di Adriana Lazzini –
Adesso scrivo, sì. Muro del Pianto (Gerusalemme), ora locale 12.58 di domenica 20 maggio. Dopo il Santo sepolcro, dove la tomba di Cristo mi ha valso un nodo alla gola e l’affiorare di lacrime agli occhi, e il Golgota che mi ha richiesto un inchino e indotto un istintivo namastè, questa è la seconda meta del viaggio in cui l’emozione s’impone. Ci sono occasioni in cui gli occhiali scuri ti diventano schermo utile alla maldestra fragilità umana che non controlli – se mai avessi avuto anche la sola e ostinata presunzione di controllarla – e di colpo perdono il loro aspetto carismatico di gadget consumistico a completamento del look occidentale, ma solo servono a coprire il tuo pudore.
L’occhiale allora ti scherma e diviene filtro fisico, trincea innalzata a difesa fra le tue emozioni e gli altri, si trasforma in un alleato, tu e lui siete in una dimensione vostra, quella della separazione nascosta dagli altri.
Muro, wall, the wall, Pink Floyd, muro di Berlino, divisione, divisioni, emozioni… E’ la storia che sta dietro che emoziona, e lì è forte, è tanta, ti parla, con un impatto pari alla grandezza cubica dei massi di quel muro, imponente, c’è stata, lì come altrove, la storia, con un tale succo, una tale essenza, di luoghi, facce, uomini e cuori, che non puoi uscirne indenne, indifferente. E’ più della diaspora ebrea quello che si sente qui, è più del millenario scontro fra popoli e chi cerca la terra promessa, è più del culto, di Maometto dietro al muro o altri dei o i grandi o gli umili senza nome, è un sentire ulteriore, sempre e di tutti, minuscoli o giganti che siano o siano stati, passati, che passano o passeranno su questo globo nella loro vita terrena breve o lunga lasciando uno strascico, una sbavatura di lumaca o un’impressione forte come l’orma di Cristo che si dice sia passato di qui. Non conta quanto ma come. La terra che a tratti mi pare così malferma nel suo stare attorno all’inquietante nucleo magmatico e a volte, invece, così solida e rassicurante nel suo stare continentale su mari e oceani.
Ascolto dentro il mio silenzio e il mio rumore assieme, e la storia mi fa effetto come la caffeina che da anni assumo poco o niente, perché più il tempo passa e meno palliativi voglio, perché non voglio più dipendenze, perché non voglio niente. Perché aspiro solo all’essenza pura della sensazione, senza aggiungere né togliere nulla, nessuna attribuzione in più.
C’è una divisione qui. E così inizia la storia, sempre, con la divisione; il bambino che si divide dal ventre materno, penso. Uomini da una parte, trovandosi di fronte al Muro del Pianto la più grande a sinistra, le donne dall’altra. Separati da un alto parapetto metallico dipinto color oro.
Mi piace la differenza (che non è la divisione), mi piacciono le differenze, perché lì c’è gusto. Mi provocano la stessa acquolina in bocca delle lasagne se ho voglia di pasta o del tiramisù o della cioccolata se ho voglia di dolce. Delle differenze e della diversità che porta un cambiamento abuserei sempre come dell’amore, non ne farei mai a meno. Sempre e mai, assolutismi che ho usato, lasciato, ripreso e sospeso, in un altalenante odio-amore.
Il pavimento è fatto di lastre di pietra, quasi lucide, una specie di salotto del mondo, pattinato da piante di piedi di migliaia e migliaia che da ogni parte qui passano, trasportando gente che onora il suo culto o no, o che è solo lì per vedere, sentire, esperire… la storia. Il culto, quello spazio dentro cui l’uomo si rifugia, perché ne ha bisogno, per non sentirsi piccolo, smarrito e meschino, o solo, dentro al suo destino breve, mortale e greve.
Mi faccio spazio tra chi oscilla in maniera autistica con la Torah in mano e la recita in preda ad un’apparente e distaccata ipnosi. C’è compostezza qui, raccoglimento, tra l’occasionale squillo di un cellulare e un colpo di tosse o uno starnuto, invece i maschi di lato urlano, invadenti e fastidiosi, innalzano preghiere vociando, cantano i loro inni. Qualche uomo s’arrampica sul divisorio e scatta qualche foto verso noi donne con la fotocamera digitale, forse immortala la moglie o la figlia. Avvicinandomi al muro evito chi cammina all’indietro per riverenza simbolica. Riduco ancora la distanza tra me e la pietra dura, solida, solidissima, di un beige chiaro diffuso, a punti disomogeneo, che restituisce una colorazione unica che è poi quella di Gerusalemme tutta. Sento qualcosa sotto i sandali, piccoli rilievi morbidi, sono i biglietti caduti dal muro, li vedo tra la pietra screziata, ruvida, scavata, graffiata, ma al tempo stesso uniforme, sono tanti, tantissimi. Foglietti lasciati lì, pieni di speranza. Mi avvicino ancora e li vedo aumentare tra le pieghe della pietra, spuntare nella visuale che mi sono ritagliata fra le teste delle donne, lì intente pregare e parlare col loro muro. Una protende il cellulare e si sente la voce di qualcuno che da chissà dove nel mondo recita una preghiera; è una voce d’uomo, si sente distintamente, ma non doveva stare dall’altra parte? Come si vede le regole possono essere sempre infrante.
Qualche ingegnosa ha fissato al muro i suoi foglietti col chewingum. Non riesco a immaginarmi questa cosa.
Dopo aver studiato la mia feritoia preferita, verticale, consegno al muro anch’io i miei tre foglietti (uno mio e due di mia figlia). Mi sembra davvero bello lasciarli lì. Bello. Allungo la mano e tocco il muro col palmo aperto, lo fanno tutti, lo faccio anch’io. Non vi appoggio la testa, non prego, aspetto il muro, che il muro mi parli e dica qualcosa. Ascolto. Colpisce il raccoglimento di chi prega. Vedo una donna col volto compresso sulle pagine della bibbia, la bibbia sta tra la sua faccia e il muro, lei mantiene premuto il viso sul testo e schiaccia forte questo tutt’uno sulla parete. Prega, recita o riferisce qualcosa al muro… forse aspetta anche lei qualcosa? Non lo so, ma non la invidio. Non so perché ma questo è ciò che provo, la non–invidia. Forse perché immagino che tali espressioni di veemenza originino sempre dal dolore, ed esso in qualche modo ancora lì si trattenga, avendo la sua sede trovato.
Le mie sensazioni arrivano subito, il muro mi parla. Prima cosa, sento fresco. Strano: è caldo, qui fa caldo. Il sole è leggermente velato e tira un po’ d’arietta, a tratti invadente, ma la giornata è estiva, mite. Un pensiero mi piomba in testa senz’avvertirmi, qualcosa come “il muro è freddo, non ha storia”. Una contraddizione a cui non ero pronta mi si attorciglia in testa, come un serpente pungolato con un bastone, non la domino. In una cordata mentale si formano in velocità nodi che intuisco dovrò sciogliere ma non so se vi riuscirò, né quando né come. Allora non trattengo il pensiero che ha già iniziato, senza aspettare il mio consenso, a fluire a ruota libera: “siamo tutti oggetti e non soggetti di una storia fredda”, una specie di minestra riscaldata del giorno dopo, che all’apparenza ti può anche ri-piacere e magari, se è una pasta coi fagioli, sembra anche aver guadagnato gusto. Ma alla fine è pur sempre minestra riscaldata. Non c’è niente di nuovo. E allora provo un po’ di sconforto, anch’io solita visitatrice tra mille che si alternano in un turn over turistico interminabile, con la mia storiuncola, come tutti con la loro storiuncola, rassicurante (a volte si a volte no) e un po’ ridicolo cronachistico guscetto mentale. Quanta minuscolineria, penso; proprio qui (rifletto sul mio pensiero) dove la storia è maiuscola e magnifica.
Allora mi concentro sulla seconda sensazione che arriva, di ruvido ma al contempo di liscio. Questo sì, mi piace. Apprezzo questa duplicità racchiusa in un’unica impressione tattile. Mi lascio incuriosire dalle molte mani appoggiate al muro. Ancora la diversità mi affascina e rapisce: vicino a me una signora ha dita nodose, come di mani stanche, pelle olivastra, rugosa. Mi smarrisco un po’, vorrei esser più compita qui, magari pregare, sì pregare sarebbe opportuno in un luogo così, adeguato. Invece osservo ancora e poi attratta dall’affettività verso i miei tre bigliettini, decido di fotografarli per portarli fedelmente con me in ricordo. Poi aggiungo un pensiero sulla mia fortuna: non ho dolori grossi da raccontare a questo muro. I miei dolori, sono inezie, episodica insonnia in questo baleno di vita fatta di sogno e veglia apparente.
Stacco la mano dal muro, con un gesto netto e quasi abituale come la spina del phon dalla corrente finito di asciugarsi i capelli. Li raccolgo di lato, i miei capelli, fa caldo. A Gerusalemme ho visto molte ragazze con i capelli raccolti da una parte, con una coda o la treccia, forse è di moda.
AL