di Gabriele Bròcani –
Odiavo i safari di due giorni.
Troppa fatica.
Troppa strada.
Troppa terra rossa negli occhi e nel naso, troppo poco tempo perfino per individuare una tipa da rimorchiare… anche perchè all’ora della partenza è buio e le facce dei partecipanti sono buste di carta talmente accartocciate che resta difficile poter distinguerne la fisionomia. L’abbigliamento per un safari alza al massimo il coefficiente di fallibilità nel riconoscerne il sesso e in qualche caso, addirittura la specie di appartenenza.
Adriana mi disse che io ero il più indicato per questa delicata missione che mi sembrò subito assolutamente priva di apprezzabili probabilità di successo.
Mi fornì delle motivazioni vagamente “mistiche” legate alle raccomandazioni di un certo pezzo grosso dell’industria farmaceutica di assecondare, in tutto e per tutto, quel manipolo di sfigatissimi amministrativi pugliesi in vacanza premio.
Mi raccomandò anche di indossare l’uniforme, cosa che come tutte le altre volte puntualmente non feci.
La mattina seguente Nicodemo mi strombazzò al telefono il suo buongiorno, con un tono imbevuto di un sospetto e ingiustificato buonumore, considerata l’ora.
Aveva sicuramente fumato.
Lo detestai.
– Mr Gabriel, it’s 4:30 am!…the guests is coming…the drivers are waiting for you! And your breakfast is ready! – proclamò quasi cantando –
-si siiii…. I’m on my way! – risposi con un lamento, e chiamando a raccolta insieme alle mie energie una dozzina di imprecazioni in swahili che avrei usato sicuramente durante il viaggio.
Mi informai sul numero dei partecipanti, dei mezzi e sugli autisti direttamente sotto la pagoda in makuti che fungeva da punto di accoglienza davanti alla reception.
In tutto 33 persone.
Era buio e l’aria era umida come l’alito di uno gnu con la gotta.
C’erano quattro minibus e il solito scomodissimo vecchio Land Rover che avrebbe guidato il convoglio e sul quale avrei lasciato i classici due ettolitri di sudore e qualche brandello di pelle bruciacchiata.
Lui, dal canto suo, mi avrebbe ripagato ,affettuosamente, come sempre, con dei bei lividi sugli stinchi e dei poetici dolorini spinali che si sarebbero presentati possibilmente di notte e poi acutizzati sistematicamente qualora fossi stato in dolce compagnia.
Una nota positiva c’era: John guidava.
Avevamo due autisti di nome John. Questo era quello che preferivo.
Parlava poco con tutti ma aveva una faccia simpatica e l’espressione di chi fosse capitato lì per caso.Guidava umanamente per essere un giriama e aveva una vista eccezionale che surclassava di gran lunga il mio binocolo super professionale della marina kenyota, che lasciai nello zaino soprattutto perché pesava più del Land Rover.
Dopo un rapido briefing con le raccomandazioni di rito alla comitiva e dopo aver consumato velocemente una colazione a base di latte, caffé, moschini e fette biscottate, lasciai che il gruppo si sistemasse nei minibus e battendo rapidamente le mani due volte gridai:
– TWENDE, BASI!!
Mi piaceva molto farlo, anche se mi sentivo un po’ come il generale Custer prima di andare a morire ammazzato a little big horn…dava alla scena il giusto pathos e a me l’illusione di avere tutto sotto il massimo controllo.
Mi piaceva anche dire a gran voce e in tono solenne “FUNGUA!” all’askari di guardia al cancello….anche se era perfettamente inutile farlo in quanto egli sapeva benissimo che se non avesse aperto noi non saremmo usciti.
Per i primi 150 km dormii. Malissimo.
Sbattei la testa al montante della mia portiera per un paio di grosse buche.
Sporsi in avanti la testa verso il vetro per vedere la strada.
Non c’era.
La ributtai indietro sullo schienale, chiusi gli occhi e consumai la prima imprecazione.
Fui risvegliato di soprassalto dall’autista. Stavamo rallentando sensibilmente.
Un serpente morto, di due metri circa, proprio in mezzo alla strada, probabilmente schiacciato da un mezzo passato prima di noi, era oggetto delle fameliche attenzioni di un grosso rapace scuro (un’ aquila acrobatica, azzardai) intento a beccarlo avidamente all’altezza della gola.
John mi guardò interrogativo.
– Endelea! – dissi tranquillo.
Mi augurai che i turisti non avessero ancora realizzato e che le videocamere fossero ancora tutte nelle loro belle custodie e che poi fosse anche molto seccante cominciare un safari un centinaio di chilometri prima di entrare nello Tsavo.
Decisione errata.
Quel brutto uccellaccio non aveva alcuna intenzione di volarsene via lasciando sulla strada la sua colazione.
Vedendoci arrivare lo afferrò con entrambe le zampe. Aprì le ali e cominciò a sbatterle con energia in avanti.
Era proprio una grossa aquila. Per quanto era grande sembrava si muovesse immersa in una vasca di colla.
Aveva cominciato a sollevarsi faticosamente da terra col suo prezioso bottino quando John si girò nuovamente verso di me, serio.
Io gli feci ancora cenno di tirare dritto.
Ma ora con ero più molto tranquillo e Deglutii.
L’aquila si alzò con un balzo ad un altezza di circa 5 metri….e quasi tutto il rettile penzolava in verticale.
Noi gli eravamo quasi sotto.
La presa del volatile però non era stata delle più felici.Troppo vicino la testa del biscione. Tutto il peso era sbilanciato verso il basso.
Ora era fermo nell’aria e sbatteva a vuoto le ali come un giocattolo rotto mentre la forza di gravità già esultava soddisfatta. Alla fine, aprì i suoi artigli e liberò la preda cacciando un grido rabbioso.
John cercò di schivare. Ci riuscii solo in parte.
Un tonfo sordo sul cristallo e sul cofano della jeep proprio davanti a me mi fece saltare.
Il serpente rimbalzò sull’auto e finì sul margine della carreggiata lasciando un impronta di sangue sul vetro.
– Merda! – mi appiccicai al sedile per lo spavento…trattenni il fiato per qualche secondo fino a che mi accorsi che solo Ahmed dietro di noi si era reso conto dell’accaduto e lampeggiava divertito.
Anche John se la sghignazzava ricambiando lo sguardo nello specchietto.
Sussurrai al cielo un altra bella imprecazione ed ebbi la netta sensazione che anche l’aquila mi ci stesse mandando di cuore!
– Fantastico!- pensai – E’ cominciata alla grande! –
All’entrata del parco,il Sala Gate, sbrigata la routine per i biglietti, ne approfittai per passare in rassegna i ventiquattro safaristi, che intanto erano tutti scesi a sgranchirsi le gambe, e individuai immediatamente quello che sarebbe poi stato il candidato favorito per la nomination del ruolo di “rompicoglioni” protagonista del viaggio.
Era un medico (o farmacista) che si atteggiava a grande avventuriero. Aveva una stupida faccia tonda, una fassurina al posto della bocca, un paio di occhialetti tondi, una incipiente calvizie e la carnagione dello stesso colore dei mocassini….cioè, non pervenuto.
Era una specie di Phil Collins disegnato da un Matt Groening ubriaco…. Non ispirava alcuna simpatia e parlava senza mostrare mai i denti.
Tentavo di distribuire a tutti buonumore attraverso il trattamento intensivo delle mie stupidissime battute cariche di un economico non-sense da borgata. Pareva Funzionare.Avevano bisogno di ottimismo, non sarebbero scesi piu dai minivan fino a tarda sera. E non erano ancora le sette del mattino.
Di lei non ricordo il suo nome. Forse Giusy, o Rosy…o Mary, insomma qualcosa che in realtà avrebbe dovuto camuffare un imbarazzante nome meridionale tipo Maria Giuseppa o Rosantonia.
Bionda, sui 25 anni, acqua e sapone, con la coda di cavallo. Molto carina e con un bel sorriso luminoso e spontaneo….un tipetto alla Meg Ryan..simpatica…anche se a volte diceva cose incomprensibili in un terribile accento pugliese. Li per li non me ne curai troppo. Tanto fino a pranzo non avrei parlato con lei.
Ebbi il tempo di simpatizzare un po’ con tutto il gruppo nell’oretta che ci separava dal nostro turno di entrata.
Alla fine non sembravano poi tanto stronzi.
Eccetto Phil Collins.
Se ne stava sempre a confabulare in disparte con altri due tizi canuti che sembravano dei dobermann e una donna mezza nana con grossi occhialoni neri e una bandana a fiori rosa che le dava l’aspetto di una lavandaia kosovara.
Con l’unica differenza che le lavandaie kosovare hanno senza dubbio più stile ed eleganza.
Erano gli opinion leaders della banda. Sapevo che non sarei riuscito ad entrare nelle loro grazie se non attraverso un sofisticatissimo impianto di stratagemmi e raffinate sottigliezze psicologiche di altissima scuola sovietica. Fortunatamente ero ferratissimo in materia.
Passammo tutta la mattinata percorrendo in lungo ed in largo il settore ovest del parco.
Respiravamo la savana.
Nel senso esatto del termine.
A metà mattinata il calore era già insopportabile e sudavamo tutti come anguille. Stando alle malcelate rimostranze del rompicoglioni del gruppo io sarei stato uno dei responsabili delle alte temperature in quella zona dell’Africa.
Decisi di soprassedere e di risparmiare la maledizione sciamanica che conoscevo per dopo.
John mi passò una radice di Marungi che io cominciai subito a masticare con espressione disgustata..
Di più schifoso del marungi ricordo solo la benzina che una volta percaso ingerii durante un succhiotto da una fiat 127.
Però funzionava. Il caldo, la fame e la sete si attenuarono dopo una mezzora da ruminante.
Smisero tutti di lamentarsi al momento di fotografare i primi animali.
Se non avete mai fatto un safari, e ve lo immaginate come qualcosa di terribilmente avventuroso nel quale ogni avvistamento sia imputabile al caso, vi state confondendo con la pesca alla trota o con la linea B della metropolitana di Roma.
Tutti gli animali,infatti, sono in zone assegnategli dai rangers, che si preoccupano di avvertirci preventivamente se sono presentabili quel giorno ai fotografi.
Conoscevamo tutti gli stanziamenti.
In pratica, agli alberi sotto i quali bivaccava la famigliola di leoni, mancavano solo il citofono e la buca delle lettere.
John, grazie alla sua super-vista, alla conoscenza della mappa, al marungi e ,secondo me, pure ad una buona dose di culo nel tirare a indovinare, mi segnalava anche solo la presenza di uno struzzo o una faraona addirittura chilometri prima.
Io uscivo con tutto il busto dal tettuccio della jeep, facevo allineare dietro di me i pulmini e annunciavo a gran voce quello che avremmo visto di lì a poco. Ci facevo un figurone ogni volta. Avrei dovuto dare anche brevi spiegazioni sulle varie specie, le loro abitudini e altre curiosità. Ma lo feci solo la prima volta, mesi prima.Per dieci minuti. Fino a che il saputello di turno con l’abbonamento al National Geographic Magazine e la voce da eunuco mi fece notare che avevo scambiato dei licaoni per delle iene maculate. La mamma cicciona ribadì la cosa ulteriormente, assicurandosi che tutti gli altri realizzassero la mia gaffe, carezzò tronfia il figlio autistico e mi guardò con aria di sfottò mista a disprezzo. Augurai una furibonda dissenteria a entrambi.
A metà del percorso dopo aver incontrato zebre, elefanti, rinoceronti e bufali ci imbattemmo in una comunità di mandrilli.
Il capobranco era strafatto di iboga. Si aggirava tra le femmine ,le tirava a se e le penetrava a turno con aria del tutto indifferente e frenetica come avesse un irrefrenabile urgenza di stabilire e ribadire il suo ruolo di unico maschio e di capomandrillo. Le turiste si lasciavano andare a risatine imbarazzate ed erano indecise se riprendere o meno la simpatica scenetta anche perchè Il mandrillone mentre si agitava ritmicamente col bacino le fissava con sguardo compiaciuto: le scimmie riconoscono le femmine della nostra specie.
Su questo ho tutta una mia teoria che ora, per una questione di tempo, eviterei di esporvi.
Le mandrille,dal canto loro, continuavano nelle loro attività di sempre che consistevano in spidocchiarsi, raccogliere insetti, erbette e rubare viveri dall’ interno dei minivan che avevano tutti i tettucci alzati in modalità “ombrello”. Nonostante le mie raccomandazioni di non tenere in vista cestini della merenda e panini c’era sempre qualche furbone che si faceva sorprendere con una bustina di grissini o con una mela.
La razzia di una scimmia, per quanto spesso insignificante, rappresentava sempre un evento spettacolare e a volte traumatico.
Saltavano sulle cappottine alzate dondolando le lunghe braccia dentro l’ abitacolo ed emettendo eccitate grida di battaglia.
Vidi uno degli autisti roteare un martello per scacciare un cucciolo particolarmente petulante che si allontanò mostrandoci le chiappe fucsia e protestando rumorosamente con orrende smorfie.
Il Game Drive proseguì tutta la giornata in un susseguirsi di noiosissimi appostamenti in terreni sempre meno ospitali con l’unica eccezione della sosta al campo per il pranzo e per dare tregua alle vesciche che ormai erano borse dell’acqua calda in ebollizione continua.
Avevo lo stomaco chiuso a causa dell’effetto della cathina e mi sentivo eccessivamente pimpante e loquace. Approfittai per approfondire la conoscenza di Giusy, Rosy o Mary.
Dopo aver soddisfatto le sue principali curiosità che vertevano prevalentemente sul perchè mi chiamassero Chengo e sul perchè mi chiamassero Chengo , ma soprattuto sul perché mi chiamassero Chengo, le proposi di continuare il giro sulla jeep. Lei accettò di buon grado e chiese di portare con se la sua amica che, fortunatamente declinò l’invito avendo subito notato la mia espressione irrigidita.
Riprendemmo il viaggio sotto il sole ancora al suo azimuth.
La land rover si rivelò ovviamente molto più disagevole di quei moderni e confortevoli mini autobus giapponesi, con sedili imbottiti, vetri fumè e potenti climatizzatori, ma faceva indubbiamente più safari.
Passammo quel rovente pomeriggio ad assorbire la sabbia rossa dello Tsavo fermandoci di tanto in tanto a fotografare un leopardo, un avvoltoio, degli impala.
Arrivammo dai leoni intorno alle 18. Il vecchio maschio dormiva ai piedi di una grande acacia. Accanto a lui i resti di una carcassa di zebra. Sotto un altro albero la leonessa sdraiata all’ombra coi due piccoli che la tormentavano arrampicandosi sulla schiena e mordicchiandole le zampe.
Ci fermammo ad un passo da quest’ultima.
Un gioco popolare tra gli africani era quello di sfidarsi ad incrociare lo sguardo con lei, e mantenerlo il più a lungo possibile. Quando me lo proposero li sfottei da bravo muzungu, ci provai e distolsi subito lo sguardo. Non avevo questa sensazione di disagio e di intimidazione dal tempo in cui fui beccato dalla preside a fumare uno spinello nel bagno della scuola, lasciai perciò agli autisti il piacere di sfidarsi.
Lo sguardo della leonessa è considerata una delle forze più potenti del regno animale.
Parlai con gli altri autisti e pianificai l’incontro al campo alle 20:30. Noi facemmo una piccola deviazione. Saltammo la visita dai ghepardi e dai rinoceronti e puntammo dritti verso il fiume Galana.
– Tutafika saa ngapi, John? – chiesi temendo di perderci il tramonto.
– Saa moja kamili, Chengo! – annuì lui con aria complice.
Arrivati sulla sponda nord del fiume ci accostammo ad una giardinetta di rangers.
Uno di loro, un graduato di Mambrui che mi conosceva, venne a salutarmi e mi chiese da fumare, io gli allungai tre puzzolentissime sportsman e 500 scellini e gli domandai se avesse acconsentito a concedermi un oretta a terra.
Era assolutamente vietato scendere dalle vetture fuori dai campi, ma considerata la presenza della pattuglia armata facemmo questo strappo.
Ci sedemmo su una roccia lavica proprio sotto la collinetta che dominava il tratto dove si formavano le rapide Lugards. In lontananza il sole si preparava ad uno dei suoi spettacolari tramonti equatoriali.
Il panorama era mozzafiato. La savana era una distesa arancione sterminata e all’orizzonte, dietro le sagome dei baobab e delle acacie , l’imponente kilimangiaro si stagliava nitido e solenne.
Una coppia di fenicotteri rosa ci osservava diffidente mentre ora una lieve brezza rendeva l’aria del pomeriggio piu respirabile.
Giusy Rosy Mary era visibilmente agitata ma anche molto affascinata dal paesaggio e dalle mie storie.
I rangers che parlottavano poco distanti dietro di noi la tennero tranquilla fino a che non sentimmo un frusciio nell erba poco distante in basso. – Oddio! – esclamò aggrappandosi a me – C’è una bestia! –
Dopo alcuni attimi in apnea, intravedemmo in mezzo a un cespuglio, un porcospino intento a rovistare in una tana di qualche grosso insetto. Ridemmo, lei sospirò e rimase ancora per qualche attimo avvinghiata al mio braccio. Era quasi fatta.
Quando ci ricongiungemmo al resto del gruppo si scatenò immediatamente il torneo nazionale della battutina più idiota.
Il farmacista stronzo ebbe subito la meglio in quanto a volgarità e malizia nonostante l’agguerrita concorrenza dei due dobermann che però utilizzarono espressioni dialettali non regolamentari e dovettero accontentarsi di una seconda piazza ex aequo con un tizio che aveva l’espressione di una testuggine gigante. Simulandomi divertito decisi di accettare quegli acidi sfottò, in quanto la tipa non pareva dopotutto troppo in imbarazzo ed era del tutto comprensibile che il mio tentativo di rimorchiare la ragazza più carina della spedizione li avesse gettati nel più classico dei rosicamenti.
Partimmo alla volta del Salt Lick Lodge che ci avrebbe ospitato per la notte.
Ai turisti piaceva molto qell’orrendo manufatto della Hilton che deturpava, strafottente e tronfio, tutto il silenzioso sogno di una natura così poeticamente selvaggia.
Era composto da una sorta di enormi bungalows a due o a tre piani dal tetto conico e dislocati irregolarmente nell’idea piuttosto kitsch di disegnare nelle forme e nel concetto un villaggio di capanne.
– Tutto sommato – pensai – come primo giorno poteva andare peggio.
Immaginavo cosa sarebbe potuto accadere se avessimo beccato la pioggia, o peggio ancora una transumanza di bufali o di gnu.
Ma il peggio doveva ancora arrivare.
Il lodge era ormai a meno di un chilometro da noi e nonostante fosse quasi completamente buio si intuiva qualcosa di strano. Arrivati nel piazzale realizzammo.
FLYING STAG-BEETLES! Cervi volanti! Tanti. Troppi. Dappertutto. Una vera e propria invasione.
Schifosissimi bagarozzi cn le ali, grossi e invadenti.
I primi li vedemmo sbattere sui finestrini ancora prima di scendere. Le nostre facce erano tutte tirate in una smorfia di disgusto. Mi affrettai a fare entrare tutti nella hall e mi lanciai dentro anche io.
La situazione all’interno era ancora peggiore. Mi riparai con la cartella portadocumenti e mi recai, lanciando un paio delle mie imprecazioni, al banco della reception. Era circondato da una nuvola di quei scarafaggioni cornuti. Ci volle poco per capire che tutto l’hotel era sotto assedio. L’uomo che ci diede le chiavi ci assicurò che le stanze da letto erano state bonificate. Mi girai alla mia sinistra dove gli ospiti attendevano e glielo comunicai. Erano tutti fissi con lo sguardo in un punto oltre di me….in basso. Mi voltai e vidi. Lo stretto corridoio che portava agli ascensori era tutto un brulicare, tanto che la moquette, che immaginai fosse rossa ,era completamente ricoperta da quegli insetti. Cercai di abbozzare un sorriso e dissi al gruppo
– Bene, signori, poggiate pure a terra i vostri bagagli, il nuovo servizio di trasporto automatico dell’hotel ve le recapiterà direttamente negli alloggi! –
Nessuno ormai rideva più alle mie stupide battute. Anche io cominciai a non essermi più tanto simpatico. Phil Collins mi lanciò uno sguardo pieno di disprezzo e poi chiese a brutto muso di far mangiare la comitiva: io tremai al pensiero.
Il grande ristorante circolare era stato attrezzato con zanzariere su ogni tavolo e avevano utilizzato la stessa copertura anche per il buffet.
Fuori da questi baldacchini trasparenti era la guerra.
Uno svolazzare continuo.
I cervi volanti, essendo pesanti, non volano per niente agili. Tracciano traiettorie imprevedibili e questo rende impossibile schivarli. La cena consisteva in un percorso ad ostacoli che prevedeva il rifornimento al buffet e la corsa al proprio tavolo il tutto cercando di raccogliere sulle proprie pietanze il numero minore di quei brutti scarrafoni. Io al terzo tentativo rinunciai. E rimasi a mangiare direttamente con la biondina in piedi al tavolo del buffet.
Apprezzai in lei lo sforzo che fece per superare quella difficile situazione senza dare di stomaco. La cosa nauseabonda non era tanto il fatto di avere quei cosi addosso quanto il “crack” che producevano quando inavvertitamente li calpestavi.
Tutta la cena si svolse in pochi minuti e tra le proteste generali. Dal canto mio cercai di far comprendere che fenomeni del genere fossero totalmente al di fuori di ogni tipo di previsione e che nella savana esistevano minacce peggiori di qualche innocuo scarabeo alato. Ma non servì a nulla.
Alla fine condussi gli ospiti nelle loro stanze e mentre davo loro le ultime istruzioni ispezionavo scrupolosamente dentro ogni armadio e sotto ogni letto. Sapevo che questa pratica invece di tranquillizzarli li gettava nel panico, perciò nella stanza di Phil Collins sfoderai addirittura il pugnale che tenevo alla cintura e aprii la grata dell’aria condizionata con esagerata cautela. Credo che per un attimo fu tentato di chiedermi cosa avessi temuto di trovare li dentro, ma a causa di un improvvisa paralisi respiratoria non lo fece. Io gli feci l’occhiolino, gli augurai la buona notte e uscii.
Era giunto il momento della sesta imprecazione.
Una doccia dopo ogni giorno passato nello Tsavo puo’ durare anche nove ore. Peccato che l’acqua calda non sia mai sufficiente e la tua pelle rilasci anche dopo settimane quella sottile sabbia rossa che penetra in profondità fino agli organi interni.
Mi infilai un paio di pantaloni di lino e una camicia pulita.
Mi procurai una bottiglia di vino bianco e bussai alla porta di Giusy, Rosy o Mary.
Era un incanto.
Stava con la testa inclinata intenta ad asciugare i capelli con un telo di spugna rosa. Indossava solo una cortissima canottierina azzurra che le lasciava nuda completamente la pancia e un paio di pantaloncini bianchi. Era visibilmente contenta di vedermi. La baciai sulla guancia e sentii la fossetta del suo sorriso sotto le mie labbra.
Respirai il suo profumo. C’era una luce diversa nel suo sguardo e i suoi capelli biondi e umidi, ora sciolti e spettinati, le davano un aria meno da bambina e decisamente piu provocante. Glielo dissi con un occhiata molto compiaciuta che la divertì.
Parlammo un po’, lei dal bagno e io dal terrazzino, di quella lunga interminabile giornata. Io riempii due bicchieri e l’attesi fuori, in piedi, sotto la tenda del balcone. Lei raccolse il suo bicchiere dal tavolino in vimini, si appoggiò alla balaustra e contemplò la vista sospirando.
I lampioni dell’albergo illuminavano quasi tutto il grande stagno sottostante mentre i suoni della notte erano la perfetta colonna sonora per un momento come quello. Le sfilai il bicchiere dalla mano e dopo averglielo posato sul tavolo la baciai. Ricordo che fu tutto molto tenero. Lei mi raccontò della sua vita e di come avesse sempre sognato un avventura come questa. Io avrei voluto dirle che a me non capitava ogni volta di finire nelle stanze delle clienti ma capii che a lei, in fondo, non importava. E quindi evitai.
Ci risvegliammo stretti l’uno nell’altra in quello scomodissimo lettino. Lei aveva indosso solo il suo splendido sorriso. Le ordinai la colazione in camera e mi rivestii. Sgattaiolai fuori e dopo una veloce doccia, racimolate le mie cose di corsa andai al ristorante. Servivano la colazione in quel momento. Fui sollevato dal fatto che dei cervi volanti non c’era piu alcuna traccia. Svaniti. Volati tutti via. Il personale dell’albergo aveva avuto un gran dafare nel ripulire tutti gli edifici dai resti di quegli insettoni. Ma ora la situazione era tornata nella normalità e si prospettava un altra caldissima giornata di safari in quella sperduta parte dell’africa equatoriale. Io ero di un umore splendido e ripensavo alla notte appena passata. Salutai tutti con euforia e perfino il farmacista stronzo mi sembrò più simpatico. Prima di ripartire condussi tutti nei sotterranei dell’hotel per un bel bird-watching mattutino.
I cunicoli portavano a delle piccole postazioni interrate al centro dello stagno. Anch’esse con il tetto conico. Emergevano di una trentina di centimetri sulla superficie, l’altezza necessaria per osservare con un angolo di 360° l’area circostante. Fummo fortunati.
Quella mattina una famigliola di grandi cicogne e uno splendido esemplare di ibis ci concessero un fantastico servizio fotografico.
Mi abbandonai anche io a quella vista tanto che trasalii quando sentì una mano sfiorare la mia.
Era la piccola Meg Ryan pugliese che mi danzava intorno lanciandomi sguardi languidi e sorrisi intrisi di complicità.
Il secondo Game Drive fu ancora più faticoso e io masticai marungi tutto il giorno. Avvistammo tutti gli animali mancanti all’ appello compreso un raro esemplare di rinoceronte bianco.
Tornammo al White Elephant poco prima di cena. Adriana era li che ci attendeva sotto la pagoda. Gli aperitivi erano serviti. Saltai giù dal mio mezzo, diedi il cinque a john e salutai con un cenno gli altri autisti.
Tirai fuori dallo zaino la scatolina che avevo custodito gelosamente e gliela consegnai.
– Un pensiero per te, Adri! – le dissi sfoderando il piu plausibile dei sorrisi adulatori.
Lei mi guardò sorpresa e ringraziò.
Mentre mi dirigevo al mio bungalow la sentì trasalire in lontananza. I cervi volanti uscirono dalla scatola e le volteggiarono intorno un attimo prima di dileguarsi nella vegetazione.
Io mi svuotai le tasche delle ultime imprecazioni rimaste e sorrisi sollevato.
Il cielo era pieno di stelle. Mi scappò un sospiro.
– Mercoledì – pensai – Domani ostrichette gratinate per pranzo!
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