di Fabio Iuliano –
Il primo contatto con la frontiera israeliana lo abbiamo avuto in Betania, sulle sponde del Giordano – o di quello che è rimasto di questo fiume dopo secoli di siccità. In corrispondenza del sito dove si ritiene ubicata la fonte battesimale di Gesù, ci sono due punti di confluenza dei turisti nelle Holy Lands, quello della riva giordana e quello della riva israeliana. Abbiamo raggiunto il fiume in mattinata partendo da Amman e lasciando la macchina in un apposito parcheggio da dove ogni giorno si muovono
Raggiunta la macchina, ci mettiamo in marcia per il Mar Morto, poco più a sud dell’estuario del Giordano. Lo scenario è a dir poco suggestivo, centinaia di persone a ridosso delle rive o dentro l’acqua. Uomini e ragazzi sono in costume, mentre le donne indossano gli abiti di tutti i giorni e – se decidono di entrare in acqua – lo fanno rigorosamente con tutti i vestiti addosso. D’altra parte, pur essendo un paese relativamente ancorato alle proprie origini, la Giordania ha dimostrato negli ultimi decenni una grande apertura all’occidente. Questo è servito sia ad arginare in parte i pregiudizi verso la cultura europea e americana, sia a far penetrare – anche troppo forse – mode, tendenze ed elementi di life-style del tutto esterni a questa cultura. Certo, le differenze di attitudini tra i due sessi sono evidenti; ma questo è anche frutto di un background tradizionale a cui è legata tutta la società. C’è di più, i due sessi condividono le stesse opportunità nel mondo del lavoro e nella vita sociale di un certo livello.
Chiusa parentesi, torniamo al Mar Morto; neanche noi sappiamo resistere alla tentazione di fare il bagno nell’acqua più salata del mondo. Una ragazzina irachena di 7-8 anni si fa avanti tra la gente che si asciuga al sole. Ha in mano dei pacchetti di fazzoletti che vende per 10 piastre (praticamente nulla). Ci racconta che suo padre è in Giordania per curarsi da una ferita di guerra e che lei fa questo per vivere. L’eco delle sue parole ci accompagna per tutto il viaggio di ritorno ad Amman.
Quella sera, rientrati in albergo, abbiamo avuto il tempo di studiare l’itinerario del giorno seguente. Destinazione Gerusalemme, nel cuore della Terra Promessa.
L’indomani, partiamo prestissimo dalla capitale e guidiamo in destinazione Giordano oltrepassando il sito battesimale visitato circa ventiquattro ore prima. Siamo diretti alla barriera israeliana, che chiude alla Palestina l’accesso diretto all’altra sponda. I nostri amici Walid e Saleem ci salutano qui, perché per loro accompagnarci sarebbe veramente un’impresa a causa dei problemi di visto. Ci diamo appuntamento indicativamente verso le quattro del pomeriggio, visto che la frontiera chiude alle 15.00. Sono in molti a sconsigliarci questa gita, a cominciare proprio da Walid e Saleem, se non altro perché il tempo a disposizione per andare e tornare è veramente esiguo. Ignari di tutto quello che ci attende alla dogana, ci infiliamo nel primo autobus per trasporto persone che viaggia dall’altra parte. Dopo un’ora di attesa nell’autobus, dove se non altro, abbiamo modo di socializzare con Ether, una ragazza di Nablus che vive facendo avanti e dietro con la Giordania,
L’attesa in coda è estenuante, la ragazza ci spiega che è routine e che situazioni come queste possono sbloccarsi o protrarsi per tutta la giornata. In pratica, per passare la frontiera ci si può impiegare un’ora come venti.
Le spieghiamo che è nostra intenzione di andare e tornare in giornata. L’unica cosa che lei riesce a dirci è ‘welcome to occupied lands’. A questo punto si introduce nella conversazione un ragazzo tedesco che ci informa di voler restare a Gerusalemme per la notte, in quanto una volta chiuse le porte della città è impossibile uscire ad esseri umani comuni. Noi insistiamo nel voler andare e tornare, in quanto in serata è categorico essere ad Amman, pronti per partire a sud alla volta di Petra, Acaba e Wadi Rum.
Quando ci chiedono di scendere per il
Ci fanno scendere, quando è già mezzogiorno e ci mettiamo in fila pensando di essere alla fine del percorso-dogana. Nulla di più sbagliato, ci chiedono i passaporti e ci chiamano per nome, uno ad uno. Senza motivo, mi chiedono di lasciare la borsa con la telecamera in mezzo alla hall di accoglienza, la recupererò solo a trafila conclusa – esattamente quattro ore dopo.
Neanche con un taxi, noleggiato per tutto il tragitto fino a Gerusalemme andata e ritorno, riusciamo ad entrare in città. Dobbiamo accontentarci di una vista panoramica dal Monte degli Ulivi. Non abbiamo il tempo di fare altro. Di ritorno al ponte dobbiamo fermarci per il check point. Il soldato che ci controlla i passaporti guarda la data sui nostri visti e ci dice che è strano di vedere gente che si trattiene così poco. “Come back, you’re welcome any time…”, ci dice. In una mano ha un mitra, nell’altra un cerca-bombe.
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