di Marco –
Un viaggio nel sud dell’India, tre settimane intense tra Tamil Nadu e Kerala, sfidando la sorte lungo le strade indiane, dove le precedenze sono regolate dai decibel dei clacson e i sorpassi dal caso e dalla fortuna, a bordo di una Maruti nera.
Centinaia di chilometri da Madras verso Pondicherry, Tanjore, Madurai, Trichy, Peryar, Cochin, per risalire verso Mysore e Hassan fino a Bangalore.
Sin dal secondo giorno di viaggio, Ramanathan, il conducente a cui avevamo affidato la nostra incolumità, ad ogni mia espressione di stupore o di compiacimento per un tempio, un panorama, una risaia, un chapati appena sfornato, una bella donna avvolta in un colorato sari, aveva preso a ripetere come un disco rotto sempre la stessa frase: ‘’questo non è niente, vedrai quando arriveremo a Trichy”.
E a Trichy, o meglio a Tiruchirappalli come preferiscono chiamarla i Tamil, ci arriviamo dopo una decina di giorni di viaggio a notte fonda.
Sveglia all’alba per un primo giro della città cominciando dal Rock Fort, costruito su una enorme roccia che svetta sulla pianura, che custodisce alcuni templi rupestri dell’epoca dei Pallava e, alla sommità dei 437 gradini scavati nella pietra, il tempio dedicato a Sri Thayumanaswami con la grande vasca sacra dove galleggiano le immagini delle divinità indù.
E poi di corsa verso uno dei templi più suggestivi del Tamil Nadu, quello dedicato a Sri Ranganatsaswamy. La costruzione di questo complesso dedicato a Vishnu iniziò nel X secolo ed è legata ad un episodio della leggendaria lotta tra Rama e Ravana narrata nel Ramayana. Oltre 60 ettari di superficie, sette cerchie di mura concentriche (a simboleggiare le sette vite degli esseri umani), 21 maestosi gopuram decorati da splendide sculture coloratissime, 108 piccoli templi che circondano l’edificio pricipale, riconoscibile dal tetto dorato, che ospita al suo interno una statua raffigurante Vishnu chino su un cobra a cinque teste: la vita e la protezione.
Ad ogni angolo fedeli vishnuiti riconoscibili dall’Urdha-Pundra, un segno tracciato sulla fronte, simile ad una una V, piccoli altari ricoperti di lumini votivi, frutta e dolci offerti alla divinità. Sotto un enorme portico un elefante benedice i fedeli con la sua proboscide, un piccolo tempio dedicato a Krishna con le pareti decorate da sensuali figure femminili. E ancora, la grande sala con 262 pilastri e la gigantesca statua che raffigura un imponente Vishnu con le ali e le zampe artigliate di Garuda.
E all’improvviso si materializza Ramanathan, con il suo sorriso dolce e beffardo insieme: “bello vero! Ma questo è niente, vedrai domani”.
Scusa amico mio, ma domani saremo ancora qui a Trichy, cos’altro può sorprenderci? E lui svela la sorpresa.
“Domani è il giorno del matrimonio di una mia cugina, io sono fra gli invitati anzi noi siamo fra gli invitati”.
In cinque minuti mi ripassano davanti tutte le scene di “Monsoon Wedding”, il bel film di Mira Nair: la sposa con il sari nunziale di seta rossa, circondata da donne con sari , dorati, rosa, arancioni, bordeaux, marroni e gialli, ornate con i loro gioielli più preziosi e impreziosite dagli arabeschi applicati con la henna, annunciate dal tintinnio delle cavigliere.
E gli uomini, elegantissimi, che cercano di emulare il fascino immortale dei principi del Rajasthan con i loro Jodhpuri suit, con i loro Sherwani.
E io? …. E io come ci vado al matrimonio. “Scusa Ramanathan, grazie per l’invito ma credo di non poter accettare, nel mio zaino ci sono solo stracci da viaggio, pantaloni a tre quarti, t-shirt improbabili, sandali…”
E lui serafico “guarda che qui a Trichy ci sono sarti in grado di farti un vestito in poche ore, porta loro le tue misure e vedrai”.
In albergo, con l’aiuto della mia compagna di viaggio e una di quelle magiche strisce di carta che il signor Ikea mette a disposizione dei suoi clienti, cerco di prendere le misure per il mio abito. Annoto un po’ di numeri su un foglietto, circonferenza, gamba, cavallo, manica, collo, sperando che ne venga fuori qualcosa.
Torno al bazar e trovo una bottega con due sarti chini su una macchina da cucire a pedali. Gli spiego che ho bisogno per l’indomani di un abito all’occidentale e gli porgo il foglietto con le misure che avevo annotato. Probabilmente era da tempo che non ridevano così di cuore, mi guardano con aria compassionevole e cominciano a prendermi le misure, poi mi fanno scegliere una stoffa, mi avvisano che il lavoro mi costerà 2500 rupie, una trentina di euro, mi rendono il foglietto con le misure corrette e mi danno appuntamento per l’indomani mattina.
Non ho il coraggio di contestare il loro lavoro, ma i numeri scritti su quel biglietto non mi convincono proprio, non possono essere quelle le mie misure, a me sembra un abito fatto per un bambino di sei anni e non per un adulto, e la circonferenza poi, forse mi hanno scambiato per una Barbie.
In compagnia dei miei dubbi mi rifiugio in uno dei uno dei tanti locali del bazar per gustare un succulento thali. Ormai ho imparato ad usare le tre dita della mano destra per mangiare come i locali, la sinistra, quella impura, la tengo libera per il bicchiere e per continuare a rigirarmi il foglietto con quelle strane misure.
E poi all’improvviso il lampo! Ma questi pensano in pollici!!! Io in centimetri, parliamo due lingue diverse. Per fortuna esiste un sito utilissimo in queste occasioni, un convertitore on line pollici cm e così scopro il motivo dell’ilarità del sarto: stavo cercando di ordinare un vestito per un uomo alto circa quattro metri e mezzo, con un girovita di due metri e venti, e gambe come l’anta di un armadio quattro stagioni.
Il giorno dopo con il mio vestito ‘’in pollici” ero elegantissimo, ma invidiavo il fascino e la magia dei tradizionali kurta di seta indossati dagli altri uomini. E poi con le Adidas ai piedi…
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