di Nigel Mansell – La Rochelle, Luglio 2024
Ci pensavo, cercando una spiegazione: ma perché sono così maledettamente attratto dalla Francia e dalla cultura francese?
Sono arrivato alla conclusione che sicuramente è dovuto all’imprinting che ho ricevuto nei miei primi anni di vita.
Sono nato ad Aosta e vi ho trascorso i miei primi anni di vita, fino ai dieci anni: posso pertanto definirmi valdostano. La Valle d’Aosta, come tutti sanno, è bilingue e francofona. È una terra di confine, da sempre orientata verso la Francia; pertanto, è sempre stata influenzata da una nazione così importante. Il destino della Valle è poi stato sempre legato a quella della vicina Savoia, una regione profondamente francese, dalla quale solo in tempi recenti si è staccata per seguire il percorso della famiglia Savoia.
Da non dimenticare che, come tanti, ho avuto un avo, il mio bisnonno paterno, Rital o Macaroni, così che mio nonno si dilettava a esprimersi con alcune parole in francese.
Era pertanto inevitabile che uno degli stati più vecchi del mondo con una cultura così importante, non potesse che plagiarmi.
Il primo pain au chocolat della vacanza lo mangiamo in un McDonald’s, nei pressi di Martgigny, nella Svizzera Romanda. Che grande soddisfazione, in Italia di così buoni non ne trovi.
A Bourges, dove facciamo tappa, ci arriviamo dopo aver attraversato per chilometri, sterminati prati verdi, a volte giallognoli, oppure rinvigoriti dal fieno appena tagliato. I covoni, arrotolati come tappeti, rimangono lì a caratterizzare quel paesaggio agricolo che abbiamo ammirato in decine di quadri impressionisti. A volte invece è stato il giallo dei girasoli ad accompagnarci, fitti fitti ricoprono chilometri di campi, oppure sono stati gli sterminati appezzamenti di cereali, a scorrere dai finestrini. Campagne e campi coltivati che non hanno avuto una fine sino a fondersi in orizzonti lontanissimi fatti di cieli incredibilmente azzurri.
Nel centro della Francia, se si esclude il Massif Central, non ci sono montagne degne di nota a interrompere lo sguardo, così l’occhio vaga sino al limite del visibile.
Questi cieli e l’aria che respiriamo qui a Bourges potrebbero ormai già essere quelli dell’Oceano, niente impedisce alle sue correnti di arrivare fino a qua.
Come facciamo spesso, scendiamo in un Ibis, sono sempre i più pratici e a parità, i più economici. Li puoi trovare nei pressi dei centri storici, con comodi parcheggi e perché no, con le abbondanti colazioni che amiamo spassionatamente: è il modo migliore per iniziare una giornata quando si è in vacanza.
Bourges ha un interessante centro storico, con le caratteristiche case a graticcio e alcune meravigliose chiese gotiche, tra le quali l’immensa e maestosa St. Etienne.
Il passato, ancora vivo, che possiamo ammirare, racconta di una città al centro delle produttive campagne, grazie alle quali la ricca nobiltà e borghesia si arricchì.
Il presente, invece, evidenzia forse un leggero declino dell’importanza e prestigio di Bourges, con i centri storici, anche qui, che iniziano a svuotarsi, con molti pubblici esercizi ormai definitivamente serrati e poi inevitabilmente abbandonati a sé stessi.
Su tutto la variegata umanità delle banlieue francesi, che si concentra fuori dai supermercati dove gli alcolici costano un po’ meno. Se questi personaggi sono giovani sono spesso di etnie nordafricane e portano cappucci calati sulle teste. Più maturi girano con cani messi peggio di loro e si stordiscono di droghe, se le trovano, o con le più economiche birre in lattina.
E poi… se poi verso sera, stanco di girare, vuoi prendenti un aperitivo, un aperò per i nostri amici
francesi, e pensi di essere servito come in Italia, con tante buone cosine da spizzicare, fornite gratuitamente con la bevanda che hai ordinato…
Ecco, allora ti stai proprio sbagliando. Qui pure il pane, se lo chiedi, ti fanno pagare. Noi ci siamo fatti portare pure questi due tristissimi salamotti, dovevamo pur asciugare la birretta; ma ora ci guardano tristi dal vassoietto, quasi implorando di non essere mangiati.
Quando ormai siamo tornati in albergo, una pioggia improvvisa, quanto inattesa, piomba dal cielo lavando tutto e tutti, compreso un gruppo di teppistelli che si apprestava a schiamazzare sotto le nostre finestre, magari fino a tarda notte. Gli scrosci sorprendono pure loro, così il quartiere ritorna silenzioso.
Fa buio tardissimo rispetto all’Italia, alle nove il sole non è ancora tramontato.
Vale la pena fermarsi per vedere dove l’intera cristianità, coalizzata per l’impresa, arrestò l’avanzata degli arabi.
Ci fermiamo quindi a Poitiers, che è arroccata su di una collina da cui si erge sulla quasi disabitata pianura circostante.
Dopo tanti chilometri, inizio a credere che tutta la Francia intera sia un’enorme pianura agricola pressoché priva di abitanti, se si escludono i pochi contadini che vivono nei piccoli villaggi che ogni tanto appaiono nella pianura.
Oggi si passa con un’alternanza crudele dai 14° C. ai 24° C.
Quando arriviamo a La Rochelle la troviamo letteralmente invasa e messa a soqquadro dall’orda coalizzata dei turisti, soprattutto francesi, con la massa accorsa per il Festival delle Francofolies.
Una volta sistemati nell’appartamento, che abbiamo preso in affitto nei pressi del Vecchio Porto, scarichiamo le bici dal Dokker.
Bisogna dire che il Dacia Dokker, una sorta di Fiorino o Berlingo in salsa Rumeno-Francese, si rivelerà un ottimo compagno di viaggio. Carichiamo due MTB taglia L in piedi, senza smontare le ruote. È alto e ci si siede comodi, come sulla sedia di casa. Le due porte a libro posteriori e le due scorrevoli laterali sono ottime per caricare e scaricare. Il nostro è un turbo diesel, un po’ fiacco in ripresa e accelerazione ma a velocità costanti fa il suo dovere. Vanessa, perché è la sua auto, ne è molto soddisfatta.
Siamo impazienti di visitare La Rochelle: pronti via, si inizia a pedalare. Costeggiamo allora la costa per andare a vedere il ponte spettacolare che porta all’Île de Ré, sarà uno dei nostri primi itinerari. Con il binocolo posso vedere, ma si scorgono anche a occhio nudo, l’altra grande isola della costa, l’Île d’Oleron, ma anche il celeberrimo Fort Boyard.
La Rochelle è una delle prime mete turistiche dei parigini, e a giudicare dalle parlate della gente, sembra animata soprattutto dal turismo interno. Molti francesi poi, immagino, hanno la seconda casa qui. In Italia, è veramente poco conosciuta, tanto che di italiani ne incontreremo veramente pochi, per questo motivo ci scambiano soprattutto per spagnoli. Niente male, andiamo all’estero non certo per cercare gli italiani.
Una volta roccaforte degli ugonotti, costretti poi a disperdersi in giro per il mondo, divenne poi la normale rampa di lancio per i viaggi transatlantici. Fu l’ultima città francese a essere liberata nella Seconda guerra mondiale, i tedeschi ci avevano installato una base degli U-Boot, in questi giorni non più visitabile. In tempi recenti meta delle traversate sportive dei velieri.
Al mattino in giro per La Rochelle trovi i resti delle serate delle Francofolies, bottiglie vuote e tanti barboni che nessuno si porta a casa, qui a tutti gli effetti i veri clochards. E non sono neanche più di tanto emarginati, nonostante il visibile stato di alterazione, vengono comunque coinvolti nelle tavolate dei giovani. Ma con loro pure i punk a bestia, forse un po’ più truci e imprevedibili, come questi che
incontrerò spesso, uno dei loro cani è spesso in preda delle convulsioni, forse è epilettico, ma non se ne curano affatto.
Se riescono a raggranellare qualcosa allora lo spendono al piccolo supermercato della piazza, altrimenti rimangono sdraiati tutto il giorno nella piazza, nei pressi della Porta dell’Orologio.
Nonostante questa mattina piova, inforchiamo ugualmente le bici, indossiamo i Kway e ci dirigiamo verso l’Île de Ré.
Spettacolare percorrere il lungo ponte a schiena d’asino, sono circa 3,5 km., per arrivare dall’altra parte. Si sale molto, sino a circa la metà della campata, e poi giù a tutta velocità nella ciclabile che costeggia la careggiata.
Tanta pioggia ora, ma non ci facciamo scoraggiare, perché in realtà sono più i 14° C. che ci sconcertano. Ma poi col sole, che finalmente buca le nuvole, arriviamo a 30° C. Ho il termometro sul contachilometri della bici, così posso fare delle verifiche oggettive.
Vogliamo fare il giro di tutta l’isola. Appena scesi dal ponte un’incaricata dall’Ufficio Turismo ci ha fornito gratuitamente una mappa con tutte le ciclabili dell’isola.
Nel seguire uno dei percorsi ciclabili, abbiamo la sorpresa di incappare nei resti della Abbaye Notre Dame de Ré, detta l’Abbaye des Châteliers, un’antica abazia cistercense ormai in rovina, che immaginiamo una volta davvero grandiosa. Ci divertiamo a fotografarci nel giardino ricco di fiori che circonda l’abbazia, le cui strutture superstiti, in pietra bianca, si stagliano con severità dalla campagna circostante.
Ci capita di comprare del sale, quello che viene prodotto sull’isola, in una sorta di self-service. Vige un sistema che si basa sulla fiducia negli acquirenti, che devono lasciare l’importo giusto, in cassette incustodite ma che nessuno si porta via. In Italia questa pratica durerebbe al massimo mezza giornata, dopo i poveri artigiani, non troverebbero più né sale né soldi.
Dicono che i francesi sono tutti antipatici, noi al contrario incontriamo solo gente disponibile e gioviale. Come la signora che qui sull’isola, sentendoci parlare in italiano, ci dice che adora la nostra lingua. Non la sa parlare né la capisce ma le piace moltissimo il suono che producono le nostre parole, ci dice. Poi però aggiunge: ma canto in italiano! Subito dopo accenna un’aria di un’operetta che nella mia ignoranza non conosco.
Quasi quasi mi faccio biondo: ah già, ma io non ho capelli, realizzo. È come quando un insetto, forse una vespa, mi sorvolò il capo. Ero terrorizzato che si infilasse nei capelli, salvo ricordarmi che ho la stessa pettinatura di Kojak. Penso che sia un po’ come per l’uomo a cui hanno tagliato il piede, ma che lo stesso sente prudere l’alluce del piede che non ha più.
Che grande invenzione il Café Gourmand: almeno 4-5 dolcetti accompagnati al caffè. Assolutamente da esigere ogni fine pasto. E così faccio qui a Loix, pressoché a metà del periplo dell’isola.
In francese mi devi parlare, mannaggia a te, devo per forza sottolinearlo ogni volta che dalla loro lingua natale switchano a quella British. L’inglese parlato con cadenza francese, con tutte le parole che diventano tronche e con la erre arrotata, diventa una lingua oltre che incompressibile, una cosa raccapricciante.
Spostarsi in bici in questa zona della Francia è favoloso. Tutti ti danno la precedenza quanto attraversi. Se proprio non sei su una ciclabile, perché stranamente non l’hanno ancora creata, le auto si accodano pazienti senza strombazzare o dare segni di nervosismo, in attesa di superarti nel modo più sicuro.
Nello specifico, girare tutta l’Île de Ré è stato favoloso. Ci sono tantissimi itinerari ciclistici, asfaltati o sterrati. Alcuni solo per le bici, altri da condividere solo con gli abitanti dell’isola, e solo molto pochi ricavati sulla normale carreggiata.
E alla fine tutto ciò ha premiato l’Isola. Ci sono noleggiatori di due ruote ovunque, così la maggioranza delle auto dei turisti rimane sulla terra ferma. Ne guadagna la circolazione e la qualità dell’aria, nonché la mancata congestione dei piccoli centri abitati che costellano questa splendida isola.
Non ho visto gli asini con i pantaloni, particolarità dell’isola. Trent’anni fa invece sì, mai visto niente del genere.
Anche qui come ad Arcachon, dove siamo stati l’anno scorso, la costa è soggetta all’eccesiva erosione, perciò molti tratti della costa a strapiombo non sono accessibili per evitare frane.
Poco prima del Faro in punta all’isola, un minigolf abbandonato. La stessa sorte comune a quelli italiani. Ma cosa è successo? Perché alla fine degli anni Ottanta erano così numerosi, meta delle prime uscite con la morosa, o l’ambito premio che le famiglie riservavano ai numerosi figli, e ora non se li fila più nessuno? E perché neanche qui in Francia? Ma di cosa si può trattare? Pentimento collettivo? Un errore che non ci si perdona? Vergogna per avere creduto in quello stupido gioco e ora si fa finta che tutte quelle piste in cemento, con buche e casette, non siano mai esistite?
È sempre una grande soddisfazione andare negli uffici turismo qui in Francia. Innanzitutto, sono sempre aperti, cosa molto rara in Italia, con tanta gente molto competente e pronta a dispensare consigli e fornire ricche documentazioni. Però c’è un’eccezione, ieri erano chiusi, ma possiamo perdonaglielo, era l’anniversario della presa della Bastiglia, come si sa festa nazionale.
Dopo esserci riempiti di mappe, cartine e dépliant iniziamo a pedalare uscendo dalla porta oceanica di La Rochelle, mantenendo la sponda sinistra. Voglio tornare a vedere dov’ero stato nella mia prima vacanza in Francia, forse era il 1991. Avevo una piccola Polo, quella che sembrava una piccola station wagon. Poco più che ventenne ero molto ingenuo e innocente, entusiasta della Francia come lo sono adesso per altro, ma in maniera più naïf se posso dire. Ero stato in una struttura di Pierre et Vacances proprio davanti all’acquario. Ma sia la struttura che l’acquario ora sono diversi e si trovano da tutt’altra parte rispetto a dove penso debbano essere. Non riesco a raccapezzarmi. Allora entro dentro l’edifico dove penso fossi stato negli anni Novanta. Chiedo a una giovane ragazza che mi accoglie alla reception, mi guarda come un folle: qui non c’è mai stato né l’acquario né il Pierre Vacances, mi risponde. Poi per sicurezza chiede alla sua collega più agée, che risponde dal retro dell’ufficio. Poi esce e continua, sì è vero, sia la struttura che l’acquario si sono trasferiti, ma prima erano lì. Allora mi ricordavo bene.
Ma qui, nel quartiere Le Minime, è cambiato un po’ tutto, non solo l’Acquario e Pierre et Vacances.
Hanno costruito enormi palazzoni ovunque e hanno creato un enorme porto turistico che occupa buona parte del canale che collega La Rochelle al mare.
C’ero stato anche un’altra volta a La Rochelle, nel 2009, ma solo un giorno, una toccata e fuga.
Ricordo che avevamo cenato in quest’esclusivo ristorante, Les 4 Sergents. Il servizio era ottimo, sulla qualità non so giudicare, una delle mie mogli dice che ho i gusti semplificati, come quello di un bambino: in effetti, se gli adulti potessero, ma quasi sempre è vietato, mi accontenterei di ordinare ovunque il Menù Bimbi, a mio giudizio il più semplice e appetitoso, ma anche economico.
Pare che questi quattro sergenti di La Rochelle, furono giustiziati ai tempi della rivoluzione, sospettati di voler restaurare la monarchia.
Comunque, tornando al ristorante uno degli aspetti più caratteristici era che i tavoli erano sistemati in un giardino di inverno, ricavato nel cortile interno, completamente vetrato, tra alte e importanti piante, sempre verdi.
Una sera, mangiando all’Indiano, mi accorgo che siamo proprio lì davanti. Les 4 Sergents però è chiuso, sui vetri hanno scritto per incendio. Sempre sui fogli affissi sulle vetrate, dicono che riapriranno, ma i lavori sembrano avere incontrato delle difficoltà, la sensazione è che abbiamo desistito. Sbircio dalle alte vetrate ormai impolverate, con mio sollievo constato che le piante godono tutte di ottima salute, forse qualcuno se ne sta occupando.
Ma torneremo spesso in quella via, Rue St Jean du Pérot, sia perché tragitto obbligatorio, quando torniamo dalle nostre peregrinazioni, sia perché i locali più interessanti sono tutti lì, senza soluzione di continuità.
Continuiamo sulla costa, seguendo la ciclabile sino ad Angoulins. Ogni mattina troviamo la bassa marea, l’Oceano è lontanissimo. Faccio lo stesso il bagno, in quel poco di acqua che è rimasta: rimango sorpreso, nonostante il clima freddino, l’acqua è calda.
Mangiamo in un bugigattolo di legno, nel parchetto dietro alla spiaggia. Ci servono delle sorte di tapas, che sul menù hanno una descrizione ricchissima e articolata, difficile da comprendere, allora avevamo scelto a sentimento: ci è andata tutto sommato bene.
Poi ci corichiamo nella spiaggia, per riscaldarci le ossa, al riparo dal vento, grazie a una cordigliera di piccole rocce.
Al ritorno ci fermiamo dal vicino che ci ha servito le tapas. È un’altra baracca simile, che batte bandiera bretone. Per forza dobbiamo prendere una crêpe, come non potremmo fare altrimenti. Ce la serve una bella donna, sicuramente indocinese, forse arrivata in Francia in quanto il Vietnam era una loro colonia.
Ma poi appare il bretone, forse il marito, un omone dalla voce baritonale. Ci chiede se apprezziamo la musica, in effetti il R&B che gli altoparlanti sparano a tutto volume non è male. Quando scopre che siamo italiani, vuole imitare la nostra parlata allungando a dismisura le vocali. Vorrei dirgli che sono loro che parlano così quando vogliono pronunciare una parola italiana, ma è troppo grosso e forse irascibile, non oso.
Oggi invece andiamo dalla parte opposta rispetto a ieri. Percorriamo tutta la falesia di Pertuis Breton. Una volta arrivati al ponte per l’Île de Ré continuiamo alla sua destra.
La falesia è molto fragile e soggetta a crolli e smottamenti; quindi, stiamo attenti a non andare sul bordo, che per altro è cosa proibita.
È uno spettacolo superbo quello che ammiriamo, siamo completamenti immersi nella natura, le strade carrabili sono molto lontano e non si avverte alcun rumore di traffico. Intanto, come al solito, sotto di noi l’Oceano si ritira, il fondo è così basso che l’acqua ritirandosi ormai è lontanissima, quasi al limitare di questo piccolo golfo. Sulla costa si allevano molluschi, soprattutto cozze, moules. Possiamo vedere le installazioni, delle sorte di palafitte, collegate alla terra ferma da lunghi ponti. Oltre che per calare le reti e pescare, servono per depositare le gabbie sul fondale dove si avvinghiano i molluschi, che in seguito, dopo averle recuperate, verranno colti.
La costa è regolarmente battuta dal vento. Passiamo tra piccole case, non più alte di un piano, dai serramenti colorati, sembra di essere in Patagonia.
Sulla costa di Esnandes ci fermiamo a mangiare le cozze, ça va sans dire, non potremmo fare altrimenti. Io le prendo al Roquefort, che sembrerebbe un controsenso, il formaggio fa a pugni col pesce, invece sono ottime.
Siamo ben disposti verso tutti, siamo rilassati, così lo sono anche gli altri con noi, perché anche loro sono in vacanza. Anche i gestori dei locali sono molto affabili, si fanno così un sacco di conoscenze. Per esempio, il gestore di questo ristorantino viene dalla Martinica e il ciclista che mangia al nostro fianco, da Londra.
Si comunica un po’ in tutti i modi, francese, inglese… poi si gesticola… ma in fondo ci si capisce.
Il lauto pasto richiederebbe un sonnellino, ma oggi è abbastanza fresco, tanto che mi sono dovuto coprire la testa perché mi è venuta la cervicale. Decidiamo allora di andare ancora avanti, e continuare così a costeggiare la costa, per arrivare forse al centro di questo golfo, la Baie de l’Anguillon.
Ma il sentiero ciclabile ci porta lontano dalla costa, per arrivare a Charron. Sembra un paese fantasma, non c’è nessuno. Per strada non c’è una persona, né c’è un bar o locale aperto. È vero, ci sono le auto posteggiate in strada davanti alle case, ma pare che queste basse abitazioni che compongono il paese, si siano fagocitate i loro abitanti. Dove sono tutti?
Data l’insignificanza di Charron e per dare un senso al nostro itinerario, cerchiamo di arrivare a quello che sui cartelli indicatori viene definito come un porto marittimo, Port du Pavé. Sembra irreale, visto
che da qualche chilometro stiamo pedalando in mezzo a questi campi coltivati, tipo quelli della Pianura Padana del vercellese o novarese.
Ma invece, sorprendentemente ci arriviamo al porto. La strada finisce proprio lì, nell’acqua, quando c’è. L’asfalto è terminato proprio dopo un piccolo e basso faro, una sorta di Faro Bonsai, sarà altro non più di tre metri.
Al largo c’è qualche battello ancorato che galleggia dove è rimasta un poco di acqua, gli altri, arenati, sono riversi su di un lato. Sono tutti adibiti al trasporto delle gabbie per l’allevamento delle cozze, oggi completamente inoperosi.
È il finis terrae, siamo arrivati alla fine del mondo. È tutto così strano, rarefatto e silenzioso, quasi incantato. È stato come scoprire un porto navale in mezzo a un campo di patate.
Ogni tanto arriva qualche macchina solitaria. Gli occupanti constatano che la strada non va più da nessuna parte, allora si guardano in giro sconcertati e indecisi sul da farsi. Dopo qualche minuto, fanno inversione a U e tornano da dove erano arrivati.
Una sciroccata gira con un microfono, quelli ipersensibili con il peluche intorno, ascoltando con attenzione, non si sa bene cosa, con delle cuffie da DJ anni Ottanta.
Gli chiedo cosa sente, mi risponde cortese: il suono delle onde, i rumori dell’Oceano, lo stridio degli uccelli e, chissà quali suoni possano emettere, i pesci.
Poi mi sembra di aver capito che tutto questo lei lo monti in studio per farlo diventare materiale didattico. Insiste per registrare anche la mia voce, e io obbedisco, decantando qualche amenità e luogo comune per non deluderla.
Al ritorno ci fermiamo nell’abitato di Esnandes e visitiamo l’Eglise di St. Martin. È uno strano connubio tra una cattedrale gotica e una fortezza medioevale, con tanto di merli.
Per concludere, ormai a sera, una crêpe sarrazin sul Vieux Port di La Rochelle, dove ormai hanno quasi finito di smontare tutte le strutture della Francofolies.
Un ritrattista gira ancora con la sua vecchia Deux Chevaux, è del 1967. Dice che ha solo trentunomila chilometri. La posteggia proprio sul quai, in modo che diventa anche lei un’attrazione turistica insieme a tutto il resto, testimone di un’epoca e di una francesità che non torneranno più.
Come ci eravamo prefissi all’inizio della vacanza, oggi invece gireremo tutta l’Île d’Oleron, l’altra grande isola che si trova nei pressi de La Rochelle. Naturalmente lo faremo sempre in bici, saranno circa un’ottantina di chilometri.
Prima di arrivare nei pressi dell’isola, passiamo un enorme e spaventoso ponte che non la finisce più di farti salire, deve scavalcare la Seudre.
Poi c’è quello che collega l’Île alla terra ferma. Certo non è bello come quello della Ré, ma è altrettanto spettacolare.
Lasciamo la macchina appena scesi dal viaduc e iniziamo a pedalare. Non vedo l’ora di arrivare a Boyardville per vedere finalmente da molto vicino il celeberrimo Fort Boyard, la famosa fortezza ovale che si erge in mezzo al mare e che occupa l’intero scoglio su cui è stato edificata.
Come avevo già constatato, è visibile da tutto il golfo, anche da La Rochelle. E ora ce l’ho qui davanti. Prendo il binocolo per vederlo meglio. Non ho mai visto niente di simile, sembra che ci girino anche dei programmi televisivi. Nell’intenzione di chi lo costruì avrebbe dovuto ostruire il passaggio delle navi inglesi e proteggere così tutto il golfo, ma non fu mai veramente operativo. Dopo la solita trasformazione a carcere, è un classico destino che accomuna buona parte degli antichi monasteri e fortezze, rimase per molti anni abbandonato, per poi essere riscoperto e restaurato in tempi recenti.
Finalmente troviamo l’acqua, la marea sta piano piano modificando l’ora del ritiro delle acque: dopo un bel bagno ci addormentiamo sotto un sole finalmente caldo.
Puntiamo diretti al faro di Chassiron. Sulla strada, mentre fotografiamo delle placide mucche ci avvicina un’anziana, che dirà poi di avere ottantasei anni. Si lamenta con noi di tutto, soprattutto del Sindaco e non so chi di altro, non riusciamo a capirlo. Dice che anche lei ha dei terreni ma le sue vacche non
possono più bere acqua pulita. Sappiamo che questi dovrebbero essere dei prati salati, ma non capiamo bene la sua protesta. Forse per empatizzare con la contestatrice, diciamo: e va beh, anche in Italia i politici fanno quello che vogliono. Non riconoscendo il nostro sforzo di tenderle una mano, lei ci risponde, ma in Francia c’è la legge! Non so che idea si sia fatta dell’Italia, ma capiamo che non può esserci dialogo e ce ne andiamo.
Sulla falesia della costa, prima del faro, la gente costruisce con i sassi che raccoglie lì intorno, decine di quei segnavia o ometti di pietra che si possono vedere spesso in montagna.
Dal Faro, aiutato dal mio fido binocolo, posso vedere, ma potrei farlo anche a occhio nudo, la costa davanti a me. Realizzo che siamo proprio di fronte a La Rochelle. Ora vedo distintamente la Lanterna e benissimo il ponte dell’Île de Ré.
Ormai si è fatto tardi, quindi ci facciamo una tirata sino al ponte/viaduc per tornare a casa, sono ormai le otto passate, ma come accade qui, siamo un bel po’ più a nord dell’Italia, il sole è ancora bello alto.
Se dovessi fare un bilancio, direi che vince ai punti l’Île de Ré su quella di Oleron. È più graziosa, organizzata e i paesi sono più caratteristici.
Come al solito posteggiamo sull’Avenue du Général Leclerc, un bel vialone costeggiato da signorili dimore. Qui è molto facile trovare posteggio e la macchina rimane bella in vista. Nei pressi del vecchio porto è praticamente impossibile parcheggiare, e se lo trovi, il posteggio è a pagamento ed è molto caro. Quindi tiriamo giù le biciclette dal Dokker, tagliamo per il parco ed entriamo per la Porte Neuve: in un attimo siamo al centro, quindi a casa.
Oggi invece mi trovo ad ammirare il Faro di Chassiron dalla parte opposta, sulla spiaggia di Sainte Marie, sull’Île de Ré.
Ricordo quando ieri sera, ormai erano le diciotto, realizzavo che ci volevano ancora 35 chilometri per tornare alla macchina.
Qui sull’isola i paesini sono tutti graziosi, come del resto in quasi tutta la Francia. E ci voleva così poco per fare lo stesso in Italia. Bastava risparmiare i nostri borghi dalla furia edilizia che ha devastato tutto dagli anni Sessanta almeno fino agli anni Ottanta. Cementificazione selvaggia, costruzioni avulse dal contesto dell’esistente, serramenti in alluminio anodizzato e case incomplete senza tetto o intonaco. Così buona parte dei nostri paesi ha perso un’identità, e gli orrendi condomini da sei piani e più li fanno tutti assomigliare.
È stata la prima giornata veramente calda, dal mattino alla sera, così anche il nostro appartamento si è scaldato moltissimo. La camera ricavata nel sottotetto, senza abbaini, è rovente e a poco serve il ventilatore. Non possiamo spalancare le finestre perché siamo al piano terra. Dormiremo pochissimo.
Stamattina La Rochelle è combattuta tra l’essere operosa o mezza addormentata. Chi va al lavoro si agita e si da fare, i pochi turisti, invece, si muovono lenti come serpenti che si risvegliano ai primi raggi di sole.
E noi siamo tristi, abbiamo già la saudade de La Rochelle perché ce ne stiamo andando. Facciamo come al solito la seconda colazione, dopo la prima in appartamento, al caffè/panetteria. È proprio al limitare della Place du Comandant de la Motte Rouge, dall’altra c’è il Carrefour City dove ci siamo riforniti soprattutto di baguette e Roquefort. Al centro, svettante dagli alberi, la Grande Roue, la ruota panoramica, che ci salutava al mattino e ci riaccoglieva alla sera già illuminata.
Tirando le somme, in questa vacanza abbiamo pedalato per ben 380,0 chilometri. Che dire, La Rochelle e il suo circondario sono il posto ideale per farsi una vacanza su due ruote. Le due isole maggiori, di cui abbiamo fatto il periplo, hanno messo in pratica una formula turistica dedicata a chi piace girare in bicicletta, ma direi che è quasi obbligatorio usare la bici, la tua o una a noleggio, visto quanto ci tengono qui.
Però in questo modo, incentivando pesantemente l’uso delle due ruote, il traffico non è caotico né congestionato. Quando c’ero stato nel 2006, e le bici non avevano preso così piede, era tutt’altra cosa. Una volta scesi dal ponte dell’Île de Ré, per esempio, eravamo rimasti bloccati nei buchon e non eravamo riusciti neanche ad arrivare a Saint Martin de Ré.
Ovunque i ciclisti sono rispettati e gli automobilisti sono pazienti, forse perché sono ciclisti a loro volta.
Al ritorno, per spezzare il viaggio, ci fermiamo a Digione. Io la conoscevo solo per la moutarde e gli epici duelli in Formula Uno. Invece abbiamo trovato un paese con molti edifici storici, case a graticcio, palazzi governativi, chiese gotiche ecc. Sono la testimonianza dell’importanza di questa città che è la capitale della Borgogna.
Ma fa un caldo incredibile, Dijon è cinta dall’abbraccio delle montagne circostanti, penso che d’inverno la proteggano, ma d’estate non fanno passare un filo d’aria. Giriamo così meno di quanto vorremmo, perché siamo stremati. È questo non è che il preludio di quello che troveremo in Italia: l’abbiamo lasciata con temperature intorno ai quattordici gradi e la ritroveremo avvolta da una capa afosa prossima ai quaranta gradi.
Poi la Svizzera con un tragitto alternativo che ci fa bypassare Ginevra entrando dalle alture sopra il Lago Lemano, per scendere a Losanna. Tanta bella campagna con le montagne e colline del Giura.
Sul Sempione ci ricordiamo quanto è improponibile per noi la Svizzera: due caffè li paghiamo dieci euri.
Anche questa volta la Francia non mi ha deluso.
Nigel Mansell
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