di Fausto Toccaceli –
Djibouti
Primo maggio: piove a Djibouti. Infangate pozze si scorgono dal finestrino dell’aereo, prima dell’atterraggio. All’uscita dell’aeroporto gli occhiali si velano di vapore e i polmoni cominciano a imprecare. La temperatura è abbondantemente sopra i 30° e il tasso di umidità altissimo. E’ solo un ricordo la frescura di Addis. Daniel Jean è lì che ci aspetta per iniziare il tour. Attraversiamo l’area del porto, direzione Tadjoura. Le navi sonnacchiose, ancorate nel porto, sono per lo più incrociatori e corvette americani atti al controllo del golfo di Aden: deterrenti per i pirati. Appena usciti dalla piccola città, una larga piana di terra rossa ospita camion di ogni tipo: sono in partenza, o in arrivo, per e dall’Etiopia. La lunga fila in strada, causa il controllo da parte dei doganieri, non ostacola il nostro cammino; solo i camion vengono ispezionati del loro carico; potrebbero contenere, oltre alle merci, clandestini etiopici diretti ai porti Gibutiani per raggiungere lo Yemen: destinazione, Arabia Saudita.
Verso Tadjoura
La giornata non varia di tono: grigia. ( Sostiene Daniel -sentendosi in colpa – di non avere ricordi recenti di una giornata simile in nessun periodo dell’anno). La visibilità è offuscata dall’umidità dell’aria, dalle nuvole basse. E’ trascorsa circa un’ora, non di più, ed eccoci a sostare su una terrazza che si apre sull’ oceano. La visuale non è cambiata; ma la silenziosa bellezza della baia è unica, ineffabile. L’isola del diavolo troneggia proprio dove l’angolo del mare muore contro il basalto del vulcano Ardoukoba.
“Mi apro all’infinito, a ciò che non conosco”
Sostiene Daniel che al ritorno, in una giornata normale, luminosa, lo spettacolo sarà esclusivo. La catena dei monti Goda è appena percettibile. Salendo verso nord, Il paesaggio cambia. Guardando verso l’oceano indiano, si intravedono cespugli di acacie sovrastati da rade palme con poco fogliame. All’estremità di una punta sul mare, in lontananza, compaiono i minareti bianchi di Tadjoura. Lì attorno, popolata da cammelli, una radura verde e fresca delimita la strada. I francesi, ai tempi della loro occupazione, hanno piantato questi arbusti ( le foglie sono simili a quelle dell’acacia europea) che trattengono il terreno, – altrimenti dilavato dagli occasionali torrenti – in quel punto sabbioso. E’ pomeriggio inoltrato; c’è ancora luce nel giorno dalle parvenze novembrine. L’albergo è decoroso, gradito; ha la struttura di un campo militare: palazzine bianche e blu erette su un solo piano attorniate da vegetazione robusta e profumata.
Tadjoura
Non abbiamo moneta locale (franchi gibutiani), e per questo la prima visita alla cittadina interessa la banca – l’unica banca. E’ giorno di paga ci dice Daniel. Ce ne accorgiamo nel momento in cui siamo dentro: due piccole stanze ospitano almeno 20 persone. La sosta è breve ed infruttuosa: non hanno contante né tantomeno la possibilità di prelevare con carte di sorta. Si va verso il porto, percorrendo una pista sabbiosa e lurida. Capre, arrampicate su tralicci, panchine, spuntoni di alberi e su tutto ciò che si eleva dal suolo, si mostrano indifferenti al nostro passaggio. Due vacche, più magre di quanto si possa immaginare, si contendono un pezzo di cartone da imballo. Di erba non ce n’è; perlomeno, io non l’ho vista (da queste immagini è difficile poter credere che Tadjoura è da sei secoli e che fu un sultanato al pari di Harar e Zanzibar). Uccelli – tra loro anche un’aquila – si contendono una carcassa di pesce depositata dai flutti al limite del mare. La prima attrazione è un dhow morente e sverniciato appoggiato all’inizio del molo; bambini ignudi lo abitano per gioco – per gioco!?. Un’altra barca, lì vicino, è ancorata là dove finisce il pontile. Giovani uomini, magri come pesce essiccato, stanno scaricando balle di riso e lenticchie; le trasportano, accatastandole poi ai bordi dell’ imbarcadero, dopo che altri due operai glie le hanno posate in testa. Sono aiuti umanitari; i marchi stampati sui sacchi dicono chiaramente che i paesi filantropi sono la Cina, l’India e la Comunità Europea. Daniel sostiene che i braccianti sono tutti etiopici; lavorano per 500 franchi al giorno (5 dollari, 10 ore la giornata lavorativa). Si prestano alla fotocamera gli sfruttati; mostrano muscoli e fisico invidiabile; rivelano le loro debolezze, incuranti nel mostrare la loro semplicità …La grandine arriva prepotente, dentro di me, sopra di me…Incurante, espressiva.
“Non ci è dato ben a sapere quando…Ma gli ultimi saranno i primi”
Il paese è accaldato; nessuno lavora se non traffichini e collaborazionisti. Qui si mangerà finché il cibo arriverà dal mare (nessuno è pescatore; quantomeno non lo era fino a qualche anno fa…Nessuno sa quel che è). Masticano kat i triboli. Il kat allevia la fame, la sofferenza in genere; solo perché sveglia dal torpore che sa di caligine e permette di tollerare tutti e tutto. Nessuno –che non sia gibutiano – si permetterà mai di dire che il kat è un cattivo consigliere. I ‘benefattori’ di oggi preferiscono una popolazione non pensante. Di fatto, Il caldo la miseria e l’ ignoranza, aiutano e non poco a raggiungere il risultato: ‘mangiate ciò che vi diamo e fate silenzio ‘. Il mercato nella cittadina (come può mancare un mercato perfino in un luogo dove non ci sono merci!) è confidenziale. Donne, solo donne, annunciano i loro averi: cipolle, aglio, pomodori…Colture rigorosamente sviluppate senz’acqua, e quindi, secche e magre. Sotto una specie di bunker,aperto ai lati, collocato in mezzo alla piazzetta polverosa, stanno venditori di carne e pesce. Le capre (almeno dieci) vengono macellate ogni giorno – non esiste frigo di sorta che permette di mantenere fresca la carne – e poi appese a brandelli su ganci che spiovono dal soffitto. Corvi e gabbiani stanno in attesa di una distrazione del mattatore o pesciaiolo, per pizzicare qua e là le carcasse scottate al sole. Le vacche e le capre, incuranti di un globo che rotea, seguitano a masticare cartone da imballo.
Si va alla spiaggia corallina. Abbiamo prenotato una barca con il barcaiolo (che mastica kat). Il tempo di cavalcare un paio d’onde e siamo già in arrivo. La riva è veramente bianca in quel punto. Il fondo marino carico di coralli ha permesso alla sabbia di sovrastare il basalto. Gode di silenzio la spiaggia; vento lieve ma continuo trasmette refrigerio. Attracchiamo. Non c’è ombra dai corpi; il sole è dritto sopra le nostre teste. Il mare – la sua temperatura – non è di un grado inferiore all’aria. E’ tutto caldo lì,,,anche l’acqua stivata dentro un mezzo fusto di un barile d’olio, atta a sciacquare piedi e latrine. Un cammello, munito di sella artigianale, e il suo cammelliere, trascorrono indifferenti. Il driver, con un semplice inchino, ci invita a salire in groppa per percorrere in lungo la spiaggia fino alle rocce di basalto franate sul mare. Il cammello ci scruta coi suoi occhi espressivi; poi si guarda intorno con fare indifferente nella speranza che nessuno di noi si decida a montarlo. Cediamo… alla supplica del cammello.
Il sole non cambia posizione: è arrivato in un secondo – qualche ore fa – e scomparirà nel secondo successivo, tra un po’… Dopo 8 ore di immobilità (principi dell’equatore). Ripartiamo prima del tramonto, sopra un mare di piombo che invita a camminarci sopra. Domani è prevista la visita alla città di Obock.
Verso Obock
La giornata trascorsa è solo un ricordo: piove di nuovo e stavolta Daniel Jean grida allo scandalo e contro le maledizioni. Si parte ugualmente, anche perché il mare, sotto la pioggia, non è agibile. Appena fuori dal paese l’immancabile discarica – Africa – a cielo aperto; sotto l’acqua, due giovani innamorati passeggiano e osservano un branco di scimmie che scelgono scarti tra un fumo acre e pesante, bagnato. La strada sale, non costeggia il mare. La catena montuosa del Goda segue parallela la costa; e per questo, la strada sale sui monti. (Ci sarebbero voluti troppi ponti se la strada fosse trascorsa lungo il mare a sovrastare i canali che naturalmente scendono dai tortuosi pendii). Daniel – è giunta l’ora – ci parla dei wadi.” Wadi!? Cosa sono i wadi!?” “Tra un po’ ve ne accorgerete, percorso l’altopiano vedremo il primo”. Cinque minuti di silenzio, – rotti solo da un leggero ticchettio sul volante, opera di Said – in attesa del wadi. La strada, ben asfaltata, comincia a scendere. Nel punto più basso, dove da lì a subito la strada risale, un torrente impetuoso d’ acqua e fango scende veloce e l’ attraversa. “Ecco, questo è un wadi”. “E come andiamo dall’altra parte!?”. In quel punto, dove l’asfalto è sommerso, ai due lati della carreggiata, spuntano dei paracarri di cemento distanti un metro l’uno dall’altro, posati a fermare rami secchi ed altro materiale inerte. Daniel scende; si arrotola i pantaloni e va a controllare quanto l’acqua sia impetuosa e profonda. E’ dall’altra parte; ha percorso almeno trenta metri. Si volta, fa segno a Said che può passare. Duecento metri dopo eccone un altro; mezzo chilometro, un altro ancora: stesso colore, stessa potenza. Poche parole: pacate previsioni su quanto sarà grande il prossimo e qualche sghignazzo per sciogliere la tensione. Le rocce, che sorgono nelle vicinanze, salgono come stalagmiti: nere, fumose. “La strada! Dov’è la strada!?”. Duecento metri prima di un ponte – il primo che incontriamo – una lingua di terra, scaricata per l’occasione sulla sede stradale, impedisce di proseguire. Il ponte è franato, la strada irrimediabilmente interrotta. Abbiamo percorso trenta chilometri. Ne mancano altrettanti per arrivare a Obock.
Continua a piovere. Daniel scende dall’auto e si incammina verso il ponte; noi, curiosi, facciamo lo stesso. Un fiotto violento trasporta rami e sassi. Ha abbattuto il ponte. La strada riprende cento metri oltre, nell’altra sponda del torrente. Non si può passare, neanche più a valle; si torna indietro. Daniel è cupo. E’ mezzogiorno, quando Tadjoura, scolorita, riappare sotto l’ultimo tornante. Prima di rientrare nel camping attraversiamo la piazzetta principale. Il palco, installato per permettere il saluto del sultano,- oggi festa locale – è in fase di smantellamento: troppa acqua, troppo fango, nessuno in giro, nessuno ad omaggiare il sultano. Due ore dopo:”Si va” “Dove!?” “A Obock””C’è un’altra strada!?” “No” “E allora! Dove passiamo?” “Dove non siamo passati stamattina” “Tu pensi che non ci sia più acqua!?” “Sì, ne sono sicuro. Non c’è più acqua”. Dubbiosi, per Obock si riparte.
“Non domandare uomo, non cercare il sapere…e vivi il tuo giorno”
Il cielo è rischiarato; i colori sono tornati; i vapori sui vetri dell’auto sono scomparsi. I monti, prima grigi, ora distinguono le pietre vulcaniche e la foresta: ossidiana, pietra pomice, basalto e verde intenso scagliato da arbusti lussureggianti; diverse tonalità ben definite – si ha la sensazione di trascorrere in un altro luogo. Senza imprevisti siamo già sul ponte crollato; l’acqua c’è ancora ma ha perso la sua forza. Distante cento metri dalle rovine di cemento si intravede un passaggio che muore da una sponda e risorge sull’altra; sembra percorribile. Così è.
Incontriamo, da li a Obock, altri wadi ma tutti praticabili. In testa all’ultimo, prima della cittadina, un vecchio col suo bastone sta parlando da solo, a voce alta. Il respiro è profondo. Dai suoi movimenti si intuisce che è quasi cieco. Solo ombre e voci intorno a sé. “Cosa sta dicendo!?” “E’ il capo villaggio, chiede un passaggio per Obock” “Ma non possiamo darglielo, non abbiamo posto” “Certo che no, non abbiamo posto”. Gli diamo – in vece del passaggio – una bottiglia d’acqua e lui, meccanicamente, fa cadere la sua vuota nel fango.
“Non ti stare a preoccupare. Loro bevono l’acqua piovana, da sempre; e per questo non hanno problemi di sorta”. “E quando non piove?” “Sono nomadi o no!? Si spostano a cercare l’acqua, migrano. Le famiglie con molti anziani aspettano le autobotti…Quando arrivano”. Sostiene Daniel che le cause di mortalità tra le tribù nomadi si hanno per lo più per mancanza di acqua. “Si muore per questo, non c’è soluzione per questa gente”.
“…provando, nel profondo dell’animo, quell’ineffabile conforto che dà la coscienza a posto”
Obock
I francesi, nel periodo della loro presenza, costruirono questa cittadina portuale. Gli edifici sono tipici coloniali del tempo; due di essi, i più in vista, sono stati abitati da Leonce Lagarde, governatore e fondatore della Repubblica di Djibouti, e da Henry de Monfreid, scrittore ed esploratore. Il resto è solo “resto”; per lo più macerie di mattoni con aggrappati cornicioni merlati che si elevano sopra una perenne discarica di plastica e cartoni. Said – dopo aver proceduto lentamente dall’ingresso nel paese – si ferma lungo il pontile. In cima al molo, ormeggiata, è ben visibile una corvetta americana. “Niente foto, mi raccomando, niente foto”. La nave da guerra ha i cannoncini coperti da teloni; nessun marinaio si intravede sopra coperta. Indifferenti bambini pescano con un filo legato al pollice su un’appendice del molo: nessun morto – pesce intendo -sul cemento. La temperatura è alta si soffoca. Il villaggio è disteso lungo la costa. Rumori: rumori di stridii di corvi e di qualche gabbiano; per il resto: un silenzio triste. Procediamo a piedi. Said ci segue con la macchina. Quello che si percepisce è un senso di abdicazione; come se, chi avesse edificato e poi abitato questo luogo, se ne fosse scappato di fretta. Fantastica immagine di un avamposto abbandonato e non reclamato.
“Ogni minuto del giorno, a far niente; e a pensare che far niente è far tutto. Questa gente ha visto dio e la madonna, e non se ne è accorta”
I nuovi abitanti, – usurpatori della loro terra – accaldati e sfaccendati, stanno all’ombra rivolti verso il molo. Nessuno parla, nessuno chiede niente; il gruppo somiglia a una massa sbandata di scampati ad un bombardamento nucleare. “Proseguiamo a piedi!?”. Un giovane coraggioso si avvicina scimmiottando; si riduce a pronunciare qualche parola in inglese. Indica due belle ragazze afar votate alla cucina. Se vogliamo le possiamo fotografare; non chiede soldi, forse, solo di parlare con qualcuno. “Saliamo in macchina per favore!”. Said, al nostro fianco, si ferma e ci fa montare. Procediamo adagio dentro quella che dovrebbe essere la via principale. Tutto aumenta: il caldo, la gente, la plastica e le capre. Donne colorate, sedute su dei banchetti con davanti una piana con sopra quattro cipolle, si limitano a guardarci con sguardi di sfida e compassione; altre, sono in transito, e non so certo per dove.
“Vergini, sante e Marie di Magdala si incrociano confondendosi serenamente. Non si disprezzano: nella miseria si è tutti uguali”
I bambini alzano le mani e accennano ad un saluto; i grandi li richiamano all’ordine: nessuna confidenza allo straniero. La strada si stringe e aumentano i colori. Dietro di noi una macchina. Daniel ci tranquillizza: “E’ la polizia. Ci seguono da un po’ ma non ci chiederanno niente; controllano se ci fermiamo e che intenzioni abbiamo; niente di che, ordinario in questo luogo di confine”. “Quelle case distrutte!?” “Guerra civile; 2005; due tribù rivali hanno pensato bene, a colpi di cannone, di distruggere le poche case che in quel tempo erano in buone condizioni”.
In periferia, nuove costruzioni nel deserto. Sedi di uffici di ministeri – sostiene Daniel – affacciati su una gigantesca rotonda; costruzioni bianche e blu; merlate; inutili. “Questa è zona di espansione…” “Per chi!?” “A volte, è meglio non fare domande…Soprattutto, quando non c’è una risposta”. “…Ho capito! Ho capito…E niente foto, niente foto”. “Visto! Questa è Obock. Luogo di frontiera, -anche se per arrivare al confine con l’Eritrea ci sono 50 km di deserto – zona franca. Se si vuol proseguire verso nord, bisogna chiedere il permesso alle autorità e farsi scortare dai militari” “Bene! Precisazione dovuta…Ma chi ci vuol andare al nord!?”.
“Se il re è fuggito, perché io dovrei restare!?”
Noi invece ce ne andiamo a sud. Saliamo su una collina color terra arsa. Obock rimane giù e da lontano – Segni rigorosamente bianchi e blu tracciano i muri delle case; pare un grande dipinto realizzato alla maniera cubista – fa altro effetto: sembra pulita e ridente: quasi ospitale. “Cosa c’è quassù!?” “Adesso vedrete”. Abbiamo percorso non più di un paio di chilometri; a me sembra, considerata l’atmosfera e visto il paesaggio, di essermi allontanato almeno di cento. Un grazioso fortilizio, tutto di legno, – attorniato da un camping – offre bibite e un bel panorama: dune di sabbia coprono la pietra pomice elevata sul mare; si adagiano verso di esso, spaccate da due lingue di acqua che entrano nella terra ferma come spade. E’ un luogo d’incanto, deserto, immacolato. Sdraie di legno, coperte da ombrelloni di foglie di palma, sono adagiate sulla spiaggia –per raggiungere il mare si dovrà scendere di almeno cinquanta metri attraverso un sentiero pietrificato che in partenza domina la baia -.
Una rotonda, in fondo al percorso, sta appiccicata ad una roccia: non c’è anima viva; nessun segno di presenze recenti. “Cos’è sta roba…Un miraggio o cosa!?” “Sì, forse. Il venerdì, giorno di festa, vengono i militari francesi e americani con le loro famiglie. Si fermano a dormire e il giorno dopo se ne vanno. Tutti gli altri giorni il camping è inutilizzato, deserto, come vedete ora”. Ci allontaniamo gli uni dagli altri; ci godiamo si tanta quiete che neanche le stanche onde riescono a rompere. Un’aquila gira in tondo sopra i tetti terrei delle capanne, livide sotto il sole …Poi si posa sulla cima di un palo. Torniamo, in punta di piedi.
Un tramonto, macchiato da residue nuvole posate sui monti Goda, ci accompagna a Tadjoura.
“L’orizzonte parla poco… ma si esprime con merito”
Di buonora, il giorno dopo, partiamo per Djibouti. Dobbiamo arrivare in città prima di mezzogiorno; non abbiamo soldi per saldare Daniel Jean; è indispensabile trovare una banca aperta (tutto si risolverà). Della pioggia – e dei wadi – del giorno prima, rimangono poche tracce evidenziate da pozze giallastre. Campi nomadi afar sorgono nei pressi; lì si lavano panni e corpi; si abbeverano cammelli capre e soprattutto uomini. Il mare è calmo e ci scorta verso la baia Goubet-al-Kharab. Nel deserto di pietra nera, sopra la strada infuocata, un ragazzo cammina – in senso contrario al nostro – speditamente. Ha in mano una busta di plastica semivuota e niente in testa:”Perché questa gente a piedi in questo deserto di lava!?” –ne avevamo incontrato altri, sempre a camminar da soli, mai in compagnia – “Sono ragazzi etiopi; hanno varcato la frontiera, ed ora, a piedi, si dirigono verso Tadjoura per imbarcarsi e raggiungere lo Yemen”.
“Se resterai, ti pentirai di non essere andato, se te ne andrai, rimpiangerai di non essere rimasto”.
“Ma a quest’ora…” “Certo. E’ a quest’ora che la strada è libera dalle camionette della gendarmeria…E’ a quest’ora che escono dai rifugi notturni e si mettono in cammino”. Chiedono acqua i migranti: fanno cenno con il pollice portandolo alla bocca, senza accennare a fermarsi. “Gli diamo una bottiglia d’acqua!?” “Quanti ne hai visti…” “Beh! Almeno cinque o sei”. “Non possiamo dare acqua ad un ragazzo e poi non darla al prossimo. Non ne abbiamo a sufficienza. Loro sanno che nessuno si fermerà per dargli acqua; lo sanno, e sanno anche che potrebbero non farcela”. Per qualche minuto il paesaggio scompare, nascosto dall’ombra di camminanti vestiti di sola illusione.
“Chi sei tu che mi somigli ma che non riconosco!?”
Ora appare, il Lago Assal. Una nobile distesa di acqua e sale è laggiù, sotto di centocinquantasei metri dallo zero della baia. Ci fermiamo su uno spiazzo che domina il finito cocente. L’ossigeno è assente, il respiro corto: quasi nullo – penso che siamo ben sopra i 40° -. Tre colori; tre soli colori: nero bianco e azzurro. Nero del basalto, azzurro dell’acqua e il bianco, accecante, del sale. Ci troviamo nel bel mezzo del vulcano Ardoukoba, spento (l’ultima eruzione ci fu nel novembre 1978). La notizie è di ora – Daniel racconta e ci informa.
Ci osserviamo, dopo aver fermato qualche immagine: “Io direi di andare, – ci guardiamo i piedi e ciò che sta sotto i piedi. La terra par essere in movimento. Quelle pietre infuocate dal sottosuolo incandescente – par di sentire il diavolo che ti soffia n’tu u culo – e dal sole, cosparse di caligine… quelle distanti, sembrano avvicinarsi e poi riallontanarsi. Sarà il caldo, sarà l’aria tesa che percuote la pelle e si conficca in essa come aghi scagliati da una cerbottana…Sarà, sarà tutto ciò che è inimmaginabile e mai vissuto… – abbiamo visto abbastanza”. La via continua a tracciare il vulcano e poi si abbassa nel momento in cui ricompare la baia.
L’acqua, che riflette il sole, è di colori accesi e tenui, verde e blu…spumosa nella battigia; sembra lontana; ma invece siamo a circa trecento metri da dove, in mezzo ad essa, si staglia “l’isola del diavolo”. Proseguiamo verso il baratro ( è di questo che si tratta). Il canyon Adaileh – punto di incontro delle due placche africane(nubiana e somala) e di quella araba – segna l’asfalto: tutto si muove, par una danza lenta, e non solo nell’immaginazione.
Verso Djibouti
La baia ora rimane alla nostra sinistra, la stiamo abbandonando: luminosa, misteriosa. Non abbiamo visto lo squalo balena. Sostiene Daniel che la migrazione verso la baia avviene da novembre a marzo; è in questo periodo che questi grandi pesci – i più grandi al mondo – si possono avvistare anche a pelo d’acqua. – Lo squalo balena ( cartilagineo, ovoviviparo) raggiunge lunghezze anche superiori ai 15 metri -. Poco importa se non lo abbiamo visto; sicuramente, sarà il motivo di un’altra visita in loco. A presidiare un posto di blocco, un gendarme seduto all’ombra insieme ad una ragazza; ci fa cenno che non ha tempo da perdere; meglio, così non lo perdiamo neanche noi. Prima di scollinare e poi ridiscendere verso Djibouti, notiamo, ben più alti dei cespugli, degli alberi di fattura singolare, – tronco grosso e robusto con radi rami e poco fogliame – poco distanti dalla sede stradale. Sono dispersi, sembra quasi – al pari degli animali – che ognuno abbia tracciato il proprio territorio per impedire ad altri di invaderlo . “Che albero è Daniel!” “E’ l’albero del drago. Bello è!! Cresce in queste terre vulcaniche, aride, perché ha bisogno di poca acqua. Ne è ricca l’isola di Socotra, il Madagascar; ma anche qui vicino c’è una piccola foresta”. La strada ora scende. Nel mezzo di un tornante, la vista cala verso valle. Le distese di basalto sono inframmezzate da tratti di sabbia, che, strappati dal vento, si alzano su dei coni che poi si spengono poco oltre. Un bivio. “Dove porta questa strada!” “In Etiopia. Ci sono da percorrere circa cento chilometri per arrivare al confine. Qui finisce la terra degli Afar ed entriamo in quella dei Somali”. “Sai che mi ero accorto che stavamo abbandonando la terra degli Afar?” “Da cosa!” “Dalle donne. Vedi queste ragazze come sono agili e delicate!? Non mi sbaglio, sono migiurtine”. Daniel Jean si limita a sorridere: non mi sono sbagliato.
“Said! Tu non dici mai niente a proposito delle donne!?”. Daniel sorride ancora; anzi, il suo sorriso diventa una risata sfrenata. “Adesso ci dici perché ridi, naturalmente” “Dai Said, racconta tu perché rido”. E Said: “Forse perché mi sono sposato otto volte!?”. Silenzio in auto. “Otto mogli, ma adesso ne son rimaste solo due e tre figli. Ho divorziato sei volte. Parlano troppo le donne, e dopo un po’… – Il cenno con la mano, che di taglio colpisce il palmo dell’altra, è eloquente -. Tutti fanno così da queste parti; ci sposiamo, e se la donna non ci soddisfa si rimanda alla sua famiglia, divorziando, e se ne sposa un’altra. E’ la legge che non lo vieta, le nostre usanze…Nessun peccato insomma”. Lucilla e Marcella hanno qualcosa da ridire. Said non si scompone, si limita a scrollare le spalle e a fischiettare il brano di Celine Dion, in trasmissione alla radio, immaginando di vedere Titanic. Ecco la periferia di Djibouti, sovrastata da rombi di aerei e elicotteri: mirage, f16, apache; sono tutti lì a controllare che i pirati e gli al-shabaab stiano all’ombra e non in mare aperto ad infastidire gite di natanti e placide petroliere. Soliti camion e solita polvere. Il viaggio termina qui…
“Ma quando mai termina il viaggio!? Chiudo gli occhi, sotto un tripudio di petali di fiori, di sorrisi, di veli…”
Se qualcuno volesse verificare ciò che ho scritto, non dovrà far altro che chiamare Daniel Jean al numero 00 253 87 91 20; oppure scrivergli, all’indirizzo bambutour@yahoo.com /avenue George Clemenceau, 5 – P.O.Box / B.P: 2901, per prenotare una visita. Fate voi, a me, non me ne viene niente.
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