di Camillo Vittici – 
E’ da ore che il brusio del reattore m’intontisce su quest’aereo dai sedili troppo stretti che non mi permettono d’allungare il piede che i crampi aggrediscono furiosi.
Guardo assonnato e intontito il grafico sullo schermo elettronico davanti alla cabina che in tempo reale informa sull’altezza, la rotta, la temperatura esterna. Meno sessanta! Mi vien da sorridere pensando ad un’eventuale passeggiata sulle ali! Diecimila metri! Più alti dell’Everest e delle nuvole più ardite. La linea del percorso indica che sotto di noi stanno scorrendo le aride e fredde terre d’Islanda. M’immagino i geyser, i ghiacciai, i muschi aggrappati alle rocce brulle e nude, il freddo mare pescoso.
L’altoparlante di bordo gracchia incomprensibili frasi in lingua danese dopo un asettico “din don” .
Ci si accorge che il velivolo perde impercettibilmente quota e all’occhio dell’oblò compaiono i ghiacci della Groenlandia.
E’ una sconfinata distesa di bianchi di varie tonalità varieganti in infinite gradazioni di grigi e d’azzurri dalle mille sfumature e interrotti da solchi scomposti dai disegni più strani, piccole e grandi vallate mantate di nevi e di gelo.
Ho lasciato da poche ore il luglio afoso d’Italia e già vivo, tuttora inconscio, una nuova, quasi virtuale realtà in cui è difficile riconoscermi, sentirmi lo stesso, quasi proiettato, per magico evento, verso un mondo che non m’appartiene, ma che, tuttavia, voglio ghermire in tutti i suoi aspetti, voglio rubarne l’essenza, voglio carpirne i segreti, voglio divenga anche mio. Sondre Stromfiord.
L’aeroporto sembra posato in una valle di luna, terra arida tutt’intorno, faticosamente rivestita dai chiari verdi dei licheni, dei muschi e d’erbe che faticano a crescere nella continua e ossessiva ricerca di una manciata di terra per sopravvivere.
La manichetta di tela che segna la direzione del vento sembra ballare un assurdo Morbo di Parkinson sferzata dall’aria gelida che scivola silente dalla vallata più a est.
Un’ora d’attesa e su uno spiazzo d’asfalto ronzano già le pale d’un grosso elicottero rosso.
Ballonzola in un tremito irreale mentre cavalca profonde aride valli e fiordi infiniti nella corsa verso Sisimiut.
Non esistono strade: il gelo d’inverno, monarca e signore di queste terre, le cancellerebbe e sconvolgerebbe, come se volesse annientare ogni opera dell’uomo perché questo è il suo regno e qui esprime violentemente e con caparbia la suo indiscussa potenza.
E’ da qua che voglio intraprendere la rincorsa a terre a me ignote e troppo a lungo sognate.
Da qua, come volessi iniziare la mia catarsi purificatrice e liberatrice nell’aria serena dei freddi mari di cristallo, respirare atmosfere surreali. Qui, dove inizia il mondo inanellato dai paralleli che si vanno ormai stringendo attorno al polo, dove non esiste dimensione, dove il silenzio ti riveste di nulla, dove la luce che non muore vince il pendolo costante della notte, dove la purezza dei ghiacci ti lava l’anima dall’ossessione delle ansie e ti scioglie dai chiavistelli d’ogni giorno, dove il cielo si confonde con il mare in una stupenda assonanza di colori, dove il sole non va a dormire e diviene tuo per tutto il tempo che desideri.
M’attende un “postale”, una nave rompighiaccio che è un misto di trasporto passeggeri, di merci e di posta.
La cabina è confortevole, ma, tuttavia, è abitata ben poco poiché la vita si svolge prevalentemente sul ponte.
Puntiamo decisamente verso nord con una navigazione pigra che si culla chieta su un mare d’olio in direzione dell’isola Disko e della città di Uummanaaq.
Ciò che mi colpisce subito sono i giorni che non finiscono mai: il sole è sempre là, sempre fermo sull’orizzonte, sembra si riposi del suo “riandar li sempiterni colli”, che sosti la sua corsa per rimirare gli icebergs che si stagliano lontani sul mare d’una calma incredibile in questo giorno infinito.
E mi sovvengono così le vaghe cognizione della scuola ormai lontana nel tempo e nella memoria: “Ai poli ci sono sei mesi di giorno e sei mesi di notte”, e qui lo verifico e lo scopro con emozione infantile.
Sul ponte si fanno nuove conoscenze, lingue disparate si intersecano in mille diverse espressioni, facce nuove e sferzate dall’aria gelida ti divengono amiche come se avessero già qualcosa di comune, di noto, di già conosciuto nella solidarietà di questo incedere comune verso nuovi orizzonti.
Un quadro curioso si disegna nei cento colori delle giacche a vento (la temperatura si è fermata sugli otto gradi), il rumore è solo quello dei motori della nave che ci giunge attutito e il fumo grigio del fumaiolo sale alto e si dissolve pigro nel cielo di cobalto.
Ora le montagne di ghiaccio che vagano senza una meta prestabilita in questo mare sono alte e vicine.
Paiono monumenti dalle mille forme scolpite da un’artista di fervida e sfrenata fantasia.
A volte torri, a volte cattedrali gotiche, costruzioni fantastiche plasmate dal gelo e dal vento in cui tenti di identificare una forma conosciuta, che ti eccitano la fantasia troppe volte repressa.

Icebergs
La luce e il sole giocano fra gli anfratti e i picchi, ne dipingono le pareti con colori da favola, caleidoscopio di infinite sfaccettature, pennellate di toni che scivolano da gialli intensi a violenti arancioni che rincorrono il rosa ed il rosso, una irreale coreografia di un mondo che non ti appartiene, ma che ora è tutto tuo e t’immergi, anneghi nell’essenza di fondali sconosciuti e che qui, solo qui, si plasmano in una realtà che nello stesso tempo è sogno e allucinazione, è quadro psichedelico e film in tecnicolor, senza spazi, senza limiti in una sequenza continua stereoscopica.
Vorrei essere un pittore per esternare, per interpretare, per fissare su un quadro infinito questa scena fantastica e riprodurre gli innumerevoli colori che giocano rincorrendosi sulle pareti lisce dei ghiacci! Un riflesso più impertinente di altri ti sfregia gli occhi che i Rajband non riescono a proteggere mentre una lastra si stacca dalla candida massicciata con un cupo rumore, quasi un tuono che si perde sul piatto pavimento del mare e s’immerge spaccandosi in una miriade di scaglie bianche e di diamanti lucenti.
Laggiù, verso il largo, due balene si inarcano lente sulle onde soffiando, di tanto in tanto, alti spruzzi di vapore, cercando il “kril” o cantando, libere e indisturbate, la loro canzone d’amore.
Il cielo è terso, le nuvole han deciso di non offuscare il fantastico scenario con ombre inopportune.
Solo più a nord si colora d’un tenue arancio che gioca con gialli intensi e rosa pallidi, quasi lembi di velluto dai toni di pastello disegnati ad un magico telaio da mani fatate.
L’acqua è cristallo verde chiaro che lascia trasparire i profondi piedistalli instabili degli icebergs, giganti da leggenda che nascondono in mare i nove decimi del loro corpo massiccio.
Fredda oltre ogni immaginazione: se si cadesse non si potrebbe sopravvivere oltre i centottanta secondi.
Ed è per questo che a bordo ogni passeggero è dotato di una tuta rossa di speciale coibentazione.
Alla prova di naufragio sembriamo tanti nanetti buffi e uguali o spiritelli curiosi usciti da una favola d’altri tempi.
T’immergi così in un film multimediale di colori e di sensazioni nuove e mai immaginate perché la fantasia più sfrenata non era mai giunta a tanto e nemmeno gli onirici viaggi mi avevano condotto nel più completo abbandono della mente alla fantasmagoria del presente e nemmeno gli “strips” d’un eroinomane incallito penso non abbiano mai offerto dei “flash” tanto fantastici.
I bianchi sfacciati del ghiaccio giocano con i verdi policromi dell’acqua, il rosso violento delle tute con il cielo blu metallico, l’azzurro dello scafo con l’arancione delle barche di salvataggio.
Le panchine del ponte sono sempre affollate: è un punto d’osservazione privilegiato in quanto permette di spaziare lo sguardo a trecentosessanta gradi e di commentare in gruppo lo spettacolo che cangia di minuto in minuto, senza che la noia ti assalga o il sonno ti ghermisca.
Si tarda il più possibile a ritirarsi in cabina (due letti sovrapposti, un armadio, un oblò, due lampade e un bagnetto piccolo piccolo) perché senti che la notte (quale notte in queste ventiquattro ore di luce?) ti potrebbe rubare anche il più piccolo quadro dello straordinario spettacolo da cui sei rapito e profondamente coinvolto, protagonista e spettatore.
Il mio compagno di “camera” è un tipo strano, un omino piccolo di età indefinita con un viso in cui un trattore ha scavato un’infinità di rughe; due occhietti vispi d’un marrone scuro che si affacciano fra ciglia folte a mo’ di gufo, i capelli che non si sono ancora decisi a incanutire raccolti, lunghi oltre la nuca, da una cordicella di pelle ed i caratteri somatici sono decisamente mongoli. Indossa un paio di blue jeans sdruciti dall’uso e scoloriti dal tempo e una camicia color salmone, troppo grande per le sue esili spalle.
Abbiamo, tuttavia, qualcosa in comune: una disastrosa conoscenza dell’inglese in cui, fra silenzi troppo lunghi ed imbarazzati per l’incapacità di esprimerci, tentiamo disperatamente di comunicare.
Eppure, ora dopo ora, con l’aiuto di gesti sin troppo espressivi, finalmente riusciamo a gettare un ponte oltre la lingua e la nazionalità ed i frequenti sorrisi spontanei e reciproci vanno a poco a poco plasmando e incrementando una nuova, curiosa, profonda amicizia.
Aveva lasciato queste sue terre ed i ghiacci natali da molti anni: il villaggio in cui aveva vissuto la sua giovane vita si andava spopolando.
Era piccolo, esiguo il numero degli abitanti, isolato e troppo lontano dalle più vicine comunità da cui dipendeva per i normali e soliti interscambi commerciali. Dal paese che stava agonizzando già se n’erano andati i giovani e gli anziani stavano morendo d’inedia.
La maggior parte delle case di legno e le baracche erano crollate.
La Chiesa, troppo bella nelle sue sculture di artigiani d’altri tempi, era stata smontata pezzo per pezzo e trasportata più a sud da lunghe teorie di slitte. Era il simbolo, l’anima di un villaggio che ognuno si sarebbe portato nel cuore per tutta la vita.
Forse sarebbe bastato levare di nuovo lo sguardo sul nero campanile aguzzo per ricordare i primi passi, i primi sogni, la scuola, la casa, le prime sfrenate corse con i cani nel deserto bianco oltre le rupi, i primi amori, per poi lasciar posto alla nostalgia d’un lontano spicchio di mondo tanto amato. E venne anche il turno di Haannuk (così si chiama il mio nuovo e strano compagno di viaggio).
Ormai non c’erano più gli amici con cui ritrovarsi nelle lunghe ore della lunga notte artica, le risate, i canti, le note melanconiche di una vecchia fisarmonica di cartone mentre sulla fiamma s’abbrustolisce un grosso pezzo di foca.
Una fiamma che è sempre troppo debole per imporsi nell’eterna lotta con il gelo che senza grosso sforzo riesce a infilarsi fra le crepe dei vecchi legni e con il vento che non cessa di urlare la sua canzone lugubre e stonata.
S’era attardato oltre gli altri a causa del padre troppo vecchio per mutare le abitudini di vita ormai inveterate nel tempo e consolidate nei lunghi anni. Non voleva nemmeno lontanamente pensare di lasciare il villaggio, ma la noia, la solitudine, i giorni troppo vuoti, la notte che non finisce mai hanno avuto il sopravvento, maturando la decisione, seppure sofferta, di partire.
Tenta invano e s’arrabbia di non poter esprimere a fondo nel suo racconto ormai spedito le sensazioni amare che lo assalivano nell’allontanarsi a bordo della “Disko”, la motonave danese in continuo circuito da una costa all’altra della Groenlandia.
I colori ancora vivi delle casette di legno si stavano lentamente sbiadendo nella distanza e poi, oltre il promontorio, il pianto.
Lo attendeva il fratello nel sud della Danimarca dove gestiva una birreria di periferia.
Un locale senza troppe ambizioni, ma che aveva una particolarità curiosa e, per questo, meta di tanti turisti.
La linea di frontiera passava nel bel mezzo del locale per cui potevi entrare dalla porta a nord e uscire da quella di fronte per ritrovarti in terra di Germania.
Sulle opposte pareti erano appese le bandiere danesi e i drappi tedeschi. Ma ora, come i salmoni risalgono la corrente furiosa dei torrenti per tornare alle tane natie e poi morire, aveva deciso di rifare i suoi passi a ritroso per dimorare di nuovo negli antichi luoghi.
Ed ora mi ritrovo a fargli da involontario e curioso compagno di viaggio. E’ lui che mi indica e riconosce villaggi e città (poche migliaia d’abitanti popolano le principali) che superiamo nell’incedere calmo della nave. Frequentemente approdiamo con l’eccitazione che coglie chiunque che da troppo tempo ne è stato lontano, come se, brandello dopo brandello, il passato tornasse di nuovo a concretizzarsi e ricostruisse il presente.
Ilulissat… Jacobshavn … Nomi astratti, senza un’etimologia che riporti ad un sia pure lontano significato, difficili da pronunciare e più ancora da leggere. Ogni scalo è un evento inconsueto: la gente del posto si assiepa sul porticciolo ad assistere all’attracco, allo sbarco dei passeggeri e alla consegna dei pacchi della posta, come fosse una cerimonia sempre nuova e da sempre attesa.
Un fatto che sconvolge le abitudini ormai cristallizzate, che diversifica, seppur per poche ore, la vita scolpita nella pietra del tempo di questo tempo tutto uguale.
L’emozione si fa grande e l’eccitazione più violenta quando l’altoparlante annuncia l’arrivo ad Uummanaaq fra circa un’ora.
Già nelle ore lunghe di queste sere infinite m’aveva parlato del paese. Non è certo il piccolo villaggio che aveva lasciato da tanto tempo, ma un Centro di grande importanza sul piano commerciale e strategico per la navigazione e la pesca.
Qui vive una sorella e qui conta di stabilirsi per iniziare una nuova attività, magari nell’industria della pesca.
Questo piccolo “innuit” (è questo il nome locale degli esquimesi ) mi racconta che Hummannaq vuol dire “cuore” e la cittadina, infatti, é abbarbicata sulle basse falde rocciose d’un alto monte che ricorda la sua forma.
Ora la nave è impegnata in curiosi slalom fra gli icebergs che si fanno sempre più grandi e ravvicinati sino a sfiorarli.
La chiglia cigola in un lamento metallico quando frange i lastroni più superficiali e li frantuma in cento schegge rilucenti.
La massiccia sagoma della montagna ora si staglia ben definita nel cielo di cobalto e più sotto si scorgono, come comparissero dal nulla, le piccole case di legno aggrappate alla roccia in cui occhieggiano vezzose finestrelle bordate di bianco.
E’ un fantastico caleidoscopio: costruzioni da fata, da favola, da presepe. Sembra che un estroso pittore si sia divertito a spruzzare ad occhi chiusi i mille colori della tavolozza su uno sfondo marrone.
Ora che siamo più vicini riesco a mettere a fuoco ogni particolare.
La scena è di cartolina, troppo fantasiosa per essere vera.
Il palcoscenico è un mare verde di smeraldo punteggiato da piccoli icebergs che sembrano immobili, sullo sfondo le casette di legno d’infiniti colori che s’appoggiano alla roccia con grosse palafitte che ne mantengono l’equilibrio orizzontale, a destra il porticciolo in cui brulicano barche e pescherecci dalle tinte vivaci che confina con la fabbrica per la lavorazione dei prodotti ittici, al centro una chiesa, l’unica costruzione in pietra, dal campanile aguzzo e per fondale l’alta, nuda, imponente montagna a forma di cuore.
L’azzurro violento d’un cielo terso perennemente graffiato da stormi di gabbiani petulanti incornicia il quadro surreale.
Le operazioni di sbarco sono veloci e Haannuk insiste che lo accompagni prima ancora che mi metta in cerca di un Hotel, cosa piuttosto impegnativa e di dubbia realizzazione visto che ad Uummanaaq ne esiste solo uno.
Mi carico lo zaino sulle spalle e c’incamminiamo su una strada ripida e dal selciato sconnesso.
Mi colpisce il coro dei latrati dei cani che sale da tutto l’abitato. Haannuk , notato il mio stupore, mi dice che nei lunghi, interminabili mesi invernali, quando il buio della notte è violato soltanto dai tratti soffusi dei colori sbiaditi dell’aurora boreale, gli unici mezzi a disposizione degli esquimesi per spostarsi e per andare a pesca sono le grandi slitte trainate da mute di cani.
Il loro numero supera di tre volte quello degli abitanti; di grossa taglia e con folto pelame chiaro sono legati a brevi catene saldate a grossi anelli inchiodati alla roccia.
Dobbiamo salire sino ai piedi del monte.
Stranamente non avverto la fatica che comporta, tuttavia, un fiatone sempre più intenso ed un accelerato battito del cuore.
Mi perdo nel nuovo, nei fregi caratteristici delle finestrelle; oltre i vetri s’intravvedono vasi di fiori rossi e gialli.
Le slitte sono accatastate sotto i porticati di lamiera, lunghi fili metallici sostenuti da esili pali distendono al sole acerbo innumerevoli indumenti colorati che sembrano il “gran pavese” d’una nave da crociera in un giorno di festa.
Sulle grandi griglie di legno stanno seccando i merluzzi disposti con disegno preordinato e sperimentato da secoli e i bimbi fanno crocchio nei cortiletti e giocano con rudimentali tricicli e bambole di pezza. Ci sediamo su un muretto di pietre e riguardiamo da quassù la stessa scena dell’arrivo.
Gli iceberg si estendono all’infinito, punteggiano il mare come stelle che bucano il cielo.
Lo scafo rosso della nave che ha ripreso il suo percorso verso Upernavik spicca violentemente sul fantastico fondale verde scuro.
E giungiamo, finalmente, a una casetta azzurra.
Haannuk spinge con dolcezza la porta e ci inoltriamo in un breve corridoio: una piccola casa di bambola con poche piccole stanze dalle pareti della stesso colore. Si ode il canto dolce e sommesso di donna: una nenia che ripete un ritornello infinito, cantilena sussurrata senza pause in cui i toni ovattati della voce si alternano al ritmo d’un calmo respiro.
Poi il silenzio.
Pochi passi leggeri, un esile ombra sul pavimento d’assito e due occhietti curiosi che ci scrutano nella penombra.
Un abbraccio che sembra non finisca mai.
E’ una donna che pur nei caratteri mongoli d'”innuit” doveva essere bella in tempi passati.
Esile, quasi trasparente, dal sorriso bellissimo che scopre una teoria di denti perfetti per nulla intaccati dalla patina del tempo.
Evidentemente ci attendeva, o, meglio, attendeva il fratello troppo a lungo lontano.
Non sto certo a descrivere il colloquio serrato e sereno che si svolgeva fra i due.
Il “groenlandico” è una lingua astrusa, nettamente incomprensibile, formata da un susseguirsi di tante piccole parole di poche lettere che vengono cementate in espressioni complesse ed elaborate, espresse in modo veloce e senza pausa alcuna, senza radici etimologiche che possano ricondurre ad altri idiomi conosciuti. La tavola è sobriamente apparecchiata; viene aggiunto un terzo piatto (mi auguro che l’amico abbia spiegato la mia presenza) e ci sediamo.
Un mazzetto di piccoli fiori bianchi che sembrano ciuffi di cotone sono al centro del desco.
Una montagna di gamberetti rosa sono pronti per essere aggrediti, mentre più tardi, appariranno delle grosse bistecche di balena.
Terminiamo il pranzo con macedonia di frutta in scatola e uno strano, lungo, chiaro caffè.
Se non avessi l’orologio non saprei se questo sia stato il pranzo oppure la cena: la luce del sole che le tende non riescono a reprimere non cessa di riversarsi dalla finestra della cucina, mentre le ombre veloci dei gabbiani che sfiorano la casa si stagliano saettando sulle pareti.
Ora si ode il pianto d’un bimbo provenire dalla stanzetta attigua e la madre, subito accorsa, che riprende la sua dolce ninna nanna.
Canta sommessamente un’antica leggenda esquimese.
Nuna, un bambino di quattro anni, stanco del freddo della lunga notte, decide di correre incontro al sole e alla primavera.
A nessuno confida il suo segreto e la sua voglia d’evasione.
Pensa di trovarlo là, oltre il villaggio, oltre la montagna, oltre il mare bianco e gelato i cui confini si confondono col buio, là in direzione dell’aurora boreale che da qualche tempo aveva accentuato i suoi bagliori e si manifesta, ormai, nelle sue forme più fantastiche.
Parte tutto solo su una piccola slitta trainata da Yaacq, il cane più grosso. Erano amici per la pelle sin da quando era nato, l’unico cui era permesso di ciondolare liberamente per la casa e di dormire accanto al suo lettino.
Mentre il villaggio dorme scompaiono oltre il porto addormentato e, solo dopo aver superato l’ultima casa, il ragazzino urla con voce infantile il suo incitamento al cane nella certezza d’essere il primo che si rivestirà della novella luce e del caldo confortante del nuovo sole di primavera.
E corrono, così, per ore senza sostare, con lena non incrinata o smorzata dalla neve fresca che da poco ha incominciato a cadere sul deserto di gelo, dapprima con fiocchi ghiacciati che feriscono gli occhi e poi con l’intensità d’una tempesta in una bufera impossibile.
Il silenzio è lacerato dal vento che ulula come cento lupi lontani e si ode a malapena l’ansimare del cane ormai stremato che si rifiuta di continuare la pazza corsa e si adagia con gemiti acuti.
Il pelo della giacca a vento si è ricoperto di una foresta di ghiaccioli che ricordano stranamente gli altarini delle chiese cattoliche gremiti di piccoli ceri bianchi votivi e il viso è ormai cianotico.
Il bambino raduna le poche forze che gli sono rimaste e contro la slitta raccoglie un grosso cumulo di neve dove pratica un foro che possa ospitarlo con il cane. Si adagia accanto all’animale per sfruttarne il calore e dalla bisaccia, a tentoni, riesce ad estrarre un pezzo ormai gelato di grasso di foca e un frammento di merluzzo seccato al sole ormai lontano dell’estate passata.
Il sonno è più forte del freddo, gli occhi si chiudono presto in un curioso transito dal buio al buio.
Il tempo, da queste parti, non ha limiti e non è scandito dai cicli del cielo del sud, sempre uguale nella lunga notte e nel giorno infinito.
E quando ci si desta non si sa se è la sera o il mattino ad accogliere i primi sbadigli e l’espressione incerta degli occhi che s’aprono al mondo. Tuttavia il risveglio è più sereno per Nuna: ora si sente più leggero anche se la neve che s’è accumulata durante il lungo sonno pesa sul piccolo corpo come un macigno.
Sono inutili i richiami a Yaacq : il cane è freddo e rigido ed è giunto all’ultimo traguardo delle sue corse infinite sulla neve.
Ora il bambino è solo.
S’incammina verso l’aurora che sul deserto bianco s’intravede appena.
La candela della vita ormai s’è fatta moccolo e la flebile fiamma combatte l’ultima battaglia tentando invano di resistere al vento degli eventi troppo violenti per un piccolo cuore.
Il corpo è disteso bocconi su una lastra di ghiaccio e il sangue s’addormenta nelle vene.
Una volpe bianca lo annusa curiosa e la piccola mano si aggrappa alla lunga coda. Lo trascinerà lontano, oltre la banchisa, oltre il mare di ghiaccio, oltre le terre del nord addormentate nel gelo, oltre le nuvole grigie che il vento disperde per gioco.
E quando nella primavera ormai in cammino verso l’estate artica sboccerà l’aurora boreale nei suoi colori più vivi e iridescenti vedrai alla sua estremità più lontana una banda più chiara e luminescente.
Riconoscerai la coda della volpe bianca ancora stretta dalle mani di bimbo di Nuna che sta giocando lassù, rivestito dalla luce del sole che, invano, ha rincorso nella notte polare.
Ora il bimbo s’è di nuovo addormentato e la madre ritorna col solito dolce sorriso.
Anche per me è disponibile un letto, una branda pulita e una calda coperta colorata.
La stanza è piccola e confortevole: sembra d’essere tornati alla cabina della nave.
Ho un bel daffare a tirare il più possibile il tendone scuro per coprire la finestra: la luce pare voglia entrare ad ogni costo e ci riesce senza alcuna difficoltà.
Mi arrendo e so già che da oggi in poi dovrò coesistere con l’assenza della notte. Ne sento un bisogno pressoché biologico: è come se mancasse il ciclo naturale del tempo in cui la vita trascorsa si è adattata e assuefatta.
Ma anche questo è nuovo o parte di quel “nuovo” alla cui ricerca mi sono tuffato, deciso ad immergermi fino in fondo.
Il sonno, ora, vince il sole; la stanchezza prevale sul desiderio di strappare ancora un’ora alle sensazioni strane e straordinarie che questo mondo ti elargisce a volte dolci e a volte violente, a volte con impatto brusco e a volte mite. Non so quante ore è durato il mio sonno.
Trovo al mio risveglio il tavolo ricoperto da tazze colorate, il bricco del latte (da dove verrà?) e del caffè.
Mi attendono con larghi sorrisi Haannuk e un uomo dai tratti decisamente esquimesi.
O mongoli? Si sa che popoli orientali si son spostati nel corso dei secoli attraverso la Baia di Baffin, verso occidente per continuare la migrazione verso il sud sino a raggiungere l’America Latina.
Conosco, così, l’uomo di casa, il padre del bimbo la cui presenza mi è nota dalle ninne nanne della donna.
Lavora nell’industria ittica del porto.
Qui si congela il pesce (nella quasi totalità si tratta di merluzzo) che verrà spedito nei paesi europei in cassette sotto ghiaccio.
Ed è questo il suo particolare lavoro: con una minuscola barca arpiona un piccolo iceberg dei tanti che pullulano nella rada e lo trascina nella fabbrica dove verrà sminuzzato in minime scaglie per congelare il pesce.
Ha il volto abbronzato e la pelle secca.
Immagino che la sua vita non sia così scialba come si potrebbe credere a giudicare dal lavoro che svolge.
Infatti, senza poche insistenze, si appresta a raccontare le sue frequenti scorribande sui ghiacci.
E’, innanzitutto, un cacciatore.
Ogni anno, ancor prima dell’avvento della primavera e dei primi agognati raggi del sole, lascia la casa e parte per viaggi avventurosi, tutto solo, verso l’ignoto. L’ultima avventura, tuttavia, ha avuto un taglio tragico, sconcertante e il racconto appassionato dell’Uomo (così lo chiamerò, non solo perché non ne ricordo il nome, ma per accentuare la dignità e la diversità di colui che è o dovrebbe essere al di sopra di ogni animale) scorre piacevolmente nelle ore tranquille e serene di questa amena, infinita giornata di sole.
Haannuk è ormai divenuto un ottimo interprete e, sottovoce per non disturbare ed interrompere il racconto, mi traduce, eccitato, con gesti e con parole la fantastica storia.
Aveva lasciato il villaggio quando ancora l’aurora boreale saettava bassi sull’orizzonte i bagliori acerbi d’una primavera che ancora avrebbe tardato a dipingere con pennellate di gialli e d’arancione le cime delle rupi ancora vestite di ghiacci.
Alte grida incitavano la muta dei cani che con forti latrati puntavano le zampe nella neve per trainare la grossa slitta.
Otto splendidi animali dal pelo folto legati e assicurati con cinghie di pelle ad una grossa fune centrale.
La guida era affidata a Taruk, il capo-muta, forse il più vecchio, ma certamente il più esperto, reduce da tanti viaggi interminabili nell’infinito deserto del pack.
Da un mese la razione di cibo era stata raddoppiata e l’abbondante dose quotidiana di interiora di foca aveva plasmato i loro muscoli e accentuato la forza. La catena che li teneva legati alla pietra era stata accorciata.
Costretti al gelo, alle bufere, alle sferzanti nevicate, al vento di ghiaccio, a temperature impossibili erano divenuti delle creature pressoché invincibili e provati ad ogni fatica e avversità.
Quando venivano liberati per le frequenti corse di prova scatenavano al massimo la loro potenza fisica.
La slitta pareva volare e le asperità del suolo non intaccavano l’assetto della corsa né le assi gemevano ai contraccolpi d’una lastra di ghiaccio più compatta. L’aveva curata durante le lunghe ore dell’inverno, aveva sostituito i legni più fragili e provati, ne aveva rinforzato le giunture con legacci di pelle e aveva isolato le assi con lunghe pennellate di vernice.
Sapeva bene in quale direzione stava correndo: mille volte aveva calcato la pista bianca e desolata orientandosi con le stelle e i bagliori dell’aurora ed altrettante era tornato con il carico delle pellicce.
Era conscio del tempo senza limiti e senza valore, delle distanze senza un preciso punto d’arrivo, delle interminabili notti senza albe e tramonti, delle fatiche senza il conforto di un domestico ristoro, delle avversità imprevedibili, dell’agguato delle bufere.
Solo quando i cani davano segni di stanchezza rallentava la corsa e si fermava. Si adagiava sotto le pelli della slitta e si abbandonava al sonno ristoratore. Gli animali, capaci di sopportare temperature di sessenta-settanta gradi sotto zero, scavavano una provvisoria tana nella neve dove si accucciavano a contatto gli uni con gli altri per non disperdere il calore, raggomitolandosi per coprire il naso con la coda, senza tema di bagnarsi poiché il pelo di più di dieci centimetri è protetto da oli naturali che li rendono impermeabili.
L’Uomo sapeva bene che nessun pericolo poteva sopraggiungere all’improvviso poiché i latrati della muta l’avrebbero destato in tempo per impugnare senza indugio il fucile che teneva sempre a portata di mano.
Da molto tempo aveva lasciato il villaggio e sapeva d’essere finalmente giunto nel territorio della caccia.
Per prima cosa (ormai l’esperienza di mille corse era maestra) s’apprestò a costruire un igloo.
Lavorava con l’abilità di un valente muratore, modellando col coltello più grosso la neve ghiacciata a mo’ di mattone.
Disponeva con lenti gesti dosati i blocchi di ghiaccio in successive spirali decrescenti a forma emisferica e praticava un cunicolo d’ingresso e uno sulla sommità per la ventilazione.
A volte aggiungeva un pertugio, quasi un finestrino che normalmente chiudeva con le interiora delle prede, che gli poteva permettere una rapida visione all’esterno.
Ormai era partito da quasi un mese e la poca selvaggina che aveva abbattuto era servita a sfamare se stesso e la muta.
Ora doveva fare sul serio e affrontare gli animali più astuti e veloci come le volpi bianche e quelli più aggressivi come gli orsi bianchi polari.
Frattanto la visibilità era decisamente migliorata e la luce, seppur ancora tenue, lasciava intravvedere i particolari.
S’era già allontanato più volte dall’igloo e per lunghi tratti solo in compagnia di Taruk, muovendosi senza fatica.
Gli stivaloni, il giaccone e i guanti di pelle di foca lo proteggevano dal freddo intenso che diveniva quasi palpabile nelle basse folate di nebbia che un vento fastidioso e incessante sospingeva da nord.
L’orizzonte era chiaro e nella luce radente riusciva a scorgere le impronte degli animali selvatici.
La muta era rimasta in attesa al “campo base”, legata, come sempre, alla corda da traino della slitta.
Scorse due orecchie aguzze che si stagliavano nel riverbero del sud.
Il resto della volpe era indefinibile e si confondeva col bianco della neve.
Un unico, secco sparo lacerò l’aria e poco dopo la preda era già raccolta nel capace zaino.
Prima del ritorno il fardello si era di molto incrementato.
Mentalmente faceva i conti di quanto avrebbe guadagnato con la vendita delle pelli di questa tornata nell’emporio di Hummannaq e, se il buon giorno si vede dal mattino, quest’anno avrebbe potuto acquistare una slitta tutta nuova, un moderno fucile a ripetizione e passare l’inverno prossimo senza difficoltà finanziarie.
All’interno del rifugio, nelle ore più fredde, trascorreva il tempo dormendo e scuoiando le volpi.
Era un’operazione, quasi una cerimonia, che compiva da molto tempo e per lui era facile affondare il coltello nei punti giusti in modo che le pelli non venissero in alcun modo rovinate.
Parte della carne veniva abbrustolita su un fuoco alimentato da ritagli d’assi che avevano trovato posto sul lato anteriore della slitta, mentre una lampada ad olio di balena riusciva a malapena ad illuminare l’interno.
Il resto veniva naturalmente congelato e stipato in neri sacchi di plastica.
I cani avevano già fiutato il fumo che saliva dal pertugio superiore e con latrati insistenti reclamavano la razione quotidiana che giungeva poco dopo sotto forma di fumanti e abbondanti porzioni di interiora.
E allora iniziavano le lotte per accaparrarsi il pezzo migliore e gemiti e guaiti si perdevano lontani nella landa ghiacciata.
L’Uomo aveva costruito con la solita maestria un vano attiguo dove stipare la carne e le pellicce che, giorno dopo giorno, si aggiungevano alle precedenti. In cuor suo, tuttavia, sperava con tutte le sue forze d’incontrare lui, il grande, imponente, maestoso orso polare.
Sarebbe stato il vero colpo di fortuna, anche perché la pelle gli sarebbe stata pagata ben lautamente e, non ultimo, avrebbe soddisfatto l’orgoglio e l’ambizione di ogni cacciatore di aver sconfitto e ucciso il re del pack.
Aveva già tolta la sicura al fucile e già inquadrato nel mirino uno splendido esemplare di volpe allorché avvertì, sia pure impercettibile e lontano, un grugnito familiare e conosciuto.
Si astenne dallo sparare e si volse lentamente.
Anche Taruk parve comprendere la particolarità dell’evento e si acquattò nella neve.
Sia pure controluce intravide la sagoma chiara dell’animale, immobile sulle quattro zampe che fiutava l’aria con atteggiamento sospetto e diffidente. Ora il verso si levava più forte e copriva l’urlo del vento che sferzava la pianura trasportando manciate di fiocchi gelati, ululando in macabri toni acuti. Anche l’Uomo s’era accucciato e si sforzava di non perdere il bersaglio ormai confuso nel turbinio della neve.
Sentiva montare una gran rabbia: l’oggetto delle sue speranze, il sogno delle ambizioni era finalmente a portata di mano o, meglio, di fucile e un mutamento atmosferico improvviso gli precludeva la possibilità di abbattere una tal preda. Non si diede per vinto e, cercando di evitare qualsiasi rumore, infilò nella canna i pallettoni più grossi.
L’orso, tuttavia, aveva annusato la presenza del pericolo e, dapprima con lento incedere e poi con movimenti più accelerati, si stava allontanando. L’uomo si mise all’inseguimento, quasi bocconi per non tradire la sua presenza, tanto più che non era affatto controvento e l’odore suo e del cane avrebbero maggiormente spaventato il plantigrado.
Con brevi soste e lunghi tratti di corsa ormai s’era allontanato parecchio dall’igloo, ma non voleva perdere le tracce dell’animale, non voleva sperimentare l’amaro sapore della sconfitta e sopratutto non voleva rinunciare al sogno d’ogni grande cacciatore.
L’orso era là, sicuramente vicino, ne sentiva i gorgoglii della gola accentuati dalla corsa; le impronte, anche se la neve giocava a cancellarle in breve tempo, erano ancora visibili al suo occhio esperto.
I movimenti, tuttavia, non erano più così sciolti, le gambe si facevano sempre più pesanti, il cuore batteva all’impazzata, il respiro aveva assunto un ritmo vertiginoso e il fiato si condensava attorno alle labbra in una bianca, tragica maschera.
Eppure l’orso, lo sentiva, non era lontano e, prima o poi, si sarebbe fermato. Ormai era allo stremo e decise di fare un cumulo di neve per ripararsi dal vento e riposarsi.
Alternava momenti di sonno profondo a dormiveglia in cui gli occhi combattevano nel bisogno impellente di chiudersi mentre la mente doveva essere sveglia per avvertire ogni mutamento.
Non temeva, certo, un attacco improvviso poiché il fedele Taruk l’avrebbe subito avvertito, ma il desiderio di non perdere la preda era più forte della stanchezza e del logoramento dell’attesa.
Il vento del nord, frattanto, s’era attenuato e il cielo, ormai chiaro, era sereno; si notavano solo poche stelle, le più grandi, le più luminose. L’Uomo si mise di nuovo in marcia con fare circospetto e vigile, sapeva che l’animale non era lontano, era come se ne fiutasse l’acre odore e ne avvertisse la presenza.
Eccome era presente! Era lì, a una decina di metri.
Questa volta si era rizzato sulle zampe posteriori e si preparava all’attacco. Sembrava un gigante, splendente nella sua pelliccia candida che rifletteva i raggi taglienti del primo sole che s’affacciava all’orizzonte del sud, possente nella statura eretta e fiera, selvaggio nei movimenti nervosi e convulsi.
Un esemplare che in tanti anni di caccia non aveva mai visto.
La rapidità con la quale si avventò sul cacciatore fu più intensa della sorpresa e ancor prima di piazzare il fucile gli fu addosso.
Toccò al vecchio Taruk intervenire: con un attacco brusco e repentino si avventò alla gola dell’orso.
La reazione fu immediata: le lunghe, grosse unghie del plantigrado dilaniarono il corpo del cane che cadde a terra insanguinato e fra guaiti atroci.
L’Uomo si riprese immediatamente, puntò il fucile e fece fuoco.
L’animale era già sparito, ma era stato sicuramente ferito a giudicare dalle tracce rosse che chiazzavano la neve.
Tornato sui suoi passi scoprì che una grossa macchia di sangue si spandeva da sotto il corpo del cane ormai esanime per coagularsi e gelarsi in pochi istanti. La sfida, pertanto, era lanciata ed era deciso a combatterla, se necessario, sino all’ultimo sangue.
Ora era solo, stanco, affamato.
Decise di tornare all’igloo, ben sapendo che i cani non potevano sopportare di rimanere troppo a lungo senza cibo.
Solo l’esperienza e l’innato senso di orientamento lo riportarono al rifugio dopo ore di gravoso e stentato cammino.
I cani lo avevano avvertito già da lontano e gli alti e furiosi latrati lo avevano guidato.
Lo colse un sonno profondo turbato da sogni e incubi inquieti.
Il risveglio, tuttavia, avvenne in modo brusco e violento: l’abbaiare vigoroso e improvviso della muta lo avvertiva che qualcosa di insolito stava accadendo all’esterno.
Stentava a crederlo e ancora gli pareva di sognare: l’orso era là, ad un centinaio di metri e lo fissava con espressione feroce e vendicativa.
Questa volta non si sarebbe fatto sorprendere dalla rapidità degli eventi. Eretto davanti all’igloo in aperto gesto di sfida prese con calma la mira ed esplose un primo colpo.
Le mani, invero, gli tremavano per l’emozione e subito innestò un’altra cartuccia. L’urlo dell’enorme animale gli confermò che il primo colpo non era andato a vuoto, ma durante la seconda carica si era eclissato, complice la nebbiolina fastidiosa e pungente che s’era levata bassa sul pack.
Iniziò, allora, una pazza rincorsa con un rancore e un risentimento furioso che non aveva mai provato non solo verso una bestia, ma, sopratutto, nei riguardi di un uomo.
E corse incurante della fatica e del cuore che gli esplodeva in petto, era deciso a finirlo anche perché le ferite dovevano averlo indebolito.
Ormai era divenuta una questione personale che doveva definire ad ogni costo. Non s’accorse che nella fretta e nell’urgenza d’inseguire e di colpire non aveva indossato il giaccone di pelle di foca e ben presto il gelo penetrò terribilmente in tutto il corpo.
Avvertiva che gli arti divenivano insensibili, tremori convulsi lo scuotevano violentemente e la mente offuscata si rifiutava di inviare impulsi di vita ai meccanismi fisiologici di reazione e di difesa.
Solo l’istinto di sopravvivenza, quella forza che confonde spesso l’uomo con l’animale, lo indirizzò nuovamente verso l’igloo, trascinandosi a stento, con sovrumana fatica e terribile sforzo che solo un barlume di volontà residua gli poteva incredibilmente permettere.
I cani, stranamente, non l’avevano accolto col solito concerto di guaiti. Sembrava fossero addormentati e incuranti degli stimoli della realtà circostante. Sconcertato, tremendamente colpito, ferito, inorridito, raccapricciato: la muta, ancora legata e costretta alla grossa corda della slitta, era stata dilaniata, i cani tremendamente squartati e mutilati, i pezzi della loro carne erano sparsi tutt’intorno e la neve era impregnata, intrisa, colorata dal rosso intenso e vivo del sangue.
L’orso aveva compiuto la sua vendetta.
Ora era conscio della sconfitta, ora sapeva che la sua stessa sopravvivenza era in serio pericolo.
Steso sulle pelli candide delle volpi ormai non sognava più.
Gli occhi guardavano fissi e attoniti il soffitto del rifugio che sudavano perle d’acqua al tiepido calore degli ultimi legni che ardevano con flebili bagliori. Raccolse le poche forze residue, la carne ormai gelata nello zaino, il fidato fucile e si mise in cammino verso sud.
Con profondo rammarico aveva dovuto abbandonare le pelli, le candide, preziose pelli delle “sue” volpi.
Arrancava come se non conoscesse la direzione ed alcuna meta, un automa che solo l’istinto guidava nel ritorno verso casa.
Aveva contro il gelo, il vento freddo che gli sferzava il viso e la voglia di vivere e incedeva come un tragico manichino verso il sole che traspariva lontano, troppo pallido, troppo flebile, senza calore, senza vita.
I pallettoni grossi erano ancora in canna: sperava in cuor suo di incontrare di nuovo il “suo” orso per un’improvvisa ed assurda rivincita; avrebbe dato la vita per l’altra vita, ma avvertiva che l’olio della lampada della sua esistenza si stava ormai affievolendo.
L’hanno trovato per caso notando una macchia scura sul bianco tappeto del pack. Una motoslitta che s’era staccata dalla base americana di Thule alla volta di Uppernavik.
Da lì, su un postale di transito, era giunto ad Hummannaq, a casa.
Ritornava sconfitto, gli pareva d’esser nudo, avrebbe pianto e l’umiliazione lo coceva, si sentiva ormai vecchio e inutile, capace solo di confrontarsi coi merluzzi della baia.
Uummanaaq sembra un formicaio: la gente è sempre indaffarata in disparate attività e, come questi laboriosi insetti, è ben conscia che l’indice di sopravvivenza nel prossimo inverno è direttamente proporzionale alla quantità di viveri che ognuno sarà riuscito a stivare nel vano attiguo alla casa.
La pesca, quindi, non è certo praticata come sport, ma diviene una occupazione indispensabile cui tutti, sia pure nei momenti liberi da altri lavori, si dedicano con grande e professionale impegno.
Oggi il cielo s’è rabbuiato e una noiosa pioggerellina infracidisce gli abiti e le cose.
Folate di nebbia giungono dal nord come basse nubi fredde che paiono trapassare la giacca a vento e vestirti di freddo.
L’alito gelato dell’aria ha abbassato la temperatura attorno allo zero e il suo gemito acuto e insistente pare un lugubre lamento.
Si intuisce, ora, chiaramente cosa rappresenti il sole per queste regioni: è l’afflato della vita che spinge a germogliare uomini e cose, è la macchina che muove questo piccolo, sperduto cosmo troppo a lungo adagiato nella notte di mesi interminabili e nel gelo paralizzante e austero che attanaglia i corpi. Non a caso la festa del primo giorno di primavera è un avvenimento eccezionale e solenne.
L’orologio segna la mezzanotte e la grossa barca verniciata di fresco è già pronta e attraccata sotto il muricciolo che bordeggia il porto.
A poppa un vecchio motore Diesel, quattro remi, alcune giubbe salvagente dallo spessore alquanto robusto, qualche fiocina e due fucili.
Sembra strano, ma l’attrezzatura per la pesca non prevede canne ed ami.
Tutti, infatti, sono dotati di armi da sparo che si possono liberamente acquistare in ogni magazzino attrezzato.
Qui si vive anche e sopratutto di carne di foca.
Oggi ne andremo a stanare e cacciare qualcuna, mi spiega Haannuk, mentre la barca già scivola silente sul mare non certo tranquillo, ma che le possenti e ritmiche remate degli uomini domano facilmente con l’esperienza atavica.
Si costeggia in silenzio; solo il grido acuto dei gabbiani lacera il tuono delle onde che si infrangono rabbiose contro i nudi scogli scuri.
Non è certo facile manovrare la barca fra lastroni e un dedalo di icebergs che sembrano intenzionati a venirci addosso: basterebbe un cozzo contro la chiglia per sfasciare tutto e naufragare nell’acqua gelida.
Il parlottare sommesso viene zittito dall’uomo di prua.
“Puissi!”, la foca!.
Subito non la scorgo così celata dalle schiume bianche della riva, ma poi la sagoma chiara a chiazze nere si staglia ben evidente su una lastra di ghiaccio alla deriva.
Dalla barca echeggia secco un colpo di fucile.
L’animale è troppo lontano per essere colpito, ma lo sparo serve, per ora, soltanto a spaventare la preda che velocemente si immerge.
L’eco rimbalza e riecheggia fra le pareti di ghiaccio per perdersi rotolando verso la costa.
Ora le remate si susseguono con ritmo più veloce e intenso in direzione del punto in cui presumibilmente la foca dovrebbe riemergere per respirare.
Ad ordine preciso i remi vengono retratti e tutto si ferma, persino i respiri sembrano arrestarsi e l’atmosfera si fa elettrica.
“Puissi!” Di nuovo il richiamo , questa volta a voce più bassa e più decisa. Infatti il mammifero riemerge veloce e improvviso poco lontano e lo sparo non si fa attendere.
S’inabissa un’altra volta lasciando in superficie una chiazza di sangue che dipinge sinistramente i frammenti di ghiaccio più vicini.
Ora non può più scappare: riemergerà nuovamente prima che i polmoni gli scoppino. Eccola! Un altro sparo e la foca rimane immobile, riversa sul dorso.
Con poche, veloci ed esperte manovre viene issata a bordo.
E’ uno splendido esemplare di “Phoca Groenlandica” di circa trenta chili.
Non sarà di certo l’unica preda di questa battuta: si aggiungeranno altri sei esemplari sino a riempire alla massima capacità lo scafo della barca che così appesantita richiede sforzi ben più grevi ai rematori.
Accompagnano il ritmo ora più lento delle braccia con una canzone popolare cantilenante che sembra una serena ninna nanna.
Le sere sono interminabili nell’indecifrabile passaggio dal giorno.
Anche se il sole non cessa di splendere nel cielo, tuttavia, ad una certa ora, si abbassa, sembra coricarsi sull’orizzonte e riposare.
La sua luce diviene più rosea e i colori tenui di pastello riverberano sulle pareti di ghiaccio che si trastullano in mare, giocando con la lenta corrente della baia.
I gabbiani si posano sulla riva o guadagnano la parte più alta degli icebergs smorzando i loro gridi e riunendosi in gruppi fitti e numerosi.
Alcuni planano dolcemente quasi a cercare il posto migliore e il volo elegante si staglia sull’azzurro ormai più intenso del mare, per poi confondersi col bianco riverbero dei ghiacci.
Le onde dorate nei riflessi del sole danzano con moto pigro e solenne a tratti interrotte dalle sagome scure delle balenottere che rincorrono il krill.
Il rosso delle chiglie dei pescherecci che si dondolano pigri nel porto s’accende e s’infuoca e si specchia nella rada rincorrendo le mille scintille dorate che s’accendono come girandole fantastiche di fuochi d’artificio.
E’ l’ora migliore per passeggiare, per nutrirsi dei nuovi colori, per assorbire nuovi odori, per calcare viuzze sempre nuove, per immaginare ciò che esiste oltre l’orizzonte dorato, per ascoltare i bisbigli che penetrano i doppi vetri delle finestrelle, per osservare le famiglie attorno al desco illuminato dai portalampade di pizzo ricamato, per salutare i passanti con larghi sorrisi subito ricambiati, per suscitare la loro ovvia curiosità in un paese minimamente battuto dal turismo, per accorgersi con la coda dell’occhio che si voltano al mio passaggio, per udire e non comprendere i loro commenti conditi da risolini sinceri, per fermarsi al richiamo di alcuni anziani seduti in crocchio su una vecchia slitta abbandonata, per udire il suono acuto e amico di una campana dai rintocchi sempre uguali nell’unica nota che si perde lontano, per riempirsi dei colori violenti dei giochi di metallo e di legno nel cortile d’una scuola materna orfana del cicaleccio dei bimbi ormai a riposo, per arrestarsi davanti ai cortili di pietra dove i cani stanno azzannando l’unico pasto della giornata.
Già, i cani.
Si ode solo il loro abbaiare che giunge da tutti i punti del villaggio; sembrano vibranti messaggi che solo loro comprendono.
Forse urlano la noia dei mesi legati alla roccia con una catena troppo corta, forse si danno appuntamento per le prossime scorribande sulle nevi del pack o forse si stanno raccontando le interminabili avventure di caccia fra venti e tempeste.
M’avventuro in periferia, verso la montagna, il “cuore” e solo ora noto quasi meravigliato di non essermi accorto prima della totale mancanza di alberi.
A mezzo monte cammino fra licheni e muschi e il passo s’affonda sino ai polpacci. M’assalgono nugoli di fameliche e noiosissime zanzare e sono costretto a calarmi sul viso un retino di comune dotazione per evitare d’essere spolpato.
Devo far attenzione a non calpestare nuvole di funghi porcini che nessuno raccoglie.
Me ne ritrovo un paio fra le mani dalle dimensioni enormi, sani, dall’intenso color marrone, dal profumo penetrante.
Ma che ne faccio? Anche se ne facessi una pingue provvista non potrei certo farmeli cucinare.
Forse sorriderebbero della mia ingenuità e, al contrario, penso alle ore trascorse nei boschi dei fianchi scoscesi delle nostre montagne d’Italia alla ricerca forsennata di pochi e introvabili esemplari.
Ritorno sui miei passi riavvicinandomi all’abitato.
L’orologio segna le due.
E’ notte fonda nel resto del mondo, mentre i raggi del sole che gli occhiali scuri riescono a malapena a smorzare sciabolano il cielo chiaro.
Le note di un pianoforte o forse di un’orchestra si avvertono distinte al di fuori dell’Hotel.
E’ un richiamo diverso, suadente, sicuramente più caldo e invitante dei guaiti dei cani che non si sono ancora addormentati e che si sentono provenire distintamente da ogni cortile incuranti dell’orario e del giusto riposo degli abitanti.
Più che un Albergo ha decisamente l’aspetto di una pensioncina di periferia: in tutto otto stanze cui si accede per una stretta, ripida scaletta, una sala da pranzo di una ventina di metri quadrati e un attiguo locale festonato da tende rosse con il bancone del bar e, più a lato, un uomo biondo dai caratteri decisamente europei che suona un sintetizzatore elettronico dal quale trae marcette allegre (penso locali) e motivi di musica leggera.
Una trentina di avventori è seduto ai tavoli davanti ad enormi caraffe di birra bionda.
Parlottano fra di loro e sembrano non dare un minimo cenno d’attenzione al pianista che, imperterrito e con espressione annoiata, continua a suonare. Mi siedo sull’alto sgabello del banco e sorseggio una Coca Cola.
Quasi inavvertitamente mi scappa un applauso al termine dell’ennesimo brano, manifestazione che s’arresta subito constatando gli sguardi di meraviglia e corrucciati dei presenti, sicuramente infastiditi dalla mia inopportuna iniziativa che aveva indubbiamente interrotto o disturbato i loro conversari.
Il musicista, tuttavia, mi sorride e mi ringrazia con un lieve cenno del capo. Mi avvicino e prendo posto di fronte a lui.
Mi guarda, mi sorride di nuovo, ed accenna alle prime note di una canzone di Lucio Battisti.
Sto al gioco e a bassa voce lo accompagno con le poche parole che ricordo. La sua voce si aggiunge alla mia e insieme completiamo l’esibizione canora con due risate calde e sincere e una generosa stretta di mano.
Ora parla ad alta voce e si permette una lunga pausa, noncurante delle occhiate interrogative degli avventori.
E’ italiano dei sobborghi di Roma.
E’ un tipo simpatico, aperto, estroverso e si esprime accompagnando le parole con rapidi ed espressivi gesti delle mani affusolate e curate.
Si intuisce, insomma, quale possa essere la sua gioia nell’incontrare, in questo sperduto angolo di mondo, un connazionale.
Il padrone del locale lo invita a proseguire nella sua esibizione musicale e da ora in poi, per tutta la serata, il repertorio si polarizzerà solamente su motivi italiani, quasi ad evocare lo spirito e il ricordo ormai remoto della patria lontana rievocata improvvisamente e tumultuosamente dalla mia presenza. Nella pausa successiva mi raggiunge al tavolino e mi porta un bicchiere di una strano liquore dal sapore indefinito.
Si abbandona al rimpianto e alla nostalgia e spontaneamente mi racconta la sua storia.
Si chiama Silver (chissà se è un nome d’arte o quello vero) e giunse ad Hummannaq sette anni fa.
Ad occhio e croce può avere quaranta-quarantacinque anni.
Faceva parte di un complessino musicale a bordo di una nave da crociera che, nel suo peregrinare per mari lontani, si era spinta sin quassù.
L’incantesimo del luogo, la particolarità dell’ambiente, la caratteristica del villaggio, l’unicità del colpo d’occhio l’avevano immediatamente conquistato. Decise di non presentarsi alla partenza e a nulla avvalsero i fischi ripetuti del Capitano.
A bordo avrebbero continuato a suonare con un musicista in meno.
Aveva, così, conquistato la “sua” libertà nella presunzione di vivere e gestirsi una vita nuova nella luce senza fine e negli spazi infiniti.
Nei primi tempi s’arrabattava a fare un po’ di tutto, poi aveva trovato un posto di pianista in una birreria per poi passare di volta in volta in locali più “in”, ammesso che da queste parti se ne possano trovare.
Aveva tentato anche di aprire un locale tutto suo con prodotti italiani con annessa pizzeria e piano-bar, ma il progetto fu boicottato dalle autorità comunali che non vedevano di buon occhio che uno straniero facesse concorrenza ai residenti groenlandici.
S’era invaghito di una giovane “innuit” di sangue misto.
I caratteri somatici del padre danese ne avevano attutito i tratti prettamente mongoli della popolazione locale.
S’erano sposati e l’unione si era arricchita di due figli.
Molte volte parlava loro dell’Italia mostrando illustrazioni di alcune riviste portate dagli sparuti turisti che capitavano da queste parti e s’adombrava con foga e risentimento quando i ragazzini rifiutavano l’idea di poter un giorno abitare negli alveari (da noi li chiamano condomini) dagli orizzonti troppo limitati e dal cielo troppo sporco.
Ora i piccoli si son fatti più grandicelli e hanno iniziato a frequentare la scuola materna locale con molti nuovi amici calandosi, a poco a poco, nella particolare coltura groenlandica e questo rappresenta un insormontabile ostacolo al ritorno in patria che ormai da lungo tempo sognava.
Non gli rimane che il ricordo sbiadito del paese lontano, la musica degli spartiti che qualche amico gli spedisce sempre meno frequentemente, la sete di notizie dei fatti nazionali, il rimpianto delle persone care, del padre e della madre che ormai hanno raggiunto una ragguardevole età, il bisogno di esprimersi nella lingua madre di cui comincia a dimenticare alcuni vocaboli.
Gli occhi sono lucidi e una piccola lacrima fugace brilla sulla sua guancia e si perde fra i peli grigi della barba incolta.
Gli prometto che ogni sera tornerò ad ascoltarlo.
Ritorna alla pianola e intona una dolcissima interpretazione di “Roma non far la stupida stasera”.
Riprendo i miei passi lungo la strada che s’è fatta più larga e più deserta.
Da una casa gialla, più grande delle altre, esce un frastuono assordante accentuato dal silenzio dell’ora tarda.
E’ un vociare convulso, canti sfrenati e sguaiati, musica rock a tutto volume. Affacciato alla soglia dello stretto uscio di legno ricoperto da adesivi di mille forme e figure, capisco di trovarmi in una discoteca.
I tendoni scuri delle finestre sono tirati perché il sole non possa entrare e le lampade d’ogni colore accese si sforzano di creare un’atmosfera particolare, magari psichedelica che i faretti mobili del soffitto tentano invano di interpretare.
Ma ben pochi ballano sulla pedana che scricchiola ad ogni passo: i ragazzi e le ragazze sembrano concentrati e attirati dai bicchieroni di birra, totalmente immersi in improbabili profonde meditazioni.
Qualcuno sonnecchia, altri s’appoggiano seduti alla parete ormai ubriachi parlottando da soli e gesticolando nel vuoto.
Altri ancora intonano canti stonati che difficilmente arrivano alla fine naufragando nei grossi boccali quasi sempre vuoti che riempiono i tavoli in un magico gioco d’equilibrio.
C’è persino qualcuno che mi chiede alcune “corone” per poter continuare a bere. Non riesco ad intrattenermi oltre, sopratutto perché l’odore nauseante della birra copiosamente versata sui tavoli e sul pavimento mi blocca le narici e mi chiude la gola dandomi una netta e sgradevole sensazione di nausea.
Torno a casa di cui sono ospite verso le quattro ed il sole è di nuovo alto. Con passi leggeri guadagno il mio letto mentre Haannuk è impegnato in un concerto di russi in bassa frequenza da far tremare le solide pareti di legno. Ormai ci sono abituato e il sonno non tarda a carpirmi alla fine di questa giornata intensa e ricca di nuove conoscenze e inattese esperienze. E’ giunto il tempo della migrazione dei narvali.
Sono balene con un caratteristico corno d’avorio che già da giugno risalgono le coste occidentali infilandosi fra le prime crepe che si formano fra i ghiacci sino ad ora compatti e qui vengono in gran numero ad inseguire il krill, particolarmente abbondante nella stagione estiva per l’enorme concentrazione di plancton.
Un fenomeno che i cacciatori ben conoscono ed al quale ogni anno si danno appuntamento.
Tutto avviene più a nord, dalle parti di Thule.
Il postale non arriva a quella latitudine e dobbiamo, pertanto, prender posto su pescherecci che navigano oltre Capo York.
La grande barca procede a discreta velocità fra gli icebergs che si fanno sempre più grandi man mano si risale la costa.
Sono enormi montagne di luce bianca che abbagliano quando il sole è più alto o riverberano toni intensi e pastellati allorché si nasconde al di là di una cima o s’adagia sul mare.
Il timoniere possiede una profonda esperienza; lo si nota come fa volteggiare la prua fra i lastroni sempre più vasti e profondi.
A volte la chiglia striscia incautamente contro una punta di ghiaccio e geme, quasi ferita, e sbanda su un fianco per poi raddrizzarsi prontamente in un’impennata d’orgoglio, quasi volesse esibire l’antica possanza. Una schiera di gabbiani vola bassa sul pelo dell’acqua dietro la poppa con gridi acuti e con volo elegante planando in larghe volte attendendo pazientemente gli avanzi dei nostri pasti.
Nelle lunghe ore di navigazione preferisco appisolarmi sul ponte coprendomi con un telo per proteggermi dai frequenti gelidi spruzzi d’acqua sollevati dalla prua. Si ode, ora, solo il monotono canto del diesel che brontola sbuffando verso il cielo pennacchi informi di fumo nero.
Ad un tratto si ode un rumore indefinito, quasi un tuono provenire dalla costa e poco dopo la barca inizia una danza scatenata sulle improvvise ondate che la investono violente.
Scatto come una molla da sotto la mia ruvida coperta e mi devo attaccare all’albero di maestra e abbracciarlo con forza.
Con sguardo stravolto scruto la piccola ciurma che sta ridendo a crepapelle alla mia reazione.
Mi indicano una parete immensa di ghiaccio che s’affaccia imponente in mare fra due promontori della montagna.
Pare un gigantesco brillante bianco, luminoso oltre ogni immaginazione, dal quale si sprigionano mille riflessi diamantati e accecanti.
Pareti altissime dalle quali si staccano periodicamente blocchi immani che cadono in mare con boato fortissimo, affondando e risucchiando in gorghi enormi e rabbiosi masse d’acqua per poi riemergere lentamente, quasi giganti mitologici, assestandosi, barcollando, sulle onde ancora arrabbiate in misteriosi baricentri. Poi, di nuovo, la bonaccia e il silenzio.
Scopro, così, la “fabbrica” degli icebergs che, guidati dalle correnti del golfo, migreranno fiaccamente verso sud, perdendo al sole, a poco a poco, la propria massa sino a divenire piccoli, insignificanti corpi ghiacciati, fluttuanti tristemente verso la morte.
Periodicamente passa di mano in mano una bottiglia di uno strano, forte intruglio alcolico che toglie il gelo dalle ossa.
Si fanno frequenti spuntini con pane e gamberetti, accompagnati da grandi boccali di birra e da tazze di caffè bollente.
Si giunge, finalmente, dopo non so quante ore, nel porticciolo della minuscola isola di Qerqetat che pullula di kajak, piccole imbarcazioni di legno o di pelli, molto mobili e maneggevoli, dalle sponde a pelo d’acqua.
La prima sosta sulla terraferma, dove la neve ghiacciata giunge sino ad un centinaio di metri dalla riva, è in uno strano igloo.
Strano poiché è costruito in legno e pietre e le numerose fessure che danno all’esterno sono turate da muschi che, ad alti strati, ricoprono quello che normalmente dovrebbe essere il tetto.
Queste costruzioni sono in tutto una ventina e da un pertugio della parete superiore esce perennemente del fumo.
L’odore nauseabondo del grasso di foca impregna l’ambiente interno e si avverte fino al mare.
Intense e sfrenate bevute di birra interrompono a malapena i discorsi dapprima concitati e poi sempre più dimessi.
Ci si avvicina, infatti, alle ore del sonno.
Dal canto mio preferisco tornare al peschereccio ed affidarmi al solito tendone duro e sdrucito.
Domani (sembra molto strano dire “domani” poiché il sole a questa latitudine è ancor più alto e luminoso) sarà il giorno tanto atteso della caccia. Qualcuno mi scuote e solleva la coperta tanto in fretta che i raggi luminosi mi accecano e feriscono come sciabolate di luce.
La riva già vive l’eccitazione dei grandi eventi.
Haannuk mi fa cenno di avvicinarmi e mi fa posto sul kajak dietro di lui.
Lunghe, ritmiche pagaiate ci portano velocemente al largo.
Il mare è calmo e liscio come l’acqua di un catino e le imbarcazioni si dispongono a ventaglio.
Le voci degli uomini si inseguono e si sovrappongono in alti richiami.
Mi sento in un equilibrio molto precario: ad ogni colpo di remo e a ogni movimento improvviso del mio compagno ho la netta, paurosa impressione di schizzare in acqua e ogni piccola onda mi fa sussultare.
Un briciolo di pentimento per aver voluto affrontare questa nuova avventura fa capolino sia pure in una piccola piega del cervello, ma la classica espressione dell'”ormai ci siamo” prende il sopravvento e il timore lascia ben presto il posto alla rassegnazione, sentimento nulla affatto nobile, ma che, prima o poi, mi auguro intensamente possa sfociare in una seppur piccola dose di coraggio.
Una macchia scura si staglia sulla sagoma di un iceberg; a volte scompare per poi riapparire più vicina.
Un’altra più lontana ed un’altra ancora.
Ora tutto attorno è silenzio e il rumore dei remi che schiaffeggiano l’onda s’è attutito ed il ritmo è più quieto.
Quasi ad un ordine mai dato, ma interpretato dai cenni e dagli sguardi, le minuscole imbarcazioni si dividono e s’allontanano in varie direzioni. Si riprende con forza a remare e il kajak sembra scivolare, quasi volare incurante del naturale attrito con le onde veloci che giungono dalle altre barche. A pochi metri appare dall’acqua l’imponente corpo del cetaceo.
S’inarca con lente evoluzioni, sbuffa alto il vapore del respiro, sembra non notarci o, forse, ci giudica troppo piccoli per rappresentare un pericolo e di nuovo s’immerge.
Potremmo attendere immobili per ore che la grande preda incroci lo specchio d’acqua prossimo al kajak ed essere perfettamente a tiro.
Preferiamo pagaiargli silenziosamente dietro cercando di guadagnare la sua scia e lo inseguiamo oltre il lastrone sotto il quale si è eclissato.
Riappare più in là; sembra giocare a rimpiattino col minuscolo, instabile scafo che lo tallona.
Frattanto il mio compagno armeggia verso prua: mi passa un grosso e lungo, pesante arpione fissato all’estremità di una corda e mi consiglia di tenermi pronto. Mi sento come un torero nell’arena al classico e solenne momento della verità e brividi strani mi percorrono il corpo.
Mi spavento quando il gigantesco corpo del narvalo affiora a pochi metri dalla prua.
Ora ne vedo distintamente i piccoli occhi e il corno scuro e la pelle maculata getta strani bagliori riflettendo il sole.
Quasi non m’accorgo delle rapidità con la quale Haannuk abbandona la pagaia e mi strappa l’arma dalle mani: si erge sulla prua, inarca il corpo all’indietro e con un colpo deciso e magistrale lancia l’arpione che si conficca nel muso del gigante.
Poi riprende il suo posto sulla barca e lascia che il cavo si svolga.
All’estremità è fissato l'”avatak”, un galleggiante in pelle di foca.
Il narvalo scompare dalla superficie trascinando tutto sott’acqua.
E’ decisamente un momento di grande emozione; le vene del collo battono intensamente e il cuore esplode a ritmi sempre più tachicardici e pare di sentirne in petto i toni concitati.
Passano attimi lunghi come ore attendendo che la boa riemerga e segnali la presenza della balena.
Eccola! Un grido, il mio, subito soffocato dal cenno deciso del compagno. Il gigante riappare e rompe il silenzio col suo cavernoso respiro. Immediatamente parte con lo stesso vigore un altro arpione che si conficca profondo nel fianco.
L’animale sta agonizzando in un’aureola di sangue.
Più non si tuffa, il respiro si è spento.
Ci accodiamo alla teoria delle altre imbarcazioni che vogano verso il porticciolo. Rimaniamo a terra mentre il peschereccio salpa verso le enormi carcasse riverse sull’acqua per riportarle ad una ad una sulla riva.
Frattanto non si contano le libagioni e i canti felici.
I commenti si sprecano nel raccontare agli altri le cronache colorite della caccia.
Poi il grande, meritato, profondo sonno ristoratore.
Domani si tornerà in mare se il tempo sarà clemente.
Tuttavia, troppe volte, siamo costretti a terra dalle avverse condizioni meteorologiche e i giorni passano monotoni e freddi mentre gli uomini, racchiusi negli igloo, si affumicano alle braci del rudimentale camino.
Le operazioni di dissezionamento delle prede occupano tutto il giorno successivo alla battuta.
Il prezioso corno d’avorio del dente è di proprietà del cacciatore che ha arpionato per primo l’animale e gli frutterà un bel gruzzolo di corone, assicurando alla propria famiglia un plusvalore economico da spendere allo spaccio del paese.
Il resto viene diviso in parti uguali fra gli uomini che hanno partecipato alla caccia, senza sprecare nulla.
Tutto vien caricato e stipato sul peschereccio che ha già impostato la rotta verso sud.
La carne sta gelando, ma manterrà una inesauribile fonte di proteine e vitamine indispensabili nei lunghi, interminabili, scuri, rigidi inverni.
Il porto di Hummannaq è gremito di familiari che, avvertiti dalla radio del battello, ci stanno attendendo.
Molti giorni sono passati dalla partenza, forse un mese che è trascorso troppo in fretta e di cui non ci siamo resi conto così impegnati dai lavori e dalla caccia. Da qualche tempo il paesaggio è più scuro; le luci delle case rimangono accese più a lungo, i ghiacci degli icebergs della baia hanno perso il loro antico splendore e i bagliori che rifrangono in mare sono più spenti.
L’aria è gelida e le prime nevicate hanno già coperto la riva.
Un sottile strato di ghiaccio cinge la chiglia delle barche che si affannano a spezzare con oscillazioni sempre più lente e stanche.
Domani salperà l’ultimo postale della stagione, le imbarcazioni saran tirate a riva e coperte da tendoni di plastica e le slitte saranno preparate per nuove corse infinite.
Col vento che mi sferza il viso saluto dal ponte Haannuk che già scompare nel grigio.
L’imponente sagoma ormai scura del “cuore” si perde nella nebbia e nelle prime nevi.
Hummannaq, il “cuore”.
“Due cuori”: anche il mio.

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Pubblicato da
Marco

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