di Simo –
Allora si va a Berlino. Io e la Romi abbiamo cinque giorni scarsi quindi la meta migliore è senz’altro una città europea e noi, di comune accordo, abbiamo scelto la capitale tedesca. Forse non è tra le più belle o tra le più visitate, però ci incuriosisce. Essendo una destinazione vicina avrebbe potuto essere un viaggietto comodo, invece si prospetta abbastanza impegnativo visto l’orario antelucano del volo. Comunque, la sveglia suonerà anche alle tre del mattino, ma almeno guadagneremo una preziosissima mezza giornata in più a Berlino! L’altro aspetto non proprio esaltante è che dovremo fare scalo. Due aerei in poche ore! Quattro in cinque giorni!. La cosa mi stressa non poco. Fatto sta che, forse per autosuggestione, forse per stanchezza, poco prima di atterrare a Francoforte comincio a sentirmi male. Che incubo! Solo per un miracolo riesco a mantenere la situazione sotto controllo, cerco di pensare positivo ma è davvero dura. Comunque riesco ad evitare danni, e non appena metto piede a terra mi sento già meglio, sicura che per almeno quattro giorni non dovrò salire su alcun tipo di velivolo… Siamo a Berlino! Io e la Romi sperimentiamo immediatamente la proverbiale efficienza germanica infatti, pur essendo notoriamente un po’ invornite e particolarmente rintronate dalla levataccia, persino noi troviamo facilissimamente l’autobus X9 che ci porta all’albergo. Scendiamo dal bus, mi rigiro un po’ la cartina fra le mani, faccio alcune considerazioni sul Nord e il Sud quando la Romi, voltandosi, vede svettare davanti a noi i cinque piani gialli dell’albergo! Che bello, sembra tutto molto facile. Ci sistemiamo un po’ e sgranocchiamo qualcosa da mangiare. Prima di mettere il naso per strada proviamo la mitica cassaforte. Realizziamo -non subito- che le istruzioni parlano ancora di marchi, ci stupiamo, alla fine capiamo quel che c’è da capire così riponiamo al sicuro il nostro maggiore tesoro: gli ovetti di cioccolata regalo della Silvia.
Urge a questo punto un piccolo briefing per valutare l’efficacia della nostra tessera settimanale e, soprattutto, per trovare la chiave di lettura delle diverse cartine sul sistema di trasporti “integrato”. Sembra tutto piuttosto semplice e riteniamo di poter affrontare con conoscenza di causa autobus, S-Bahn, U-Bahn, Zone A, B, e C. Ci siamo. Wir können gehen. Ci incamminiamo per la prima escursione del nostro “weekendone” nel quartiere di Mitte, in ricognizione presso alcune delle vie più caratteristiche della città. Azzardiamo i nostri primi cambi alle stazioni della metro e notiamo che in giro c’è veramente poca gente. Sono giorni di festa e di vacanza per i tedeschi e la città, per usare un eufemismo, è davvero tranquilla. Più che altro direi che le strade sono deserte! In maniera relativamente semplice emergiamo alla stazione Unter den Linden, avvolte subito da una bella atmosfera. C’è un pallido di sole, non fa freddissimo e vediamo parecchia gente, turisti per lo più. Ma la sensazione di essere davvero a Berlino ce l’abbiamo solo quando, uscite dal sottopassaggio, voltandoci vediamo ergersi davanti a noi la Brandenburger Tor. Ristrutturata da poco e progettata circa due secoli fa, era considerata la più bella delle porte della città. Ora noi la ammiriamo, imponente e pacifica, al centro della Pariser Platz la quale, fino a poco tempo fa era un semplice campo all’ombra del muro, mentre ora è tornata ad essere la degna piazza centrale di una delle più importanti capitali del mondo. I lavori davanti al Palazzo dell’Arte non sono ancora ultimati, come dimostra un grosso caterpillar a riposo sotto le sue vetrate. Dalla parte opposta sventolano invece le bandiere delle ambasciate francese e inglese, tornate da poco in questa che è la loro sede storica. La Porta è in controluce da Pariser Platz: il sole, che scende lentamente dietro di essa segnala l’Ovest a menti più fresche delle nostre. Allunghiamo lo sguardo e ammiriamo due delle vedute più famose della capitale tedesca. Verso Est scorgiamo la Fernseheturm, la torre della televisione: costruita nel 1969, alta 368 metri, rappresenta l’edificio più alto della città. Ad Ovest, in un’atmosfera lattiginosa, si staglia invece la Siegessäule, la Colonna della Vittoria, che commemora le vittorie militari prussiane del XIX secolo. Proseguiamo girando attorno al maestoso Reichstag: emblema di quella che ci apparirà la principale caratteristica architettonica di Berlino, ossia il tentativo di far convivere presente e passato, antico e moderno, tradizione e futuro. Prima di accingerci alla nostra perlustrazione ci facciamo attirare dal profumino di un Imbiss, uno dei numerosi chioschi che vendono panini con würstel e altro.
Dato che è dalle tre del mattino che siamo in giro e non abbiamo ancora fatto un pasto degno di questo nome, la Romi mi ricorda che adempiremo molto meglio alle nostre incombenze da turisti dopo esserci procacciate un po’ di cibo. Sarà stata la fame, ma devo dire che non pensavo che un paninozzo con würstel potesse dare simili soddisfazioni! Dopo esserci nutrite, gironzoliamo in un clima di festa che svuota le strade e riempie i marciapiedi di persone in rollerblade e biciclette, i parchi di podisti e pic-nic. Ci colpisce particolarmente una sorta di monumento alla Memoria delle Vittime del Muro. Si tratta di una fila di croci bianche con sopra incisa solo la data di morte e, sotto, una didascalia con dati anagrafici e l’occasione dell’uccisione da parte delle guardie ex-DDR. L’ultimo fuggiasco ucciso risale al marzo del 1989, otto mesi prima del crollo del muro. L’allestimento commemorativo è arricchito dall’iniziativa di un signore che offre materiale informativo “per l’acquisto dei fiori freschi”, da depositare sotto le croci. Guardando gli articoli esposti ci accorgiamo che il signore è un ex carcerato della DDR, imprigionato e torturato, il quale ora dedica la propria vita alla commemorazione, alla denuncia e al ricordo di quella tragica pagina di storia. La semplicità dell’allestimento, le croci, le sole date e i nomi uniti a poche fotografie raggiungono l’effetto sperato: l’essenzialità riesce a colpire profondamente al pensiero del destino toccato a questi nomi, e a questo uomo.
Guida in mano, diamo inizio all’escursione che ci dovrebbe portare nella parte est di Mitte. Ci incamminiamo con il naso all’insù pronte ad ammirare le bellezze descritte: peccato che percorriamo ben due chilometri prima che venga fortunosamente in mente alla Romi che, forse, stiamo andando nella direzione sbagliata! In effetti siamo giunte alla Grosser Stern, la rotonda con al centro la statua della Vittoria Alata. Che invornite: se stiamo andando verso il sole che tramonta, evidentemente stiamo andando verso Ovest! Va beh, a questo punto ne approfittiamo per guardare da vicino la Colonna la quale, soprattutto grazie al film di Wenders, è per me il vero simbolo poetico della città. Poi non ci resta che macinare gli stessi chilometri in senso inverso, mentre il tempo passa. Il pallido sole cala e i piedi dolgono. Scontiamo fino in fondo la nostra penitenza rifacendoci la passeggiata al contrario. Ripassiamo sotto la Porta di Brandeburgo e finalmente diamo il via all’escursione preventivata la quale, devo dire, non ci delude. Osserviamo bellissimi palazzi, ambasciate, il Berliner Dom e il Französicher Dom. In un’atmosfera accogliente e semplice vediamo edifici classici e quartieri moderni anche nel nome, come il Quartier 205 e il 206. L’unico aspetto negativo è che siamo davvero stanche, inoltre sta scendendo la sera, il che non ci consente di soffermarci e di fare foto con la calma adeguata. Arriviamo alla bella Gendarmenmarkt Platz, ma a questo punto non ne possiamo più e decidiamo di fermarci. Andiamo a mangiare in un posticino senza nome, ma formidabile. La Romi sperimenta una specialità tipica come la schnitzel con patate, mentre io non azzardo niente di più che un’insalata greca, rimanendo entrambe decisamente soddisfatte. Notiamo subito un aspetto che noteremo ad ogni pasto, ossia che le porzioni e i piatti sono molto più grandi dei nostri. E’ perché i tedeschi sono più grandi che mangiano di più, o sono più grandi proprio perché mangiano di più? A parte le marzullate, ci siamo godute anche la nostra prima deutche bier ma a questo punto, stanche come siamo, con la pancia piena e la birretta in circolo non ce la possiamo più fare! Vediamo gente teoricamente ben vestita che si accinge ad andare a teatro e sentiamo della musica provenire dalla Konzerthaus;non mancano gay mano nella mano, ma noi salutiamo l’atmosfera molto woodstockiana e ce ne torniamo in albergo. Verso le dieci siamo già in camera completamente collassate.
Sabato, 26 marzo 2005
Vista la precoce ritirata riusciamo ad alzarci alle 6.30 senza effetti collaterali, anzi piuttosto gasate. Tra l’altro, concordiamo sul fatto che i letti sono fantastici: si dorme davvero bene! Il buonumore prosegue con una assolutamente Fröliche Früstuck, l’ottima colazione di cui, come si sa, i tedeschi sono maestri. Comunque, dopo l’idilliaco avvio diciamo pure che i nostri entusiasmi vengono smorzati. Innanzitutto oggi il tempo è tremendamente uggioso e triste. Nebbia, freddo, rigido. Ci intabarriamo e facciamo rotta verso il Reichstag, motivo della sveglia prematura allo scopo di evitare la consueta fila, lunghissima.e gli intoppi si susseguono. Incomprensibilmente, il treno non arriva. Inoltre, appena uscite in strada, continua la strana atmosfera destabilizzante che già avevamo avvertito questa mattina: deserto, nessuno in giro, la metro che dopo cento metri si ferma nel tunnel con gli inservienti che si mettono a fare le pulizie. mah! A questo punto decidiamo di andare a piedi verso il Reichstag, e sbuchiamo dalla metro in una Potsdamer Platz surreale. Acciaio, vetro, nebbia lattiginosa e grigio plumbeo ci avvolgono mentre camminiamo lungo Eberstrasse, un grande viale centrale ora assolutamente deserto. Ai lati si distendono spianate di terra e fango punteggiate da gru e caterpillar, conseguenze dell’abbattimento dei vecchi edifici. Non c’è nessuno. La scena è futuristica e desolata: una specie di Blade Runner post-atomica. Ma dove sono tutti? Alla fine arriviamo al Reichstag con un’ora di ritardo, ma vedere che c’è già un po’ di gente che aspetta ci rincuora: sembrava di essere gli ultimi sopravvissuti dopo l’invasione degli ultracorpi! Dopo la fila e i controlli con il metal detector saliamo sulla cupola di vetro e acciaio. Le vertigini mi procurano momenti di sconforto, ma reagisco abbarbicandomi al corrimano della pedana a spirale che porta in cima alla cupola, avanzando guardandomi fisso i piedi. Giunte in cima constatiamo che, naturalmente, con il tempo di oggi non si vede nulla perché la nebbia del mattino non si è alzata di un centimetro. pazienza! In compenso è stato interessantissimo il percorso fotografico allestito, fornendoci un excursus veloce e coinvolgente su tutta la storia della Germania moderna. Dalla fondazione alla nascita del partito socialista ad opera di August Bebel, dall’epoca di Bismarck alla Repubblica di Weimar. Poi il Terzo Reich, il Muro, l’Unificazione. Ce ne andiamo piuttosto soddisfatte ma purtroppo inizia a piovere. Che brutto! Faccio ugualmente una foto a cui pensavo sin da ieri, nel cortile interno del Pariser Palatz, ma penso proprio che verrà scurissima e triste come questo tempo!
A questo punto inizia la nostra giornata interamente Mauer-dedicated. La prima tappa è il CheckPoint Charlie, ricostruzione del principale punto di passaggio tra le due Berlino tra il 1961 e il 1990. Ci colpisce sin dal primo istante, complice il tempo livido. Il CheckPoint si trova all’incrocio tra due grandi strade oggi semideserte. Lo squallore e la tristezza dei fantasmi i quali, troppo recenti, ancora si avvertono, si scontrano con le bancarelle che vendono cimeli ex-DDR, con i figuranti vestiti da militari nelle divise dei quattro paesi “alleati” e, soprattutto, con il Monumento alle Vittime del Muro. Quest’ultimo si trova dall’altra parte dell’incrocio, su entrambi i lati della strada, e consiste in due impressionanti piccole aree ricoperte di alte croci scure. Elementare e intenso: molto deutsch. Dopo il colpo d’occhio esterno ci immergiamo nella Haus am CheckPoint Charlie, il museo sulla storia del muro. E’ molto grande, si sviluppa su svariati piani in un palazzo che, all’epoca del muro, si rese protagonista di alcune vicende di fuga e speranza. C’è moltissima gente e siccome non ci sono percorsi suggeriti, dopo un paio d’ore la visita si fa un po’ caotica e anche faticosa. Viene raccontato tutto con germanica minuzia, precisi dettagli e scrupolose didascalie. Le storie dei singoli che nel corso degli anni tentarono la fuga, i reperti originali, i quadri, i disegni dei bambini ispirati all’innaturale divisione. Ci sono poi filmati, foto, video e testimonianze dei giorni del crollo. Toccanti. Dopo una visita così, viene da pensare che la stranezza sia il fatto che, nonostante la commozione stampata sui visi di tutti coloro che come noi si trovano qui ora, al mondo ancora ci siano divisioni, poteri grotteschi, e avvilenti. E’ un pensiero banale, eppure al termine del percorso quello che rimane è la speranza. Perché c’è stata una lunga storia di ottusità che è terminata in modo incruento con uno scoppio infinito di gioia, commozione e fiducia. Nonostante ciò che può essere ora Berlino, nonostante le prosaiche difficoltà degli anni successivi, l’intensità, la profondità inaspettata e lo stupore colmo di speranza che ha toccato la vita dei berlinesi in quei giorni, sono un’esperienza unica e reale, non sconfessabile dalla disillusione di oggi. Disillusione comunque comune a tanti, in questi nostri, strani tempi.
All’uscita constatiamo che la giornata si è mantenuta fredda e livida. Assaltiamo un fast-food ispirato a diverse cucine internazionali, vero tempio della globalizzazione. esattamente il contrario della divisione di soli quindici anni fa. Ripartiamo alla ricerca dell’installazione all’aperto denominata Topographies des Terrors. Situato nella zona in cui sorgeva il quartiere generale della Gestapo, ci riserva un colpo d’occhio di assoluta desolazione a cui si aggiunge lo squallore di un tratto di muro originale, lugubre e sbrecciato. La mostra ricostruisce come sempre in maniera puntigliosa la storia della Gestapo e il suo cinico ruolo nel Terzo Reich, sempre più spietato con il passare degli anni. Dopo una breve sosta al Balzac Cafè ci ritroviamo a Potsdamer Platz la quale, con nostro stupore, meraviglia e gioia, ha mutato il volto post-atomico di stamane per trasformarsi in un crocevia brulicante di umanità. Per fortuna! Era troppo strano che non ci fosse nessuno in un tale punto nevralgico! Ma forse è solo perché siamo state troppo mattiniere. Continuiamo il nostro odierno peregrinare raggiungendo la cosiddetta East Side Gallery: il tratto di muro che nel 1990 è stato adibito a tavolozza, a disposizione di vari artisti che vi hanno lasciato la loro opera. Raggiungere il sito si rivela più laborioso del previsto, ma ne vale davvero la pena, infatti dopo il grigiore di oggi i graffiti colorati ci danno una sferzata di buon umore! Ce ne sono di belli, di simpatici, di famosi. Ovviamente questo ci scatena un delirio foto-riproduttivo ad alto tasso di compiacimento! Come in tutta Berlino, anche in questa zona spiccano i lavori in corso. Il grande viale poco trafficato, fiancheggiato da una tetra spianata di terra e cantieri sormontata da ruspe e gru, forse ci racconta, in qualche modo, la desolazione che solo quindici anni fa vivevano le zone periferiche delle due Berlino, a ridosso del muro.
Dopo aver fiancheggiato il muro, come se non avessimo camminato abbastanza decidiamo di fare una capatina ad Alexander Platz, che si trova nei dintorni. Ci affacciamo su quella che era la più importante piazza di Berlino Est, e ciò che colpisce è, anche in questo caso, l’aspetto “modernista”. Vediamo acciaio, vetro, neon, alcuni palazzi ex-DDR dall’aria di venir presto demoliti, la Fernsehturm, il Weltzeituhr (l’orologio mondiale). Sotto quest’ultimo la Romi si presta suo malgrado ad essere fotografata in un’amena posa plastica. e va beh, ci si diverte come può! C’è anche una sorta di mercatino di Pasqua nonché alcuni squatter-con-cane che sembrano anche abbastanza riservati, pur avendo praticamente occupato la Brunnen der Völkerfreundschaft (la Fontana dell’Amicizia fra i Popoli). Non ne abbiamo abbastanza, e decidiamo di dare un’occhiata al Nikolaiviertel prima che arrivi l’oscurità. Ma a questo punto segni premonitori sembrano suggerire che, nonostante noi ignoriamo spavaldamente la devastante stanchezza fisica che ci sta prendendo, le nostre facoltà cerebrali non riescono a fare altrettanto, col risultato che cominciamo a perdere colpi su colpi. Facciamo una serie di giri a vuoto, ci sottoponiamo a inutili attese tra i meandri della S- e della U-Bahn, e quando finalmente arriviamo alla fermata giusta siamo completamente stravolte! Fatto sta che arriviamo nel Nikolaiviertel in piena notte sbucando in una stradina completamente deserta, affiancata dalle alte mura di un palazzone. Vediamo le due guglie gemelle della Nikolaikirche ma questa volta siamo troppo demotivate per fare chilometri alla ricerca di una zona che dia un senso alla nostra presenza. così ce ne ritorniamo sui nostri passi. Va beh, le guglie le abbiamo viste, tanto più che in Banhof a quest’ora notiamo aggirarsi personaggi un po’ strani: è meglio fare dietro-front! Eppure siamo piegate ma niente affatto
spezzate: abbiamo un’altra carta da giocare, e allora andiamoci a vedere i famosi Hackesche Höfe! Oramai più che camminare strisciamo, ma questa volta giungiamo senza troppi problemi: e ne vale proprio la pena! Incantevole è il cortile n. 1, su cui si affacciano i palazzi dalle facciate decorate con piastrelle in stile art nouveau. Ci aggiriamo per i vari Höfe animati da diversa gente, curiosando tra gli originali negozi disseminati tra i cortili. Scattiamo un po’ di foto con la speranza che vengano nonostante l’oscurità, e solo a questo punto decidiamo che possiamo anche concederci il lusso di una cena! Prima adocchiamo uno stretto vicolo che porta all’esposizione dedicata ad Otto Weidt, una sorta di Schindler berlinese. Io trovo assolutamente bellissima la decadenza del vicolo e del palazzo che vi si affaccia, resi ancora più inquietanti da asettiche luci al neon che illuminano le finestre. Vorrei tanto fotografare questo scorcio ma è troppo poco illuminato. che peccato! Va beh, mi consolo con il meritato pasto che consente alla Romi di esibirsi in un’ordinazione da professionista alla taperia Yosoy. Abbarbicate al bancone ci mangiamo con indicibile soddisfazione, e anche un po’ di gratitudine, le nostre belle tapas a denominazione di origine controllata. Satolle e felici, cercando di non farci destabilizzare dalla stanchezza e dall’immancabile birretta, a questo punto ci dirigiamo difilato in albergo sognando il momento in cui poter riposare le nostre povere membra!
Domenica, 27 marzo 2005
E’ la domenica di Pasqua e i deutch possono finalmente dare un senso a tutto il loro sfoggio di cestini, uova colorate, conigli, lepri e quant’altro. che dire, finalmente fröhe Oster!! Anche oggi il cielo è decisamente coperto e la giornata grigia, ma ci basta che non piova. Come da tradizione, anche noi abbiamo in programma una gita pasquale fuori porta. Andiamo a Sachsenhausen, una ex fabbrica di birra a 35 chilometri da Berlino, trasformata in campo di concentramento nel 1936. Per la prima volta oltrepassiamo la zona C della
metropolitana: per un breve istante assaporiamo il brivido dell’avventura perché il nostro biglietto copre solo le zone AB. ma questa è un’altra storia. Dalla fermata, prima di giungere al campo ci sono due chilometri da percorrere, lungo i quali veniamo abbordate da un anziano personaggio. E’ assai bizzarro, parla quattro o cinque lingue e farnetica del campo, della soluzione finale, degli etruschi e del fine ultimo. Anche una coppia di turisti spagnoli è stata agganciata dal tipo, ma quando arriviamo in prossimità del campo, improvvisamente la conversazione prende una brutta piega. Non abbiamo capito come e perché, fatto sta che il tizio si scalda sui “motivi” e sul “fine ultimo”. e alla fine ci abbandona lì, tornandosene sui suoi passi arrabbiatissimo. Va beh, cosa vuoi dire? Niente, voglio dire. La visita al campo è molto lunga ed impegnativa. Ci muniamo di un opuscolo informativo e cominciamo il nostro pellegrinaggio in un ambiente assolutamente triste: erba ingiallita, alberi dai rami ancora completamente spogli e rinsecchiti, vento freddo e sferzante, foschia. Il campo non conserva alcun edificio originale. Sono state ricostruite due baracche dei prigionieri, le numero 38 e 39, sedi di due diverse esposizioni. Una è dedicata alla storia del campo, l’altra è incentrata sulle vicende personali di una decina di sopravvissuti. Tutte le esposizioni sono dettagliatissime, multimediali, talvolta toccanti. In particolare la baracca 39, partendo da singole esperienze, induce a riflettere sulla tragedia universale che è stato il Terzo Reich. D’altro canto, così come sulla morte di milioni di persone, altrettanto importante è riflettere sull’esperienza dei sopravissuti i quali, dopo la liberazione, dapprima sperimentarono una sorta di rinascita ad una seconda vita; poi dovettero fare i conti con la sofferenza, l’alienazione, la diffidenza e l’emarginazione di una vita di solitudine, in un continuo rinnovarsi della ferita. Riemergiamo al vento gelido del campo per continuare le stazioni di questa sorta di via crucis. Sostiamo al Monumento alla Memoria e al Campo Speciale numero Sette il quale, ironia della sorte, dopo la liberazione da parte dell’Armata Rossa venne utilizzato negli anni cinquanta come campo di lavoro per oppositori del regime comunista. Anche in questo caso l’esposizione è curatissima, ma a questo punto la nostra attenzione si fa più superficiale, non avendo più né la forza fisica né la concentrazione necessaria per seguire le minuziose indicazioni. I crematori non ci sono più: al loro posto solo targhe commemorative. Invece vediamo le baracche dell’infermeria, e devo dire che l’impressione terrificante di queste costruzioni è stata la più violenta di tutto il sito. La scala verso lo scantinato, e le fredde piastrelle del supporto su cui i medici nazisti facevano autopsie ed esperimenti sui cadaveri sono, realmente, agghiaccianti. Andiamo via con la mente ancora alle storie e ai pensieri del campo, stanchissime dopo aver camminato per ore con il vento che ci ha sferzato per tutto il tempo. Lungo la strada verso la stazione vediamo i segni di un pomeriggio di festa: poche persone, tante uova colorate appese agli alberi e decorazioni alle finestre.
Riprendiamo la S-Bahn per il centro. Ci aspetta un altro lungo elenco di cose da fare e posti da vedere così, da vere stackanoviste del turismo, decidiamo di ottimizzare il nostro tempo pranzando in metro. Autoctoni superattrezzati con bici ultratecnologiche alle prese con la loro scampagnata pasquale ci guardano forse un po’ perplessi, comunque noi, fedeli al verbo dell’ottimizzazione, ci facciamo tranquillamente fuori i viveri, con tanto di ovini-pasquali-della-Silvia. Vogliamo vedere Bebelplatz, la piazza in cui nel 1933 il regime nazista diede alle fiamme decine di libri ritenuti non graditi. Cerchiamo il monumento commemorativo situato in un sotterraneo, ma non lo troviamo. Per questa volta, e solo per questa volta, soprassediamo proseguendo nella passeggiata verso il famoso Museumsinsel, una delle zone con più alta concentrazione di musei al mondo. Vediamo numerosi begli edifici storici e il grande ponte sulla Sprea; non manca il contrasto con alcuni vecchi palazzoni ex-DDR disabitati e in procinto di essere demoliti. Ci sono bancarelle ed alcune giostre per bambini, due simpatici musicisti deutsch-country e parecchi chioschi Imbiss, di cui la Romi approfitta per farsi fuori un altro bel paninozzo con würsterone e birretta. Vedere in giro tanta gente ci conferma in una constatazione cui eravamo già pervenute, ossia che il concetto di bella coppia a Berlino non si sa nemmeno cosa sia! Per carità, questo non è affatto un male: se da un lato le coppie male assortite rappresentano un affronto all’estetica, dall’altro sono soprattutto indice dell’apertura mentale e dell’anticonformismo di questa città. E brava Berlino! Arriviamo all’Historisches Museum con la sua caratteristica facciata di vetro a chiocciola, disegnata da I. M. Pei. Vediamo poi la famosa Humboldt Universitàt, che ha avuto tra i suoi docenti nomi illustri come Marx ed Engels, i fratelli Grimm, Albert Enistein. Qui prendiamo il famoso autobus circolare n. 100 ed arriviamo alla leggendaria stazione Zoo facendo un bel giro panoramico della città, procedendo tortuosamente tra i sensi unici dovuti agli onnipresenti lavori in corso. Ed ecco che da qua puntiamo verso uno dei simboli di Berlino, la Kaiser Wilehlm Gedächtniskirche, simbolo della devastazione dell’ultima guerra, e monito agli orrori che tutte le guerre conducono con loro. Contrasto è la parola che meglio esprime la prima
impressione: contrasto fra la caotica, moderna stazione Zoo e l’imponente chiesa che si staglia alla fine del lungo viale: antica, ferita eppure dignitosa, della sicura dignità di chi ha molto visto e molto vissuto. Contrasto c’è anche fra il complesso ultramoderno e il vecchio campanile. Non definirei l’accostamento propriamente bello, ma la notevole carica simbolica aiuta l’occhio ad abituarsi alla visione e, dopo un attimo, a considerarla gradevole. Del resto, ovunque in città emerge l’urgenza del nuovo. La gru, quasi un altro simbolo oltre all’orso, rinvia al passato di Berlino come capitale distrutta del Reich e città mutilata dalla guerra fredda, in modo così evidente da farci percepire, quasi con sorpresa, come i segni del passato siano tuttora vivi, anche se spesso non visibili. In questo senso, la scelta della nuova chiesa ultramoderna dedicata all’imperatore Guglielmo, per quanto forse addirittura troppo esplicita, sembra l’ammissione più sincera ed efficace, addirittura necessaria, delle colpe e delle sofferenze che la storia ha convogliato su questa città. Una città oggi talmente nuova da risultare, apparentemente, quasi priva di quella storia tanto poderosa da raderla al suolo. Scattiamo diverse fotografie poi ci immergiamo nella folla della piazza, tra artisti di strada e turisti. Il vento pungente non accenna a diminuire così decidiamo di ripararci dal freddo all’interno dell’Europa Center, un centro commerciale con numerosi negozi e locali. E’ anche il momento dei primi acquisti. niente più che un paio di cartoline, oltre ad un piccolo magnete con un pezzo di Muro, che compro nonostante i miei fieri propositi iniziali. Si tratta decisamente di un furto legalizzato: dico, un pezzo di muro! Va beh, la differenza sta nella maiuscola, ma almeno l’oggettino è allegro, sobrio, e tutto sommato mi piace proprio! Quando invece ci accingiamo a visitare la chiesa, già pregustandoci la visione dei suoi famosi interni blu, scopriamo che il portone ha chiuso proprio cinque minuti prima. Che peccato! Va beh, a questo punto pensiamo solo a mettere qualcosa di commestibile sotto i denti. La zona è gremita di localini ma non abbiamo la forza di gustare una cena come si deve, così ci appoggiamo ad una delle poche certezze di questo nostro pazzo mondo, sottoponendoci docilmente alla nostra bella fila da McDonald! Dopo questo ennesimo panino ci trasciniamo rapidamente verso la metro, evitando di indugiare oltre perché rischieremmo di crollare sul tavolino. Però io adocchio un chioschetto informativo e mi ci fiondo per arraffare un paio di cartine della metro: sono troppo contenta, l’avevo persa sul treno e la cosa mi aveva intristito tantissimo! Poi ci apprestiamo ad aspettare il Bahn quand’ecco che la Romi nota due tipi già incrociati nel pomeriggio, durante una piccola pausa-espresso all’Einstein Cafè di Friedrichstrasse. E’ veramente curioso, quando si è all’estero, come si riesca a riconoscere i connazionali dalla fisionomia, dall’abbigliamento o dall’atteggiamento. Il parlottio dei due conferma il sospetto di esserci imbattute in due esemplari della numerosissima banda di italiani a Berlino. Saliamo sul nostro treno U2 in direzione Ruhleben e scendiamo alla consueta fermata di Bismarkstrasse. Poi attendiamo il Bahn U7 in direzione Spandau e i due tipi si piazzano ad aspettare sulla nostra stessa banchina, solitamente assai scarna di turisti. Saliamo e, come di consueto, assistiamo alla discesa del grosso dei passeggeri già nelle due fermate successive, Deutsche Oper e Richard Wagner Platz. Noi scendiamo dopo, a Mierendorffplatz e, incredibilmente, scendono pure i tizi! Praticamente siamo gli unici essere umani ad essere scesi a questa desolata fermata. Dopodiché, indiscutibilmente prendiamo la stessa direzione! Arriviamo davanti all’albergo, guardiamo ai lati della strada, attraversiamo e ovviamente anche loro fanno altrettanto. Mentre chiediamo la chiave alla reception ci raggiungono, a quel punto teniamo educatamente aperta la porta dell’ascensore in modo da salire tutti insieme. Italiani? Si. Noi al quinto piano e voi? Quinto anche noi. Noi siamo qui da venerdì e voi? Anche noi. Noi andiamo di qua. Anche noi.Noi siamo in questa camera. Noi in quella accanto. Ma dai?! Buona serata. Buona serata. Appena chiusaci la porta alle spalle, io e la Romi soffochiamo le risate isteriche e attacchiamo a parlare sottovoce come se ci fossero microspie ovunque. Ci rotoliamo sui letti in preda a spasmi convulsi per non poter dar sfogo al riso, poi ci calmiamo e ci lanciamo in una serie di “non ci posso credere”!! Che bella coincidenza. Son proprio soddisfazioni!
Lunedì, 28 marzo 2005
Pure oggi mi sveglio prestino, anche per via di un assordante concerto dei pennuti che popolano gli scarni rami degli alberi di Charlottenburg. Affare leggermente fastidioso ma, se non altro, portatore di una buona notizia. sembra ci sia il sole!! Ci gustiamo la solita fantastica colazione e ci avviamo verso Spandau. Oggi ci aspetta un preludio cavalleresco, un intermezzo regale e un finale storico a tutto tondo! Prima visitiamo Alte Spandau, il nucleo vecchio del quartiere periferico più occidentale di Berlino. La via centrale del piccolo borgo è carina e ordinata ma non si vede in giro creatura vivente. In compenso c’è un gran scampanare della Nikolaikirche che, nientemeno, nel 1539 ospitò la prima funzione liturgica protestante del Brandeburgo! Due anziani sorridenti stanno sulla porta della piccola chiesa allungando una bibbia a coloro che entrano. Diamo una rapidissima occhiata e riesco solo a notare che ci sono pochissime persone, cinque o sei in tutto, e che manca l’altare. Proseguiamo la nostra vista lungo gli argini della Sprea e oltrepassiamo il ponte, da dove si vedono le sue acque mischiarsi con quelle dell’Havel. Facciamo un giretto a Kolk, la parte più vecchia, ma c’è solo una minuscola viuzza con quattro case a catturare la nostra attenzione, dopodiché facciamo rapidamente tappa alla Zittadelle Spandau. Il castello e le torri sono davvero ben conservate, ma fatichiamo ad afferrare il fascino medievale di questa fortezza silenziosa e disabitata. In fondo, le nostre colline sono piene di tesori medievali e siamo quindi abituate a ben altre atmosfere cavalleresche! Comunque cogliamo l’occasione per farci una bella foto al sole, ed è una novità!
La prossima tappa prevede un altro castello, lo Schloss Charlottenburg. Uscendo dalla metropolitana, come è orami nostra consuetudine, giriamo e rigiriamo la cartina per poi fare costantemente i primi cento metri dalla parte sbagliata, fino a quando incontriamo la prima traversa e ci rendiamo conto di stare sbagliando direzione. perché? Perché ci rivoltiamo sempre? E’ dal primo giorno che facciamo confusione con le direzioni: è sconsolante! Alla fine arriviamo ai cancelli dorati dello Schloss, ennesimo tentativo di imitazione della reggia di Versailles, nonché una delle poche testimonianze della Prussica imperiale. C’è molta gente, i palazzi da visitare in questo complesso sono diversi, ma la splendida giornata ci fa desistere dal rinchiuderci in luoghi chiusi, così optiamo per una bella passeggiata attraverso i giardini. Va bene, di camminare si poteva anche fare a meno una volta tanto, però non possiamo perdere l’occasione di gustarci un po’ di sole! Ovviamente il giardino è lontano dall’offrire lo spettacolo che riserverebbe in una stagione più avanzata, per questo, più che altro, ci guardiamo attorno. Soprattutto notiamo l’alta presenza di autoctoni con bambini abbastanza pestiferi in gita fuori porta; ci sono poi tanti turisti italiani e gente che corre: quanto sono sportivi questi deutsch! Arriviamo al Belvedere dove paghiamo i due euro per salire in cima e vedere il panorama. O meglio: per non vedere il panorama, completamente offuscato dai rami, seppure spogli. Ripieghiamo così sull’osservazione della preziosa collezione di porcellane storiche. Direi che difficilmente potrei immaginare un passatempo più tedioso, tuttavia l’ho trovata incredibilmente affrontabile! In effetti il tempo passa e la tabella di marcia incalza: cammina cammina ritroviamo la via d’uscita, lasciandoci alle spalle lo stile barocco dello Schloss, uno dei pochi edifici di Berlino rimasto a ricordare il passato splendore degli Hoenzollern. Facciamo tappa alla stazione Zoo per il pranzo. Io avrei voluto evitare di bissare il McDonald, ma ben presto è chiaro che non ce la possiamo fare. C’è troppo caos, siamo troppo stanche per aver camminato tutto il giorno (sai che novità), e non particolarmente propense ad eccentriche avventure culinarie. Mi arrendo e ripieghiamo sull’amico Mac. Tentando di non morire soffocata dal panino -un tantino
piccante- penso che vorrei proprio rimanermene seduta per sei ore a fila. Invece ci alziamo molto prima, e non deve essere una gran visione la mia figura claudicante, praticamente piegata in due e dolorante dalle spalle ai piedi! Non so se siamo noi a pretendere troppo dalle nostre vecchie e stanche membra, o se sono le membra effettivamente troppo vecchie e stanche per sopportare anche la metà di questi strapazzi! Fatto sta che anche i nostri riflessi devono essersi rallentati perché, improvvisamente, ci rendiamo conto che è clamorosamente tardi. Sono le tre e abbiamo due musei da visitare. via allo Story of Berlin!
Arriviamo alla fermata di Uhlandstrasse, ci pensiamo un po’ e, naturalmente, usciamo dalla parte sbagliata. Alla prima traversa controlliamo poi, rassegnate, ci giriamo dalla parte opposta e ci fiondiamo al museo, situato all’interno del centro commerciale Ku’damm. Si tratta di una exihbition multimediale, basata sul susseguirsi di venti ambienti che ricostruiscono diverse epoche storiche della città, sin dalla sua fondazione. Alla cassa ci sono ragazzi molto giovani, e in particolare un lungagnone dai crespi capelli a fungo davvero originale. Già noi siamo stanche, in più abbiamo corso, quindi figuriamoci se riusciamo a spiccicare due parole in tedesco. E’ così che, nel domandare i biglietti, diamo il via ad un patetico dialogo che comincia con la nostra pietosa domanda: do you speak english? Il tipo ci guarda con palese commiserazione rispondendo che “lui” lo parla, l’inglese. Non ha tutti i torti. I precisissimi teutonici ci riforniscono anche di una preziosa dispensa in italiano, che ci consentirà di seguire al meglio l’esposizione. Che bello, possiamo partire. Cominciamo oltrepassando i “casermoni” dell’ottocento, sobbalzando ad ogni scalino per i rumori di strada. Smartellamenti, voci, telefoni, cani che abbaiano. Impressionante. Si parte poi per l’excursus attraverso i secoli: dalla fondazione all’epoca dei commerci a quella napoleonica. Dall’unificazione, a Bismark, alla prima guerra mondiale rappresentata da un tetro giardino di tombe. C’è poi la rinascita e la sfavillante città degli anni venti: moda, ballo, automobili, invenzioni, cinema muto. E’ la golden age di Berlino. Poi la crisi del 29 e la presa di potere del partito nazionalsocialista. Inizia il declino, non solo metaforico. Scendiamo fisicamente due piani di scale accompagnati dal variare del colore alle pareti che, di un giallo vivace, gradualmente va sfumandosi nella più cupa tinta di grigio. Affollano la parete le foto di berlinesi più o meno famosi, che diminuiscono sempre più ad ogni pianerottolo, a simboleggiare l’emigrazione via via più massiccia. Arriviamo in fondo, dove la voce del parlamentare socialdemocratico Otto Wels lascia il posto a quella stentorea e vagamente isterica di Goebbels. Siamo sprofondate, e da qui attraversiamo lo stretto corridoio buio nel quale viene simboleggiato il rogo dei libri a Bebelplatz, nel 1933. Attraversiamo i bui anni del Terzo Reich con gli altoparlanti che diffondono la voce del Führer e le immagini scioccanti delle persecuzioni e della guerra. Follia sempre più spinta, immagini sempre più sconvolgenti via via che si assiste alla tremenda distruzione del conflitto, poi. Poi si arriva alla fine. Finora ogni “quadro” ha condotto ad un altro, ogni epoca ha introdotto quella successiva, ma non ora. La guerra e il Terzo Reich hanno rappresentato l’apice di un cammino, l’esplosione della follia più totale, tanto che la frattura non può essere rimarginata. Una tenda rossa chiude
quest’epoca: non c’è passaggio né continuità. E’ la fine. Non è rimasto niente, non c’è niente da portare con sé. Si ricomincia da zero. Si ricostruisce dalle fondamenta. Oltrepassiamo la tenda e siamo in un nuovo mondo fatto ancora di miseria e macerie, talmente tante nella città rasa al suolo da costituire vere e proprie colline. E’ tuttavia un mondo nel quale si respira più liberamente: non domina più l’oscurità e, in un modo o nell’altro, si ricostruisce. Gradualmente, rapidamente, le forze occupanti che si erano divise l’amministrazione della città si solidificano in due mondi contrapposti. Si fa strada la cortina di ferro e, sin dagli anni cinquanta, si nota in germe quello che sarà il differente destino toccato in sorte alle due parti della città. Ad Est aumenta vertiginosamente l’emigrazione e l’URSS vi si oppone istituendo un blocco per impedire i rifornimenti alla città. Gli alleati lo aggirano con un epico ponte aereo durato alcuni mesi, trasformandosi agli occhi dei cittadini da paesi “occupanti” in “protettori”. I sovietici rinunciano al loro proposito ma anni dopo, nel rinnovato tentativo di chiudere gli occhi alla popolazione di Berlino Est, il 13 agosto del 1961 innalzeranno il muro. Che impressione vedersi ostruire la strada da un muro, tentare di guardare attraverso le sue crepe e non vedere nulla, se non filo spinato. Che aberrante limitazione della libertà e, ancor di più, che grave offesa ad ogni singolo uomo e ad ogni singola donna di quella città! E che impressione vedere i filmati dell’epoca riferiti a quel giorno: lo stupore, l’incredulità nei visi della gente che non capiva. che vergogna tentare di impedire alle persone di ragionare! Da questo momento il muro diventa il protagonista della storia della città. John Kennedy viene in visita proclamando che, in ogni parte del mondo, ogni uomo che aspira alla libertà dirà ich bin ein berliner. Il 68, i movimenti di protesta giovanile e la musica dei Beatles toccano Berlino Ovest, culla anche di uno spietato movimento terrorista capeggiato da giovani e studenti. Dall’altra parte la Stasi spia e vigila sulla vita dei berlinesi, molti dei quali vengono imprigionati e torturati. Ma la storia è implacabile e sorprendente. Così diventa storico persino il concerto che Michael Jackson tiene nel 1988 nella terra di nessuno, di fronte al Reichstag. E storica la frase pronunciata da Reagan di fronte alla Porta di
Brandeburgo: Mr. Gorbaciov, abbatta questo muro! E’ la storia che fa gli statisti, o sono gli statisti che fanno la storia? Va beh, a parte i dilemmi esistenziali, dopo due ore immerse in questa storia, alla fine è davvero coinvolgente rivedere le immagini della caduta del Muro, tanto che quasi riusciamo ad assaporare anche noi quegli incredibili, irripetibili brevi istanti di pura gioia e intaccabile speranza.
Abbiamo terminato il nostro giro lungo le epoche di Berlino, ma ora ci aspetta un altro interessante momento: la visita guidata al Bunker sotto il centro commerciale! Con un gruppetto di circa trenta persone seguiamo una biondina, energica ragazza tedesca che ci conduce nel Bunker. Sono impressionanti la lugubre distesa di duemila brandine, le squallide toilettes e la cucina, completa di mestoli. Dunque l’intero stanzone è occupato dalle brandine, mentre ai lati ci sono i bagni, le cucine, i generatori e l’infermeria, utile soprattutto in caso di attacchi di panico e claustrofobia, assai probabili tra persone costrette a convivere gomito a gomito in quello spazio basso e angusto. C’è poi un altro minuscolo bugigattolo, allestito appositamente per le cinque persone che formeranno la sorveglianza. Tutto questo sarebbe grottesco se non fosse drammatico. Ci sono tantissimi Bunker a Berlino, costruiti sia durante il periodo della seconda guerra mondiale come rifugi antiaerei sia dopo, durante la guerra fredda. che assurdità pensare ora che c’è stato un periodo non lontano in cui l’Europa unita ha davvero rischiato di annientarsi vicendevolmente. Gran parte dei Bunker sono stati distrutti, anche quello in cui Hitler si tolse la vita il 30 aprile del 1945; altri non sono più funzionanti ma alcuni, come quello in cui ci troviamo, sono tuttora “operativi”. Ciò significa che in caso di minaccia nucleare, chimica o batteriologica, esiste un piano di emergenza in grado di rendere il Bunker operativo in pochi minuti. A parte forse poche persone vicine ad ambienti governativi e militari, dopo l’avviso ufficiale vengono dati tra i tre e i cinque minuti di tempo per entrare, dopodiché non c’è più niente da fare: chiunque altro rimarrà fuori. Le persone vengono introdotte in una stanzetta chiamata “di decompressione”, dove si sottoporranno ad una speciale doccia per purificarsi da ogni eventuale residuo contaminato. Quindi entrano nell’enorme stanzone sotterraneo… E’ fondamentale sottolineare che le scorte alimentari ed energetiche possono coprire al massimo quindici giorni, dopodiché si deve uscire. E’ stato infatti calcolato che, dopo tale periodo, l’eventuale contaminazione subisce un calo a picco. A quel punto si esce fuori e si affrontano le condizioni esterne così come sono. E’ evidente quindi che il Bunker non è una garanzia di salvezza, ma solo un’opportunità. Quello che posso dire io è che l’ambiente è semplicemente opprimente. In fondo, non orribile, ma solo lugubre, asettico, cavo e claustrofobicamente agghiacciante. Non ci sono grandissime emozioni: solo un senso dell’assurdo che quasi annichilisce. Usciamo dal Bunker passando per una porta che dà su Kurfürstendamm, siamo senza giacca ma la fredda aria pomeridiana ci sembra comunque una benedizione.
Le ore fuggono e non abbiamo il tempo per elaborare le sensazioni che ci ha lasciato questa immersione nella storia. Inoltre io ho un po’ d’ansia perché temo fortemente di non arrivare allo Jüdischesmuseum prima della chiusura. Come se non fossimo sufficientemente stanche io e la Romi dimostriamo energie nascoste: ignoriamo bellamente i più svariati dolori muscolari e spicchiamo la corsa! Povera Romi, mi sento in colpa. in fondo sono io che ho l’ansia, mica lei. Tanto più che non era nemmeno una visita preventivata, solo che l’enfasi della Lonely mi ha convinta in progress. Sono curiosa soprattutto di sperimentare il decantato “coinvolgimento emotivo” provocato, più che dal museo vero e proprio, dall’innovativa connessione tra i temi del museo e la sua architettura. Fatto sta che superiamo il gruppo del Bunker con uno stacco portentoso, e correndo come pazze andiamo a prendere la metropolitana. Giunte a destinazione ci pensiamo un attimo, ci concentriamo e prendiamo inevitabilmente l’uscita sbagliata. fatto di cui fortunatamente ci accorgiamo piuttosto presto. Siamo nel distretto di Kreuzberg, dove le ampie strade di Berlino sembrano ancora più grandi, anche perché c’è davvero poco traffico. A passo di marcia arriviamo finalmente all’imponente struttura del Museo. E’ immenso. Il progetto, chiamato Between the Lines, è stato realizzato da Daniel Libeskind, l’architetto che ha vinto il concorso per la progettazione del nuovo WTC di New York. Il museo è concepito come una metafora della storia tortuosa del popolo ebraico che prende forma attraverso due linee, l’intersezione delle quali è segnata da vuoti e spazi cavi che tagliano l’intero museo. Pareti ricoperte di zinco si innalzano al cielo seguendo una pianta a zig zag che è l’interpretazione astratta di una stella. Al posto delle finestre, aperture irregolari perforano il rivestimento dell’edificio. All’interno una ripida scala scende fino a tre spogli corridoi che si intersecano, ognuno dei quali rappresenta un “Asse”. Peccato che noi siamo davvero troppo stanche per apprezzare al meglio il museo. Devo anche dire che gli opuscoli non permettono di seguire in modo molto chiaro il complesso percorso simbolico pensato dall’architetto. Noi ci ritroviamo per primo a seguire l’Asse della Continuità, che porta alla mostra vera e propria. Anche in questo caso si tratta di una presentazione assolutamente metodica di 2000 anni di storia ebraica, il tutto proposto in modo multimediale con stazioni audio, video, documenti “nascosti” nei cassetti e altro ancora. E’ interessante ma troppo faticoso, e il nostro excursus è sicuramente superficiale. Solo alla fine, scendendo in basso e ritrovandoci ancora all’intersezione delle tre Assi, ne comprendiamo appieno il significato. La Via della Continuità porta ad un allestimento veramente
coinvolgente: il Vuoto della Memoria. Si tratta di uno spazio irregolare, altissimo, nel quale sono accatastate per terra centinaia di volti di ferro raffigurati nell’atto di urlare. Una didascalia invita i visitatori a camminare sopra i volti: in questo modo si produce uno stridìo metallico come di catene, o grida in lontananza e, durante il percorso fin all’angolo più buio del vano, si viene invitati a rendere memoria alle vittime dell’olocausto e di tutte le guerre. Devo dire: emozionante. Seguiamo poi l’Asse dell’Esilio che riporta alle pareti i nomi di città di tutto il mondo, meta delle peregrinazioni di questo popolo. In fondo, una pesante porta conduce al Giardino dell’Esilio: un campo di colonne di cemento ricoperte di piastrelle che lascia disorientati. Inoltre è buio, questo allestimento si trova all’aperto e mi trovo a camminare sola, nella sera, attraverso le colonne. Ma è freddo, presto rientro. Percorriamo l’ultimo corridoio, alle pareti sono scritti i nomi dei campi di concentramento disseminati in tutta Europa. E’ l’Asse dell’Olocausto, il portone al termine del quale introduce alla Torre dell’Olocausto. Entriamo in una buia cavità cilindrica con il tetto che, perso nell’oscurità, potrebbe persino toccare l’infinito. La suggestione, la stanchezza e la claustrofobia si combinano improvvisamente, e non resisto abbastanza per lasciare che si richiuda la porta con il suo spiraglio di luce. Non c’è che dire, la forza suggestiva di questa struttura è certo considerevole.
Siamo talmente stanche che persino la Romi, incredibilmente, si dimentica di non aver mangiato! E’ tardi, vorremmo cavarcela velocemente. Ci affacciamo ad un paio di fermate in stile “deserto metropolitano”, poi ci fermiamo alla Nollendorf Station. Non c’è manco per sogno la folla di Zoo ma alcune insegne e gruppetti sparuti di persone infreddolite ci inducono a tentare. ecco un locale che sembra proprio fare al caso nostro, c’è persino tanta gente dentro! Avvicinandoci alla vetrata scorgiamo però una grande sala incontrovertibilmente piena zeppa solo ed esclusivamente di uomini. Che cosa originale, anche simpatica, ma decisamente non mi sembra il posto per noi! Comunque è davvero troppo tardi, tira troppo vento ed è troppo freddo per farla lunga, così ci arrendiamo alla scialuppa di salvataggio del turista nell’era della globalizzazione: w le grandi catene di fast-food! Questa volta non è McDonald ma Route 66. Ordiniamo una pizza ed un’insalata di proporzioni talmente ciclopiche che la metà bastava. Ce ne usciamo che è mezzanotte, in preda ad un attacco di ridarella, evidentemente generato dalla birretta unita alla stanchezza cronica. Cosa ci sarà da ridere? Anche sul treno cerchiamo di trattenerci dagli attacchi di ridarella etilica, ma ci passa solo quando arriviamo in albergo. La porta è chiusa! Abbiamo un attimo di panico, poi dietro il balcone della hall si materializza un omino che ci apre senza proferire verbo. Nonostante lo sfascio fisico-cerebrale, la Romi stoicamente gli pone in tedesco la domanda fatidica: Am wieviel Uhr müssen wie die Zimmer.?.. .Peccato, era andato tutto così bene! Il tipo la guarda e, pietosamente, termina l’elocuzione: verlassen? JAAA! Va beh, io è meglio che sto zitta visto che non ho manco capito la limpida risposta. Si sbaracca alle undici: elf!
Martedì, 29 marzo 2005
Sono le sei e mezzo ed io mi sveglio sempre troppo presto, anche perché i pennuti, puntualmente, gridano come ossessi già prima dell’alba. Ma che polmoni hanno, d’acciaio? La Romi si sveglia con mal di gola e senza voce. Ha passato tutti questi giorni annunciando ad ogni pasto che sicuramente si sarebbe presa il tifo: tutto sommato le è andata bene! Siamo nella patria della Bayern, quindi niente di più facile che risolvere estraendo dal cilindro una molto-opportuna-Aspirina-C! Mi gusto per l’ultima volta la mitica fröhe frühstuck dell’albergo, finiamo di preparare le valigie dopodiché, ancora con le solite membra doloranti, ci dirigiamo di buon mattino ai grandi magazzini KaDeWe, in modo da tornare alle undici per liberare la stanza ed andarcene poi direttamente in aeroporto. Scopriamo che i magazzini aprono solo alle dieci, nel frattempo facciamo rotta all’Europa Center, dove diamo sfogo ad uno spaventoso raptus-iconografico-compulsivo comprando cartoline a secchiate! Torniamo a piedi al KaDeWe e ci slanciamo all’ultimo piano in cerca di “dolci” ricordi: il tempo è poco, ma riusciamo comunque nel nostro intento. Ancora una volta ci complimentiamo da sole per la nostra meticolosa organizzazione, che ci permette di giungere in aeroporto con perfetta puntualità! Ma le sorprese non sono finite. Accade che la mitica Lufthansa ci fa subire un ritardo di un’ora, causa problemi tecnici non meglio precisati. Già imbarcate, passo dal timore di star male come all’andata, alla solita paranoia per il volo, all’ansia di perdere la
coincidenza: remota eventualità che sorprendentemente si verifica. Per fortuna attendiamo solo due ore per il volo successivo, così evito la crisi isterica e sopporto con moderata rassegnazione fino all’arrivo a Bologna.
Ci lasciamo alle spalle i nostri brevi e frenetici giorni con tante cose che ancora ci sarebbe piaciuto fare. Però la città non ci ha deluso, e nemmeno i suoi cittadini. I tedeschi un po’ li consociamo: da sempre sono quelli che vengono in vacanza al mare, in riviera. Sportivi, gioviali, gentili, aperti ma non troppo. E non mi sembra che cambino molto sul suolo patrio. Sono simili a noi. D’accordo: hanno un senso civico esponenziale rispetto al nostro, sono precisi e meticolosi come noi non saremo mai, eppure mi sono sembrati, soprattutto, informali come noi. Mi sbaglierò, ma credo la prendano con filosofia: they take it easy. Del resto, penso che questo loro ammorbidimento abbia potuto essere l’unico modo per superare le tragiche fratture segnate dal Novecento.
Ma più che tedeschi, in questi pochi giorni quello che abbiamo visto è stata Berlino. Non è propriamente bella, ma moderna e con tratti di marziale imponenza. Non è la città eterna, non è come le calorose città spagnole, non è la Vienna imperiale o l’impassibile Londra. Non è Monaco con i suoi castelli né la romantica Parigi. E’ talvolta giovane e simpatica come Dublino ma, se quest’ultima porta in sé il tranquillo mistero del popolo celtico, la maestosa pomposità di Berlino nasconde i tragici fermenti del Novecento. Abbiamo continuato a perderci tra Est ed Ovest, sin dal primo giorno li abbiamo confusi: eppure ad Est come ad Ovest abbiamo ugualmente avvertito le ferite di questo recente passato. Senza bussola, continuando a confonderci, comunque l’abbiamo attraversata e la città ha mostrato i suoi
segni: imponenza tragica, torri non ricostruite, muri lasciati e muri divelti, la pomposità della Porta di Brandeburgo e la modernità del nuovo quartiere governativo. Credendo di essere ad Ovest ed essendo invece ad Est, credendo di uscire dal sottopassaggio Sud e sbucando invece da quello Nord: perdendo la bussola abbiamo attraversato la città al centro della vecchia Europa. Una città che è invece giovane e nuova. Anzi ricostruita, eppure con vive ferite talvolta invisibili, ma profonde ed antiche come la storia.
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