di Nigel Mansell –
C’è la neve e chi se l’aspettava! Dobbiamo vestirci leggeri perché sicuramente giubbotti e maglioni non ci serviranno e non vogliamo certo portarceli a spasso per l’India. La nostra gatta è allarmata: avverte nell’aria la nostra emozione per l’imminente partenza, ancora non sa che per un po’ rimarrà l’unica custode della casa.
Il volo dell’Alitalia è come ci si potrebbe aspettare in ritardo. Mi consolo constatando che in attesa insieme a noi c’è anche la Cucinotta. Nascosta dietro a un enorme paio di occhiali neri, sembra quasi che speri che nessuna la riconosca. In attesa per il nostro stesso volo c’è anche una piccola folla di piloti, assistenti di volo e chi più ne ha ne metta, tutti dipendenti dell’Alitalia. Questa tratta è probabilmente utilizzata anche come trasferimento del personale da Milano a Roma. Nelle loro impeccabili divise occupano almeno metà dell’aereo. Parlano quasi tutti in romanesco, sono chiassosi e anche i più indisciplinati dei viaggiatori, tanto che devono loro stessi essere richiamati dai loro colleghi in servizio, magari per il bagaglio a mano eccessivo o perché non vogliono rialzare lo schienale durante la fase di decollo. Il pilota si presenta dall’altoparlante, l’accento spiccatamente romanesco ne fa quasi una macchietta. Più avanti, durante le fasi di atterraggio a Fiumicino che lo rendono titubante per via del maltempo, viene anche sfottuto dai suoi colleghi.
A Roma cambiamo per la Kuwait Airlines. Nelle fasi di check-in un impiegato compila dei moduli, ci chiede la destinazione, gli diciamo che andiamo a Trivandrum in India. Se lo fa ripetere un paio di volte perché non l’ha mai sentita questa città, poi chiede anche se è in India, infine un lampo di genio gli attraversa gli occhi: passate anche da Bombay? Allora posso scrivere Bombay? No, no, rispondiamo, andiamo a Trivandrum direttamente. Sconcertato scarabocchia qualcosa sul suo foglio, sicuramente si sarà inventato qualche altra città indiana.
Troviamo un aeromobile che alla prima occhiata può quasi sembrare chic ma poi si rivela fatiscente, tutti gli schermi sugli schienali non funzionano o se lo fanno le immagini sono discontinue e la qualità di visione è pessima. In compenso il pranzo non è male, è cucina indiana, per non sbagliare scelgo chicken.
Con un po’ di ansia per la coincidenza di Kuwait City, abbiamo solo mezz’ora di margine, prendiamo un altro airbus per Trivandrum, la nostra destinazione finale nel Kerala, nel sud dell’India. Questo apparecchio si rivela nettamente migliore del precedente, tutto sembra in ordine.
Arriviamo in India che è già domani.

Domenica 4 dicembre 2005

A Trivandrum ha appena piovuto. Quando sbarchiamo dall’aereo ci pare di entrare in un bagno turco, oltre al caldo c’è un’umidità incredibile, non potrò mai più dire che da noi sul Lago Maggiore il clima è umido. Sono le quattro e trenta del mattino ma tutto qui è in fermento come se fosse pieno giorno. Passiamo il controllo dei passaporti e poi c’è il ricontrollo e poi il ricontrollo del ricontrollo. C’è una burocrazia acefala che ti da la sensazione possa tagliare le gambe a qualsiasi iniziativa privata.
Una volta fuori dal modesto aeroporto prendiamo un taxi, una splendida Ambassador bianca come quasi tutti i taxi che troviamo nel piazzale di fronte all’uscita. Sul cofano una sorta di spada sguainata, è un’auto fossile residuo degli anni 50-60 perfettamente funzionante, probabilmente sono ancora in produzione.
Arriviamo a Kovalam nel nostro albergo lo Swagarth dove tutti ancora dormono. L’abbiamo prenotato dall’Italia, nonostante le nostre insistenze ci avevano già avvisati che non ci avrebbero dato la camera così presto. Invece il personale che troviamo è magnanimo, raggiungiamo così il nostro cottage separato dal complesso ricettivo, immerso nel verde del piccolo parco. Intorno stormi di cornacchie non smettono di gracchiare, devono essere a migliaia qui intorno, è una delle prime cose che mi ha colpito dell’India: ce n’è ovunque.
Ci svegliamo verso le dieci e trenta, il tempo di rimetterci in sesto e siamo sulla spiaggia dalla sabbia nera vulcanica dominata da uno splendido faro dalle strisce bianche e rosse, non per niente si chiama Light House Beach.
Con un certo appetito passiamo in rassegna i locali e scegliamo l’ottimo Beatles, cucina tipica presentata però molto bene, con razioni leggermente povere, secondo i dettami della nouvelle cuisine.
Passiamo il resto della giornata sulla spiaggia ed è proprio una grande soddisfazione pensare che a casa abbiamo lasciato un inverno carico di neve.
A sera ci godiamo il tramonto da un locale in riva al mare. Non stacco gli occhi dal sole finché non si inabissa all’orizzonte, sino a quando da rosso, prima di scomparire definitivamente alla nostra vista, assume quasi una colorazione verde: è un attimo, non bisogna distrarsi. Nel frattempo il faro sulla collinetta alla nostra destra che domina la spiaggia si accende.
Penso che tutto questo non ha prezzo. Questa gente pare che abbia poco o nulla ma in realtà ha tutto. Questi indiani hanno tutto ciò per cui noi dobbiamo lavorare magari tutto l’anno, lo hanno qui a portata di mano, ogni sera e tutto questo non si può quantificare, non ha un prezzo. Gli abitanti di qui ne sono consci, alla fine di ogni giornata passeggiano sulla spiaggia felici, gli uomini mano nella mano, con le dita intrecciate: molto, molto strano.
Nel locale sul mare abbiamo ordinato la birra del luogo, la King Fisher. Stranamente viene servita in tazze da caffelatte e poi il cameriere nasconde le bottiglie sotto il tavolo. L’avevamo già notato a pranzo guardano degli altri avventori che l’avevano ordinata. Incuriosito chiedo spiegazioni. Is illegal, risponde il cameriere da me interrogato.
Nel frattempo per strada passano i soliti venditori che a tempo interrompono la nostra vista dell’orizzonte proponendo le loro mercanzie, sono i consigli per gli acquisti: un déjà vu, come quando a casa perdo cognizione di me stesso adagiato sul divano, soggiogato dalla televisione.
In serata piove ancora mentre stiamo cenando al Lonely Planet dove si cucina solo vegetariano. La precaria copertura dopo alcuni minuti inizia a gocciolare acqua da molti punti, ma per fortuna poi cessa di piovere.

Lunedì 5 dicembre 2005

Oggi ci inoltriamo verso nord rispetto alla nostra spiaggia per esplorare i dintorni. Camminiamo tenendo il mare sempre a sinistra, raggiungiamo infine una spiaggia privata dove ci uniamo ai pochi clienti: la giornata anche oggi non è un granché. Decidiamo poi di pranzare in uno splendido locale che si affaccia sulla spiaggia con i tavolini sistemati all’ombra delle palme.
In mattinata avevamo visitato l’ufficio turistico locale dove ci aveva accompagnato un solerte autista di risciò. Questi mezzi altro non sono che le nostre vecchie ape, quelle con il faro ancora sopra il parafango, dove al posto del cassone è sistemato un quasi comodo divanetto che può accogliere due persone. L’autista molto servizievole ci aveva aspettato senza chiedere null’altro, ogni tanto si faceva vedere dalla finestra che dava sul cortile esterno occhieggiando verso l’ufficio, al punto che il funzionario distratto veniva costretto ad interrompere il discorso.
Tornando al nostro pranzo purtroppo è stato interrotto dall’ennesimo temporale che si è protratto per alcune ore. Di tutta fretta ci siamo trasferiti al coperto all’interno del locale che si trovava un pochino più su nella collinetta. Una volta sistemati al coperto, al posto del pavimento abbiamo trovato la sabbia che ben presto è stata rigata dagli scarichi dell’acqua che si rovescia per terra dalla copertura senza grondaie. Mi perdo nell’osservarla, senza la guida dei pluviali si unisce all’altra che arriva in forze dall’altura retrostante. L’acqua è come presa dal panico, si butta all’interno, cerca una via di fuga senza ragionare. Poi quasi incomprensibilmente si unisce a dell’altra che copiosa nel frattempo affluisce. Ora gonfia scorre continua aprendo un solco sotto al mio tavolo. Infine annoiato mi appisolo, mentre sopra le teste la pioggia batte incessante sulla copertura precaria, senza accennare a spiovere. Ogni tanto Anna mi prende in giro e mi sveglia.
La nostra gita che avevamo programmato con il personale dell’albergo è saltata.
Decidiamo di cambiare la nostra sistemazione perché 2.500 rupie sono troppe, l’avevamo prenotata dall’Italia, protraiamo così di un giorno il nostro soggiorno a Kovolam e ci trasferiamo in un altro meno chic, ma vicino al mare che ne costa 800.

Martedì 6 dicembre 2005

Avevamo previsto di lasciare la zona invece questo aggiuntivo è stato uno dei giorni più belli e proficui da quando siamo qui a Kovolam.
Facciamo le valigie e le lasciamo in reception perché come avevamo deciso lasciamo lo Swagarth Holiday Resort affiliato alla Best Western, per una soluzione più economica in riva al mare della Light House Beach. Oggi ci aspettano le Back Water di Thiruvallam. Il nostro autista è già in attesa all’uscita dell’albergo, con la sua splendida Ambassador, naturalmente bianca come tutti i taxi qui. Nel frattempo che attendo che Anna regoli il Bill io faccio i complimenti per la macchina all’autista. Mi dice che nonostante l’aspetto da auto degli anni sessanta la sua ha solo due anni. Poi apre il cofano per mostrarmi il motore, un millecinque diesel, che non deve essere un granché. Deve avere tanta coppia quello sì, ma poi mi persuado che a più di ottanta all’ora non ci arriva; e per fortuna perché le strade così mal ridotte non lo permetterebbero. Arriva Anna e allora partiamo per il luogo dove prenderemo la barca per navigare nei Back Water. Durante il tragitto stradale osservo i fili della corrente sospesi ai lati delle vie. Oramai noi non ci siamo più abituati, da noi li hanno tutti interrati. Mentre si intrecciano sopra le nostre teste, sospesi da pali precari, donano al paesaggio un’aria di tempi passati, di mondi antichi e dimenticati. Quando poi raggiungono i centri abitati si crea il caos, come tanti fili di lana annodati da un gatto dispettoso, non fanno che riflettere la situazione a terra delle abitazioni e delle vie, confuse e congestionate.
Saliamo sulla barca che spinta da una lunga canna in bambù nelle mani di un sapiente barcaiolo si muove velocemente in quello che sembra il canale di un’estesa foce di un fiume. La barca zizzaga da una costa all’altra per permetterci di ammirare la vegetazione di quella che pare una jungla sconfinata. Ci fermiamo per cambiare il barcaiolo, si presenta dicendo di essere il fratello del precedente. Poi più avanti un’altra fermata, dalla vegetazione appare una donna in sari per consegnarci un te molto speziato con il latte: è molto buono. Non pensiamo se i bicchieri in cui beviamo, o il thermos che contiene la bevanda siano puliti, è meglio non soffermarsi su certe cose qui in India, si digerisce meglio e si vive più sereni.
Costeggiamo il mare in un canale che scorre parallelo alla spiaggia costiera. Dalla riva dei canali, a piccoli gruppetti, ci sono le povere ma dignitose abitazioni dei locali, mentre sulla riva del mare ci sono quelle dei pescatori ora intenti a ritirare le reti cantando canzoni marinaresche per darsi il tempo e fare forza tutti insieme. Gli abitanti locali sono molto puliti, li vediamo spesso scendere nei canali dei Back Water, insaponarsi accuratamente per poi lavarsi senza risparmio.
Il barcaiolo ci indica più volte con il dito punti della vegetazione, ai lati dei canali, per farci notare i numerosi king fisher, i martin pescatori. Ora richiama la nostra attenzione per mostrarci dei rapaci pescatori che paiono falchi pellegrini o qualcosa di simile.
Al ritorno dalla nostra escursione traslochiamo i nostri bagagli, ci spostiamo al Pappukutky Beach Resort un nome altisonante per un albergo in realtà non più che onesto. Tralasciando le condizioni del bagno un po’ precarie, si può apprezzare la vista della piccola baia del Light House e il canto incessante del mare. Per spostarci ci avvaliamo del risciò, l’autista alto e magro è lo stesso di ieri, quello dell’ufficio turistico, è come se ci aspettasse, lo incontriamo ogni volta che usciamo. Gli diciamo che ci piacerebbe visitare il villaggio dei pescatori a sud del faro, Vizhinjam Harbour. Per questo ci aveva accompagnato all’albergo portandoci le valigie a mano fino alla reception percorrendo i cinquecento metri di passeggiata dove si può solo andarci a piedi e ha aspettato paziente che noi ci sistemassimo. Il lungagnone poi ci sequestra letteralmente. Appena partiti ci mostra un enorme cratere, in linea d’aria proprio dietro alla spiaggia del faro. E’ il vuoto creato da un vulcano ormai spento diventato una sorta di laghetto, così si spiega la sabbia vulcanica nera della spiaggia. Lo guardiamo dall’alto della strada principale perché è molto profondo. Poi prosegue allungando la strada e ci porta al distributore di benzina dove rifornisce con la miscela la sua ape, così ne approfitta per chiederci un anticipo per pagare. Finalmente ci porta nel villaggio, dove alla sua entrata notiamo una torre con vetrine che lo sovrasta. Dai vetri luridi si intravedono una sopra l’altra le statue della Madonna, San Antonio e qualcun altro che non riesco a riconoscere. Più su, nella sommità dell’abitato, spicca la sagoma della chiesa cattolica di colore rosa, come la torre, in uno stile molto stravagante. Di fronte, dall’altro lato del piccolo porto una grande moschea, cosicché i cattolici guardano i mussulmani e viceversa e tutto in un’apparente tranquillità. Il nostro autista ormai non ci molla più e ci accompagna all’interno del paese per visitarlo; la cosa mi tranquillizza, non mi sarebbe piaciuto andarci da solo con Anna. Attraversiamo l’abitato e capisco cosa può essere la povertà e la pesantezza della miseria in India. La gente pare come ammassata in un pollaio. Nei vicoli, al centro, scorre una sorta di fogna a cielo aperto. La gente pare sospettosa e non molto gioviale come a Kovalam. Entriamo nella chiesa in cima al paese, si sta celebrando un matrimonio. Le donne, ci sono solo loro in chiesa oltre allo sposo, sono bellissime, molte colorate. Del cattolico ha ben poco questo luogo che comunque ispira molta spiritualità. Sembra di assistere a un rito cristiano rivisto in chiave induista. I santi cattolici sembrano la trasposizione delle divinità induiste e i colori e gli odori non sono quelli seriosi delle nostre chiese ma quelli festosi dei templi induisti. Via dal paese il nostro autista ci porta su di un’altura, ci arriviamo percorrendo strade sterrate impraticabili per un’auto figuriamoci per questo mezzo a tre ruote. Una volta giunti in cima ci sporgiamo dalla collina che sovrasta la costa, il nostro autista ci invita ad ammirare la vista. Nell’ordine sotto di noi una stretta valle a V verdissima, probabilmente bagnata da un fiume rigoglioso che non si riesce ad intravedere nella vegetazione, poi la striscia gialla, quasi infinita, di una spiaggia disseminata dalle barche dei pescatori messe in secca e infine l’infinito blu dell’oceano indiano. Scendiamo e ci rechiamo in quella splendida spiaggia che avevamo visto dall’alto. Ci sistemiamo nella parte terminale, quella riservata agli English, che poi saremmo noi occidentali, perché è così che identificano gli indiani. A fine gita, esausti, ci facciamo lasciare sulla spiaggia di fronte al nostro albergo, dove mangiamo e trascorriamo la giornata al mare.
Alla sera andiamo a mangiare il pesce in un locale consigliato dalla nostra guida Routard, l’Island View Restaurant. Locale non molto a buon mercato, ma il pesce è ottimo, noi ci facciamo portare la grigliata mista e la troviamo deliziosa, ci sono anche le aragoste. Nel frattempo orde di bambini divise in vari gruppi, di cui uno si veste da Babbo Natale non paffuto come e rubicondo come lo raffiguriamo noi ma piuttosto esile e gracile, improvvisano canti di Natale per spillarci qualche rupia.

Mercoledì 7 dicembre 2005

Lasciamo Kovolam per Varkala qualche chilometro più su verso nord. Ci facciamo portare alla stazione centrale di Trivandrum, non senza rimanere colpiti dal caos e dal traffico eterogeneo. Moto da tutte le parti, tutti senza casco, camion pesanti al fianco di inermi risciò che sembra possano essere schiacciati da un momento all’altro. Di semafori non ce n’è e tutte le strade si intersecano in modo obliquo per evitare l’imbarazzo dell’incrocio, le auto si intrecciano così diagonalmente: chi primo arriva, strombazzando chiassosamente passa. A una fermata degli autobus c’è anche un grosso vitello tra la folla che attende, ma nessuno sembra prestargli molta attenzione.
Finalmente scendiamo dalla nostra Ambassador, facciamo i biglietti e saliamo sul treno. E’ comunque meglio di quanto ci aspettassimo. Noi sbagliamo vagone e infatti veniamo redarguiti dal controllore, ma non riusciamo a capire quello che ci dice. Penso che siamo saliti su un vagone ibrido, metà vagone letto e metà passeggeri, nel senso che sopra la testa ti ritrovi gente che dorme su brandine studiate apposta per tale uso. Nel soffitto del vagone, nella parte più alta, enormi ventilatori assicurano il ricambio d’aria. Il treno parte e le porte rimangono aperte per tutto il viaggio, nessuno se ne preoccupa, ma il rischio che qualcuno possa anche cadere inavvertitamente al di fuori del vagone durante il viaggio è reale.
Una volta arrivati chiediamo a un tassista di portarci in un albergo che avevamo scelto sulla nostra guida routard. Invece come al solito l’autista fa di testa sua e ci porta al Sea Breeze presso la spiaggetta di Thiruvambad. Solo 600 rupie per una camera senza aria condizionata ma con ventilatore, non è male. Visitiamo poi la località di Varkala che è tutta costruita sulla cresta della scogliera: se metti un piede in fallo potresti ritrovarti di sotto, sulla spiaggia, dopo un salto di almeno cento metri.
Alla sera passeggiamo sulla scogliera, guardo la luna ma non mi sembra la stessa della nostra, da noi quando si dice che è mezza è tagliata in senso longitudinale, qui invece lo è in mezzo, trasversalmente.
Per fortuna che c’è Anna che mi suggerisce sempre i nomi delle località altrimenti non me ne ricorderei neanche uno, poi oltre a conoscere bene l’inglese riesce a capire questi indiani che pronunciano le parole tutte a modo loro, io non capirei quasi niente.

Giovedì 8 dicembre 2005

Abbiamo fatto colazione nel locale a fianco del nostro albergo, quello dove ieri sera avevamo assistito a uno spettacolo di fuochi eseguito da due ragazzi occidentali, due fidanzati abbiamo immaginato, vista l’intesa. Stamattina ci sono anche loro. Dopo colazione immersi in un parco di palme scambiamo due chiacchiere con loro. Lui ha da vendere una splendida Royal Enfield una moto stile anni sessanta che viene prodotta ancora, si potrebbe dire l’equivalente a due ruote dell’Ambassador.
Decidiamo di visitare la spiaggia fino al suo limitare ovest. Il nostro Albergo è gia a ovest della scogliera di Varkala, dove la costa declina fino a raggiungere l’altezza del mare, così ci spingiamo ancora più in là dove il sole sparisce. Dopo la moschea, dalla quale provengono i richiami del muezzin sino al nostro albergo ogni mattina presto, c’è un villaggio di pescatori. Appena ci vedono abbandonano le loro faccende marinaresche e ci chiedono se vogliano grass. Non gli diamo retta e subito ritornano al loro lavoro, che a quest’ora del mattino è più che altro la sistemazione delle reti.
Finita l’esplorazione ritorniamo sulla chiassosa scogliera di Varkala, ci facciamo poi irretire da un venditore di prete preziose. Il suo negozio è freschissimo e abbandoniamo volentieri la calura della costa. Viene dal Kaschmir, ha solo ventidue anni ma il suo lavoro lo sa far bene e alla fine gli compriamo qualche gioiellino. Spendiamo l’equivalente di 100 Euro ma in Italia non ne sarebbero bastati 500.
Facciamo poi un salto in un’agenzia viaggi per confermare il volo di ritorno e ne approfittiamo per farci illustrare sulle bellezze del luogo. Quando parla il ragazzo che sembra il responsabile dell’ufficio, scrive quello che dice anche su di un foglio davanti a lui, così è più semplice anche per me capire. In conclusione acquistiamo il tour con la House Boat. Organizzano tutto loro, risciò, treno ecc. Ci da anche un’idea per il dopo: Fort Bekal e l’accettiamo. Dopo la House Boat andremo là per poi tornare indietro sino a Cochin da dove prenderemo poi il volo per l’Italia.
Oggi è il giorno delle esplorazioni, quindi decidiamo di visitare anche la spiaggia più a Est di quella principale di Varkala. E’ una piacevole sorpresa. La sabbia è un pochino più nera è vero, ma è meno frequentata e le sedie e gli ombrelloni costano di meno, e poi c’è un’aria meno turistica. Ci fermiamo tutta la giornata. In alto sopra le nostre teste volano le aquile che sfruttano la corrente ascensionale del mare ed è un vero spettacolo osservarle volteggiare con il loro collo bianco che spicca sul corpo marrone. (Almeno penso che siano aquile). Come al solito mi abbandono al sole e mi brucio e lo stesso vale per Anna.
Cena al Funky Art Caffè che ci aveva consigliato il ragazzo dell’agenzia viaggi. Qua sembra che sia il locale che va per la maggiore: alla sera è sempre pieno. Una volta lì scopriamo che alla sera ci lavora anche lui, quindi la dritta non era proprio disinteressata. Si scambiano due parole, lui lavora tutto l’anno così da quando aveva undici anni, ora ne ha trentuno. Dice che non smette mai, neanche nella stagione dei monsoni, continua raccontando che non è poi tanto diverso: un giorno c’è il sole e un altro piove. Gli chiedo se non ha paura che un giorno o l’altro la scogliera possa franare e lui mi risponde che è very strong, no problem. A vederla da sotto, dalla spiaggia principale, l’impressione però è tutta un’altra. Dopo cena entriamo nel negozietto di una coppia di tibetani, (ce ne sono molti qua), c’è anche il loro bambino, gioca con una pallina di carta come se fosse il più bello dei giochi, quanta differenza dai nostri.

Venerdì 9 dicembre 2005

Anna si fa fare i massaggi e io vorrei passare il tempo magari consultando internet. Giro qualche postazione, sembra tutto bello e tecnologico ma basta un nonnulla e tutto va insieme. In una postazione trovo un impianto elettrico che fa le bizze, in un’altra il server non funziona: insomma sono costretto a desistere. Vado allora incontro ad Anna.
Mentre attendo che finisca parlo con quello che poi vengo a sapere è l’assistente. Gli faccio molte domande, sono curioso, mi piace sapere cosa pensa la gente del posto. Tra le altre cose chiedo spiegazione riguardo a un quadretto attaccato alla parete: da sinistra verso destra, Gesù Cristo nella versione biondo con barba fluente e cuore raggiante in bella vista, se non sbaglio è la raffigurazione del Sacro Cuore; poi la divinità Indù con proboscide e infine una moschea con simboli islamici a corollario. Mi risponde che lui crede in tutte e tre le religioni, senza distinzione, insomma un bel minestrone mistico, ma se questo può servire a non far scoppiare conflitti come qui pare succeda, ben venga. Poi vista la mia curiosità riguardo il suo segno in fronte, mi segna come fanno gli indù: sulla fronte, sulla gola e sulla testa, l’ultima dovrebbe essere una variante mussulmana però. Quando arriva poi Anna fa lo stesso con lei, con la variante di una riga rossa che taglia in due la fronte che dovrebbe comunicare a chi la guarda che è sposata. L’assistente mi racconta anche della sua amica tedesca, mi mostra orgoglioso le foto di lei sul telefonino che qui hanno tutti come da noi. Gli chiedo il perché di tanti giovani sulla costa, in effetti ci sono pochissime persone mature o anziane, e poi molti di loro si accompagnano con giovani donne occidentali, che poi mi fa pensare che molte di loro vengano qui proprio per questo motivo. Risponde che gli uomini indiani sono liberi, possono avere tutte le storie sentimentali che credono, ma le donne invece devono rimanere illibate per il futuro marito. E’ proprio per questo che i giovani vengono qui a lavorare a contatto con i turisti, per conoscere una civiltà diversa e persone differenti come gli occidentali, ma soprattutto per stringere amicizie particolari con le belle e smaliziate turiste.
Decidiamo di andare a visitare il tempio di Janardhana Swamy, ma invece l’autista di risciò, come di solito avviene, una volta saliti sul suo mezzo ci prende prigionieri. Una volta saliti inizia a sciorinare luoghi e località da visitare a prezzi altissimi, intanto viaggia senza sapere per quale destinazione. Noi abbassiamo la guardia e non bisogna mai farlo. Ci facciamo portare in giro senza chiedere esattamente la tariffa. Ci conduce in un luogo chiamato Golden Island, un’isoletta nel mezzo di un canale di un Back Water con al centro un tempio, appunto il tempio Golden Island. Veniamo trasportati sulla barca da ragazzi saltati fuori dalle palme. Il posto è molto bello. Purtroppo al ritorno ci troviamo a discutere sul prezzo della traversata, mentre il nostro autista in combutta con loro se ne tira fuori. Dobbiamo ricordarci sempre di concordare i prezzi prima, altrimenti gli indiani se ne approfittano non essendoci un listino o un prezziario già stabili e soprattutto considerando che qui il tassametro non viene mai messo in funzione. Essendoci poi venuto a noia il nostro autista dopo l’episodio del prezzo della barca, ci facciamo portare al tempio di Janardhana e lo liberiamo. Ci aveva anche fatto attendere sotto il sole mentre lui si comprava la scheda telefonica che aveva precedentemente consumato facendo lo stupido al telefono con quella che pareva essere la sua ragazza.
Davanti al tempio c’è un enorme vascone dove i locali fanno di tutto: c’è chi si lava, chi fa il bucato o chi nuota come se fosse in piscina. Per noi è un po’ raccapricciante la cosa, ma loro ne godono a pieno di questa riserva d’acqua. Visitiamo il tempio che si raggiunge dopo una lunga scalinata. Quando arriviamo stanno facendo pulizia, possiamo solo osservare da fuori perché chi non è induista non può entrare.
La sera mentre torniamo dal mare, passeggiamo sull’orlo del cliff osservando l’orizzonte oramai quasi invisibile, quanto il sole tramonta diventa buio in un attimo. Questa Varkala Beach mi sembra tutta una follia. Intorno è tutta vegetazione mentre sull’orlo di questo cliff, il precipizio della scogliera, si è concentrato di tutto. Si ha la stessa sensazione che si prova quando si guarda un bicchiere lasciato sul bordo più estremo del tavolo, si ha sempre la paura che qualcuno lo urti inavvertitamente e lo faccia cadere di sotto mandandolo in frantumi.

Sabato 10 dicembre 2005

Inizia a piovere che sono le due di notte. Il rumore del mare e del ventilatore al soffitto che sovrasta il nostro letto, viene coperto dalla pioggia che batte incessante sulle foglie delle palme. Tutti gli animali notturni qui intorno tacciono. Piove per tutta la notte.
Alla mattina è la stessa cosa. Passiamo così una giornata interlocutoria. Appena possibile ci muoviamo, si fanno due passi approfittando della tregua che la pioggia ci ha concesso. Purtroppo questo tempo grigio mi ha messo addosso un’incredibile sonnolenza. Dopo mangiato ricomincia a piovere. Decidiamo allora di tornare in albergo. Chiediamo il conto e come al solito cercano di fare i furbi, invece che 600 rupie ce ne hanno imputato 700 per la camera. Facciamo correggere la ricevuta. Mi ero anche lamentato perché la camera veniva riassettata ogni due giorni, per risposta avevano bofonchiato qualche risposta, forse delle scuse, mi dissero che bastava dirlo e loro l’avrebbero fatta ogni giorno. Allora chiesi formalmente il servizio giornaliero e invece anche oggi hanno fatto come volevano e la camera non è stata pulita. Gli indiani sono così, non dicono mai di no, però alla fine fanno sempre come vogliono e soprattutto con i loro tempi che per noi sono veramente eterni. Sembrano quasi dei bradipi, però se ci penso, se rifletto meglio sulla cosa, concludo che hanno ragione, siamo noi che siamo in errore e non loro. Siamo noi che stiamo sbagliando, abbiamo sempre fretta, vogliamo sempre correre, cercare sempre nuove emozioni, sperando di trovare la felicità e forse quando l’abbiamo tra le mani ce la facciamo sfuggire perché non abbiamo la pazienza di assaporarla e stiamo già correndo in cerca di qualcos’altro.
In questi giorni, guardandomi intorno mentre giriamo per il paese, ho notato nei locali pubblici, negli adesivi sui mezzi che prendiamo o nel parlare con le persone, che qui tutti hanno una religiosità come quella dell’assistente con cui parlai mentre Anna faceva i massaggi. Gesù Cristo è molto spesso accostato ai simboli indù e quelli mussulmani, forse perché essendo qui tutti nel commercio non vogliono fare torto a nessuno o forse perché è proprio questo il loro sentire, in fondo non vedono molte differenze tra le religioni e credono in unico Dio.

Domenica 11 dicembre 2005

Questa notte si è scatenato un incredibile temporale. Tuoni e fulmini come un bel temporale d’estate dei nostri. Poi una saetta più potente delle altre ha fatto saltare tutte le luci intorno.
Ci alziamo alle sei, al buio, perché la luce non è più tornata. Oggi andiamo ad Alleppey ci aspetta la crociera sull’House Boat. Dal balcone del nostro albergo scorgo tra i primi chiarori dell’alba una figura umana con la pila. Avanza sotto la pioggia torrenziale. Scendo a vedere, perché la porta dell’albergo è ancora chiusa, tutto il personale dorme. Non appena riconosco nell’ombra con la pila, quello che potrebbe essere il nostro tassista che ci porterà alla stazione ferroviaria, inciampo in uno zerbino o qualcosa del genere e praticamente gli cado dritto steso davanti ai piedi. Mi rialzo. Il tassista dice che non è potuto venire con il risciò fino a qua, non ne capisco il motivo, non comprendo tutto quello che dice. Penso che sia per via della strada che pare allegata: è tutta la notte che piove.
Mi bagno da capo a piedi sotto la pioggia: sono senza ombrello e chi pensava ne avrei avuto bisogno! Arriviamo al risciò finalmente, io sono rimasto leggermente indietro rispetto ad Anna e al tassista. L’autista grida qualcosa così scopro il motivo per cui non è arrivato sino all’albergo con il suo mezzo. Penzolante sulla strada c’è il cavo della tensione elettrica, lo evito all’ultimo, ecco spiegato anche il black-out. Saliamo sul risciò che parte a tutta velocità, si intende in maniera relativa.
Ogni tanto questa specie di ape si spegne e l’autista ogni volta scaglia violenti pugni al manubrio per la stizza. L’ultima volta però il mezzo non riparte più. Scendo anche a spingere sotto la pioggia battente, tanto ormai più bagnato di così… ma niente da fare. Allora il nostro autista armeggia con il motore ma le sue manovre non sortiscono alcun effetto. Finalmente l’uomo si decide a prendere in mano il suo telefonino e a chiamare aiuti. Poi si gira verso di noi per rassicurarci, dice che arriverà un taxi anche se il nostro treno è perso, ma lui dice che non c’è problema, ce n’è un altro subito dopo. Il taxi, dopo una manciata di minuti che ci paiono interminabili, arriva. E’ un’Ambassador privata e mi pare l’auto di una famiglia che porta i bambini a scuola, non è certo un mezzo pubblico. Dentro ci sono un ragazzo alla guida, un signore anziano e due piccole bambine. Saliamo tutti sopra, anche il nostro autista, che incredibilmente vorrebbe schiacciarsi insieme a noi davanti con il ragazzo alla guida. Deve constatare che non c’è posto e allora suo malgrado si sistema dietro. Capiamo ben presto il motivo del suo tentativo di stare davanti. Probabilmente l’anziano signore è un suo parente, forse il padre. Gli fa una predica tremenda mentre il ragazzo davanti se la ride sotto i baffi, nel senso letterale, perché qui li portano quasi tutti gli uomini. Arriviamo alla stazione mentre il nostro treno la sta lasciando, pensiamo quasi di saltarci su al volo come fanno gli indiani, ma non abbiamo il biglietto e le valigie sono troppo pesanti, ma soprattutto noi non siamo indiani.
Arriviamo comunque a destinazione anche se in ritardo, abbiamo dovuto anche cambiare il treno in una stazione e prenderne un altro che pare vada nella direzione opposta. Il nostro aggancio arriva tardi in stazione per ritirarci, forse se ne era andato quanto non ci aveva visto arrivare con il primo treno. Allepey è una città caotica, ci sono i canali come a Venezia un traffico folle come a Napoli, autobus scarcassati senza vetri come quelli africani e risciò che sfrecciano ovunque come le zanzare in una sera d’estate a Vercelli. Finalmente ci imbarchiamo sulla nostra House Boat: è deliziosa. C’è una piccola camera da letto tutta per noi con il suo bagno, davanti sulla prua una piccola zona per riposarsi con un materassino sistemato dietro il timoniere, più dietro ancora un tavolinetto con due poltroncine in vimini per il relax e un tavola con due sedie per consumare i pasti. Il capitano è anche il timoniere, sta davanti. Dietro a poppa il resto dell’equipaggio con la cucina e la zona dove si accomodano durante il viaggio. Confrontandola con le altre che ci scivolano accanto realizzo che la nostra è una barca per una singola coppia e infatti è molto romantica.
L’House Boat che naviga sui Back Waters è il simbolo di queste nostre vacanze nel Kerala, un po’ come la gondola per chi visita Venezia: chi viene da queste parti non vi può rinunciare.
La nostra barca essendo piccola e leggera viene mossa solo con le canne di bambù che fanno presa sul fondo dei canali. C’è anche un piccolo motore di servizio che abbiamo visto viene usato solo per trarsi d’impaccio magari nei punti più alti del canale, dove le canne fanno fatica a toccare il fondo. A tratti piove anche molto forte alternando momenti in cui cessa. Il nostro povero capitano che indossava una camicia stirata di fresco si lava come un pulcino mentre spinge sul fondo del canale la sua pertica. Poi si asciuga con uno straccio che gli viene porto da uno zelante ragazzo dell’equipaggio, che poi lui usa come un turbante per coprirsi, poi scopriamo che lo utilizza anche per pulirci il tavolo prima del pranzo e chissà per cos’altro: pazienza siamo in India.
Ogni tanto ai lati dei canali ci sono dei bambini. Sono bellissimi, con i loro occhini scuri, ci chiedono, pen, school pen, toys e tendono le mani. Ci salutano. Fanno ovunque così, non solo qui ai lati dei Back Waters. Questa è una cosa che non scorderò dell’India, sono veramente molto graziosi questi bambini e ti spezzano il cuore quando chiedono la carità per strada.
L’equipaggio fa un pasticcio incredibile, accende il motore posto a poppa e la barca prende velocità puntando dritto contro la costa, il capitano non riesce a controllarla con la sua lunga canna in bambù e la barca sfiora la vegetazione a lato. I rami si spezzano contro la struttura di copertura dell’imbarcazione mentre il nostro capitano non riesce a invertire la rotta dell’imbarcazione. Infine i rami infrangono i vetri della graziosa finestra della nostra camera da letto, che pasticcio! Il comandante rimane però imperturbabile.
Parte del resoconto del viaggio odierno lo sto scrivendo dalla barca, sul tavolino seduto come un viaggiatore inglese dell’ottocento che solca i mari alla scoperta di nuove terre: compiaciuto vergo la carta della mia moleskine con la penna stilografica.
Abbiamo qualche preoccupazione riguardo il viaggio che intraprenderemo domani per Bekal. Saranno dieci ore di treno e arriveremo alle undici di sera, sarà un vero problema cercare un posto dove dormire a quell’ora.
Continua a piovere, la sentiamo mentre cade sul canale emettendo il suono di tanti spilli che si conficcano nella carta.
Scende la notte, ceniamo alla luce di una fioca lanterna alimentata dalla batteria della barca: ora non ci resta che andare a dormire.

Lunedì 12 dicembre 2005

Abbiamo dormito nella nostra House Boat ormeggiata sul lato di un canale. Anna invero ha dormito un po’ meno di me perché si era impressionata delle lenzuola che in effetti non parevano molto pulite. Anche stamattina piove, però sembra che il cielo finalmente si apra. Se riusciamo a riattraccare in tempo oggi prenderemo il treno per Bekal.
Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo preso il treno per alle tredici, ci aspettano dieci ore di viaggio. Già appena saliti è un gran casino, perché ogni volta ci fanno il biglietto ordinary e poi ci è praticamente impossibile trovare il nostro vagone, inspiegabilmente ci troviamo sempre dalla parte opposta. Esasperati decidiamo di pagare il supplemento e ci fermiamo in prima classe, anche perché è l’unica dove ci sono posti disponibili, che qui è una sorta di vagone letto. I nostri letti o sedili, dipende da che prospettiva li guardi, sono quelli in alto, ce ne sono altri due sotto. Raggiungiamo un compromesso con gli occupanti di quelli inferiori e ci sediamo di sotto con loro. Ogni tanto si scambiano quattro chiacchiere con i nostri vicini e con il personale del treno, qui sono sempre tutti molto disponibili. Una delle cose più curiose degli indiani è che per dire di sì e salutare o comunque per dare un cenno di approvazione, scuotono la testa come se noi lo facessimo per negare qualcosa, perciò a volte si rimane un poco disorientati.
Una delle cose veramente fastidiose che abbiamo sperimentato durante questo lungo viaggio in treno è il mangiare con loro. Gli indiani mangiano tutto con le mani, rimischiando più volte il cibo, come se un manovale stesse facendo la malta con la pala: è una cosa disgustosa da vedere, specialmente se stai mangiando anche tu. Poi masticano rumorosamente con la bocca aperta, infine soddisfatti ruttano rumorosamente per sottolineare la loro soddisfazione come se fosse la cosa più normale del mondo. E’ vero sono usanze diverse, ma sono difficili da accettare quando si è cresciuti con altre abitudini, io benedico chi ha inventato la forchetta.
Decidiamo di dormire a Kasaragod perché ormai l’ora è tarda, è quasi mezzanotte e non sarebbe il caso di avviarsi sulla costa per cercare l’albergo. Ci siamo spinti molto a nord, siamo arrivati quasi al limitare dello stato del Kerala.
Dormiamo nel City Tower che è poi alto solo quattro, cinque piani; ci ha portato qui il nostro autista di risciò, quando sei disorientato conviene appoggiarsi a loro.
Quando si gira in queste città come Kasaragod, che non è una città turistica ed è abbastanza distante dal mare, mi sembra di rivedere i reportage dai paesi di guerra. Le abitazioni, le strade, gli autobus assomigliano molto a quelli iracheni, afgani o a quelli palestinesi. Le città del sud del mondo sembrano tutte terribilmente uguali. Per la fretta di crescere o per la mancanza di altre alternative, sembra abbiano preso solo il lato peggiore del nostro sistema capitalistico-consumisitico. Il traffico è caotico, inquinamento è sporcizia sono al limite della tollerabilità umana. Il cemento armato e l’alluminio anodizzato hanno stuprato qualsiasi cosa e il risultato è un figlio deforme che non assomiglia neanche lontanamente a una città occidentale. Kasaragod come tutte queste città del sud del mondo hanno reciso totalmente il legame con la terra intorno e la sua tradizione. Chissà, sarebbe stato bello vedere ogni paese intraprendere la sua personale via al benessere e allo sviluppo senza essere costretto a scimmiottare modelli importati e mal copiati. Invece questo cancro che è l’economia capitalista-consumista, questo mercato globale che dove arriva contagia e distrugge, non fa che creare mostri mutanti di sé stesso, copie deformi del nostro sistema. La gente viene comprata con la televisione, i telefonini e piccoli miserabili lussi, viene strappata dal loro rapporto con la propria terra, con il mare, con la propria tradizione e religione, per essere cacciata in queste caotiche abitazioni che sembrano tanti pollai. Sono tante galline da cui non si pretende che facciano le uova ma che consumino, senza fare tante domande. Questo però se va tutto bene… ma se la gente si stufa, se si accorge di essere stata imbrogliata? Allora ci ritroviamo come sempre a chiederci chissà perché le persone esasperate e disorientate cercano certezze nell’integralismo religioso e riscatto nel terrorismo suicida.

Martedì 13 dicembre 2005

Era stato il controllore a consigliarci di non andare di notte a Fort Bekal, l’aveva definita una zona rurale e in effetti non aveva tutti i torti.
Ci svegliamo nel nostro City Tower, c’è anche la televisione con il satellite o è via cavo, non so. Girando i canali non si vede altro che video musicali e film musicali indiani. Gli uomini cantano con una voce simile a quella dei nostri, mentre le donne modulano una voce tipo quella del topo dei cartoni animati. A volte le tonalità femminili ricordano quelle delle canzoni cinesi e giapponesi. I balletti poi sono curiosissimi. Si muovono con ritmi tarantolati, le coreografie fanno loro compiere gesti e mosse ridicole con nessun senso rispetto alla sequenza degli avvenimenti che dovrebbero descrivere. Le comparse sono centinaia e si capisce come Bollywood sia ormai una realtà consolidata a livello mondiale.
Facciamo colazione sotto l’albergo, in un locale dalla gestione indipendente, meta molto frequentata dalla gente di Kasaragod. Purtroppo scopriamo ben presto che è una scommessa scegliere la colazione, per fortuna c’è una sorta di caffellatte già zuccherato e ci buttiamo su quello.
L’autista del risciò ha insistito per accompagnarci anche stamattina a Fort Bekal, infatti la sera prima ci aveva estorto l’appuntamento. Questa mattina per paura che non ci ricordassimo o potessimo tradirlo, è salito addirittura a cercarci in camera.
Una volta arrivati a Fort Bekal è una vera delusione, non c’è nessuna infrastruttura turistica. Andiamo anche all’ufficio del turismo, ci raccontano un po’ di storie, ma il risultato non cambia: non c’è proprio nulla.
Le spiagge di sabbia sono bellissime, molto estese e completamente vuote, ma oltre a questo nulla più. Siamo un po’ disorientati. Non è che cerchiamo i resort o pretendiamo quella sorta di mondo finto che creano i tour operator. Ci piacerebbe però trovare qualche cosa da visitare che abbia un valore, eventi folcloristici, gente accogliente abituata ad ospitare i viaggiatori, invece qui più che costruzioni di fortuna o palazzoni incompleti non ci sono. E’ un problema anche mangiare perché qui non hanno contatti con i turisti e pertanto quello che cucinano è solo per gli indigeni, non esistono menu ed è difficile decidere cosa ordinare. Sappiamo per esperienza che non appena ti allontani dalle zone turistiche i piatti sono immangiabili, se normalmente gustiamo le loro ricette speziate e piccanti, fuori si trovano solo cibi dai gusti esasperati dalle spezie e talmente piccanti che è già difficile solo assaggiarli. Intendiamoci per chi è amante della natura selvaggia e della solitudine il posto può anche piacere, però ci si aspetta di trovare altro quando si visita un paese che dovrebbe essere turistico.
Troviamo comunque una buona sistemazione, praticamente un appartamento intero di due camere, salotto e cucina, per 800 rupie. E’ parte di una palazzina poco distante dal mare inserita nel centro abitato con altri appartamenti sfitti, sembra che i proprietari si siano attrezzati all’arrivo dell’ondata dei turisti che sicuramente prima o poi dovranno arrivare. Consideriamo che la dritta che ci aveva dato il ragazzo dell’agenzia viaggi di Varkala è stata una fregatura se non altro per il lungo viaggio che abbiamo dovuto intraprendere considerato che comunque il nostro desiderio è di ritornare nel centro del Kerala per visitare Cochin da dove prenderemo anche il volo di ritorno.
Visitiamo il forte che domina il piccolo golfo e che da il nome alla località. Entriamo nelle mura, si paga per l’accesso. Non ci sono cammini guidati o spiegazioni di quanto vediamo e sull’epoca delle strutture, solo diciture con le quali il governo centrale si auto-incensa per i lavori di restauro effettuati per il recupero della fortezza. Il forte pare arabo, qua e là si intravedono degli archi a ogiva. La nostra visita si svolge sotto un sole inclemente che mi fa sudare veramente come una fontana. A fianco dell’entrata delle mura c’è anche un piccolo tempio molto bello con le figure delle divinità lavorate a rilievo nel legno e colorate di mille colori che donano al tutto un’allegria come solo gli induisti sanno fare nei loro luoghi di culto.
Nel pomeriggio torniamo a Kasaragod per prenotare il treno e tornare verso sud a Cochin: Fort Bekal non ci ha convinto.
Abbiamo scoperto dopo i continui errori che abbiamo commesso che il treno qui va prenotato prima come fanno la maggioranza degli indiani, altrimenti ti fanno un biglietto chiamato ordinary e ti ficcano in pochi vagoni neanche comunicanti con il resto del treno perché chiusi con una serranda. Paiono quasi dei vagoni merci stracarichi di povere anime, oltretutto il più delle volte è impossibile pagare la differenza sul treno per passare a un’altra classe in quanto è già tutto prenotato.
Alla sera ceniamo in un locale vegetariano a fianco del nostro appartamento ad uso dei soli indiani. Li mettiamo prima in guardia che non vorremo niente di piccante e per fortuna ci accontentano.
Andiamo a letto presto perché qui non c’è proprio niente da fare, non ci sono locali, è tutto buio, non girano mezzi e i pochi indigeni che si affollano intorno alle bancarelle ci guardano come extraterrestri.

Mercoledì 14 dicembre 2005

Ci chiedono: ma che lingua parlate in Italia? Sono curiosi i ragazzi che passeggiano sulla spiaggia e si fermano per parlare con noi. Siamo gli unici English su una spiaggia che nel complesso sarà lunga almeno quaranta chilometri. Hanno la smania di parlare con noi. Passano e ti chiedono sempre le stesse cose, da dove veniamo, come ci chiamiamo, che lavoro facciamo… Buona parte delle cose che ci dicono sono incomprensibili anche ad Anna che conosce la lingua inglese meglio di me. A volte per non farmi tormentare mi riprometto di fare la finta di non capire nulla e di non parlare una parola di inglese. Loro rimangono sconcertati: ma allora che lingua si parla in Italia? Il fatto è che neanche si immaginano dove sia l’Italia, del resto la cosa è reciproca perché in fondo noi cosa sappiamo effettivamente di un paese così vasto come l’India con un miliardo di abitanti?
Qui a Fort Bekal la voglia di attirare i turisti è molta. A fianco della spiaggia che chiamano Fort Beach stanno urbanizzando un’area enorme e già si costruiscono i primi cottage, dicono che ne faranno almeno una decina. C’è anche un piccolo bar, che fortuna! Sembra un miraggio dopo che siamo stati tutta la mattina solitari sotto il sole di questa desolata, ma peraltro bellissima spiaggia.
Passiamo tutta la giornata al mare e ora, a sera inoltrata ci prepariamo per prendere il treno alle ventitré e quarantacinque che ci porterà domani mattina a Cohin per le otto.
Finalmente abbiamo capito qualcosa in più di come si viaggia in treno qui in India. L’importante è prenotare, cosa che noi non facevamo. Ti viene sempre segnalata la posizione di dove si trova il tuo posto e in quale vagone, addirittura è segnalato il posto esatto sul marciapiede dove si fermerà la tua carrozza. Effettivamente è un ottimo sistema e permette quasi a tutti di viaggiare seduti e per un paese così popoloso come l’India dove il treno è ancora il principale mezzo di trasporto è sorprendente.

Giovedì 15 dicembre 2005

Abbiamo viaggiato tutta la notte dormendo sui sedili che di notte vengono trasformati in letti ricavandone tre, uno sopra l’altro. Direi che forse è il miglior modo per viaggiare con il treno se di devono intraprendere lunghi viaggi. Si riesce pure a dormire anche se a sprazzi, il tempo passa molto più velocemente e oltretutto non si perde un giorno nel viaggio.
Abbiamo trovato alloggio a Cochin nella Delight Home Stay nel Forte di Cochin proprio a due passi dal retro della chiesa di St. Francis. Ne abbiamo selezionate anche altre di sistemazioni prima di decidere, ma pur non essendo la più economica tra quelle visitate, questa è la più caratteristica e si distingue anche per la sua bellezza. Di solito non abbiamo pretese particolari, l’importante che il posto sia pulito e che abbia i servizi in camera in condizioni decenti, poi evitiamo sempre l’aria condizionata e preferiamoli ventilatore.
La Delight come apprendiamo dalla guida routard è una vecchia villa portoghese riadattata per lo scopo. E’ bianca splendente con un bellissimo giardinetto molto curato, che qui è una cosa più unica che rara.
Facciamo due passi per Fort Cochin alla ricerca di un luogo dove fare colazione, è ancora relativamente presto sono le otto e trenta. La prima impressione è quella di non trovarsi in Asia, ci sono molti riferimenti europei ad iniziare dagli alberi secolari che sono disseminati nell’abitato che qui hanno preso il posto delle onnipresenti palme, che sono la testimonianza ancora vivente del passaggio prima degli olandesi, poi dei portoghesi e infine degli inglesi.
Dopo un lungo sonnellino ci ributtiamo tra le vie di Cochin. Il sapore della vecchia e lontana Europa è confermato anche dalle facce della gente che si incontra, alcune persone hanno caratteri tipicamente europei, forse testimonianza di matrimoni misti avvenuti in passato o di mamme che vollero offrire la migliore accoglienza agli invasori europei o forse peggio il frutto di violenze perpetrate da rozze soldataglie. Anche i gatti sono diversi, sono come i nostri, finalmente cicciotti e dalla voce dolce: il contrario di quelli che abbiamo incontrato finora, dagli occhi quasi a mandorla, magrissimi e dal miagolio stridente.

Venerdì 16 dicembre 2005

Ci arpiona per strada un autista di risciò e ci convince a fare con lui un giro turistico di Fort Cochin. Le premesse sono buone e per sole 40 rupie ne vale la pena. Scopriamo ben presto che uno dei suoi obbiettivi principali è quello di portarci a comprare nei negozi con cui si è convenzionato. Cerchiamo di opporci quando ci lascia davanti a uno di questi, ma lui ci chiede per favore di entrare, ci fa capire che questi gli faranno poi il regalo di Natale. Entriamo allora mossi da compassione, anche se a pensarci bene queste sono cose che fanno tutti gli accompagnatori turistici del mondo e non ce la sentiamo di farne una colpa tanto grave al nostro simpatico autista. All’interno c’è di tutto e scopriamo che le cose qui costano meno che dai piccoli venditori di strada. Nonostante le apparenze i piccoli commercianti non sono poi i più convenienti oltretutto la qualità non è mai certa. Compriamo così qualcosa e riusciamo così a liberarci dagli zelanti commessi che marcano meglio di Maldini: ci offrono addirittura da bere per convincerci. Ci spingono fino al piano superiore dove mettono in scena lo spettacolo del campionario dei tappeti che srotolano sotto ai nostri nasi facendoli schioccare nell’aria come delle fruste.
Per fortuna una volta fuori si continua il giro: la chiesa di St. Francis con il suo antico sistema di ventilazione, quella cattolica di Santa Cruz che ci fa comprendere come Santa Romanica Chiesa Cattolica sia molto più presente a Cochin e ci tenga al rispetto dell’ortodossia del rito cattolico, al contrario delle divagazioni quasi induiste della chiesa di Kovolan che avevamo visitato. Dal cilindro delle sue scalcinate trovate il nostro autista estrae anche un elefante che ritroviamo malconcio all’interno di un cortile nascosto tra le mura di una casa del centro. Ci fanno capire, lui e il domatore, che la bestia pare abbia dei problemi di testa, sembra che stia impazzendo, infatti lo tengono incatenato o forse l’elefante è impazzito proprio per quello. A un comando del domatore che pare malconcio quanto il suo pachiderma, l’elefante solleva la proboscide e noi scattiamo la foto. E’ tutto molto triste, una bestia di quelle dimensioni, l’autista e lo stralunato domatore che ne approfittano e noi che facciamo le foto. Poi il nostro autista pretende anche da fumare, lo accontentiamo in fondo non ci costa nulla. Ne approfittiamo una volta giunti nel quartiere ebreo per farci lasciare lì, siamo esasperati delle sue divagazioni presso i negozi amici. Purtroppo la sinagoga è chiusa perché è sabato. A Cochin c’è una delle comunità ebraiche più vecchie del mondo oramai ridotta a poche unità. Incrociamo un drappello di ricchi e oramai in disarmo turisti americani. Sono stati sbarcati da una nave da crociera di passaggio e ora pascolano alla rinfusa tra le vie in attesa di qualcuno che li raduni come un gregge disperso, per indicare loro la via di casa.
Passeggiamo senza meta e vuoi per il caldo, vuoi per la stanchezza ci ritroviamo un po’ disorientati tra la folla dei ragazzi che escono da scuola. Immagino che siano i figli delle persone benestanti di Cochin, hanno tutti la loro rigorosa divisa, ognuna nei singoli colori delle diverse scuole come la tradizione anglosassone impone: lo stile di vita degli antichi dominatori inglese è ancora rispettato e imitato.
Pranziamo e ci ritiriamo nell’albergo perché siamo veramente spossati.
Alla sera andiamo a vedere una rappresentazione di Katahakali. Ci viene consigliato di andare un po’ prima per assistere al rito del trucco. E’ tutto molto suggestivo, ci viene anche illustrata la chiave di lettura di quella che è una rappresentazione mitologica-religiosa basata tutta sulla mimica facciale, nei suoni gutturali, sulle occhiate e gli studiati gesti degli attori che sostituiscono le parole. Nel frattempo c’è il solito black-out e i ventilatori si fermano di colpo, sembra di soffocare.
Se devo essere sincero tutto è un po’ prolisso e allungato per i miei gusti, tra trucco e rappresentazione sono più di due ore e mezza, ma ne valeva la pena.

Sabato 17 dicembre 2005

Decidiamo di passare una giornata al mare, il caldo qui a Fort Cochin nelle ore centrali del giorno è insopportabile. Nell’isola di Vypeen Island ci hanno promesso esserci delle spiagge molto belle, anche perché non abbiamo alternativa, quella di Cochin è un ammasso di rifiuti e resti della vegetazione che galleggia sui canali. La nostra destinazione è Cherai Beach. Prendiamo il battello al molo dopo le reti cinesi, delle macchine manovrate dai pescatori che permettono di issare e buttare con minimo sforzo le reti nel canale di fronte a Cochin. Una volta dall’altra parte prendiamo il bus che ci porta a destinazione. E’ la prima volta che lo prendiamo qui in India. A vederli sfrecciare con i loro autisti spericolati la cosa non ci tranquillizza molto, invece il viaggio è molto tranquillo. Scopriamo che ci sono posti in cui non si possono sedere gli uomini, ce lo fanno notare perché l’indicazione è scritta solo in caratteri indiani. Per arrivare alla spiaggia dobbiamo prendere un risciò che troviamo alla fermata dell’autobus. La spiaggia è di sabbia chiara, abbastanza fine, completamente deserta, sarà estesa per almeno dieci chilometri. Ci accomodiamo per farci rosolare per l’ultima volta dal sole indiano, la vacanza è ormai quasi finita. Facciamo conoscenza con un certo Yota, un israeliano che ci chiede di curargli le sue cose mentre fa il bagno. Ci conosciamo. Lo sommergo di domande e lui si vendica facendo lo stesso. Quello che mi preme sapere è come fanno a convivere con la paura del terrorismo. Lui la ritiene una cosa abbastanza normale, l’hanno esorcizzata la paura. Lui vive ad Haifa, dice che lì il problema non si avverte più di tanto, da loro poi ci sono stati solo due attentati. Qui è pieno di israeliani, Yota ce lo conferma, dice che è una meta molto frequentata dai suoi connazionali sia per i prezzi a buon mercato che per l’erba molto disponibile. Lui è già da parecchio che è in India e ci starà ancora per alcuni mesi. E’ brutto pensare di essere odiati da buona parte della popolazione del mondo, solo perché si è israeliani. In fondo che colpe ha questo Yota per esempio, non ha in fondo anche lui diritto ad avere una terra? Lui ha discendenze afgane, yemenite e inglesi, quindi quale dovrebbero essere la sua terra? Dice che nei momenti più critici si spaccia per francese o inglese, è costretto a rinnegare la sua nazionalità. Mangiamo in un posto a fianco della spiaggia dalla copertura realizzata con le foglie di palma, trattenute da una robusta struttura in ferro. Al pomeriggio la spiaggia che prima era deserta si popola, ci sono molti indigeni che giocano con gli aquiloni. Poi tre pullman sbarcano altrettante scolaresche. Le donne sono tutte col sari e gli uomini con i pantaloni e la camicia della divisa della scuola. Le donne senza svestirsi naturalmente, muovono timidi passi dentro l’acqua emettendo gridolini eccitati a ogni onda che bagna loro i vestiti. Gli uomini fanno che buttarsi così vestiti di tutto punto nell’acqua.
Mentre aspettiamo a sera il risciò per tornare indietro incontriamo Simone e Consuelo, vengono da Ancona: sono tre mesi che sono in India e ci staranno per altri tre. Ci raccontano delle loro esperienze, di come può essere difficile vivere con 5 Euro al giorno di budget ( che sono poi 250 rupie e non sono comunque poco), di come può essere edificante vivere a contatto con la gente del posto, usare i loro stessi mezzi pubblici, mangiare con loro… Parlo con Simone in autobus mentre Anna chiacchiera con Consuelo. Il discorso va sulla pornografia, sull’ostentazione di immagini sessuali che se ne fa da noi, e per esteso nei paesi occidentali, anche se lui che ha girato molto mi conferma che siamo i peggiori in questo campo. Tutto questo qui è completamente assente, non c’è bisogno per venderti un formaggio o un profumo di farti vedere un paio di tette o un culo. Le immagini che si vedono in giro sono quelle delle divinità induiste, di Gesù Cristo con il cuore insanguinato o dei simboli religiosi dell’Islam, o per par condicio a volte tutte e tre insieme. Purtroppo anche qui tutto sta cambiando velocemente. Simone era già stato in Kerala l’anno scorso e la telefonia mobile era solo agli albori, quest’anno oramai tutti hanno già il telefonino e i muri sono tappezzati dai loghi dei gestori telefonici locali.
Ci diamo appuntamento per la sera, vogliamo mangiare insieme. Discorriamo molto durante la cena, di tanti argomenti e Consuelo è particolarmente contenta perché non conosce l’inglese e in questi mesi ha potuto parlare ben poco oltre che con Simone.
Anche qui fervono i preparativi per il Natale. Nella chiesa protestante di St. Francis hanno realizzato l’albero di Natale e le vetrate sono parecchie sere che sono tutte illuminate, da dentro si sentono intonare i canti natalizi, sono i preparativi per la messa magna della vigilia. Su qualche casa illuminazioni intermittenti vogliono testimoniare che oramai ci siamo, che manca poco, ma è così difficile per noi immaginare un natale con questo caldo.

Domenica 18 dicembre 2005

Oggi è l’ultimo giorno. Una bella colazione al tea pot nei pressi di Princess Road che abbiamo appena scoperto e poi diamo l’ultima occhiata a Cochin. Il personale della nostra pensione alla fine fa sempre come vuole, non ci hanno fatto la camera tutti i giorni come si era rimasti d’accordo, non vuole accettare la carta di credito per il pagamento come si era stabilito, anche se noi insistiamo, loro non cedono, magari ti dicono di sì ma poi continuano come prima.
Andiamo a vedere il Dutch Palace emblema del potere olandese sull’isola ma poi il caldo e l’umidità ci stordiscono. Decidiamo di tornare in albergo e ci concediamo un bel pisolino. Usciamo poi nel tardo pomeriggio per comprare qualche CD di musica locale come ci eravamo ripromessi. Il tipo del negozietto al quale ci rivolgiamo è molto in gamba e con 2 Euro si compra praticamente di tutto. All’uscita rincontriamo i nostri due amici italiani, Consuelo e Simone. Ci si ferma ancora un po’ a parlare. Ci ribadiscono ancora che Gokarna è un posto favoloso, a questo punto ci hanno convinto, se mai torneremo in India ci dovremo per forza andare. Poi si divaga su vari argomenti fino agli extraterrestri. Sembra che credano molto nella possibilità che delle entità spaziali possano volerci aiutare e consigliare come vivere meglio la nostra vita sulla terra; anzi Simone dice di aver visto addirittura un Ufo l’anno scorso, appunto a Gokarna. Sanno tutti che cosa si fuma e di che cosa ci si fa in quella località quindi altro che dischi volanti si possono vedere. Io non è che dubiti a priori di queste cose, ma è che certe persone credono proprio a tutto, dagli UFO, ai folletti del bosco, dal buddismo alle divinità nordiche e tutto ciàò che viene raccontato da certe persone diventa per forza poco credibile.
Mentre siamo a cena seduti nei tavoli sulla strada, rincontriamo il nostro amico israeliano Yota. Si siede con noi e si parla un pochino, soprattutto sui luoghi comuni con cui si catalogano gli italiani. Gli faccio notare scherzosamente che l’altro giorno, quando ci siamo incontrati sulla spiaggia, l’abbiamo poi visto chiacchierare con una ragazza bionda. Lui ride e dice che non è molto fortunato con le donne bionde. Dopo arriva anche una sua amica, anche lei israeliana, anche lei di Haifa. Ha avuto come noi la sfortuna di andare a Fort Bekal e il suo giudizio è peggio del nostro.
Qualche rimpianto di andarcene ce l’abbiamo ma abbiamo la nostra casa, il Natale si avvicina in Italia e il richiamo è molto forte.

Lunedì 19 dicembre 2005

Avevamo chiesto il taxi per le tre e trenta di mattina, chissà perché ci hanno detto che sarebbe arrivato alle tre, alla fine alle due e trenta già bussano alla porta perché il tassista è già per strada.
Ennesima dimostrazione che qualsiasi cosa tu dica agli indiani poi loro vanno avanti come vogliono, poi per quanto riguarda gli orari o proprio non li rispettano oppure agli appuntamenti si presentano sempre con notevole anticipo.
Lasciamo Cochin sull’Ammbassador bianca del nostro tassista percorrendo strade deserte, quasi irreali, abituati come siamo a vedere sempre gente dappertutto. In effetti però, nonostante l’ora prematura del mattino, qualcuno lo vediamo dai vetri del nostro taxi. Girano così, senza meta, sulla bicicletta, con il loro risciò oppure si incontrano chiacchierando per strada, come se si trovassero in pieno giorno.
Passiamo il ponte con rigoroso pagamento del pedaggio, sembra di passare un posto di frontiera, per lasciare l’isola di Cochin, poi ci immettiamo nella superstrada stranamente a percorrenza veloce per essere in India. Quando arriviamo a destinazione all’aeroporto c’è una ressa enorme all’ingresso, non si riesce ad entrare. Pensiamo che sia la fila dovuta ai controlli all’ingresso invece scopriamo ben presto che tutta quella gente è lì solo per salutare i propri cari che partono. Ci sono anche vecchi e bambini nonostante siano le tre e trenta del mattino.
Come al solito i controlli sono molteplici, macchinosi e inutili, perché così piace agli indiani, ognuno ha da apporre il suo timbro, vediamo divise e uffici diversi, controlli anche a poca distanza l’uno dall’altro ma questa è la burocrazia, forse dovuta al sistema federale e a migliaia di burocrati che si moltiplicano e tutti da accontentare.
Arriviamo con il nostro volo a Kuwait City dopo essere partiti da Cochin. Sorvoliamo il deserto a bassa quota prima di atterrare. Nella sabbia gialla si vede il nastro di asfalto trafficato come una freeway americana che porta alla capitale del deserto. Il nostro volo è pieno di religiosi cattolici, si avvicina il Natale e forse Roma li richiama?
In Kuwait attendiamo qualche oretta poi ci imbarchiamo per il volo per Fiumicino. C’è il trasferimento di un malato nel nostro volo, lo sistemano a fianco di noi, è una donna anziana araba. Hanno smontato i sedili e sono riusciti quasi a realizzare un letto da ospedale, con flebo e tutto il resto.
Quando arriviamo a Fiumicino c’è il solito casino che avevamo già trovato all’andata. Per le sole operazioni di transito, tra banchi senza personale e informazioni contrastanti perdiamo un’ora e mezza. E’ incredibile, neanche in India con la loro macchinosa burocrazia abbiamo avuto questi problemi. Ritroviamo anche la stessa hostess di terra dell’andata, che parla il suo idioma misto al romanesco e una lingua dell’est. Questo aeroporto è enormemente esteso, tra le informazioni contraddittorie che riceviamo, dobbiamo fare chilometri. Guardandoci in giro però notiamo che quest’estensione non è dovuta alla dislocazione di uffici necessari per le pratiche dovute ai voli, ma solo a negozi, negozietti, bar e stand di compagnie telefoniche. Tutto luminoso e luccicante con belle ragazze che sorridono ma finto, inutile, insignificante.
Di nuovo in Italia ci guardiamo in giro. Ritroviamo le nostre donne, tutte molto eleganti, le riconosci tra le altre nell’aeroporto. Sono coperte di firme, make-up aggressivi, provocanti e sexy, nascoste magari dietro a occhialini scuri dalla marca naturalmente ben riconoscibile. Hanno sguardi imbronciati come si vedono nelle immagini pubblicitarie di moda. Se possono evitare lo sguardo lo fanno, non possono disperderlo e sprecarlo negli occhi di chicchessia. A volte si accompagnano a bambini, magari annoiati, antipatici e viziati, chiusi in passeggini ipertecnologici, che poi ci vuole per forza la monovolume per trasportarli. Se sono sole, per giustificarsi, non fanno che armeggiare con i loro telefonini, parlano con amiche improbabili che hanno eterni problemi da risolvere, di cuore, con i figli o sul lavoro. Quanto sono diverse dalle donne indiane, (forse fatta eccezione per quelle di fede mussulmana), nei loro sari colorati, con la loro bella pelle scura, naturale e lucente. Avvolte in vesti che non devono mettere in vista le loro parti anatomiche, ma anzi esaltare la loro femminilità senza ricorrere alla scorciatoia dei richiami sessuali. Sorridono sempre a tutti, sono felici, ma non maliziose. Se incontrano il tuo sguardo non lo abbassano, anzi ti salutano e sorridono in modo onesto, senza doppi sensi solo per il gusto di essere gioviali. Non hanno fretta, non sono stressate, non gli manca il tempo, non girano su fuoristrada da tremila litri, ma dignitosamente sedute all’amazzone su scooter malandati o dietro al sellino di biciclette sferraglianti.
Prendiamo l’ultimo aereo per la Malpensa, un piccolo MD con solo cinque file di sedili che fa sembrare il volo una cosa molto intima e privata. Il freddo dell’inverno europeo ci assale mentre ci trasferiamo sull’autobus per prendere la scaletta. Mentre l’aereo decolla io sprofondo in un sonno immediato e pesante, mi sveglio che stiamo sorvolando le luci della Lombardia. Il comandante al microfono dice che stiamo per atterrare alla Malpensa dove ci sono meno sei gradi centigradi.
All’aeroporto ci aspetta la sorella di Anna e la famosa Chicca, siamo tornati!
Non si sa cosa raccontare per rispondere alle loro domande per cercare loro di descrivere quello che abbiamo visto con la loro magia. Mentre cerchiamo di farlo ci accorgiamo che le cose qui sono andate avanti come prima, come era logico aspettarsi, che ognuno è preso dalle sue priorità, dalle proprie ansie, dagli orari e dal lavoro. Insomma a loro in fondo interessa poco che in India ci sono un miliardo di persone che vivono in modo diverso da noi, che pensano altre cose, che fanno cose diverse, che un’altra vita è possibile. Ma in fondo dov’è l’India? E’ troppo lontana e qui ci sono altri problemi più importanti, più seri e poi fa un freddo cane, non c’è tempo per pensare, per tergiversare, qui tutto corre. Così veniamo subito presi dal gorgo, c’è il nostro posto vuoto sulla scacchiera, purtroppo non penso più in la della prima fascia la posizione dei pedoni, per fare da contorno a pezzi ben più pesanti.
Sì è vero abbiamo ancora l’abbronzatura, uno sguardo sereno e rilassato, ma tanto tutto questo dura poco, bastano pochi giorni perché tutto ritorni come prima.

Epilogo

E poi tornato qui in Italia, catapultato immediatamente sul lavoro, nella vigilia di un isterico Natale, dove tutti corrono e vogliono, non c’è tempo per tentennare; in strade affollate di gente che non rispecchia nei loro visi la gioia dell’imminente festa, mi ammalo.
Mi ammalo di una febbre altissima, ma non posso fermarmi, sono appena tornato dalle ferie, non posso mollare.

E allora tutto mi sembra una follia fatta di pazzi che si dondolano su cavalli di una giostra grottesca.

Mi domando se ha un senso tutto questo, forse il giostraio è già fuggito da un pezzo e questo marchingegno non smetterà di girare sempre più forte senza controllo sino al disfacimento.

Il Viaggio Fai da Te – Hotel consigliati in India

 

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Pubblicato da
Marco

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