di Mario Boschetti –
Sono le sei del mattino,la grande piazza va lentamente animandosi. Sui marciapiedi di Chichicastenango decine di persone raggomitolate sotto coloratissime
coperte iniziano una nuova giornata. Hanno dormito riparati alla meglio, stretti l’uno all’altra per difendere se stessi ed il più piccino dei figlioli dal freddo pungente e dall’umidità della notte. Ora vanno al mercato chini sotto il peso di enormi fagotti variopinti, sorretti sulle spalle dal mecapal, una cinghia in cuoio passata sulla fronte.
Arrivano dai villaggi della sierra, il grande altipiano dimora di tutti gli Indios.
Deposto il carico, ancora curvi camminano fino alla chiesa che biancheggia alta sulla piazza.
Dentro, quasi al buio, uomini dai volti duri, spigolosi, dagli occhi velati dalla fatica e dall’alcool, inginocchiati sul nudo pavimento di pietra pregano un loro Dio, che non è quello imposto dai nuovi signori, ne quello antico dei padri, ma un miscuglio tra i due.
Gli raccontano ad alta voce con le parole semplici di chi ha fede, le fatiche, il dolore, le mille difficoltà di ogni giorno. Gli dicono quanto costa il biglietto della scalcinata corriera che in interminabili ore di viaggio li ha trascinati lungo la scapitassimo e dirupata traccia chiamata strada,dalle aldeas, i villaggi sulla sierra, fino a questo paesotto capoluogo di regione e sede del più importante mercato.
Lo pregano implorando la grazia di vendere al meglio la loro povera mercanzia, ricordandogli le offerte, le preghiere, i voti, mostrandogli le mani callose che reggono le candele colorate e la bottiglia del guaro, l’aspro liquore distillato dal mais.
Porgono a Dio le offerte dovute agli antichi dei, ed alla madre terra offrono il primo goccio di liquore. il fumo del copal, la resina usata a mò di incenso vela appena i sgargianti costumi delle donne, volti ramati, capelli corvini, labbra serrate in un atavico silenzio, sguardi impenetrabili senza tempo …
Sono Indios Maya del Guatemala.
Fuori in una indescrivibile esplosione di colori si anima il mercato, per la gioia dei turisti che brandeggiando fotocamere e cineprese rubano immagini di volti senza sorriso, quasi estranei allo loro stessa realtà.
Per l’indio i turisti ed i ladinos non appartengono al suo mondo, alla sua vita, essi vivono in una specie di realtà parallela ed inaccessibile, sconosciuta e favolosa, lontana dal villaggio e dalla fatica del vivere di niente.
Da quando nel 1524 Pedro De Alvarado conquistò queste terre alla corona di Spagna il popolo indio del Guatemala ha conosciuto solo violenza e prevaricazione, e sopravvive ultimo popolo autoctono dell’America centrale, solo perché costituisce una riserva di manodopera a buon mercato per i latifondisti , che in pochissime famiglie controllano la quasi totalità del reddito nazionale, lasciando sotto la soglia della povertà oltre il 70% della popolazione guatemalteca.
Durante la progressiva conquista spagnola, spesso spalleggiata da una Chiesa prona ai potenti dell’epoca, gli Indios vennero spogliati di tutti i terreni produttivi e costretti a ritirarsi ai margini delle terre fertili del latifondo, le encomiendas, ossia le concessioni che la corona di Spagna dava agli avventurieri ed ai figli cadetti dei nobili spagnoli per lo sfruttamento dei nuovi territori e degli indigeni in esso residenti.
Si trattava di un sistema prettamente feudale che assumeva caratteri schiavistici e che ha condizionato fino ai nostri giorni l’economia e la connotazione sociale dell’intero paese.
Nei primi decenni di questo secolo la diffusione della monocoltura della banana da parte della compagnia statunitense United Fruits e di quella del caffè nella zona montuosa da parte di ricchi immigrati europei hanno sottratto altre terre alla popolazione locale perpetuando il sistema di disumano sfruttamento. Ricominciano così ulteriori persecuzioni sfociate nella guerriglia e relativa reazione degli ultimi decenni, che secondo stime ufficiali ha prodotto decine di migliaia di morti tra la popolazione India.
Ancora oggi i Maya di tutte le etnie del Guatemala si ritrovano a non avere di che vivere, loro maggioranza della popolazione guatemalteca, sono relegati tra montagne dove il lavoro è aspro ed il raccolto occasionale. Contadini senza terra sono costretti a vendere la sola cosa che loro è rimasta, la forza delle braccia.
Nelle fincas, le enormi piantagioni della costa, durante il periodo dei raccolti vengono ammassati a migliaia, di tutte le etnie, nella più totale promiscuità in baracche senza acqua e in condizioni igieniche facilmente immaginabili.
Uomini, donne, bambini sono costretti a lavorare dall’alba al tramonto ricevendo come compenso solo qualche tortillas e pochi fagioli.
Il poco denaro loro dovuto servirà a pagare i debiti contratti con gli usurai per poter sopravvivere alla scarsità del raccolto, alle malattie, alle disgrazie cinicamente sfruttate dagli engagiadores, emissari dei fincheros, i latifondisti.
Il lavoro in un clima torrido ed umido porta spesso a malattie, la fatica disumana all’alcoolismo favorito dai guardiani che speculano sulle vendite, ingenerando così una spirale di dipendenza che può portare una famiglia ad essere vincolata per tutta la vita al servaggio per debiti.
Finito il raccolto gli indios torneranno alle aldeas, per coltivare la milpa , il mais nei poveri campi strappati alla montagna.
Quando poi il cibo comincerà a scarseggiare dovranno migrare nuovamente per saldare il vecchio ed il nuovo debito, moderni schiavi schiacciati dalla feroce logica del profitto.
Sarebbe impossibile per chiunque riconoscere nella massa lacera dei braccianti delle fincas gli Indios variopinti e folcroristici dei depliants turistici.
In questa situazione di miseria e degrado umano nello scorso ventennio si è via-via sviluppata una ideologia marxista che attraverso la guerriglia mirava a realizzare una società più equa.
Violenza chiama violenza e la volontà di perpetuare le prevaricazioni e gli antichi privilegi imposti all’epoca della colonizzazione ed i nuovi imposti dalle multinazionali della frutta e del caffè – i veri
padroni del Guatemala, di cui hanno sempre controllato classe politica ed esercito -ha portato ad una repressione che non si è ancora totalmente placata.
Durante gli anni peggiori interi villaggi sono stati rasi al suolo ed addirittura bombardati, le popolazioni, brutalizzate e trasferite ed ammassate d’autorità in nuovi villaggi, dove la gente poteva essere più facilmente controllata.
Migliaia di persone sono scomparse, ammazzate, costrette a rifugiarsi nel confinante stato messicano del Ciapas, dove per sopravvivere hanno dovuto competere con i fratelli Maya di altre etnie, contribuendo ad ingenerare quella situazione che è esplosa nelle rivolte del 1995.
Nell’ultimo decennio la comunicazione di massa ha portato alla conoscenza di molti la miserabile situazione del popolo Maya, obbligando i responsabili delle politiche mondiali a prendere partito nonostante la continua opposizione delle lobby di potere legate alle multinazionali di frutta e caffè.
Gli organismi internazionali sono riusciti ad imporre con grande fatica una nuova e più democratica politica ed un rispetto almeno formale dei più elementari diritti umani al governo del Guatemala, che forse per timore di perdere il treno degli aiuti, interessati o meno dei paesi ricchi, ha allentato la pressione sul popolo Indio.
La scoperta di giacimenti petroliferi nella foresta del Peten ha spostato il baricentro economico del paese ed aperto una nuova frontiera allo sviluppo ed agli investimenti.
La guerriglia si è fermata, anche se rimane la paura sulle montagne si ricomincia a vivere ed a ricostruire le aldeas distrutte. Missionari, volontari ed organizzazioni umanitarie stanno aiutando i Maya ad uscire dall’isolamento e dall’ignoranza dove è stato costretto da cinque secoli di oppressione . La cultura India sta per essere finalmente riscoperta ed un nuovo orgoglio di appartenere alla gente Maya si avverte in quella frangia di popolazione che ha avuto accesso all’istruzione.
Un apporto fondamentale alla conoscenza dei problemi dei Maya è stata la lunga lotta personale di Rigoberta Menciù, premio Nobel per la pace nel 1992.
Nell’azione di questa donna analfabeta tutto il popolo Indio grida il proprio dolore chiedendo che il mondo si renda conto della disumana situazione in cui l’avidità di pochi ha costretto i discendenti di quei Maya che mille anni prima della conquista spagnola seppero costruire una civiltà i cui resti sono oggi l’orgoglio del Guatemala turistico.
Se saprà vincere la ragione, se vorremo difendere i diritti di questa gente dalle vecchie e nuove prevaricazioni, restituendo loro la dignità negata da troppe prepotenze, riusciremo finalmente e vedere quei volti tristi aprirsi in un sorriso, fieri delle antiche tradizioni, consapevoli della ricchezza dell’eredità culturale dei padri e dell’essere il popolo Maya.
Palob
La camioneta arranca sulla salita sempre più ripida trascinando il suo peso di carne umana inscatolata tra le lamiere arroventate dal sole.
Già da molte ore non avverto più l’odore acre del sudore, ne quello penetrante dei tamales, gli involtini di foglie di mais dai più svariati ripieni. Alla mia destra un indio scosso da un sobbalzo più violento degli altri, si sveglia e sbadiglia, si stiracchia quanto può, stretto com’è tra tutti noi, si rigira le mani dalle dita grosse, screpolate ed orlate da unghie nere e rotte di chi lavora pesantemente. Dal morral la borsa che tutti gli uomini portano a tracolla trae un’uncinetto e comincia ad intrecciare un’altra borsa che venderà al mercato, la prossima volta.
Più in la una giovane donna nasconde sotto il coloratissimo huipil, la blusa femminile tessuta al telaio, il bambino che fino a poco fa teneva sulle ginocchia e lo sta allattando.
Nessuno parla, la stanchezza di un viaggio interminabile si fa sentire, qualcuno dorme ancora, tutti oscilliamo come un solo corpo al continuo ballonzolare tra i sassi ed i buchi profondi di questa strada.
Improvvisamente appare Nebaj adagiato sul fondo di una valle tra i monti Cuchumatanes, nella sierra, casa di tutti gli indios Ixiles, verde di boschi lucidi sotto la pioggia sottile che cade dalle nubi bianco-rosate del tramonto.
Palob è un piccolo villaggio che dista un giorno di cammino al ritmo lento del mulo di Pa’lus.
La casa di Xun è una baracca di assi giustapposte alla meglio ed il vento della sera vi penetra liberamente facendo suonare il tetto in lamiera che tanto inorgoglisce il nostro ospite.
Dalle mani di Ma’l, sua moglie come per incanto escono tortillas sottili e rotonde.
Ma’l sorride dolce ed orgogliosa del suo uomo che ha amici che arrivano da tanto lontano.
Ha trentasei anni, nove figli e da poco un nipotino.
Come tutti i giorni ha lavorato pesantemente nei campi fino a poco fa, quando è rientrata giusto in tempo per dare la poppata al più piccino, che ora dorme tranquillo cullato tra le braccia della sorellina di pochi anni più grande.
Non ho mai visto una casa così povera ne così’ buia, Siamo seduti su dei sassi sul pavimento di terra nuda e polverosa, stretti attorno al fuoco dove sul comal ricavato dal fondo di un vecchio bidone cuociono le tortillas. Ne abbiamo mangiate molte con fagioli neri, piccanti, ed una golosità, del formaggio portato fin quassù per i nostri amici.
I bambini tacciono, i più grandicelli ascoltano il padre parlare con Marino, il suo amico ladino, dei giorni del terrore e delle speranze del domani. I più piccolo ci guardano e gli occhi ridono alla luce danzante della lucerna ad olio.
Ma’l attenta, cerca di seguire il discorso nella lingua dei ladinos a lei sconosciuta,ne avverte le note tristi, le tensioni, le speranze ; rimane muta nell’ombra a fissarci coccolando tra le braccia una piccina.
…Com’è ricca questa casa.
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