Dall’ingresso del sito archeologico, i cui reperti più interessanti risalgono al periodo che va dal I al II sec. a.C., un breve sentiero conduce sul luogo dove sorgevano Tre archi romani, il punto d’incontro tra il primo cardo e il decumano, le strade che attraversavano la città seguendo la direzione dei quattro punti cardinali come in tutti i tipici insediamenti romani. Proseguendo lungo il primo cardo incontriamo dapprima l’antico Odeon greco, utilizzato per rappresentare spettacoli musicali e successivamente trasformato dai romani in una piscina all’aperto, e poco dopo, in leggera salita sulla collina, arriviamo nella grande piazza dell’Agorà greca, divenuta poi il Foro Romano, le cui fondamenta fungevano da enorme cisterna per la raccolta dell’acqua, come testimoniano le numerose aperture che si trovano sulla sua superficie e che corrispondono a pozzi sotterranei. In un angolo della piazza si trova una piccola scala che scende nelle cisterne, destinate a raccogliere l’acqua proveniente da sorgenti montane situate nella zona. Passando da una stanza ad un’altra, pur con una scarsa illuminazione, si riesce a percepire la dimensione e l’importanza che dovevano avere per la vita della città. Dall’agora si scendiamo verso l’uscita del sito passando accanto alla bella Villa delle Colonne, costruita da un facoltoso romano sul luogo dove sorgeva una più antica costruzione andata distrutta durante la rivolta ebraica. Sul pavimento di una stanza, sul lato meridionale, è collocato un bel mosaico con una raffigurazione di una testa di medusa, mentre nell’adiacente stanza da pranzo si rilevano ancora le tracce dell’originale rivestimento delle pareti, realizzato con lastre di marmo. La villa disponeva anche di una grande piscina rettangolare, al cui centro era posta una piccola fontana raffigurante un animale, ora conservata nel piccolo museo del sito. Ed è proprio nel museo che ci rechiamo dopo aver esplorato i resti del sito che comprendono anche un Teatro greco ed un’altra costruzione patrizia denominata Villa delle Quattro Stagioni, per via del grande mosaico che vi è stato rinvenuto e che fa ora bella mostra di se nella sala centrale del museo. Terminata la visita del museo, in cui sono esposti alcuni reperti interessanti, riprendiamo la strada per Bengasi salutando cosi la Cirenaica e la sua millenaria storia. Un volo interno ci attende per portarci a Tripoli, la capitale. Oltre al nostro gruppo si imbarcano molte altre persone dato che questo è il mezzo più veloce per spostarsi in Libia considerate le distanze, a meno di non volersi sobbarcare molte ore di viaggio in pulmann, i 1024 Km tra Bengasi e Tripoli vengono percorsi in circa 12 ore. Il risvolto della medaglia è che i voli interni, oltre a essere sempre affollati, vanno prenotati con largo anticipo, potendo subire forti ritardi, se non addirittura cancellazioni dell’ultimo momento. Tutto questo contribuisce a rendere un viaggio in Libia “un tantino elastico” per le nostre brutte consuetudini da occidentali, abituati a vivere con l’orologio che spacca il secondo e in perenne rincorsa contro il tempo, che dovrebbe pur sempre rimanere una convenzione, ma in perfetta armonia con la filosofia araba che tutto fa discendere dalla suprema volontà divina. Per cui più che preoccuparsi delle piccole disavventure che possono verificarsi, è meglio godere di quello che può regalare un imprevisto improvviso. Durante il volo, per le strane bizzarrie del check-in, mi ritrovo staccato dal resto del gruppo, isolato in mezzo a donne con il velo, bambini smaniosi e uomini in volo per affari, ma questo mi da anche la possibilità di rispolverare il mio scarso inglese scolastico e di chiacchierare amabilmente con il mio vicino di posto, un simpatico ingegnere rappresentante di una multinazionale tedesca specializzata in apparecchiature tecniche, giusto il tempo di scoprire, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’orgoglio di appartenenza di questo popolo che prima di essere arabo si sente profondamente libico. Atterriamo in perfetto orario nel secondo aeroporto della capitale, è quasi sera ormai e non ci resta che raggiungere il nostro albergo in attesa delle nuove meraviglie che il fato ci sta preparando per il giorno successivo.
20 Maggio 2005
Tripoli – Leptis Magna – Sebha
E’ Venerdì, giornata sacra e di riposo per il mondo islamico, così su consiglio e organizzazione della nostra giovane guida Ahmed effettuiamo un cambiamento rispetto al programma originale che prevedeva per oggi la visita della città di Tripoli. Ci rechiamo dunque a visitare la stupenda città romana di Leptis Magna, posticipando la visita di Tripoli al ritorno dal giro nel deserto, in una giornata in cui sarà possibile vivere più pienamente la sua realtà quotidiana.
Cenni Storici
Gli storici sono concordi nel far risalire le origini della città al VII sec. a.C., ad opera di coloni fenici di Tiro, in fuga da una guerra locale, e da coloni punici in uscita da Cartagine. Poche tracce rimangono di questo periodo, in cui probabilmente la futura Leptis non assunse un ruolo di particolare preminenza. Cosi alla caduta di Cartagine, come tutta la zona, passo prima sotto l’influenza del regno di Numidia e successivamente a partire dal 111 a.C. sotto quella romana, grazie ad un vero e proprio trattato di amicizia e di alleanza tra i due popoli. Ma è con la salita al potere dell’imperatore Augusto, a pochi anni ormai dall’avvento dell’era moderna che vedeva la nascita di Cristo, che Leptis Magna inizia ad assumere un ruolo sempre più importante all’interno del grande impero. In questo periodo si era già formata una classe aristocratica profondamente legata alla cultura e al gusto romano, ed è grazie a questa che la città inizia a conformarsi sempre di più allo stile architettonico, economico e commerciale delle altre grandi città romane, vengono cosi avviate grandi opere e realizzati alcuni dei magnifici edifici arrivati fino ai nostri giorni dopo sapienti restauri. Come ad esempio il mercato e il teatro edificati grazie alla munificenza del nobile Annibale Rufo. Negli anni successivi, a parte un breve periodo a cavallo della prima meta del I ° secolo, quando cade in disgrazia e viene invasa dai Garamanti (alleati della vicina città di Oea, l’odierna Tripoli ) come rappresaglia per aver parteggiato per una fazione perdente in una delle tante lotte intestine che periodicamente attraversavano l’impero, lo sviluppo della città prosegue inarrestabile. Cosi durante il regno dell’imperatore Adriano ( 117-138 d.C.) e ancora di più sotto quello di Settimio Severo, a cui diede i natali, superata la crisi grazie alla prosperità delle sue attività agricole e commerciali Leptis Magna continua ad ingrandirsi espandendo i suoi confini fino ad inglobare interi tratti di costa. In questo periodo gli edifici pubblici e privati vengono abbelliti con rivestimenti di marmo pregiato, mentre la costruzione di un grande acquedotto, oltre a garantire una riserva idrica costante, permetterà in seguito l’edificazione delle grandi terme note con il nome di Terme di Adriano. All’inizio del III sec. d.C. con le riforme di Diocleziano Leptis Magna viene elevata al rango di capitale della provincia autonoma della Tripolitania, anche se la nomina resterà gloria di breve durata perché una serie di sfortunati eventi naturali, ripetuti terremoti (disastroso quello del 365 d.C. ) ed inondazioni, insieme all’ormai inesorabile declino di tutto l’impero precipiteranno la città verso un periodo oscuro e decadente che perdurerà fino all’avvento dei Bizantini nel VI sec. d.C. Del periodo bizantino rimane traccia in un poderoso muro di cinta fatto edificare da Giustiniano I, che non si rivelerà però sufficiente a fermare le successivi invasioni arabe, a cui tuttavia Leptis riesce a sopravvivere fino al X sec. d.C., quando abbandonata inizia a svanire lentamente sotto la sabbia fino alla successiva riscoperta.
Uscendo da Tripoli seguiamo il litorale verso est, la strada che costeggia il mare si dipana tra una fila ininterrotta di stabilimenti balneari con piccole capanne di paglia da una parte e da piantagioni di ulivi e altre coltivazioni tipiche dell’area mediterranea dall’altra. Arrivati a Leptis Magna facciamo la conoscenza con la guida che ci illustrerà il sito, uno dei fratelli del nostro giovane accompagnatore Ahmed, una persona che lavora nel campo dell’archeologia, molta preparata e con un’ottima padronanza della lingua. Ma prima di addentrarci nel sito vero e proprio ci rechiamo a visitare il Museo, appena a lato della biglietteria, dove sono conservati reperti storici ed oggetti d’arte e d’uso comune rinvenuti durante gli scavi. Alcuni di questi sono di notevole pregio artistico, come la statua di una donna velata in cui l’artista è riuscito a rendere in maniera sorprendente la trasparenza del braccio nudo sotto il manto di marmo. Complessivamente il museo si compone di ben 25 sale, per un giro completo occorre circa un’ora abbondante, disposte in ordine cronologico dalla preistoria fino ai giorni nostri, in cui ogni reperto è illustrato da una didascalia in arabo ed inglese. In particolare nella sala 4 sono conservati i fregi originali che ornavano l’arco di trionfo di Settimio Severo ed in cui l’imperatore è raffigurato insieme a componenti della sua famiglia e a figure mitologiche , nella sala 7 sono invece custodite molte belle statue, sempre del periodo dei Severi, come la famosa donna velata ed un Marco Aurelio, Serapide, con le sembianze del dio Esculapio. Salendo al primo piano la sala 14 ospita oggetti d’uso commerciale, come le unita di misura utilizzate nelle operazioni di compravendita del mercato, mentre nella sala 15 è invece conservato il tesoro di Misrata, una collezione di più di 1000 monete di dubbia provenienza risalenti al periodo tra il 294 e il 333 d.C., probabilmente il soldo di una guarnigione della zona. Le sale 17 e 18 sono invece dedicate al tema della morte ed ospitano una collezione di varie urne cinerarie in pietra calcarea ed alabastro, per le persone più abbienti, in cui venivano conservate le ceneri dopo la cremazione. La penultima sala raccoglie invece, con un gusto un po’ kitsch, una serie di regali, doni ufficiali e non, ricevuti da Gheddafi. Terminata la visita del museo iniziamo quella del sito archeologico. Un breve sentiero introduce all’interno dell’area proprio dove è situato lo stupendo Arco di Settimio Severo, posto nel punto d’incontro tra la Via Trionfale, il cardo, e la via decumana che attraversava la città lungo l’asse est-ovest. L’arco risale al 203 d.C. e venne edificato per commemorare la visita dell’imperatore Settimio Severo alla sua città natale. Quello che si può ammirare oggi, realizzato anticamente in pietra calcarea e successivamente rivestito di marmo, è un’abile ricostruzione del monumento originale, oggetto ancor oggi di restauro. Quattro grandi piloni abbelliti sui lati da più piccole colonne corinzie sorreggono un tetto a cupola. Sulle facciate esterne sono scolpite in rilievo scene che illustrano la grandezza dell’imperatore e della sua famiglia di origine, mentre in quelle interne sono rappresentate campagne militari e vittorie ottenute dall’impero romano durante il suo regno. Sul tetto sono collocati due grandi bassorilievi con varie scene tra cui una in cui l’imperatore tiene per mano il figlio Caracalla, quasi un gossip d’epoca a smentire le chiacchiere di dissidi interni per questioni di potere. Dall’arco partiva verso nord la Via Trionfale, l’arteria sulla quale si svolgevano le grandi parate cerimoniali, sullo sfondo si intravedono i resti dell’Arco di Traiano. L’altra grande strada cittadina, il decumano, attraversava invece l’arco per dirigersi, ad est verso le grandi terme di Adriano, e ad ovest verso l’Arco di Antonino Pio, di cui si scorgono i resti in lontananza. Sulle vie si può ammirare ancora l’originale selciato romano. Imboccato il decumano ci avviamo a destra verso le Terme di Adriano. Costruite nei primi anni del II sec. a.C. su volere dell’imperatore, grazie anche all’abbondante disponibilità d’acqua approvvigionata dal nuovo acquedotto, divennero ben presto uno dei punti d’incontro più frequentati e luogo preferito di tutta la città. Accedendo dalla palestra a pianta ellittica si è introdotti nel natatio, una sala che serviva come ambiente d’ingresso, abbellito da una piscina all’aperto circondata da colonne. Sul lato sinistro si trova invece una stanza adibita agli incontri conviviali, con annesso un locale utilizzato per incontri di altro genere, le latrine. Funzione che evidentemente i romani non si scandalizzavano ad espletare in comune, probabilmente con l’unica discrezione di separare la zone delle donne da quella degli uomini. Superato il natatio si accede al grande frigidarium, la sala adibita all’ultima fase, quella fredda appunto, del sistema termale romano che prevedeva un passaggio graduale da un ambiente più caldo ad uno più freddo con tuffo finale in piscina. E’ uno degli ambienti più belli delle terme, una sala di 30 metri per 15 con il pavimento rivestito di marmo ed il tetto sorretto da otto colonne di marmo cipollino e decorato con mosaici dai colori vivaci. Lungo il suo lato più lungo si trovano vari ambienti, utilizzati all’epoca come spogliatoi e saune, con al centro il tiepidarium, la zona tiepida, che separava l’altro grande ambiente delle terme il calidarium, dove veniva invece effettuato il bagno caldo. E’ interessante vedere come il pavimento rialzato di questa stanza nascondesse al suo interno una miriade di nicchie dove si infilavano bambini o forse persone di bassa statura per porre le braci ardenti prelevate dalla vicina fornace. Uscendo dalle terme di Adriano si trova subito a destra il Nymphaeun o Tempio delle Ninfe che fa da sfondo ad un grande piazza. Edificata all’epoca di Settimio Severo la fontana era concepita come un teatro con file di colonne sovrapposte in marmo rosso e cipollino ed abbellita da statue di marmo. Da qui parte la Via Colonnata, una strada monumentale che collegava le Terme di Adriano con il porto. La strada, riservata ad un uso pedonale, era fiancheggiata da numerose costruzioni pubbliche e private tra cui il grande Foro dei Severi con annessa la Basilica. Il nuovo foro edificato dalla dinastia dei Severi, una grande piazza pavimentata con lastre di marmo di circa 100 metri per 60, era circondato da portici ad arcate abbelliti da numerose effigi della Gorgone, rappresentazioni della Dea della Vittoria, immagini della Medusa e di altre ninfe marine. Sul fondo della piazza si ergeva maestoso il tempio dedicato all’imperatore divinizzato, consuetudine romana che vedeva l’uomo imperatore assurgere al livello degli dei, purtroppo oggi ne rimane traccia solo nella grande scalinata che conduce alla piattaforma sacra da cui è possibile dominare tutta l’area del foro, la cui edificazione segnò uno dei punti più alti dello splendore raggiunto dalla città. Accanto al nuovo foro, sul lato nord-orientale, si trova la Basilica dei Severi. L’edificio, la cui struttura architettonica richiama alla mente quella di una basilica cristiana, era in realtà un palazzo di giustizia. Iniziata durante il regno di Settimio Severo verrà ultimata solo nel 216 d.C. con quello del figlio Caracolla, lunga 92 metri per 42 di larghezza si compone di una navata centrale, con due absidi semicircolari collocate alle estremità, e di due navate laterali separate da file di colonne di granito rosso. Le due absidi sono abbellite da spettacolari colonne scolpite interamente in rilievo, con scene che raffigurano racconti mitologici e di storia romana. Solo nel VI sec. d.C., per volere dell’imperatore bizantino Giustiniano, la Basilica viene trasformata in una chiesa cristiana, riutilizzando allo scopo l’abside sud-orientale. Terminata la visita usciamo dalla Basilica e ci immettiamo in una via trasversale che incrocia la via Trionfale, la seguiamo in direzione sud-ovest avviandoci cosi verso la zona del mercato. Passiamo accanto al Tempio di Serapide, di cui rimane traccia in alcune colonne di marmo cipollino e nella breve scala che conduceva all’interno dell’area sacra, e superiamo la Porta Bizantina, nei cui pressi si trovano simboli fallici scolpiti in rilevo che indicavano la direzione da seguire per raggiungere un lupanare. Alle nostre spalle si intravedono il mare e la spiaggia di sabbia bianca, mentre spostando lo sguardo sulla destra, appena al di sopra di una collina verdeggiante, si possono vedere i resti del primo insediamento di Leptis, risalente al periodo dell’imperatore Augusto, edificato sul sito di un più antico insediamento punico. Il vecchio nucleo centrale di Leptis Magna, abbandonato dopo la costruzione del nuovo foro che favorì lo spostamento del baricentro della città verso l’interno, si componeva di un foro circondato su tre lati da un portico e da numerosi edifici civili e religiosi. Nelle immediate vicinanze infatti sono stati rinvenuti i resti di tre antichi Templi e di una basilica successivamente riutilizzata dai bizantini come chiesa cristiana. I tre templi erano dedicati a Liber Pater (II sec. d.C. ), ad Augusto e alla città di Roma ( in pietra calcarea, 14-19 d.C.), ed a Ercole. Gli edifici di questo primo nucleo abitativo non sono però in ottimo stato di conservazione e nella nostra visita sono stati appena sfiorati. Arriviamo infine al Mercato, uno dei luoghi più suggestivi ed affascinanti di tutto il sito di Leptis Magna, costruito verso il 10 a.C. e successivamente ristrutturato sotto il regno di Settimio Severo. Vi si respira un’atmosfera magica e camminando tra i suoi resti sembra quasi di poter riascoltare le voci e i suoni che lo animavano un tempo. I due padiglioni ottagonali di circa 20 mt. di diametro, abilmente ricostruiti dagli archeologici, si stagliano con i riflessi della pietra calcarea su un orizzonte blu cobalto creando un effetto d’insieme veramente suggestivo. Dal materiale rinvenuto all’interno, come ad esempio unità di misura in pietra, risulta che quello più settentrionale doveva essere adibito al commercio dei tessuti, mentre l’altro era probabilmente utilizzato come mercato ortofrutticolo. Tutt’intorno si trovano i resti di altri banchi con le piccole basi in marmo destinate a sostenere il piano di lavoro. Dai delicati ornamenti che rappresentano dei delfini si può intuire come alcuni fossero utilizzati per il commercio del pesce. Nell’isolato ad ovest del mercato si trova il bellissimo Teatro di Leptis Magna, uno dei più antichi dell’epoca romana, risalente agli inizi dell’era moderna (1-2 d.C.) ed edificato sul luogo dove sorgeva una necropoli punica ( V-VII sec. a.C. ). La ricostruzione rispecchia fedelmente la struttura originale che si componeva di un palcoscenico con tre nicchie circolari a cui successivamente, sotto il regno di Antonino Pio, venne aggiunto un triplice ordine di colonne che lo circondava completamente. Una serie di sculture e statue contribuivano a decorarlo ulteriormente creando certamente un effetto stupefacente per gli spettatori seduti di fronte. Immediatamente sotto il palcoscenico si trova l’ampio spazio dell’orchestra, con tutt’intorno una prima fila di sedili riservati ai notabili della città. Una balaustra in pietra, aggiunta sul finire del I sec. d.C., provvedeva a separare i posti d’onore dai restanti sedili, che in file ordinate risalgono il versante della collina. Dalla cima del teatro si gode una magnifica vista d’insieme sulla costruzione stessa, mentre lo sguardo è libero di spaziare verso l’orizzonte, dove il profilo del mare, che sfuma dal verde al blu intenso, si confonde in lontananza con quello del cielo. Accanto al teatro si trova il Chalcidium, una struttura monumentale del periodo di Augusto con un portico sopraelevato affacciato sulla via Trionfale, al suo interno si trova un tempio dedicato alla dea Venere e all’imperatore. Per terminare la visita della stupenda Leptis Magna non ci rimane che vedere l’Anfiteatro e lo Stadio. I due edifici sono raggiungibili a piedi, lungo un sentiero di circa 1 Km che parte dal porto, oppure in auto, come facciamo noi, a circa a 2 Km ad est del parcheggio principale del sito archeologico. L’Anfiteatro risalente al I sec. d.C. si affaccia direttamente sul mare. Scavato interamente sul fianco di una montagna poteva ospitare parecchie migliaia di spettatori, che qui si davano convegno per assistere a spettacoli cruenti tra animali feroci e uomini. Criminali e successivamente martiri cristiani condannati a morte certa, spettacoli che erano il preludio ai combattimenti tra gladiatori. Uno stretto passaggio consentiva l’accesso dall’Anfiteatro direttamente allo Stadio, di cui non rimangono che poche tracce nelle fondamenta, dove si svolgevano le gare dei cocchi trainati dai cavalli, uno tra gli spettacoli preferiti dai romani. Da qui si può gettare uno sguardo verso quelli che sono i resti del porto della città, che in seguito a errori di valutazione fini per insabbiarsi ben presto tanto da divenire col tempo quasi inutilizzabile. Sono quasi le due del pomeriggio quando lasciamo Leptis Magna, uno dei siti archeologici più belli ed affascinanti che mi sia mai capitato di vedere, una perla che da sola può valere tutto il viaggio. Durante il tragitto per rientrare a Tripoli ci fermiamo a mangiare in un simpatico locale prima di dirigerci, data ormai l’ora, direttamente all’aeroporto dove ci attende il volo delle 20.00 che ci porterà a Sebha, la città alle porte del deserto utilizzata come base di partenza per le escursioni nel mare sabbioso. Inizia cosi l’attesa per la partenza, un’attesa che si fa via via sempre più snervante, mentre le lancette dell’orologio scorrono inesorabilmente insieme alle mille voci che si accavallano frenetiche, si parte non si parte….. Anche alla nostra giovane e brava guida Ahmed non resta che allargare le braccia e alzare gli occhi al cielo in cerca di un qualche sostegno divino o perlomeno, senza voler disturbare troppo, del supporto di una qualche dea bendata, di quelle invocate in tutte le epoche e a tutte le latitudini nel momento del bisogno. Nel piccolo aeroporto di Tripoli non ci sono molte distrazioni con cui passare il tempo e cosi esaurito il giro dei piccoli bazar e sbrigata l’incombenza delle cartoline ci si ritrova a bivaccare sulle panchine in trepidante attesa di notizie. E visto che ormai è arrivata l’ora di cena e che non è saggio allontanarsi troppo dall’aeroporto arrivasse l’ordine di imbarco, il nostro Ahmed ci porta tutti al self-service del piano superiore, non avrei neanche pensato ce ne fosse uno, e dove, ad onor del vero, non si mangia affatto male. Con il caffè arriva la notizia che ci rinfranca tutti, finalmente si parte !!! E’ andata bene, solo 4 h di ritardo, perché, come ho già avuto modo di dire, a volte i voli interni in Libia possono subire cancellazioni improvvise a cui occorre sopperire con lunghe scarrozzate in pulmann, ma d’altra parte tutto concorre a rendere un viaggio avventuroso ed è perfettamente inutile prendersela troppo. Arriviamo all’aeroporto di Sebha che sono quasi le 2 di notte e recuperati i bagagli ci imbarchiamo, divisi in gruppi da 4, sui fuoristrada Toyota che ci attendono fuori, direzione albergo, doccia, letto, nanna. E qui un cenno a parte merita l’albergo, normalmente utilizzato da funzionari del governo, il meno comodo in assoluto di tutto il viaggio. Certo non riporto questa nota a titolo di lamentela, come altre di cui ho già fatto accenno o che seguiranno nel racconto, sono una persona che si adatta veramente a tutto (beato militare), ma perché siate pronti e coscienti, venendo in Libia in questi primi anni di apertura al turismo, a saper adattare le vostre esigenze ai piccoli inconvenienti che potreste avere la ventura di incontrare, anche perché, il viaggio, ne vale veramente la pena.
21 Maggio 2005
Sebha – Germa – Ubari – Al Aweinat – Campo FAO35
Quella che affrontiamo oggi è una tappa di avvicinamento al deserto, lo stupendo Jebel Acacus, che si rivelerà l’occasione per familiarizzare gradatamente con il cambio di panorama e di clima che ci attende passando dalla costa verso l’interno del paese e per conoscere meglio il simpatico Alì ( pensavate che potesse chiamarsi diversamente ? ). Il provetto autista della nostra Toyota 4×4, mezzo che ormai a tutti gli effetti ha soppiantato l’uso del dromedario e recentemente quello dei più costosi Range Rover, conosciuto la sera prima all’aeroporto e a cui per i prossimi 5 giorni affideremo il nostro fondo schiena, che grazie soprattutto alla sua bravura arriverà al termine senza troppi scossoni. Lasciamo Sebha con la nostra piccola carovana, a cui si aggiunge una jeep di supporto, e ci immettiamo sulla statale nazionale che da Tripoli, attraverso il Fezzan in direzione sud-ovest, raggiunge la cittadina di Ghat al confine con l’Algeria. Dopo pochi chilometri entriamo nel Wadi al-Hayat, la Valle del valore della vita, una zona resa fertile dalla presenza di una falda freatica sotterranea, dove alle palme e ai bassi arbusti si alternano appezzamenti coltivati. Attraversiamo cosi piccoli villaggi sistemati a cavallo della strada, l’architettura è simile a quella di altri paesi arabi del Nord-Africa, piccole case dal tetto piatto in seconda fila dietro ad un susseguirsi di esercizi commerciali, officine, bar, macellerie e generi vari, che si affacciano direttamente lungo la carreggiata. Ad Ubari, una delle cittadine più grandi della zona, ci fermiamo per una sosta. Durante i trasferimenti in jeep le soste si susseguiranno spesso, ogni mezz’ora circa che si sia su strada asfaltata o in pieno deserto, per dar modo agli autisti di riposare e a noi passeggeri di sgranchire un po’ le gambe. Ubari è una cittadina vivace, ultimo centro importante prima del deserto dove fare acquisti ed approvvigionamenti, ma quello che salta subito agli occhi è la quasi totale assenza di donne in giro, come del resto abbiamo già notato lungo tutta la strada. Senza dubbio qui vige una consuetudine di usi e costumi più tradizionale, a differenza delle grandi e piccole città del Nord, che vede la donna relegata ad un ambito quasi esclusivamente domestico. Cosi in giro per negozi ci sono solo uomini, come sono solo ragazzi gli utilizzatori di un Internet Point da dove invio un ultimo saluto al mondo prima di lasciare la cosiddetta civiltà. Appena dopo Ubari il panorama inizia a farsi più arido, sulla destra ci accompagnano le dune del grande deserto sabbioso che prende il nome dalla zona, mentre a sinistra ci fanno da cornice i contrafforti del deserto roccioso del Msak Settafet, al centro la strada è un lungo nastro d’asfalto nero che si dipana dritto per chilometri, quasi che fosse stato messo li apposta a separare i due antichi contendenti, con un effetto d’insieme veramente notevole. E’ ormai ora di pranzo ed approfittiamo di uno sparuto gruppo di arbusti, che sembra offrirci un po’ di riparo all’ombra, per montare il nostro bivacco. Ogni jeep è dotata di un piccolo tavolino da campeggio con quattro sgabelli a corredo, e cosi in breve unendoli formiamo una lunga tavolata. Nel frattempo i nostri autisti si accomodano in disparte, seduti direttamente in terra, mentre alcuni di loro dopo aver acceso un fuoco si preparano a cucinare qualcosa di locale, a noi tocca invece il nostro bravo vassoio da turista confezionato e sigillato,….ho capito preferiscono restare in disparte e non far vedere quello che mangiano per non farci venire l’acquolina in bocca. A questo punto del viaggio qualcuno si starà chiedendo, com’è andata in Libia con la famosa maledizione di Tutankamon da viaggiatore ? Posso rispondere che a me è andata benissimo e che per quanto ho potuto osservare l’igiene del cibo mi è sembrata sufficiente, ma devo anche aggiungere al proposito che io seguo scrupolosamente le prescrizioni del caso, che ricordo prevedono come prima regola l’uso di acqua esclusivamente imbottigliata senza ghiaccio di alcun tipo, e a cui personalmente aggiungo l’assenza di consumo di verdure crude, dolci e yogurt non confezionati, il tutto associato all’assunzione regolare, a partire da una settimana prima e per tutta la durata del viaggio, di fermenti lattici. Chiedete in farmacia perché per questo viaggio ne ho trovato un tipo masticabile, cosi da evitare problemi di temperatura, quelli liquidi devono essere conservati sotto una certa soglia altrimenti perdono di efficacia, e di avere a disposizione liquidi per assumerli. Devo aggiungere inoltre che alcuni compagni di viaggio, da qui in avanti, hanno accusato malori e febbri riconducibili a problemi intestinali, ma è pur vero che ogni fisico reagisce a suo modo e a volte non ci sono accorgimenti che tengano considerando la presenza naturale di batteri a cui il nostro organismo non è abituato. Ricordo che in Egitto, ad Assuan, un marinaio che ci accompagnava a visitare il complesso sull’isola di File si sparò una bella sorsata d’acqua direttamente dal Nilo, pensate cosa potrebbe succedere ad un europeo che volesse osare tanto….Dopo il pranzo riprendiamo il cammino e nel tardo pomeriggio arriviamo ad Al-Aweinat, l’ultimo contatto con il mondo prima di addentrarci verso l’ignoto, una piccola cittadina che può servire come base di partenza. Lungo la statale ci fermiamo brevemente nel piccolo Aflaw Camp, un resort che offre ospitalità in piccoli cottage di fango con i tetti di paglia e in cui si trova un’agenzia dell’Aflaw Tours, la cui sede principale è a Tripoli, che organizza escursioni nel deserto a dorso di dromedario o in fuoristrada. Lungo il ciglio della strada, appena fuori dal Camp, stazionano piccoli commercianti che offrono oggetti di artigianato Tuareg o dei paesi africani limitrofi. Collane, orecchini, bracciali, pendagli, monili, piccoli coltelli, strumenti musicali, ecc… , come sempre in questi casi valgono due regole, primo non stancarsi di contrattare sul prezzo ( è un gioco che piace anche a loro ), senza però arrivare ad offrire miserie che offendano e secondo comprare ciò che piace senza stare troppo a chiedersi quanto argento od oro contenga la lega di cui sono fatti, in fondo sono oggetti che valgono per il ricordo intrinseco che portano con se. E forse potrebbe capitare anche a voi di vedervi proporre un baratto, io in cambio di un orologio digitale in plastica, trovato nel 2004 in un ostello della Norvegia, del valore presunto di poche decine di euro, ho avuto in cambio una croce Tuareg chiamata Croix d’Agadez. E’ uno degli oggetti tipici dell’artigiano, una croce stilizzata che si trova in varie forme e che non ha nulla a che vedere con significati cristiani rappresentando solo un potente talismano contro la sfortuna ed il malocchio, per chi ci crede. D’altra parte nel deserto si può benissimo fare a meno dell’orologio, ma non di un po’ di fortuna se necessario e poi mi piaceva l’idea che quell’oggetto trovato quasi a Capo Nord potesse andare a finire in chissà quale piccolo villaggio africano. Terminati gli ultimi acquisti, ma non mancheranno altre occasioni durante il viaggio, riprendiamo il cammino lasciando poco dopo la strada asfaltata per imboccare una carrozzabile sterrata in direzione est verso il deserto. Pochi chilometri e magicamente il panorama si apre verso un orizzonte appena sfocato. Quella che prima sembrava una pista sicura si trasforma ora in una raggiera di tracce confuse, un insieme di segni antichi e recenti che virano in tutte le direzioni, quasi che un’arcaica divinità messa a guardia dell’ingresso voglia saggiare la nostra volontà di entrare in quel mondo sconosciuto. La carovana, che fino a poco prima aveva viaggiato in ordine come seguendo un invisibile filo di lana, si apre ora come il bocciolo di un fiore che dischiude i suoi petali ai primi raggi del mattino. Ognuno sembra seguire un suo immaginario riferimento, in un rincorrersi di linee attraverso uno spazio sconfinato dove l’unica cosa che si muove sono le volute di polvere alzate dalle ruote che mordono la terra arsa. Ci si incontra per un attimo per lasciarsi un secondo dopo, fissi verso una meta comune, ma soli lungo il cammino, con lo sguardo perso fuori dal finestrino verso un orizzonte che non si avvicina mai. Arriviamo al campo FAO35 verso le 19.30 dopo aver superato il problema dell’insabbiamento di una Toyota 4×4 rimasta intrappolata nel tentativo di superare di slancio una piccola duna. C’è ancora luce e l’aria è fresca e piacevole, mentre ci sistemiamo nelle tende e prendiamo confidenza con il campo quasi senza accorgersene inizia a scendere la notte, con il buio profondo subito squarciato da una luna splendente prossima alla sua massima ampiezza. Il campo FAO35 è uno dei tanti che vengono montati nel deserto nel periodo in cui si effettuano le escursioni, noi siamo l’ultimo gruppo della stagione ed alla nostra partenza verrà interamente smontato in attesa che passi il gran caldo che si avvicina. Siamo fortunati il periodo climatico è godibilissimo e nei giorni a venire avremo modo di apprezzare giornate asciutte, in cui non ci si accorge quasi dei 40° all’ombra, e di notti fresche dove basta un coperta leggera senza dover tirare fuori il sacco a pelo portato inutilmente a prendere aria. Conviene comunque seguire l’esempio di chi nel deserto ci vive ed indossare un abbigliamento adeguato, copricapo (soprattutto per chi come me è ehm…..sprovvisto di protezione naturale), pantaloni lunghi di cotone leggero e magliette estive sempre a maniche lunghe (con le insolazioni non si scherza). Il Campo è molto carino ed ordinato, sembra quasi di essere in un accampamento romano di qualche millennio fa. Completamente circondato da una palizzata di canne è diviso in piccoli quartieri che ospitano due o tre tende, con una zona comune per il bagno, dotata di lavandini all’aperto e cabine docce in cui un solerte ragazzo vi predisporrà una sacca d’acqua tipo quelle che si usano anche da noi nei campeggi, e una zona pranzo con la cucina e una grande tenda dove si mangia tutti in comune. Ma ssssss….., ora si è fatto tardi, le palpebre iniziano a farsi sempre più pesanti ed i pensieri sempre più lievi, 450 Km di strada nazionale, due orette di sterrato e i sali scendi su e giù dalle dune hanno fiaccato le nostre resistenze oltre ogni limite,….e allora basta allungare un po’ la mano e tirare la cordicella che pende giù dalla Luna. Click….e sogni d’oro.
22 Maggio 2005
Campo FAO35 – Wadi Tashwinat – Dune di Iguidi Ouan Kasa – Campo FAO35
La prima notte nel deserto trascorre tranquilla, solo nelle prime ore del mattino una brezza d’aria più fresca si infila sotto la tenda, invitando a rimboccare meglio la coperta scivolata di lato, ma è una sensazione che dura un attimo ed è già ora di alzarsi. Facce assonnate si incamminano con gli asciugamani sulle spalle verso le docce, c’è una bella atmosfera e mi sembra di rivivere i tempi d’oro del militare, non mancano neanche i classici porta sapone, quelli che poi ti rimangono in mano sempre bagnati e non sai mai come asciugarli. Colazione e via di nuovo sulle jeep in cerca di altre avventure. La zona dove siamo acquartierati è all’interno di una vasto altopiano che si incunea tra le grandi dune sabbiose di Iguidi Ouan Kasa ad est ed i contrafforti e le falesie stratificate del massiccio del Jebel Acacus (o Jabal Akakus a seconda della notazione usata), con picchi che sfiorano i 1450 Mt., ad ovest. In circa 300 Km tra andata e ritorno arriveremo ad esplorarne la parte più meridionale, risalendo le strette valli che un tempo formavano i letti di un grande fiume preistorico e dei suoi affluenti, il Wadi Tashwinat ( wadi significa appunto corso d’acqua in secca, quando non ci sono le piogge ). E’ una zona ricca di pitture e graffiti rupestri, ma non mancherà occasione durante il viaggio di lasciarsi incantare dai magnifici spettacoli che solo il genio della natura riesce a creare e che avremo altresì modo di apprezzare in perfetta solitudine, non essendoci in giro altre carovane di turisti. Questo è un motivo in più che avvalora la mia tesi, di come cioè questo periodo dell’anno, sul finire della stagione turistica in tarda primavera, possa offrire, oltre ad un clima godibilissimo, la possibilità di esplorare le bellezze del paese senza troppa confusione. D’altra parte che deserto sarebbe quello in cui fino a qualche settimana prima, a detta del nostro accompagnatore Luigi della Time-Out, ci sarebbe voluto un vigile per dirigere il traffico di jeep 4×4. Dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità per le sue ricche testimonianze preistoriche, il Jebel Acacus è un massiccio composto da gruppi di monoliti di basalto situato nel cuore del moderno Sahara, proprio al confine tra Libia e Algeria. Visto da vicino si rivela come un intricato gioco di profondi canyon, piccole valli e pareti scoscese in cui ogni forma di vita è come sospesa in un limbo, quasi che la mano d’un antico alchimista abbia saputo tramutare ogni goccia d’acqua in un granello di sabbia, sabbia che ondeggia e si muove sinuosa dove una volta scorrevano fiumi tumultuosi. Eppure basta una parvenza di pioggia per veder rifiorire qua e la un prato verde di piccoli fili d’erba, nascosti dal tempo in attesa di tempi migliori. Lasciamo l’accampamento e ci dirigiamo verso sud. Le jeep seguono piste già tracciate in un continuo intercambiare alla ricerca di quella che provochi meno scossoni possibili. Si naviga a vista attraverso un tavolato arido che spazia a perdita d’occhio, costretti ad una velocità moderata che permette però di poter godere appieno del panorama che lentamente scorre fuori. Dopo 40′ minuti iniziamo a scorgere in lontananza il profilo delle grandi dune di Iguidi Ouan Kasa, su quel limitare dove il pietrisco s’infrange e cede d’improvviso il passo alla sabbia dorata che mossa dal vento prende anima, cambiando forma e sostanza in uno sforzo di conquista che sembra non placarsi mai. E’ il deserto che inghiotte se stesso, con uno stridore silenzioso che tramuta il tempo in un’entità infinitesima, dove la vita si misura in passi che durano millenni. E’ ormai trascorsa un’ora e mezza da quando abbiamo lasciato il campo in direzione sud, ma è praticamente impossibile fare un accenno più preciso del tragitto fin qui percorso. Non esistendo mappe specifiche della zona, anche perché la natura cambia spesso aspetto e i punti di riferimento conosciuti possono di volta in volta sparire, l’unica cosa sensata è quella di affidarsi a delle guide esperte, senza tentare inutili e pericolose sortite solitarie. In questo punto il massiccio dell’Acacus incombe sempre più da vicino, fronteggiando con fierezza il deserto che avanza da est. Entriamo cosi nella valle del Wadi Tashwinat, a cavallo del 25° parallelo, non molto lontani dal Tropico del Cancro, qui sabbia e roccia si incontrano fondendosi in un gioco di scenari naturali molto suggestivi. Subito incontriamo due stupendi archi naturali, l’Arco di Fanaluppe e l’Arco di Tankhaliga, per lo meno questi sono i nomi indicati dalla nostra giovane guida Ahmed, perché spesso in Libia i luoghi vengono indicati con più nomi diversi, rimanendo poi il grosso problema di capire come si scrive quello che si sente pronunciare. Il primo ricorda una grande testa d’elefante con la proboscide ben in evidenza, con la roccia che sembra disegnare la tipica forma a placche della pelle dell’animale, il secondo, invece, potrebbe richiamare alla memoria la facciata di un grande tempio antico con le colonne scolpite, un’ipotesi ne accredita l’uso presso i Tuareg come primitiva moschea. Continuando ad esplorare il Wadi Tashwinat ci mettiamo poi alla ricerca delle misteriosi ed affascinanti pitture rupestri, che si trovano in più punti alla base delle pareti rocciose, mute testimoni di un tempo antico. Non abbiamo con noi una mappa precisa e come per altre cose vale la conoscenza consolidata tramandata di generazione in generazione tra le popolazioni del luogo.
Arte Rupestre del Sahara Libico
Ad oggi non si possiedono dati certi su quale misterioso popolo abbia potuto realizzare, con cosi evidente cura e maestria artistica, le pitture ed i graffiti che punteggiano tutto il deserto libico, tramandandoci cosi sulla pietra il racconto di un mondo che non esiste più. Secondo le ipotesi più accreditate le opere sono fatte risalire agli antenati degli attuali Tuareg o all’antico popolo dei Garamanti, una tribù locale che ebbe significativi contatti anche con il mondo romano, ma considerando la datazione posteriore di alcune, rispetto alla presenza di questi popoli, potrebbe trattarsi, piuttosto, della continuazione di una tradizione più antica. Le prime notizie sull’arte rupestre, che in seguito dovrà rendere merito al sapiente lavoro all’archeologia italiana, vengono riportate da due esploratori tedeschi, Heinrich Barth e Gustav Nachtigal, che di ritorno da un viaggio nell’estate del 1850 ne informano l’opinione pubblica. Tale fu lo stupore della comunità dell’epoca, nel trovarsi di fronte ad opere d’arte di cosi tale bellezza, che sembrò impossibile all’inizio poterle attribuire a popolazioni preistoriche, più facilmente considerate prive di una cultura di cosi elevato livello. D’altra parte, quello che per gli europei si presentava come una scoperta assoluta, per i Tuareg dell’epoca era una tradizione dei progenitori da conservare con cura e rispetto. Occorre cosi attendere ancora un secolo per vedere attribuita all’arte rupestre del Sahara l’importanza storica ed artistica che merita. E’ il 1955 quando il prof. Mori, a capo di una spedizione inviata dall’università di Roma, inizia un lavoro scientifico e sistematico sullo studio di quest’importante eredità del passato, permettendo cosi di far luce sulla cultura e sugli usi e costumi dei popoli che abitavano queste zone nei periodi che si spingono fino a 12.000 anni a.C. Giovandosi dell’imprescindibile supporto delle conoscenze delle guide locali, in più campagne di ricerca, gli archeologi arrivano a catalogare oltre un migliaio di siti solo nell’Acacus, attirando cosi l’attenzione della comunità internazionale e dell’Unesco che dichiara la zona patrimonio dell’umanità da conservare. Per meglio comprendere lo sviluppo che ha avuto quest’arte nel tempo e come si sia evoluta in base ai continui cambiamenti del contesto climatico gli studiosi hanno individuano dei periodi di riferimento, caratterizzati ognuno da una tipologia di figure rappresentate e tecniche ben specifiche. Ogni sito può cosi appartenere ad un periodo preciso oppure contenere opere di più periodi, a seconda che venisse utilizzato dalle popolazioni in tempi successivi.
Datazione
Periodo
Graffiti e Pitture esemplificative
10.000 – 6.000 a.C.
Periodo della Grande Fauna, detto anche periodo dei cacciatori o del Babalus antiqus, un tipo di bufalo ormai estinto. E’ caratterizzato da graffiti di grandi animali, soprattutto mammiferi, realizzati con una precisione ed un’accuratezza che lascia stupefatti. Elefanti, Giraffe, Rinoceronti, Bufali, Antilopi, Ippopotami, Coccodrilli, scolpiti nella roccia probabilmente mediante una punta di pietra dura, tipo la quarzite, a sua volta percossa da un’altra pietra. In questa fase l’uomo non ritrae se stesso, ma si limita a rappresentare la natura che lo circonda.
8.000 – 6.000 a.C.
Periodo delle Teste Rotonde, caratterizzata da pitture rupestri in cui l’uomo inizia a rappresentare se stesso. Nel primo periodo le figure sono per lo più rappresentate in modo stilizzato con una testa antropomorfa di forma rotonda senza alcun tipo di espressione, mentre in seguito l’arte si evolve realizzando figure più complesse. Contraddistingue la fase evoluta del periodo in cui l’uomo si dedicava alla caccia, alla pesca ed alla raccolta di frutti selvatici. In questo periodo inizia l’uso del colore, che al di la della valenza artistica, assume un significato simbolico, come per distinguere i sessi o l’uomo dagli animali.
Figura di riferimento non disponibile
5.500 – 2.000 a.C.
Periodo Pastorale, l’uomo inizia a diventare stanziale, dedicandosi all’agricoltura e all’allevamento di animali addomesticati, mentre il clima gradatamente passa da temperato ad arido. In una fase iniziale, denominata Pastorale Antica, si trovano ancora scene di caccia a grandi animali, anche se ben presto i soggetti cambiano iniziando a riflettere maggiormente la nuova realtà della vita quotidiana, come il lavoro nei campi o la cura degli animali, insieme ad eventi sociali che riguardano la comunità come le scene di guerra tra tribù rivali. In questo periodo l’uomo inizia ad esprimere concetti come famiglia o gruppo di appartenenza.
1.000 a.C. – 1 d.C.
Periodo Cabalino, siamo agli albori della storia moderna, si intensificano i rapporti commerciali con i popoli vicini e con i conquistatori romani del Nord Africa. Nella pittura si assiste alle prime rappresentazioni dei carri trainati da animali e di uomini a cavallo, anche se complessivamente le figure umane perdono quella ricchezza di definizione dei periodi precedenti. Sempre a questo periodo appartengono le enigmatiche scritture in lingua tifinagh delle popolazioni tuareg.
200 a.C. –
Periodo Camelino, caratterizzato dalle frequenti raffigurazioni di cammelli, animali che in breve sostituiscono il cavallo nella vita quotidiana grazie alle migliori capacità di adattamento a condizioni climatiche via via sempre più difficili.
Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento consiglio il libro
LIBIA Arte Rupestre del Sahara di Giulia Castelli Gattinara
Edito nella collana Percorsi e Culture dall’editrice POLARIS ( ISBN 88-86437-39-0 )
Con brevi spostamenti in jeep percorriamo il letto arido del Wadi Tashwinat e dei suoi affluenti localizzando numerosi siti dove i tesori dell’Arte Rupestre hanno resistito all’incedere del tempo. Non esiste una suddivisione geografica delle opere per i vari periodi e cosi in un’area relativamente ristretta si possono ammirare giraffe ed elefanti del periodo della Grande Fauna, animali addomesticati, scritte tuareg e scene di caccia e di guerra del periodo Pastorale, insieme a uomini che cavalcano a dorso di dromedario del periodo Camelino ed altri ancora, tra cui uno veramente originale ed enigmatico, ritratto qui a fianco, che ha colpito in particolare la mia attenzione. Nell’interpretazione degli esperti, a detta della nostra guida, rappresenta l’espressione del senso della famiglia, in effetti anche ai nostri giorni il gesto di allargare le braccia può essere l’espressione del senso di affetto e di accoglienza verso qualcuno che ci è caro. Prima della sosta per il pranzo ci rechiamo a far visita ad una famiglia tuareg, una delle poche rimaste, che ancora preferisce vivere nel deserto nonostante le evidenti difficoltà ambientali. Il patriarca è la guida che accompagnò il prof Mori per cinque anni durante le prime spedizioni nel Jebel Acacus. Lo incontriamo sotto un’apposita tenda adibita a riceve gli ospiti e sistemata a breve distanza dal campo, dove risiede con i suoi congiunti, per proteggerne la privacy dalla “normale” invadenza dei turisti. E’ una persona un po’ avanti con gli anni, ma che trasmette ancora un grande senso carismatico, cosi tutte le nostre guide ed autisti si affrettano a salutarlo con un gran senso di deferenza. Probabilmente è uno degli ultimi depositari dei mille segreti di questi luoghi, ultimamente soffre per un problema agli occhi mal sopportando la luce del sole ed i flash delle macchine fotografiche, ma si presta di buon grado ad uscire dalla tenda per posare per le classiche foto ricordo, un modo per raggranellare anche qualche spicciolo. A detta del nostro accompagnatore è possibile a volte acquistare qualche piccolo reperto, come punte di freccia o altro, che lui e la sua famiglia trovano nella zona, ma io ci andrei cauto e mi accontenterei delle foto ricordo, perché ho dei dubbi sul fatto che quel genere di reperti, che comunque quel giorno non aveva, non sia soggetto a una qualche restrizioni di legge. Il tempo di risalire in jeep ed ecco apparire un’autentica sorpresa, un’opera tra le più belle incontrate, il graffito di un elefante eseguito nel periodo delle Teste Rotonde. L’animale è tratteggiato con un’armonia e una dovizia di particolari stupefacente, mentre la fluidità del movimento, con quel suo incedere elegante, lascia letteralmente a bocca aperta. E’ veramente emozionante ritrovarsi cosi dal vivo di fronte ad un opera dell’ingegno umano capace di trasmettere ancora, dopo quasi 10.000 anni, la passione con cui l’autore l’ha creata. Penso che ben pochi artisti dei nostri giorni, con i mezzi dell’epoca, sarebbero in grado di riprodurre un’opera di tale naturalezza. E’ arrivata l’ora del pranzo e dopo aver parcheggiato le jeep sotto un costone roccioso, al riparo d’un filo d’ombra, prepariamo il bivacco. La jeep cucina ci ha preceduto ed il tempo di sistemare tavolini e sgabelli in una lunga fila ordinata che si mangia, anche questa volta i nostri autisti si cucinano a parte, non riusciamo proprio a corromperli con le nostre delizie. Dopo il pranzo e qualche minuto di meritato riposo riprendiamo la via del ritorno. Usciamo dal Wadi Tashwinat lasciandoci alle spalle immagini suggestive che ancora brillano nei nostri occhi, ma non è molto tardi e cosi ci concediamo un tuffo nelle grandi dune sabbiose di Iguidi Ouan Kasa per provare l’ebbrezza del vero deserto di sabbia. E’ contento anche il nostro autista Alì che si diverte un mondo a guidare la jeep sulle dune, un po’ meno le mie due compagne di viaggio, due simpatiche signore di Torino. Viste dal satellite le dune di Iguidi Ouan Kasa appaiono come una sottile striscia di sabbia, avanguardia del Sahara che incede inesorabilmente, incuneata tra i massicci del Jebel Acacus a ovest e del Masak Mallat ad est. Quando ci sei sopra, invece, la prospettiva cambia radicalmente e con gli occhi quasi non riesci a raggiungerne i confini, in un orizzonte di morbide linee modellate dal vento che si specchia in lontananza sul profilo di un cielo nitido. Con i piedi nudi, a bagno in quel mare impalpabile, nessuno vorrebbe più staccarsi da quell’atmosfera fiabesca, ma la strada del ritorno verso il campo Fao 35 è ancora lunga e su questi terreni le jeep non possono tenere medie molto elevate, è bene avviarsi per evitare che il buio ci sorprenda in viaggio. All’arrivo ci salutano leggere gocce di pioggia, quasi una rarità da queste parti, che subito però lasciano il posto ad uno stupendo arcobaleno che con le sue sfumature colorate si staglia proprio sopra le tende del campo. E prima della doccia cosa di meglio di un tiepido tè alla menta servito a regola d’arte in piccoli bicchierini di vetro, come prevede la più pura tradizione araba, con il liquido ambrato che scivola dolcemente dall’alto in modo da formare una leggera schiuma. Dopo una giornata di deserto è la migliore bevanda che esista. Lo prepara un sorridente ragazzo del campo, vestito di tutto punto con un tipico caffettano, che più tardi, dopo la cena e un rapido cambio d’abito, ritroveremo anche nel ruolo di venditore di piccoli oggetti di artigianato. Intanto quasi senza accorgercene è sceso il buio. Le tenui luci del campo illuminano una serata tiepida, avvolta in un’atmosfera ovattata e resa ancor più impalpabile da un cielo che, complice una luna quasi al suo apice, è nero come la pece senza una stella che brilli lucente.
23 Maggio 2005
Campo FAO35 – Adad – Awiss – Campo FAO35
Vincendo il dolce abbraccio di Morfeo, dopo un’altra notte trascorsa tranquillamente, alle 6.00 antidiluviane sgattaiolo furtivo fuori dalla tenda, con la macchina fotografica a tracolla pronto a gustarmi il sorgere del sole. In un attimo sono fuori dal perimetro del campo mentre al suo interno tutto ancora tace. Con la coda dell’occhio scorgo fugaci ombre che si dileguano rapidamente, forse apparizioni d’un fantasma che aleggia da queste parti, o forse qualcuno che come me si prepara ad assistere allo spettacolo che la natura mette in scena dall’inizio della creazione. Ma non c’è tempo per fraternizzare e cosi ognuno cerca il suo angolo nascosto dove confrontarsi con l’ignoto, immersi in un silenzio irreale, soli, di fronte al mondo che si sveglia a nuova vita. Chissà che miracolo deve essere sembrato ogni giorno agli occhi dei nostri antichi antenati, noi che i miracoli siamo abituati a costruirceli. Un’autista avvolto in una coperta dorme accanto al suo mezzo, come il suo antico progenitore dormiva accanto al dromedario, forse l’unica cosa preziosa che possedeva, per proteggerlo e scaldarsi; cambiano le tecnologie non la cultura di un popolo. Mi arrampico a fatica su una collinetta dietro il campo trascinando i piedi che affondano, tracce di animali segnano la sabbia lisciata dal vento, li uno scorpione, li forse un cane del deserto, li i miei passi che arrancano. La luce inizia ad inghiottire il buio della notte, ma non c’è nulla di cruento nell’eterna lotta tra il giorno e la notte, sembra piuttosto il gioco di due bambini che non si stanchino mai di rincorrersi e che per un solo istante arrivano a sfiorarsi prima di perdersi nuovamente. Ci siamo, ora sono in cima alla collina e dominando lo spazio che mi circonda, in un alternarsi di pianure e creste rocciose, posso lasciare che il mio sguardo vaghi verso il chiarore che monta. Il sole fa capolino dietro il mio orizzonte, prima in tono dimesso poi via via sempre più deciso, accendendo cosi la sua sfera magica d’una livrea che sfuma dal rosa, al porpora, al giallo intenso, come una lanterna di carta di riso che avanza nel buio e si fa sempre più luminosa. Ecco, ora sfoggia tutto il suo splendore, mentre si pavoneggia librandosi leggiadro verso l’alto, è in questo momento che ti permette di guardarlo dritto in faccia, regalandoti per un attimo un privilegio concesso solo agli dei. Ancora incantato dallo spettacolo scendo rapidamente dalla collina, anche il campo si è risvegliato e la grande tenda comune inizia ad affollarsi per la prima colazione. Il tempo di radunarsi e si riparte con le jeep verso i contrafforti settentrionali del Jebel Acacus per visitare la zona dell’Awiss e dei suoi wadi. L’escursione in programma oggi prevede un tragitto meno lungo e cosi possiamo prendercela con più calma, aiutati anche da una natura che con i mutevoli scenari invita a fermarsi sovente. Tutta la zona è punteggiata da pinnacoli di roccia, sembra quasi che la mano di un gigante si sia divertita a sistemare piccoli sassi in precario equilibrio per vedere se rimanevano in piedi, e cosi sono rimasti, a formare figure fantastiche in cui di volta in volta è facile scorgere il profilo di un volto o la figura di un animale. Qui il deserto di sabbia sembra avanzare più rapidamente e cosi in alcuni punti la roccia nera spunta dalla cima alle dune come un annegato che tenti disperatamente di tenere la testa fuori dall’acqua, ma la vita nonostante tutto ha saputo adattarsi, sviluppando tecniche e strategie alternative per continuare a riprodursi, come dimostrano le piante e gli arbusti spinosi che abbiamo incontrato, e poi basta una leggera pioggia per vedere un prato verde venir fuori all’improvviso. Durante il tragitto incontriamo due donne tuareg che procedono a piedi, forse fanno parte della famiglia della guida del prof. Mori che abbiamo incontrato ieri, probabilmente vanno incontro ad un gruppo di dromedari, con tre piccoli al seguito, che incrociamo subito dopo in una piccola valle. In questa prima parte della mattinata non incontriamo molti reperti rupestri, ma tra tutti spicca un graffito del periodo pastorale che a detta della guida rappresenterebbe una scena d’amore. Poco dopo la piccola valle, invece, incontriamo alcuni siti con numerosi graffiti e pitture rupestri. La maggior parte di questi risale al periodo pastorale che a sua volta viene considerato suddiviso in due periodi, uno più antico quando vengono rappresentati i grandi animali come gli elefanti e le giraffe, ed uno più recente quando invece sono raffigurate figure umane insieme ai loro animali domestici come i bovini e gli ovini. Particolarmente significativa e toccante è la scena che ritrae una coppia di sposi che si tengono per mano, dipinta all’interno di un cerchio inciso nella pietra. Numerose sono anche le pitture del periodi cabalino tra cui spicca, in bello stile, quella di un uomo sopra un carro trainato da un bovino. Nella zona si trovano anche pitture del più recente periodo camelino, ma sono realizzate con tratti semplicistici e grezzi come tracciate da una mano infantile, l’impressione che se ne ricava è che in questo periodo il gusto e la tecnica precedenti fossero andati perduti. E’ da notare, tuttavia, come alcune di queste opere siano considerate dagli esperti dei falsi d’epoca, riproduzioni cioè più recenti, realizzate probabilmente dai tuareg di inizio secolo. Nel tardo pomeriggio, mentre rientriamo verso il campo, ci fermiamo spesso lungo il tragitto ad ammirare i panorami che la natura si è divertita a disegnare. Pinnacoli dalle fogge più strane, sospesi in bilico a sfidare la forza di gravita, pareti rocciose che sembrano castelli di sabbia bagnata, volti che spuntano all’improvviso nel gioco di luci ed ombre, piccoli arbusti, sentinelle isolate della vita che qui ancora non si dà pace, e dappertutto il manto dorato del deserto che come una coperta di luce si insinua, ammanta ed avvolge ogni cosa con il suo tocco lieve. Un ultimo salto e siamo fuori, è il momento di fermarsi. Schierate le jeep sull’alto di una duna scendiamo a salutare come si deve il Jebel Acacus, lasciandoci inebriare ancora per un attimo dai suoi orizzonti senza confini, dai suoi silenzi carichi di atmosfera, dal suo tocco lieve sotto i piedi, dai suoi colori carichi di luce, dalla quella magia che ti penetra dentro con un impercettibile senso di malia che non andrà più via. Tornati al campo c’è ancora il tempo di salire in cima alla collina per assistere allo spettacolo del tramonto. Lentamente il deserto si addormenta, cullato da una fresca brezza che come un rimedio spande su tutte le cose il suo benefico effetto. “Ecco, avanza il crepuscolo; il vecchio nemico, il sole, si tuffa finalmente nelle brume violette dell’occidente. Ecco l’ora benedetta fra tutte, nel deserto. Il tramonto.” (da “Il viaggiatore delle dune” di Théodore Monod).
24 Maggio 2005
Campo FAO35 – Al Aweinat – Garama – Erg Ubari – Twiwa Camp
C’è aria di smobilitazione al campo. La nostra partenza coincide con il periodo di chiusura estiva della struttura, non perché qui se ne vadano tutti in ferie, ma perché ben presto le temperature diventeranno insopportabili, tali da sconsigliare a chiunque non del luogo di mettersi a girovagare a zonzo per il deserto. E cosi dopo di noi il Campo Fao 35 verrà completamente smontato e riposto in attesa della nuova stagione, che di solito riprende verso la fine del mese di Settembre. Certo l’atmosfera non poteva conciliarsi meglio con la malinconia di dover lasciare questi stupendi paesaggi e i suoi tesori, qualcuno aveva anche già imparato a farsi da solo il turbante arabo, un’operazione che richiede quasi il conseguimento di una laurea breve. Volgendo per un’ultima volta lo sguardo verso il Jebel Acacus riprendiamo la strada per Al Aweinat fino a ricongiungerci alla statale che collega Sebha a Ghat. Breve sosta di nuovo all’Aflaw Camp, il tempo di gustare un gelato e di fare rifornimento di oggetti d’artigianato dagli stessi venditori ambulanti incontrati all’andata ( si saranno mai mossi in attesa del nostro ritorno ? ). I prodotti in vendita sono gli stessi che potrete trovare in qualsiasi bottega della medina di Tripoli, più o meno allo stesso costo, ma volete mettere quanto più gusto c’è a sedersi per terra e a trattare animatamene con questi ragazzi per far scendere il prezzo. Riprendiamo la strada verso nord, non c’è molto traffico e cosi gli autisti decidono a piacimento quale corsia sia più opportuno utilizzare. Superata la cittadina di Ubari visitiamo un piccolo sito archeologico che si trova proprio sul margine della strada per Germa. Questo, come altri sparsi nella zona, era un luogo di sepoltura del popolo dei Garamanti, un’etnia autoctona di cui non si conoscono approfonditamente gli usi ed i costumi, ma verso la cui storia è rinato un certo interesse, grazie anche al personale appoggio del colonnello Gheddafi proteso negli ultimi tempi alla ricerca di un’identità storico culturale del popolo libico che possa esaltarne le radici africane oltre che arabe. All’interno del sito si trovano alcune tombe restaurate a forma di piramide, in cui il defunto veniva posto presumibilmente in posizione semi-eretta. Arrivati nella cittadina di Germa ci fermiamo a visitare il piccolo museo locale dove sono conservati alcuni reperti fossili rinvenuti nella zona insieme a foto e mappe delle pitture ed incisioni rupestri del deserto libico. Proseguendo ci rechiamo a Garama, l’antica capitale dello stato che i Garamanti trasferirono qui agli albori del I sec. d.C., al termine di un periodo contrassegnato da estenuanti guerre con i conquistatore romani. Il mutato rapporto, i romani non riuscendo a sottomettere la bellicosa popolazione finirono con lo stabilirne una vantaggiosa alleanza, permise ai Garamanti di raggiungere una fase di stabilità politica. Questo nuovo stato di cose diede l’avvio ad un periodo di rinnovato progresso che permise alla loro civiltà di raggiungere il suo apice; all’epoca i Garamanti controllavano le più importanti rotte carovaniere ed i principali commerci dell’area al punto da diventare uno dei più importanti partner economici di Roma in Nord Africa, che rifornivano tra l’altro di mandrie di cavalli, allevamento in cui eccellevano. Dell’antica città costruita in pietra e argilla non è rimasto molto, anche perché nei periodi successivi i popoli che hanno vissuto nella zona, Bizantini e Turchi, ne hanno in parte riadattato gli edifici per i loro usi. Appena superato l’ingresso del sito ci si trova nella grande piazza che era adibita al commercio dei cavalli e che fungeva da punto di partenza delle numerose carovane che trasportavano i prodotti locali. Su un lato si trova la casa in pietra arenaria di un ricco commerciante equino e subito dietro il quartiere islamico abitato nel periodo della dominazione turca. La parte più antica delle rovine si trova nel settore occidentale del sito, un dedalo di vicoli su cui si aprono piccole case con gli ambienti distribuiti su due piani e da cui si gode un bel panorama sui campi coltivati. Su tutto si erge una grande costruzione identificata come il palazzo del Garamanti, forse il centro del potere politico o religioso. Ma quello che più impressiona, visitando il sito, è che si ha la sensazione di trovarsi all’interno di una città pietrificata, dove tutto, dalle palme alle case, sembra essere imprigionato in un sortilegio. E’ l’effetto della tecnica di conservazione utilizzata per preservare i fragili resti archeologici, una specie di vetrificazione che ha bloccato tutti i processi degenerativi. Terminata la visita di Garama ci avviamo verso l’ultima meta della giornata il Twiwa Camp dove trascorreremo la notte. Il Twiwa è un campo permanente in muratura, proprio a ridosso di uno dei punti d’accesso, nella parte meridionale, del maestoso Erg Ubari. Idehan, mare di sabbia in arabo, formato da dune dalla linea morbida ed ondulata costantemente modellale dal vento. Il tempo di sistemarsi e ci arrampichiamo sulla cresta delle prime dune, lottando con i piedi che affondano nella sabbia impalpabile, per godere del panorama che ci circonda e per assistere ancora una volta dello spettacolo del sole che tramonta. Gli ultimi raggi del sole che salutano il giorno ammantano tutto il paesaggio di un’atmosfera fiabesca, in un gioco di luce ed ombre in cui i riflessi purpurei si rincorrono sulle dune a disegnare figure fantastiche. E’ ogni volta uno spettacolo diverso ed allo stesso modo emozionante, non ci sono parole che possano descriverlo, se non la contemplazione a cui invita il silenzio.
25 Maggio 2005
Twiwa Camp – Erg Ubari – Laghi Gebraoun, Mavo,Umm al-Maa,Mandara – Sebha – Tripoli
Oggi ci inoltriamo nell’Erg Ubari per visitare alcune oasi che il deserto custodisce gelosamente al suo interno. Lasciato il campo ci fermiamo poco prima di entrare nel deserto vero e proprio per diminuire la pressione dei pneumatici delle jeep e facilitare cosi la guida sulla sabbia. Fino a pochi anni fa queste oasi di verde, cresciute intorno a minuscoli laghi incantati, erano circondate da piccoli nuclei abitativi il cui sostegno dipendeva quasi esclusivamente dalla presenza dell’acqua. Ma negli ultimi tempi le precarie condizioni di vita prima e la progressiva riduzione del livello dei laghi poi, alcuni dei quali ormai in secca anche per via dell’abbassamento della falda freatica, hanno indotto il governo ad accelerare il progetto di spostare queste persone in luoghi più idonei. Cosi, ormai, i turisti sono diventati i frequentatori più assidui e numerosi di queste straordinarie bellezze naturali, piccole chiazze d’azzurro cadute dal cielo dentro un mare di sabbia dorata. Ricordatevi di portarvi dietro il costume, perché il bagno nell’acqua salata dei laghi, sembra che il tasso di salinità sia più alto di quello del Mar Morto, è un’esperienza sorprendente, immersi in un orizzonte giallo acceso con il profilo delle dune che si staglia in lontananza in un cielo terso. Accanto ai laghi più grandi si trovano alcuni campi, ed altri sono in costruzione, dove è possibile trovare ospitalità per la notte o anche solo per darsi una sciacquata dopo il bagno. Il primo che visitiamo è il lago Gebraoun, uno dei più grandi che s’incontrano nel Sahara; il nome significa letteralmente la Tomba di Aoun, un antico notabile locale seppellito vicino al vecchio villaggio adagiato in posizione leggermente rialzata sulla sponda occidentale, probabilmente anche lui un membro della tribù Dawada, l’etnia che in maggioranza occupava la zona. Il villaggio, ormai in stato di totale abbandono dopo che nel 1991 il governo ha trasferito i suoi abitanti in un nuovo villaggio lungo la statale, crea insieme al lago un effetto suggestivo, sembra quasi di trovarsi in un avamposto isolato della legione straniera con quelle atmosfere tipiche d’un romanzo dell’ottocento. Appena scendiamo dalle jeep non possiamo resistere dal tuffarci nella placide acque del lago per provare l’ebbrezza di nuotare come sospesi in assenza di gravità grazie all’elevato tasso di salinità, ai maschietti è consigliato evitare di farsi la barba la mattina per non incorre nei bruciori provocati dal sale, mentre in generale è preferibile anche non andare sott’acqua ed evitare il contato con gli occhi.. Accanto al lago si trova il camping Lac du Repos dove c’è un pozzo d’acqua che permette di darsi una sciacquata dopo il bagno per togliersi un po’ di sale da dosso. Risaliti sulle jeep ci rechiamo a visitare il lago Mavo, più piccolo del precedente, ma non per questo meno pittoresco. Incastrato tra le dune e circondato da un piccolo palmeto offre un altro scorcio panoramico veramente notevole, con i colori del cielo e della sabbia che risaltano in un bel contrasto cromatico. Sulla sponda del lago incontriamo un mercante tuareg che indossa uno sgargiante caffettano rosso, la sua mercanzia è esposta su un telo direttamente sulla sabbia, particolarmente belli sono alcuni coltelli caratteristici, in tutto simili agli originali utilizzati dai tuareg, rifiniti in pelle naturale o pelle di serpente, non ho più avuto modo di vederne di tale fattura. In seguito ci rechiamo a visitare il lago Umm al-Maa, il cui nome significa Madre dell’acqua. Rispetto agli altri ha una forma più allungata ed è circondato da una folta vegetazione, alcuni ragazzi ci salutano mentre si godono il bagno giocando con un tronco di palma galleggiante come novelli Tarzan. L’ultimo lago che visitiamo è il lago Mandara. Qui ci si può facilmente rendere conto del progressivo ritiro della falda sotterranea, dato che il lago è soggetto a frequenti periodi di secca, come appunto durante la nostra visita in cui piccole pozze d’acqua stagnavano tra la vegetazione del fondo. I resti delle case lungo le sponde appartengono all’antico villaggio, ormai un fantasma, abbandonato nel 1991 durante l’esodo forzato deciso dal governo. Terminata la visita del laghi dobbiamo a malincuore salutare l’Erg Ubari e il suo caldo respiro incantato per far rientro a Sebha dove un ultimo volo locale ci riporterà in serata a Tripoli. Lungo la strada per l’aeroporto ci fermiamo a visitare un resort, il Fezzan Park, al cui interno è ospitato un piccolo zoo privato con alcuni degli animali che appartengono alla fauna tipica della zona. Volpi e topi del deserto, accanto a piccole antilopi, gazzelle e a quelli che sembrano essere dei mufloni, con due simpatici e dispettosi struzzi che girano indisturbati, pronti a ghermire tutto quello che gli viene a portata di becco. All’aeroporto di Sebha lasciamo le jeep e salutiamo gli autisti che ci hanno accompagnato durante gli ultimi 5 giorni di viaggio. Questa volta il volo interno non subisce intoppi e come previsto, nel tardo pomeriggio, atterriamo a Tripoli. L’ultimo albergo del nostro viaggio in Libia è un moderno hotel frequentato da uomini d’affari locali e stranieri. E’ situato nella parte nuova della città accanto ad alcuni edifici di recente costruzione, tra cui spicca un complesso di cinque grattacieli disposti in modo tale che solo guardandoli dal mare, mentre ci si avvicina alla città, si riescono a vedere tutti insieme. Un segno di distinzione o una bizzarria del progettista, ma comunque il simbolo del nuovo senso di modernità a cui si ispira il regime, che di Tripoli ha fatto il suo laboratorio. Cosi la vista dalla mia camera giù sulla strada, insieme alle luci e ai rumori del traffico sostenuto, richiama alla mente assonanze più occidentali che arabe, distanti mille anni dai silenzi del deserto che fino al giorno prima avevano cullato i nostri sogni.
26 Maggio 2005
Tripoli – Sabratha – Tripoli
Notte. Posso assicuravi che a Tripoli nel mese di Maggio non si muore di caldo, figurarsi di notte. Eppure qui nel nostro albergo, ma immagino anche negli altri di recente costruzione, sembra che abbiano una predilezione smisurata per l’aria condizionata, sparata ad una temperatura quasi glaciale e senza possibilità di controllo essendo centralizzata. Chiamare il portiere per lamentarsi? Più pratico seguire il consiglio di portarsi dietro, per ogni evenienza, un bel rotolo di scotch da pacchi, se non volete passare una mezz’oretta come me a cercare di rammendare al meglio il lavoro iniziata da qualcun’altro, nel tentativo di tappare con la carta le fessure della bocca infernale. Cosi dopo una notte piuttosto agitata, la sveglia, anche se anticipata, arriva come una liberazione. Lasciamo Tripoli di buon mattino e seguendo la costa ci dirigiamo verso occidente, per visitare l’antica città romana di Sabratha, uno dei siti archeologici più importanti della zona, che seppur meno appariscente di quello Leptis Magna offre comunque scorci molto interessanti, ospitando, tra l’altro, uno dei teatri più belli dell’antichità.
Cenni Storici
La città, il cui nome sembra derivare dal termine libico-berbero utilizzato per indicare il “Mercato del grano”, venne fondata nel IV sec. a.C. da alcuni coloni punici provenienti da Cartagine, su un preesistente insediamento locale. Abili mercanti e navigatori i coloni punici scelsero il sito perché offriva un’insenatura naturale che ben si adattava ad un approdo sicuro per le navi. Il primo nucleo urbano si presentava come una città arroccata dall’aspetto chiuso e tortuoso, situazione che iniziò ben presto a cambiare con l’arrivo dei coloni greci prima e di quelli romani più tardi. In seguito ad un violento terremoto, che nel I sec. d.C. scuote la zona, la ricostruzione e l’urbanizzazione della nuova città assumono sempre di più connotati tipici dell’architettura romana. Nel I e II sec. d.C. Sabratha vive il suo momento di massimo splendore, fino ad arrivare ad essere elevata al rango di colonia. Ed è in questo periodo che vengono costruiti gli edifici pubblici più importanti, come il magnifico teatro, giunti fino a noi. Con l’arrivo del declino politico ed economico di Roma, nel III sec. d.C., inizia anche l’inesorabile parabola discendente della città, a cui contribuisce in modo determinante anche il disastroso terremoto del 365 d.C. Dalle rovine nasce una nuova città, più piccola e dimessa, che non sarà più in grado di assumere l’importanza d’un tempo. Con la conquista bizantina del 533 d.C, da parte del generale Belisario, la città viene dotata di un cinta muraria difensiva, che abbracciava però solo una parte dell’antica area urbana romana, lasciando cosi all’abbandono quasi tutta la parte est della città. Con l’avvento dell’Islam nel VII sec. d.C. la città scivola ancora di più nell’oblio fino a scomparire, inghiottita dalla sabbia, appena un secolo più tardi. Scomparsa agli occhi del mondo fino alla successiva riscoperta nei primi anni del XX sec. grazie all’opera degli archeologi italiani.
Superato l’ingresso del sito archeologico, sulla sinistra si trovano due piccoli musei che ospitano reperti del periodo punico e romano, ma che non sono stati però oggetto di una nostra visita, un sentiero conduce all’area visitabile raccordandosi direttamente con l’antica via romana del Cardo, l’arteria che attraversava la città da nord a sud. In questa prima parte il Cardo fiancheggiava vecchi quartieri residenziali, a questi fa da sfondo la maestosa ricostruzione di un antico mausoleo punico, smantellato dai bizantini per farne materiale da costruzione, conosciuto con il nome di Mausoleo di Bes. La costruzione alta quasi 24 mt., con una base triangolare ed una punta terminale a forma di piramide, è abbellita da sculture leonine e dalla raffigurazione dei semidei Bes ed Ercole. Era presumibilmente il monumento funebre che ornava una tomba del II sec. a.C., a cui con la sua mole imponente assicurava sicuramente una qualche protezione spirituale. Proseguendo lungo il Cardo si arriva presso la porta bizantina del VI sec. d.C. Questo era all’epoca uno dei principali punti d’accesso alla città, dopo che i bizantini costruirono un possente muro di cinta per racchiudere i quartieri che si sviluppavano intorno all’antico foro romano ed porto commerciale. All’interno di questa area si trovano i più importanti edifici pubblici e religiosi della colonia romana di Sabratha. Poco dopo la porta si trovano sulla sinistra il tempio dedicato ad una divinità non meglio identificata, mentre a destra è collocato il Tempio di Antonino, dedicato all’imperatore divinizzato. Salendo sulla piattaforma più alta si può godere di una bella vista d’insieme sulle rovine. Davanti al tempio è posta una fontana sormontata da una statua di Flavio Tullio, ormai senza più testa, costruita per onorare la memoria del concittadino che a sue spese fece costruire l’acquedotto per approvvigionare d’acqua la città. Di fronte al tempio di Antonino si trova la grande Basilica di Apuleio di Madaura, in realtà l’edificio di forma ellittica venne utilizzato come basilica cristiana solo in epoca bizantina, mentre nel periodo romano era adibito a Palazzo di Giustizia. Il nome con cui ne è stato tramandato il ricordo è quello di un famoso filosofo del I sec. d.C. che qui venne processato con l’accusa di aver sposato, con l’inganno, un’anziana e ricca vedova per carpirgli il patrimonio, la storia non può chiarire la verità del caso, ma grazie all’eloquenza che profuse in sua difesa il filosofo fu completamente scagionato. Con l’arrivo dei bizantini e con l’affermarsi della nuova fede l’interno della basilica venne riadattato al nuovo uso, dividendo lo spazio originale di 50 mt. per 25 in navate abbellite da colonne di marmo cipollino. Appena dietro la basilica si trova il Battistero cruciforme realizzato in pietra calcarea. Sul lato nord della basilica si apre il grande Foro romano, punto d’incontro giornaliero e crocevia dei commerci, solo successivamente dotato di un portico sostenuto da colonne di granito egiziano, di cui alcune rimangono visibili ancora oggi. Ad est del foro si trovano due templi, il Tempio di Serapide ed il Tempio di Giove. Il primo era dedicato ad una divinità taumaturgica, conosciuta ed apprezzata nell’antichità per le sue capacità di guarigione ed il cui culto era stato importato dal vicino Egitto. Durante la nostra visita era al lavoro in questo tempio un equipe di archeologi dell’università di Palermo, a dimostrazione del fatto di come i siti archeologici della Libia abbiano ancora molti misteri da svelare. Il secondo era invece dedicato alla triade capitolina formata da Giove, Giunone e Minerva, culto caratteristico di ogni città romana. A nord del foro era invece collocato il Senato dove avevano luogo i dibattiti che riguardavano il governo della città. L’edificio era caratterizzato da un grande cortile centrale nel cui perimetro trovavano posto, sistemati su un gradino rialzato, i sedili utilizzati dai senatori durante le riunioni. Di fronte al foro infine, sul lato est, era collocato il Tempio di Liber Pater, una divinità molto venerata nell’Africa romana, seconda soltanto alla famosa triade divina. Uscendo dal centro di Sabratha e proseguendo verso nord, in direzione del mare, si possono visitare i resti dei quartieri che circondavano il porto, mentre tornando indietro e continuando verso est è possibile ammirare le Terme sul Mare, costruite in posizione spettacolare con terrazze aperte direttamente sul mare ed abbellite da intarsiati mosaici ancora sul loro sito originale. Dalla Terme sul Mare, in direzione sud, tutte le strade si raccordano all’antica via Decumana, l’arteria che attraversava la città da est ad ovest. Seguendola verso ovest si arriva in breve tempo nei pressi del Teatro, l’edificio più sorprendete di tutto il sito archeologico e che da solo ne giustifica la visita. Il Teatro venne iniziato nel 190 a.C. durante il regno di Commodo e terminato, secondo alcuni, solo alcuni decenni più tardi sotto il regno dell’imperatore Settimio Severo, originario dell’altra colonia romana quella di Leptis Magna. Quello che è certo è che rimase attivo fino al 365 d.C., quando insieme al resto della città fu gravemente danneggiato dal terremoto. Trascorsero molti secoli di oblio prima che nel 1920, grazie all’attenta opera di due archeologi italiani Giacomo Grandi e Giacomo Caputo, si ponesse mano alla sua ricostruzione, permettendo cosi al teatro, che per le sue eccezionali misure era all’epoca il più grande mai costruito in Africa, di tornare almeno in parte al suo antico splendore. Quasi 95 mt. di diametro di auditorium con un palcoscenico di 43 mt. di lunghezza per 9 di larghezza, a cui fa da sfondo un triplice ordine di colonne che arriva fino ai 20 mt. di altezza e in cui erano ricavate numerose nicchie destinate ad ospitare statue ed altre sculture. Ogni particolare era abbellito da fregi, ornamenti floreali e bassorilievi che raffiguravano figure mitologie, scene votive, insieme a rappresentazioni di opere teatrali e di danza. Uno spettacolo d’insieme che ancora oggi lascia lo spettatore a bocca aperta, come di certo dovevano esserlo le circa 5000 persone che poteva contenere. Terminata la visita di Sabratha rientriamo a Tripoli e come prima cosa ci rechiamo a visitare il Museo della Jamahiriya prima che chiuda, infatti in certi giorni della settimana il museo osserva un orario piuttosto ridotto che termina alle 13.00. Si trova su un lato della parte nord-ovest della grande Piazza Verde, uno dei punti d’incontro più frequentati della città, occupando una parte consistente dell’Assai al-Hamra, il Castello di Tripoli chiamato anche Castello Rosso, antica sede del potere politico in Tripolitania. Costruito con il contributo culturale dell’Unesco concentra tutto l’arco storico della Libia, dal Neolitico fino ai giorni nostri, distribuito in ordine cronologico all’interno di ampie sale divise su quattro piani, raccordati tra loro da una grande scala elicoidale posta al centro della struttura. La maggior parte delle opere, tra cui alcune di notevole pregio artistico, risalgono al periodo greco e romano. Della collezione fanno parte statue, frontoni, mosaici, bassorilievi ed oggetti della vita quotidiana, ma non meno interessanti sono anche gli altri reperti, tra cui le riproduzioni, nella galleria quattro, delle pitture e dei graffiti rupestri del Sahara, con cui è possibile farsi un’idea dei tesori che il deserto custodisce dato che probabilmente vi sarà difficile riuscire a vederli tutti dal vivo. Non mancate infine di vistare la sezione moderna, dove una sala è dedicata al periodo della resistenza libica all’occupazione Italina, mentre uno spazio più significativo è dedicato al racconto della vita e delle opere del padre della patria, il mitico colonnello. Ritratto qui in un campionario di tutte le situazioni possibili, insieme ad una collezione di oggetti personali e ai regali ricevuti durante le viste di stato. In uno spazio tutto suo, al pianterreno, è collocato il Maggiolino verde della Volkswagen che il colonnello utilizzava per gli spostamenti da Sebha, dove si trovava distaccato con il suo reparto militare, a Tripoli. Sulla Piazza Verde si trova anche una delle porte d’accesso alla parte antica della città, la Medina. Cosi, conclusa la visita del museo, ci rechiamo a mangiare in uno dei ristoranti che si trovano al suo interno, pronti al termine per un giro esplorativo della zona. Chi ha avuto la ventura di visitare le splendide Città Imperiali del Marocco, come me, potrà in parte rimanere deluso dall’inevitabile confronto perché la Medina di Tripoli presenta un aspetto più dimesso, lontano dai clamori e dalla frenesia piena di vita delle altre. Ma in questo, secondo me, risiede una delle sue peculiarità più profonde che la rendono non meno interessante. Qui l’anima araba presenta un sentire più intimo, più familiare, senza dubbio affabile, ma meno invadente. Nessuno vi si avvicinerà cercando di procacciarvi un “buon affare” o un “buon prodotto” e cosi potrete andarvene in giro a curiosare liberamente in tutta tranquillità, all’interno di un ambiente che istintivamente permette di sentirsi un po’ meno stranieri. Dopo il pranzo iniziamo a piedi il giro della Medina di Tripoli, entrando dalla porta che più frequentemente veniva utilizzata in passato, subito a ridosso del Castello di Assai al-Hamra nella Piazza Verde, e che immette direttamente nel Suq al-Mushir. Appena dopo l’ingresso, con il suo arco in pietra, il Suq costeggia il lato est della più grande moschea della medina, la moschea di Ahmed Pasha Karamanli che risale ai primi decenni del XVIII sec., mentre più avanti già si intravede la Torre ottomana dell’orologio. Come tutte le medine che si rispettino anche qui non esiste una pianta urbanistica regolare, e il tempo si deve essere divertito più volte a mettere mano all’intricato sistema di vicoli, che giocano a intersecarsi e a rincorrersi come su un lavoro a maglia eseguito da una vecchina con qualche serio problema di strabismo. Così è facile trovarsi a lavorare di gomiti per conquistare il passo, come poter girare l’angolo e perdere l’equilibrio, in vicolo deserto, senza più nessuno a cui appoggiarsi. E’ il fascino che si ripete ogni volta, quello di vagabondare dentro un autentico labirinto formato da muri intonacati, stradine senza uscita, piccole botteghe aperte sulla strada, volti sorridenti, banchetti messi in bilico ad ogni angolo, mentre piccoli occhi neri spiano ogni tua mossa dietro le grate di una finestra socchiusa. E alla fine è quasi impossibile ricordare il percorso esatto per trovare l’uscita, un po’ come lo è ritrovare il bandolo di una matassa finita tra le grinfie d’un gatto dispettoso. Cosi al ritorno dal viaggio ci si affida alla memoria dei sensi, al ricordo dei giochi di luce che si infilano in ogni pertugio possibile, chiusi tra le case bianche e i tetti di lamierino che coprono i vicoli più bassi, ai colori che sfidano le più ardite tavolozze cromatiche, ai profumi che vagano per l’aria spinti da piramidi di spezie messe in bellavista accanto a succulenti montagne di dolci da cui scivolano rivoli di miele denso, e a tutto quello che di ciò può rimanere impresso in una foto ricordo. Perciò anche noi, con la nostra bella fila allungata, ci incamminiamo come novelli pollicini dietro alla nostra guida, che invece di sbriciolare molliche di pane ogni tanto ci lancia un’occhiata di controllo. Ma alla fine si tratta solo di una questione di praticità, perché come ho già avuto modo di sottolineare la sensazione è quella di poter girare in tutta tranquillità. In questa zona della medina, attorno e subito dopo la porta d’ingresso, sono concentrati tutti i Suq (bazar) più caratteristici, che ancora oggi, seguendo antiche tradizioni, vedono riuniti in piccoli quartieri contigui tutti gli artigiani o i commercianti dediti allo stesso tipo di produzione o commercio che sia. Cosi passando da un vicolo all’altro, svoltando a destra o a sinistra, si alternano file di piccole botteghe d’oreficeria, forni per la produzione di pane e dolci, laboratori di sartoria, negozi di stoffe e tappeti, piccole fucine per il lavoro del rame, il Suq al-Ghizdir, i cui artigiani sono rinomati per la produzione delle mezzelune usate come ornamento. Il tutto frammentato ed alternato dalla presenza di numerose moschee grandi e piccole, con i minareti che svettano verso l’alto offrendo cosi un ottimo punto di riferimento per orientarsi. A differenza di altri paesi mussulmani in Libia le moschee non sono chiuse agli stranieri, anche se in realtà sono aperte normalmente solo nei momenti di preghiera, durante i quali comunque la visita non è certo indicata. Ma se volete visitarne qualcuna basta che cerchiate informazioni sulla casa del custode, il miftah, il quale non dovrebbe avere problemi a venirvi ad aprire, aspettandosi chiaramente una piccola mancia. Noi abbiamo visitato la moschea di Gurgi, ed è stata una sorpresa ed un piacere conversare in italiano con l’attuale miftah, un simpatico libico un po’ avanti con gli anni che ha ereditato il lavoro dal padre e che ricorda ancora vivamente il periodo italiano, con le visite dei reali d’Italia e dei notabili d’inizio secolo ‘900. La moschea di Gurgi risale al periodo dell’occupazione turca del XIX sec. ed è situata nei pressi della Sharia Hara Kebir, nella parte nord-ovest della medina. Non è la più grande, ma senza dubbio è una delle più belle ed interessanti dal punto di vista artistico, la sua sala da preghiera è riccamente adornata con colonne di marmo italiano, ceramiche tunisine e decorazioni in legno del Marocco. Ci sono due pulpiti, minbar, utilizzati da coloro che conducono le preghiere per rivolgere il sermone ai fedeli, e la classica nicchia, mihrab, che indica la direzione della mecca. Nei pressi della moschea si trova l’Arco di Marco Aurelio, una delle poche vestigia rimaste dell’antica città romana di Oea, l’attuale Tripoli. Costruito tra il 163 e il 164 a.C. costituiva il punto d’incrocio tra il cardo ed il decumano, le principali arterie che attraversavano la città seguendo le direttrici dei punti cardinali. La presenza dell’arco indica l’importanza che aveva l’antica Oea all’interno della Tripolis romana, seconda solo forse all’antica città di Leptis Magna. Le nicchie sulle fiancate erano destinate ad ospitare le statue di Marco Aurelio stesso e di altri personaggi importanti. La sopravvivenza dell’arco, quando tutto il resto dell’antica Oea è stato smantellato e inglobato dai nuovi conquistatori, dato che la città non venne mai completamente abbandonata pur attraversando periodi di oblio, rimane un mistero. Una delle possibili spiegazioni viene fatta risalire ad un’antica maledizione che avrebbe colpito chiunque avesse osato toccare anche una sola pietra. Terminato il giro in medina ci ritroviamo nella grande Piazza Verde, creata al termine della vittoriosa rivoluzione come luogo di raduno di massa del nuovo regime. La piazza è animata da una attività molto vivace, interi gruppi familiari si godono le ultime ore del pomeriggio passeggiando o bevendo qualcosa in uno dei tanti bar che vi si affacciano, o magari, perché no, gustando un profumato narghilè, mentre tutt’intorno il traffico automobilistico scorre in maniera piuttosto sostenuta. Attraversata la piazza, su cui sostano fotografi ambulanti in cerca di clienti, ci dirigiamo verso la Sharia (via) 1° Settembre ( anniversario della rivoluzione ), per visitare una libreria con interessanti pubblicazioni sull’arte e la cultura del paese. Sulla via si apre anche la Galleria De Bono, retaggio del periodo fascista con la sua caratteristica architettura, simboli compresi, dove ci fermiamo per un caffè. Per rientrare in albergo alcuni di noi scelgono la soluzione “a fette”, come si dice a Roma, (attenzione nell’attraversare le strade) percorrendo il lungomare, lo Sharia al-Corniche, e dando cosi un’occhiata da vicino alla parte moderna di Tripoli e al suo porto. La sera poi, con tutto il gruppo, andiamo a cena fuori, sia per provare a mangiare un po’ di pesce, dopo il pieno di pollo fatto negli alberghi, ma soprattutto per salutare il simpaticissimo Ahmed che ci fatto da balia per tutto il viaggio e festeggiarne cosi l’ottima riuscita.
27 Maggio 2005
Tripoli – Roma – Genova
Ma quanti giorni sono passati dal nostro arrivo a Bengasi, sembra trascorso un tempo infinito tanto ci siamo trovati bene, eppure è già arrivato il momento di ripartire, il momento di tirare i primi bilanci, che a caldo non sono solo positivi, sono stratosfericamente entusiasmanti. Quante emozioni vissute, quanti incanti da mettere nell’album dei ricordi, e se avete avuto la pazienza di arrivare fin qui penso che vi siate potuti fare un’idea esauriente delle bellezze e delle magie che può regalare la Libia, e che fino a pochi anni fa erano ancora precluse ai più. Per cui lasciatemi il tempo di dire che su tutto rimarrà sempre vivo in me il ricordo di aver viaggiato e condiviso la strada con un manipolo di compagni di viaggio veramente simpatici. Ma ora è proprio il momento di partire e visto che il teletrasporto non l’hanno ancora inventato bisognerà pur che prenda due aerei per tornare a casa. Cosi sveglia all’alba per essere all’aeroporto di Tripoli con abbondante anticipo, partenza per Roma e passo affrettato per prendere la coincidenza per Genova visto il ritardo accumulato. Arrivo a Genova nel tardo pomeriggio e per la prima volta, ce né sempre una in tutte le cose, assaporo il brivido di non veder arrivare la mia valigia. Che si sia voluta trattenere qualche giorno di più in Libia visto che ci siamo trovati cosi bene? Avete mai sentito una di quelle tante storie…dove dopo aver compilato un mucchio di scartoffie puoi comunque metterti l’anima in pace perché tanto la beneamata borsa non la rivedrai mai più. Io sono stato più fortunato e dopo neanche un giro completo di lancette, il giorno dopo, mi informano che la mia valigia è arrivata sana e salva dopo essere rimasta attardata a Fiumicino durante il trasbordo dal volo internazionale al volo interno. Probabilmente si era ormai abituata a quel gusto di vivere il tempo con lentezza, tipico di quei paesi,………..e d’altra parte, avete mai visto un arabo correre affrettandosi per qualcosa………..
Diario di Viaggio di Maurizio Fortunato – 2005
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Bibliografia e Fonti Storiche :
– Libia della Lonely Planet edita da EDT Aprile 2002
– Libia Arte Rupestre del Sahara di Giulia Castelli Gattinara, editrice Polaris Maggio 2000
Potete trovare le foto del viaggio e altri racconti nel sito “I miei viaggi” di Maurizio Fortunato
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