In Congo tra i gorilla

di Agostino Falconetti –
Kisoro è un villaggio ugandese a ridosso del caldo confine tra Rwanda e Congo. La pista per raggiungerlo viene chiamata “la via della bellezza”. Un suggestivo cammino sopra i duemila metri di altitudine tra impenetrabili foreste, verdi e rigogliose dalle quali spiccano i leggendari vulcani del Virunga. E’ un sogno che coltivavo da tempo: il parco dei vulcani, il Virunga, Diane Fossey, i gorilla di montagna…. Ora era tutto lì a portata di mano, bastava allungare lo sguardo ed era già Congo. Nel ’95 ad Asmara incontrai il povero Claudio Tomatis, uno dei più grandi “africanisti” autore di un libro guida sul Turkana e le sue tribù, che stava tornando dall’allora Zaire. Mi raccontò di pigmei che come folletti si muovevano rapidamente nel fitto della foreste e i rari raggi di luce che filtravano tra i rami regalavano scene fatate, magiche, indimenticabili; Silver Back, il vero re della foresta, appariva imponente e maestoso in questo quadro africano.

Ora siamo qui all’ombra del cono più alto del Virunga, a due passi dal sogno. Sono le nove di una sera d’agosto umidissima. Abbiamo lasciato una delle nostre tre jeep a Kabale per l’ennesima riparazione. I nostri mezzi cominciano a pagare due settimane di piste ugandesi, sopratutto i giorni nella Karamoja con lo sconfinamento in Sudan, nella Kedipo valley. Piantiamo la tenda e accendiamo il fuoco nel campsite in attesa che arrivi il resto del gruppo. All’ufficio del Mhainga park mi informo sulla situazione : solo due gruppi di sei persone al giorno accompagnate dai rangers possono visitare i gorilla e la lista d’attesa è chilometrica. Dovremmo rimanere lì alcune settimane, impensabile per noi che tra due giorni dovremo essere a Bukoba dove ci attende il traghetto di linea per attraversare il Lago Vittoria e raggiungere il Serengeti da nord. A questo punto l’unico modo per vedere i gorilla è l’ingresso in Congo. Siamo fortemente motivati nel raggiungere il nostro obbiettivo e soprattutto siamo a conoscenza che la zona è calda, le difficoltà notevoli e che da molto tempo nessun turista entra in questa zona. Nella foresta vicino al Kivu sopravvivono ancora tre famiglie di gorilla e le regole per accedere in questa area non sono così ferree come i permessi in Uganda. Non ci va di aver mangiato tutta questa polvere per rinunciare al motivo che ci ha spinto fin quassù : i gorilla.

Comincio a girare per la polverosa Kisoro alla ricerca di un contatto. Al Virunga hotel, approdo degli African explorers, chiedo notizie sul Congo a Thomas un giovane congolese ben intrallazzato con doganieri e rangers dell’ex Zaire. “Non c’è possibilità per domani perchè devo far passare un camion che si appoggia alla Nile Explorer di Londra” mi dice scuotendo il capo. ” Però pagando un bel pò di dollari per persona c’è qualche possibilità”. Gli inglesi della Nile Safari sono gli unici che da quando non c’è più “le Zaire de Mobutu” entrano non senza rischi nel Congo di Kabila. Con Thomas inizia una lunga trattativa fatta di promesse, accordi sotto banco, contatti con doganieri e rangers e dollari per poter entrare in quella terra senza pace e senza legge. A mezzanotte le altre due 4×4 transitano davanti al campsite senza fermarsi. Sveglio George, il nostro autista che si era addormentato sul sedile del Toyota e dopo venti minuti di rincorsa le raggiunge. Alle due di notte un faticoso accordo con Thomas viene raggiunto : alle 6.30 passeremo il confine ugandese, attenderemo che venga aperta la dogana congolese e lì tratteremo sul posto.



Con chi? Non si sa, il Congo attuale è come sfidare l’ignoto, un paese dove tutto è possibile, basta pagare. A notte inoltrata illustro il programma al gruppo che intorno al fuoco ha appena terminato la cena e finito l’ultima bottiglia di grappa portata dall’Italia. Ben sapendo i problemi che dovremo incontrare tutti accettano con entusiasmo l’avventura nell’avventura. Ci chiudiamo nelle nostre tende mentre su Kisoro scende una nebbia fittissima. Alle sei mentre la moka italiana prepara tra le braci l’ennesimo caffè, noi scuotiamo il telo delle nostre tende cercando di togliere l’umidità. Puntuali partiamo con le jeep in direzione Virunga, i cui verdissimi coni emergono maestosamente in lontananza dopo pochi chilometri di pista. Alle sette un infreddolito poliziotto ugandese ci blocca alla frontiera. Siamo i primi, la dogana è chiusa e non c’è ancora nessuno. Solo un ragazzo sta portando al pascolo la sua mucca legata ad una corda nella nebbia. Parla in francese, viene dal Congo e dice che la sua mucca produce dell’ottimo latte. Ogni sera varca il confine e passa la notte in Uganda al sicuro, mi dice, dai ribelli che arrivano dal vicino Rwanda per razziare spietatamente. E’ da anni che, in Zaire prima e in Congo adesso, l’ordine è diventato caos e violenza. I giornali ugandesi ieri davano i ribelli anti-Kabila a 40 km. da Kinshasa.

Ma tocchiamo con mano direttamente il dramma di questa gente, anzi ne veniamo drammaticamente coinvolti, quando col passare delle ore migliaia di persone provenienti da tutte le direzioni si ammassano alla sbarra del confine. Sono donne congolesi che ogni notte trovano giaciglio nei posti più impensabili. Hanno con sè le loro poche cose, scappano prima del tramonto dalla crudeltà di una guerriglia che scatena nella notte ruberie e violenza. Passiamo il confine con un nodo in gola stretti in questo fiume di gente che torna per una giornata nel proprio campo, alla propria capanna, a quelle semplici attività che diano loro una parvenza di vita normale. Ma tutti indistintamente aldilà della paura e del pericolo trovano il sorriso per regalarci il loro “jambo!”. Sono una, dieci, cento le voci dei bambini che ci salutano al nostro passaggio. Siamo entrati in Congo. C’è ancora un vecchio cartello arrugginito con su scritto in francese “Benvenuti in Zaire”. Mentre i rifugiati rientrano velocemente ai loro villaggi, due giovani con gli occhiali a specchio, orologi, catene e bracciali d’oro aprono l’ufficio e chiamano Thomas. Lo seguo dopo aver raccolto tutti i passaporti con i dollari per il visto. Nella stanza questo strano funzionario registra i nostri nomi su un foglio di carta, intasca i dollari e mi riconsegna i passaporti a muso duro indirizzandomi verso una signora alta, autoritaria e severa. Rimango un attimo turbato quando noto una lunga cicatrice sul volto di questa donna che con fare deciso rovescia il contenuto del mio zaino su di un vecchio tavolo. Decide che devo versare venti dollari per la telecamera e altrettanto rapidamente li intasca. Con Thomas proseguo e mi fermo nel capanno “sanitario” dove presento i certificati della febbre gialla ad un elegante e massiccio doganiere anche lui dotato di vistoso orologio d’oro. Attraversiamo cento metri polverosi tra biciclette di legno e gente di corsa fino alla capanna dei rangers. Un via vai continuo rende la piccola stanza un incrociarsi di persone con mitra penzolanti chiaramente tutte interessate ai nostri dollari. All’improvviso scompaiono tutti quando entrano due soldati in mimetica, scarponcini da parà e basco di traverso. Il più alto mi invita con Thomas al tavolo. Arrivano anche i rangers riconoscibili dalla divisa gialla che poi scoprirò fondamentale per l’incontro coi gorilla in foresta. Parte una vivace trattativa multilingue tra Thomas, i rangers e i militari. Masticano francese, urlano in swahili, si rivolgono a me in inglese. Thomas capisce che se non si allungano i dollari non si sblocca la situazione e addio gorilla. Uno dei due militari mi spiega che il confine è appena stato riaperto e con enormi difficoltà si sta riorganizzando la visita alle ultime famiglie di gorilla ancora presenti nella zona del Kivu. Mentre mi parla getto lo sguardo su di un quaderno sgualcito aperto sulla scrivania. C’è scritto a matita ” Nile Safari London 16 pax ok “. Poco dopo mi chiede a che compagnia apparteniamo. C’è un attimo di silenzio, incrocio gli occhi con Thomas e faccio gioco sull’incomprensione. “Chi avete informato del vostro arrivo ? ” ” La Nile Safari di Londra ” gli rispondo invitandolo a verificare sul pseudo-registro. ” In quanti siete? ” Continua prendendo in mano il quaderno. ” Sedici persone ” . Gli dico con sicurezza. In quell’ufficio dove regna il caos più totale porto così anche la mia dose di confusione mentre affardellato entra in quel momento il capogruppo della compagnia inglese……………… ” O.K. Siete i benvenuti ” ( Forse si stava riferendo ai nostri dollari che vedeva nelle mani di Thomas ). Ringrazio e volo fuori dalla capanna con i permessi . Con il ranger saliamo velocemente sull’unico mezzo a motore che incontreremo nel nostro passaggio in Congo. Zambia é l’africanissimo nome dell’autista che si incunea abilmente nel mare di folla che sta tornando ai villaggi. Un nuvolone di polvere e siamo fuori dalla zona di confine. Ci rincorrono centinaia di bambini gridando “jambo”.

Un’emozione indescrivibile. Siamo proprio sotto i vulcani del Virunga, la pista è un susseguirsi di voragini, Zambia caccia dentro la marcia a pugni, le capanne si ripopolano e nell’aria interminabile continua il jambo dei piccoli. Lo spettacolo della natura si fa sempre più fantastico, la pista si snoda con la sua terra rossa salendo oltre i duemila metri, foreste di canne di bambù incorniciano la via mentre specchi di acqua color argento si fanno notare dall’alto con il loro riflesso. L’ultimo campo di sorgo, la prima enorme felce e la via della bellezza viene inghiottita dalla foresta pluviale con i suoi giganti secolari. In lontananza scorgo le montagne della luna, siamo entrati nella terra dei gorilla : stiamo vivendo un sogno magico. La foresta si apre regalando squarci di cielo, per poi tornare profondamente verde e scura mentre la strada, sempre più sconnessa, ci porta in quota lasciando dietro gli ultimi tetti di paglia. Dove finisce la pista comincia il trekking. Lasciamo Zambia con la testa nel cofano e seguiamo a piedi il ranger per un lungo pendio. Dopo mezz’ora di sentiero incontriamo un cartello azzurro con la scritta arrugginita dal tempo e dalla nebbia : Parc des Volcanes – Virunga. Poco più avanti i rangers si fermano per fumare una sigaretta nei pressi di quello che doveva essere in passato uno dei più bei lodge africani. Quel che ne è rimasto ora è un ambiente desolante. All’interno tutto è stato devastato, rubato e saccheggiato. Segni di un luogo un tempo lussuoso rimangono sui soffitti dove resti di magnifici intarsi in legno fanno ricordare un turismo ricco ormai perduto. Ribelli, sbandati sono saliti fin quassù facendo incetta di tutto. Una leggera nebbia si dirada quando siamo in cresta ed in lontananza riusciamo a scorgere il Karisimbi che coi suoi 4500 metri di altitudine segna il confine con il Rwanda. Un sentiero penetra profondamente come un tunnel nel fitto della vegetazione. Lo imbocchiamo in fila indiana seguendo la giacca gialla del ranger, abilissimo ad orientarsi in questo labirinto verde. L’intrico foltissimo della foresta ci costringe a camminare per alcuni tratti a carponi. A colpi di panga, una specie di machete, il ranger allarga il sentiero alla ricerca di una traccia, di un ramo spezzato, di un impronta. Dopo tre ore troviamo un giaciglio di rami, è l’ultimo ricovero dove i gorilla, che sono nomadi, hanno passato la notte. Ogni mattina abbandonano il nido costruito per dormire alla ricerca di nuove cime di bambù per nutrirsi aprendosi vigorosamente la via nella vegetazione . Ma quando all’improvviso udiamo uno schiocco di rami che interrompe il silenzio della foresta capiamo che è giunto il grande momento. Con l’indice teso davanti al naso i ranger ci fanno segno di far silenzio e rallentare i nostri movimenti.

C’è un attimo di tensione. Un brivido ci assale. Un’emozione primitiva. Silver Back compare dinanzi a noi. Con la mano enorme afferra l’albero, lo piega e lo spezza. E’ lui il dominatore. Una folta pelliccia color argento gli copre la schiena, questo significa che è lui il capo indiscusso del branco. Rimaniamo col fiato sospeso, fermi, immobili come statue. Il ranger si fa riconoscere imitandone il verso e mostrando la giacca gialla. Solo allora Silver Back si rende conto che non siamo aggressivi e riprende tranquillo a macinare i germogli di bambù. E’ alto quasi un metro e novanta e pesa circa tre quintali. Con la sua mole gigantesca incombe su di noi che cerchiamo posto tra rami e cespugli; muti così non lo siamo stati mai. Silver Back si siede, riunisce le braccia e maestoso si lascia ammirare. I suoi occhi profondi regalano sensazioni di malinconia. Ci sediamo sull’erba accanto a lui rispettosi, emozionati e consci di star vivendo uno degli incontri più affascinanti con l’Africa. Mezz’ora, un’ora, il tempo vola. Arriva il resto della famiglia. La femmina si avvicina a lui. Appoggia il capo sulla sua spalla ma viene allontanata da Silver Back e si infila allora in un tunnel nella vegetazione. A carponi la seguiamo affondando nel verde. La troviamo mentre da buona madre sta spulciando un suo piccolo. Sono le due del pomeriggio e i raggi di sole filtrano nella foresta. E’ ora di tornare, il tempo trascorso con i nostri antenati è passato velocemente. I ranger ci sollecitano, ma noi temporeggiamo. Ci pensa Silver Back allora impugnando rabbiosamente un tronco e scagliandolo verso di noi. Informati così che l’orario delle visite è terminato riprendiamo velocemente la via del ritorno. Lasciamo tra i bambù Silver Back solenne, enorme con quell’ultimo sguardo che ci donano i suoi occhi tristi: resterà impresso per sempre nella nostra memoria. Un ricordo che nessuno ci potrà più portar via.

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