Europa

L’ oro del Reno

di Pierluigi Cortesi –
Diario di viaggio di tre uomini a zonzo per fiumi e per valli.
Prologo. Mercoledì 6 Agosto . Pedalo da Castiglioncello a Pisa e raggiungo l’aeroporto “Galilei” nel tardo pomeriggio, con un po’ di ansia, come ogni volta che devo imbarcare la bicicletta in aereo; ma stavolta non ho problemi a reperire lo scatolone di cartone che Francesco, mio genero, mi ha procurato da un ciclista. Completata l’operazione d’imballaggio, vado al check-in e attendo fiducioso.

Ma debbo aspettare parecchio, perché ci dev’essere un ingorgo di voli, soprattutto Ryan Air, con tanto di “delayed flight”, personale di terra insufficiente, code lunghissime in cui si confondono passeggeri con differenti destinazioni, confusione, caldo insopportabile,frastuono, avvisi scarsamente udibili, proteste, bambini sperduti, gates chiusi prima che tutti abbiano superato il check-in… Mai vista una tale babilonia all’aeroporto di Pisa.

Attendo con santa pazienza, la pancia vuota e i piedi gonfi, avanzando di microscopici passi nel serpentone umano e guadagnandomi le occhiate bieche di una tedescona a cui ho sfiorato la valigia con la mia bici imballata, finché giunge finalmente anche il mio turno e, consegnato il mio bagaglio, posso raggiungere l’ aereo per Francoforte-Hahn. La carlinga è anch’essa soffocante e satura di persone che trasudano umori e malumori, ma almeno posso sedermi (e togliermi di nascosto le scarpe, tanto, dall’odore che sento, non sarò il solo). Con qualche ritardo, alla fine, l’aereo riesce a partire.

Atterro verso mezzanotte. Recupero il mio bagaglio e lo trascino fuori dall’aeroporto, fortunatamente per pochi metri, fino al comodo ” B&B Hotel” (prenotato via internet a 45 €); del resto sarebbe stato impensabile a quest’ora rimontare al buio la bici e raggiungere il vicino villaggio di Lautzenhausen per raggiungere un albergo.
L’hotel è di quelli per viaggiatori che non hanno tempo da perdere, ma la stanza con vista (bruttina) sull’aeroporto è spaziosa, pulita ed efficiente. Mi riprendo con una rapida -e indispensabile- doccia, sgranocchio quel che mi è rimasto di commestibile nello zaino e preparo la mia roba per domattina; poi di corsa a dormire.
Percorsi da Castiglioncello a Pisa 46 km circa in 1h:45



1 giorno: a) da Hahn a Trier
Rimontata la bici e fatta un’adeguata colazione (la scelta non è particolarmente ricca, ma il servizio è a buffet, quindi non c’è rischio di sottoalimentazione), parto verso le 9.
Poco dopo Büchenbeuren prendo la E42, che lascio al bivio per Kleinich seguendo i cartelli per Bernkastel. Le indicazioni stradali (ma anche quelle degli abitanti) non sono sempre chiare o complete e, unite alla mia innata distrazione, mi inducono a qualche errore di percorso. Ma si viaggia bene: il traffico è quasi inesistente, ai bordi della strada domina il verde di prati e boschi di conifere, l’aria è fresca e l’altitudine, pur con saliscendi continui, complessivamente diminuisce.
Dopo Longkamp la strada scende decisamente e permette di avvistare tra gli alberi prima la Goldenes Kreuz poi le rovine del castello Landshut. Al termine di una discesa lunga e ripida imbocco il tunnel (pericoloso e vietato alle bici, va evitato prendendo a destra) e raggiungo Bernkastel-Kues e la vallata della Mosella centrale.
La città è famosa per essere un centro vinicolo importante, per le sue manifestazioni come la Musikfest o la Weinfest (con relativa sfilata di carri allegorici), ma anche per le Fachwerkhäuser, le tipiche costruzioni a graticcio, e la colorata piazza del mercato d’impronta medioevale. L’annessa cittadina di Kues è nota anche per aver dato i natali all’ umanista “tuttologo” del ‘400, Nicolaus von Kues, da noi conosciuto col nome di Nicola Cusano.


Oltrepasso il ponte, gironzolo un po’ per il centro storico, e mi concedo una sosta in un prato sulla sponda sinistra, riposandomi tra anatre e germani reali che razzolano liberi e per niente intimoriti. Quindi, reso ansioso dal timore di arrivare tardi all’appuntamento a Treviri, riparto imboccando una bella ciclabile lungofiume fino a Lieser; poi torno sulla strada regionale, sempre seguendo la Mosella, sovrastato da sconfinati vigneti che si arrampicano verticalmente sulle pareti della valle, fino al bivio per Osann. Qui, per evitare di ripetere poi lo stesso tragitto coi miei compagni, scelgo di prendere a destra e salgo di quota fino a scollinare, perdendo così di vista il fiume.
Dopo Klausen la strada scende nuovamente e si affianca alla E44, l’autostrada che da Nord conduce verso Trier, ovvero Treviri. Continuo con qualche modesto saliscendi per Hetzerath, Schweich, Ruwer… Anche se ho ritrovato la Mosella e la pianura, il paesaggio diventa meno bello e interessante man mano che ci si sposta a Sud: siamo ormai nella periferia industriale di Treviri.
L’appuntamento coi miei due compagni è per l’una presso Porta Nigra; la città è ampia e affollata di automezzi, ma non è difficile raggiungere il centro grazie alle indicazioni. Per sicurezza chiedo a un vigile se la direzione per Porta Nigra è giusta e lui sorridendo mi indica una grossa massa scura a 50 m. di fianco a me.
Dunque sono arrivato, percorrendo 73 km, qualcuno più del previsto, in tre ore circa di pedalate.


b) Da Trier a Brauneberg
Il monumento, un po’ tetro per il suo colore nero, è l’antica porta d’ingresso alla città romana; risulta davvero imponente e conservato perfettamente, anche se nient’altro intorno consente di ricollegarlo all’epoca di Roma (salvo la discutibile presenza di un uomo in costume da centurione che da una loggia al primo piano sbraita ai turisti in un gutturale latinorum tutto suo; “Meno male -mi dico- non solo a Roma si verificano queste carnevalate”); eppure la Storia è davvero passata da Treviri, lasciando segni consistenti della civiltà romana: dell’antica Augusta Treverorum ( che fu una delle 4 capitali dell’Impero Romano ai tempi della Tetrarchia) restano la grandiosa Basilica di Costantino, ancora intatta dopo quasi 17 secoli, il possente Römerbrücke, che permette oggi come ieri di attraversare il fiume, i resti delle Terme imperiali e altre vestigia minori.
Incontro L. e Jürgen seduti a un ristorante subito oltre Porta Nigra. Quando hanno finito di pranzare, raggiungiamo l’auto che li ha condotti fino a Treviri (e che la moglie di Jürgen riporterà a Jettingen) e, scaricate le loro bici, ripartiamo. Seguendo le contorte indicazioni del navigatore di J., il nostro percorso all’inseguimento di piste ciclabili nel centro cittadino diventa un arabesco, che ci permette se non altro di avere un’idea molto sommaria della città e di alcuni suoi monumenti; mi sarebbe piaciuto soffermarmi un po’ di più, visitare il Rheinisches Landesmuseum vedere la Basilica, l’Hauptmarkt o la casa del suo illustre cittadino Karl Marx… ma il tempo corre. Peccato.
Attraversato il ponte sulla Mosella proseguiamo prima sulla sua sponda destra, poi sinistra, all’altezza di Biever, fino a raggiungere Schweich. Qui passiamo nuovamente il ponte e iniziamo su una tranquilla ciclabile la parte più interessante del nostro percorso giornaliero.
La stradina su cui ci muoviamo è la consueta pista ben asfaltata e silenziosa: larga un paio di metri, a destra è protetta dalla “civiltà” di strade, case, automezzi, grazie a boschetti, macchie o siepi, mentre a sinistra una stretta striscia erbosa ci separa dall’acqua del fiume.
La Mosella, qui, non mi pare molto ampia, ma la corrente scorre veloce e placida al tempo stesso e sono particolarmente suggestivi i riflessi sull’acqua dei colori cangianti di abitazioni e villaggi sull’altra riva, sovrastata da pareti verticali di arenaria rossastra che ben presto vengono sostituite da pendii più dolci e verdi. Le immagini delle cosiddette foto-cartolina hanno un che di lezioso e artificiale, ma quando le cogli dal vero ti lasciano a bocca aperta. Qua e là, dove la vallata gli concede più spazio, il fiume si allarga e mostra oltre alle rive anche ampi tratti di declivi in alto coronati da boschetti, ma per tutto il resto occupati da interminabili, geometrici, filari di viti. Sono vigneti -mi spiega J.- coltivati prevalentemente a Riesling o a Pinot di differenti varietà, ma tutte ugualmente pregiate. Del resto la buona esposizione a Sud e il clima mite di questa valle fluviale -come anche di quella renana- permettono tranquillamente coltivazioni che a noi mediterranei sembrerebbero a prima vista azzardate a queste latitudini e che costituiscono invece un aspetto non trascurabile della ricca economia dell’area. Penso anzi che proprio queste vigne costituiscano il vero “oro del Reno” (e della Mosella).

Pedalando senza fatica, teniamo una media di 24-26 km/h, che si abbassa quando il tracciato sale un po’ o presenta un fondo non asfaltato. A volte lasciamo il percorso lungofiume, addentrandoci di qualche km verso l’interno, “per evitare – dice J. – la monotonia di un paesaggio sempre uguale”, ma io che in quest’ambiente bucolico pedalo finalmente rilassato, quasi me ne dispiaccio, anche perché spesso queste deviazioni si risolvono in ripide salite verso imprecisati punti panoramici. Rimaniamo comunque su piste ciclabili o su strade secondarie tra i campi, lontane dal traffico motorizzato, mentre noto un numero crescente di ciclisti che, con zaini leggeri simili ai nostri o con grandi borse anteriori e posteriori da Gran Tour, praticano del cicloturismo. E che non si tratti di casi isolati di buontemponi anticonformisti o di maniaci del pedale (come potrebbero sembrare in Italia), ma di un vero e proprio abito mentale e insieme di un costume nazionale, lo si deduce dalla gran quantità di persone di qualsiasi età e sesso che si spostano con ogni tipo di bicicletta per qualunque scopo e su qualunque distanza.
Attraversata un paio di volte la Mosella da una sponda all’altra, non so se per necessità o per il gusto di cambiare, dopo 66 km e tre ore raggiungiamo Brauneberg e con qualche difficoltà l’Hotel: anche se il villaggio è tutt’altro che grande, abbiamo il nostro daffare a individuare la Pension Ostermann, dato che non ha insegne e dell’indirizzo non conosciamo il numero civico ma solo il nome della via, la Moselweinstraße, che è la strada regionale che attraversa il paesino per lungo. La struttura è situata al margine di un vigneto di famiglia e più che stanze singole offre dei miniappartamenti con due camere, cucina e bagno; le bici invece trovano riparo all’aperto in giardino sotto le frasche, ma la serata è serena e non promette pioggia.
Dopo la cena, a base di tagliatelle ai funghi, terrine di verdure o insalate di vari tipi annaffiate dall’immancabile mezzo litro di weißbier, si tenta una breve sortita per il paese, ma c’è ben poco da vedere; perciò si va finalmente a dormire. A me toccherà stasera la camera singola, ma non ne sono affatto dispiaciuto considerata la scarsa propensione a riordinare le mie cose sparse per tutta la stanza e la stanchezza (accumulata dallo scarso riposo della notte precedente e dal viaggio di lunghezza doppia rispetto ai miei compagni).
Percorsi oggi 140 km in 6h circa

2 giorno: Brauneberg – Munstermaifeld
Risveglio all’alba: dalla finestra lasciata aperta filtra luce, umidità e il fastidioso brusio di una pioggerellina che smentisce le ottimistiche previsioni di ieri sera. Colazione un po’ al rallentatore, ma più che robusta. Quando la pioggia cessa, asciughiamo alla meglio le bici bagnate, proteggiamo lo zaino con l’apposita copertura antipioggia e si riparte.
Restando sulla sponda destra della Mosella e proseguendo verso Bernkastel, ho modo di osservare dalla sponda opposta il tratto Lieser-Kues percorso da solo all’andata: su entrambi i lati della vallata, ora illuminata da un sole vivido e caldo, ettari e ettari di vigneti si susseguono coi loro filari incredibilmente diritti e lunghi, disposti ora orizzontalmente, dove il pendio è più dolce, ora verticalmente con pendenze assurde: di oltre 60°, mi informa J. che mi mostra le teleferiche o le rotaie di piccole cremagliere che i viticoltori usano per trasportare le persone e l’uva su e giù. Il tutto produce un disegno geometrico di precisione che ricorda i terrazzamenti della Liguria, ma meno aspro e a più ampio respiro.
Alla scenografia di sicuro effetto di questo morbido tappeto verde disteso sulle colline che rende unica quest’area del Palatinato, contribuiscono pure i bei castelli medioevali, che un tempo controllavano dall’alto il fiume, le strade e i borghi sottostanti, o anche il percorso sinuoso della Mosella, le cui anse alternate (che mi ricordano un po’ quelle del Goose-Neck, il tortuoso Collo d’Oca che l’erosione del fiume Colorado ha creato in Utah) si avvertono nelle ampie curve ora a destra ora a sinistra, a cui ci sottopone la strada, ma risultano ancor più evidenti se osservate dall’alto o, come nel nostro caso, sullo schermo del navigatore di J. La nostra ruota punta continuamente in direzioni diverse, ruotando di quasi 360° nel corso di una manciata di km, e permettendoci di osservare colori e panorami in continuo mutamento.
Nelle vicinanze di Bernkastel per la prima volta nella mia lunga esperienza di cicloviaggiatore vengo a contatto con un fenomeno inaspettato, l’ intasamento da traffico a due ruote: la ciclabile non si è ristretta, anzi conserva intatte se non ampliate le sue caratteristiche di pista a doppia corsia, ma è il numero degli utenti a essere raddoppiato, triplicato, decuplicato; nei due sensi scorrono interminabili file di ciclisti e a bloccare il convoglio basta uno di loro più lento o prudente degli altri o con un ingombro maggiore (alcuni portano a casa grosse borse della spesa, altri viaggiano con un bambino sul rimorchio) o deciso a svoltare. Fatto sta che mentre J. a un certo punto, con un’azione decisa, riesce a cogliere l’attimo e a sorpassare un gruppo che ci procede lentamente, io e L. ci attardiamo e finiamo col perderci di vista. Ci ritroviamo tutti e tre dieci minuti dopo presso una piazzuola, ma nessuno di noi sembra di malumore come quando si è imbottigliati nel traffico automobilistico.

Nella Mosella man mano che ci si avvicina a Koblenz, dove il fiume sfocia nel Reno, si fanno più frequenti le imbarcazioni da diporto, e le chiatte (scelta intelligente quella di puntare anche al trasporto di merci su acqua e non solo su gomma), ma anche i traghetti, questi ultimi utili ad ovviare alla scarsa frequenza di ponti fra le due sponde.
Ci fermiamo presso il solito Biergarten a mangiare un boccone e a dissetarci; ancora una volta, nonostante ci troviamo in un’area vinicola di pregio e non manchino i Weingarten, i Weinstuben e i Weingüter con annesse degustazioni, i miei compagni non tradiscono la Weißbier per il vino ed ogni occasione è buona per uno (talvolta, ma non nel mio caso, anche due) mezzo litro, di quelli con la schiuma compatta e fino all’orlo nel classico bicchiere slanciato a bocca larga e affusolato al centro. Del resto non mancano neppure qui le piccole birrerie artigianali: ogni paesino, si può dire, ha il proprio birrificio, anche a dimensione familiare; anzi davanti a un paio di abitazioni mi è capitato di vedere esposti in giardino, come oggetto di modernariato, i relativi macchinari in rame e ottone ben lustri.
Ripartiamo e per evitare la ciclabile affollata deviamo su un sentiero in terra battuta costeggiato dalla macchia; anche se non dev’essere molto lontano, il fiume non si scorge più; d’altra parte, ci si vede ben poco, dato che a poco a poco il percorso si è inoltrato all’interno di un bosco di alberi alti che si fanno sempre più fitti; il sentiero, che non risparmia buche e pozze fangose, prende a salire, diventando tortuoso e più stretto, ma non provo particolare fatica, anche perché la velocità è ridotta e ho meno caldo di quanto mi aspettavo.

Quando, dopo un tempo imprecisato sbuchiamo all’aperto e sull’asfalto, mi rendo conto che dev’essere piovigginato, anche se -protetti dal bosco- non ce ne siamo accorti; ci siamo anche allontanati molto dalla Mosella, il cui nastro d’argento si scorge immobile in fondo alla valle: evidentemente, anziché correre paralleli alla sponda, abbiamo tagliato un’ansa dall’interno.
Il panorama è suggestivo, ma il grigio del cielo e le particelle di acqua o vapore in sospensione mi trattengono dallo scattare foto che presumo sbiadite e insignificanti, ma forse – mi dico – sono proprio questi i limiti, di tecnica e di creatività, che mi differenziano da un bravo fotografo.
Ridiscendiamo al livello del fiume, mentre tra le nubi si affaccia un po’ di azzurro, di luce e le cose riprendono colore e nitidezza. Siamo lontani da centri abitati di un qualche rilievo e forse anche per questo la pista, che ora scorre fra la statale e il fiume, è meno frequentata. Del resto, anche di macchine se ne vedono poche, nonostante L. si senta quasi in dovere di scusarsi a nome della Germania, per un traffico che è più tranquillo di quello che potremmo trovare una domenica alle otto di mattina su una qualunque strada provinciale italiana.
Sulla sponda opposta alla nostra appare un villaggio dagli uniformi tetti color piombo sui quali svetta la mole della chiesa, mentre in alto si staglia la cinta muraria con tanto di torri e mastio al centro di un castello medioevale. Chiedo a J. il quale mi spiega che il borgo si chiama Belstein, mentre la fortezza apparteneva alla famiglia dei Metternich, quella del famoso principe che definì il nostro Paese “un’espressione geografica” e che tanto fece penare l’Italia risorgimentale. Si stupisce J. che io lo conosca (anche se per la verità io lo ritenevo austriaco e non tedesco), come quando lo scorso anno si stupì che io avessi letto dei libri di Grass o di Böll o visto film come “Le vite degli altri” o “Goodbye, Lenin”. Mi chiedo, a prescindere dai sentimenti di amicizia e gentilezza, quale sia l’opinione che hanno dell’italiano medio.
Riattraversiamo un ponte e giungiamo in vista di un ridente villaggio subito prima di Cochem: case basse linde e colorate con giardino fiorito, sulla sinistra, mentre a destra un prato tenuto impeccabilmente e di un intenso verde poco agostano (ci credo con il clima che c’è stato questa estate!) digrada dolcemente verso il fiume. Sullo sfondo, il solito castello domina la vallata: è il Reichsburg, dall’architettura molto “movimentata” ed elegante con le sue torri e tetti appuntiti. Raggiungiamo Cochem, giusto in tempo per ripararci da un acquazzone improvviso sotto gli ombrelloni di un ristorante e già che ci siamo ne approfittiamo per mangiare un boccone, anche se l’ora del pranzo è passata da un pezzo.
Al momento di ripartire J. e L. vanno in cerca di un Bancomat, mentre io mi attardo un po’ per scattare delle foto. Il risultato è che li perdo di vista. Girello qua e là nella piazza, sperando di rintracciarli, ma senza successo; poi decido di partire nella direzione che presumo abbiano preso senza accorgersi che io non li seguivo. Corro per un paio di km con un certo affanno (capirai: solo, sotto la pioggia, in un paese straniero, vicino a sera, magari con lupi mannari o troll in agguato…), finché mi ricordo di avere un cellulare; appena lo accendo arriva la loro chiamata: mi stanno aspettando nella piazza centrale di Cochem da cui non si sono mai mossi.
Una volta riformato il terzetto, riprendiamo la strada, ovviamente in direzione diversa da quella da me immaginata; infatti dopo pochi minuti lasciamo il fiume per deviare a sinistra e salire in direzione di Burg Eltz. E qui compio la seconda stupidaggine della giornata: esaltato dalla salita molto ripida, non solo supero L. e affianco J. ma mi diverto ad andare alla massima velocità che le mie gambe consentono -e forse qualcosa di più- per poi tornare indietro dagli altri due che invece salgono tranquilli e regolari. Quando mi aspetto che la pendenza stia per addolcirsi, ecco uno strappo ancora più duro del precedente, come sanno esserlo certe salite in Germania. A denti stretti tengo duro, ma quando gli altri mi hanno ormai raggiunto arriva il colpo di grazia: per una pedalata sincopata esce fuori la catena e anche se non impiego molto a rimetterla a posto, brucio le ultime energie per raggiungere la cima della collina e i miei amici. Lo sforzo, oltre a lasciarmi senza fiato, provoca delle fitte acute dal ginocchio al femore e non mi è di grande sollievo l’aver raggiunto il pianoro.
Lasciamo le biciclette sotto la tettoia di una casa e a piedi ci incamminiamo su un sentiero sconnesso verso Burg Eltz; ma dopo un quarto d’ora di discesa, parlando con una persona che sta tornando su, ci rendiamo conto che sta calando la foschia e non arriveremmo sicuramente in tempo non dico per visitarlo, ma nemmeno per vederlo da vicino. Non ci resta che fotografarlo molto da lontano, tra le prime brume della sera, e risalire fino alle biciclette.
Munstermaifeld, la nostra meta di stasera, non è lontana, in linea d’aria, ma raggiungerla si rivela problematico anche per il navigatore di J., oltre che doloroso per le mie gambe. Procedendo a zig zag, con continue interruzioni e deviazioni, impieghiamo più di un’ora per raggiungere il paese e l’ Hotel Athen. Quando arriviamo è già sera e abbiamo appena il tempo per riparare le bici alla bell’e meglio sotto un pergolato, fare una rapida doccia e cambiarci prima di andare a tavola
In onore al nome dell’albergo, le scale e l’atrio pullulano di scritte, stampe, statuette che si rifanno all’arte ellenica classica; il gestore, viso bonario ed espressione un po’ levantina, è greco, anche se quando sa che sono italiano mi dice di esserlo anche lui; parla comunque un fluente tedesco, come mi conferma J., il quale aggiunge che greci e soprattutto italiani, hanno quasi il monopolio di alberghi e ristoranti in Germania. La cena, iniziata con un bicchierino di ouzo e conclusa nello stesso modo, è il tipico pasto a base di crostini, foglie di vite ripiene di riso, insalate con olive e feta, ma sono ancora troppo dolorante per potermelo gustare. Per cui concludo volentieri la giornata andando a dormire. La nostra camera è a tre letti e il mio è proprio sotto la finestra, così da regalarmi l’anteprima di tutti i lampi e tuoni che stanno cominciando ad abbattersi sul paese.
Percorsi oggi 128 km in 6h circa

3 giorno: Munstermaifeld – Wiesbaden
Il risveglio è ancora una volta bagnato; fatta colazione e scambiato con l’oste un augurale “Kalimera!” recuperiamo le nostre bici, che il pergolato non è riuscito a proteggere dal nubifragio notturno. Partiamo tutti e tre insieme, poi io mi fermo un attimo ad asciugare il sellino, ma quel poco è sufficiente a farmi perdere di vista gli altri due. Dopo un paio di giri intorno al’isolato, non sapendo nemmeno lontanamente quale è il prossimo villaggio a cui dovremmo essere diretti, torno all’Hotel per chiedere informazioni al greco, che ho visto prima dare spiegazioni a J.; ma proprio mentre siamo coinvolti in un buffo dialogo italo-greco-tedesco, sopraggiungono a salvarmi i miei due compagni.
Lasciamo Munstermaifeld puntando verso sud-est per tornare alla Mosella; la strada, che attraversa vaste distese ora coltivate – credo – a barbabietole, ora dissodate da poco, è una provinciale deserta e tranquilla che diminuisce progressivamente di quota. E’ una fortuna che non ci siano salite, perché stamani al risveglio le gambe erano sempre molto indolenzite. Anche il cielo, per quanto cupo, sembra per il momento volerci risparmiare.
A Lehmen ci immettiamo sulla ciclabile che corre parallela alla statale, alla ferrovia e, naturalmente, al fiume sul quale tornano ad affacciarsi i terrazzamenti scoscesi dei vigneti. Pochi km dopo, a Gondorf ci si para davanti una serie di costruzioni signorili squadrate dalle mura bianche impreziosite da torrette, stemmi o decorazioni; niente di strano, non fosse che la strada asfaltata le attraversa per l’intero piano terra: è il Castello Leyen, dal nome di un’antica nobile famiglia che vi risiedette fin dal XVI sec. A 7-8 km di distanza un cartello segnala una villa romana a ribadire il fatto che tutta la valle del fiume e non solo Treviri era zona di particolare interesse per i Romani. Pare tra l’altro che essi apprezzassero le uve (e il vino) della regione sia che le avessero trovate coltivate già dalle popolazioni celtiche del luogo, sia che le avessero impiantate essi stessi; e la Weinschiff, il barcone in legno che oggi trasporta i turisti su e giù per la Mosella, si ispira appunto a un modellino di “nave vinaria” che adornava un sarcofago romano trovato da queste parti.
Siamo ormai alle porte di Koblenz, anche questa città tradisce il legame con Roma nel suo nome stesso: l’odierno Coblenza deriva da “Confluentia” cioè luogo in cui due fiumi si uniscono; è qui, infatti, che la Mosella termina il suo viaggio confluendo nel Reno. Il paesaggio ormai è cambiato, il fiume scorre ampio non più incassato tra due sponde più o meno ripide e ai lati le abitazioni, le infrastrutture e le aree industriali si sono sostituite ai vigneti.
Scavalchiamo per l’ultima volta la Mosella ed entriamo nel cuore della città, dove auto e traffico sono molto più a dimensione italiana di quanto riscontrato finora. Per timore di perdere di vista i miei compagni li seguo a ruota, senza aver tempo di guardarmi intorno. Ci fermiamo su uno sperone di cemento che si protende sulle acque fluviali nel punto in cui la Mosella si getta nel Reno con un angolo (un tempo retto, oggi acuto), che ogni buon tedesco conosce come Deutsches Eck (mi spiega J.) Qui l’incontro tra le due acque è reso evidente dal diverso colore: ceruleo quello della Mosella, biondo (ma io direi giallastro per l’aspetto quasi fangoso, come per il nostro Tevere) quello del Reno. La piattaforma di cemento, che è coronata di bandiere con gli stemmi di tutte le regioni tedesche, ospita anche una grande statua equestre del primo imperatore di Germania, Guglielmo I. Con sorpresa noto che. mentre noi in Italia abbiamo un’impressione non molto positiva del Kaiser, in quanto autoritario e poco incline alla democrazia, per J. e L. avviene il contrario, probabilmente perché il merito di aver unificato la Germania mette in ombra ogni altro aspetto, allo stesso modo in cui la valutazione pregiudizialmente negativa dei miei compagni verso tutto ciò che in qualche modo sa di sinistra -partiti, persone, leggi, ideali…- è legato alla sua identificazione col comunismo opprimente della ex-D.D.R. e alla divisione del Muro.
Dopo una sosta adeguata, ripartiamo puntando a Sud, Sudest. Il Reno scorre placido e maestoso al nostro fianco, presentando anse meno strette e sinuose della Mosella, ma il paesaggio viticolo resta simile, pur se meno spettacolare: ampi spazi, soprattutto collinari, intorno alle rive sono ancora coltivati a vigneti, ma la frequenza di infrastrutture, aree industriali, centri urbani di maggiori dimensioni, fa capire che la vocazione turistica e quella viti-vinicola non sono le sole. Anche il movimento intenso di mezzi di trasporto, persone e merci sottolinea che ci troviamo in un’area economicamente febbrile: il traffico di chiatte e traghetti sul fiume e degli automezzi sulla strada si è intensificato e anche sulla ciclabile immersa nel verde che stiamo percorrendo ci raggiunge il rumore dei motori della vicina statale. Vuoi per evitare le zone più trafficate, vuoi per raggiungere i punti più interessanti del nostro itinerario odierno, J. ci fa attraversare un paio di volte il fiume, sul ponte quando c’è (lui trova “scandaloso” che per un tratto di 15-20 km non ci sia un ponte a congiungere le rive opposte), altrimenti su traghetto. Sono molti del resto i pedoni e i ciclisti che ci fanno compagnia sui battelli che a ritmo continuo fanno la spola tra le due sponde.

Dalle parti di Braubach, su un poggio che sovrasta la nostra stradina, a sua volta infossata tra una fila di alberi e cespugli e la statale avvistiamo la mole del castello di Marksburg; per quanto la lontananza e una leggera foschia mi permettono di distinguere, mi ricorda nella sua struttura movimentata, nella forma appuntita dei tetti e nel contrasto tra il blu delle coperture e il bianco delle mura, i castelli della Loira o quello un po’ fiabesco di Neuschwanstein. Sullo smartphone J. legge che è stato uno dei pochi a essere giunto senza gravi danni né rimaneggiamenti fino a noi e che è aperto al pubblico. Non abbiamo modo di avvicinarci di più; mi piacerebbe tuttavia visitarne almeno uno dei tanti che incontriamo via via nel nostro tour.
Dalle parti di Sankt Goar, ne avvisto un altro dal traghetto: è il Burg Katz, simile al precedente, ma dai colori più scuri e con un grosso Mastio sul lato a monte. Appena sbarcati sulla riva sinistra, in una piazzuola trovo un pannello esplicativo che spiega come il castello, semidistrutto ai tempi di Napoleone e poi ricostruito, sia privato e non visitabile; ma quello che attrae la nostra attenzione è un altro cartello che preannuncia il prossimo sito di sicuro richiamo turistico, quello della famosa Lorelei.
In realtà ognuno di noi tre prova a dare la sua versione della leggenda, chi la definisce una sirena che uccideva i marinai (J.), chi la consacra eroina di un’inesistente opera di Wagner (io), chi dice che era una fanciulla suicidatasi per amore (L.). Ci viene in soccorso l’imparziale smartphone, il quale stabilisce che Lorelei era un’ondina che viveva su un’alta roccia e che la sua bellezza era tale da distrarre i marinai a tal punto da farli naufragare sugli scogli sottostanti. Compositori e poeti di ogni epoca e lingua hanno poi elaborato variamente il mito; di vero rimane il fatto che in passato, ma anche di recente, vari incidenti vennero causati dalle forti correnti proprio in quel punto che è il più stretto di tutto il Reno tedesco.
Per la verità, al di là della suggestione del mito, c’è ben poco da vedere: in cima allo sperone di roccia che segna il punto più stretto dell’ansa, si vedono semplicemente sventolare un paio di bandiere e sulla riva opposta, proprio a pochi metri da me, c’è un camping che sfrutta il nome di Lorelei per attirare turisti. In maniera non dissimile in Italia, ad esempio, si è voluto coniugare leggenda e turismo, non solo identificando piuttosto arbitrariamente una casa di Verona con quella dell’opera di Shakespeare, ma anche arredandola, trasformandola in museo e modificandola esteriormente perfino con l’aggiunta di un balcone per farlo corrispondere al cosiddetto balcone di Giulietta.
Una decina di km dopo, avvistiamo sulla riva destra Kaub (luminoso villaggio disteso lungo il fiume e sovrastato da terrazzamenti scoscesi coltivati a vite, nonché da un maniero a guardia della vallata, il castello Gutenfels), che non presenta nulla di inedito tranne la presenza, questa sì inaspettata, di una fortezza circondata dall’acqua nel mezzo del fiume e curiosamente a forma di nave. Si tratta del Burg Pfalzgrafenstein, uno di quei castelli con funzione di dogana, tipici del Sacro Romano Impero, eretti nei luoghi di passaggio obbligato (frontiere, fiumi, passi montani, vallate) per esigere tributi sulle merci in transito; lungo il Reno da qui in poi corre infatti il confine tra il Land di Renania-Palatinato e quello di Hessen, ovvero Assia.
A metà giornata il tempo si è decisamente messo al bello e si pedala in scioltezza sulla sponda sinistra senza grandi mutamenti di percorso o di paesaggio: nel Reno navigano in quantità crescente chiatte colorate e imbarcazioni di vario tipo che costeggiano qua e là numerosi isolotti oblunghi affioranti sull’acqua.
All’altezza di Bingen prendiamo ancora una volta il ferry che ci traghetta fino all’approdo opposto di Rüdesheim, ridente centro di chiaro interesse turistico dell’Assia, come dimostra la folla di pedoni e ciclisti che si gode la bella giornata a passeggio sul lungofiume strapieno di negozi e bar. Anche noi smontiamo dalla bici e ci addentriamo nella zona pedonale seguendo prima la caratteristica Drosselgasse, poi salendo verso la zona del mercato. La folla che assiepa le stradine del centro storico, tra bancarelle, negozi, ristoranti, Weinhaus, caffè all’aperto, è incredibile; il brusio che proviene da quel brulichio di persone sale fino ai piani superiori delle abitazioni (e forse non è un caso che le finestre siano tutte chiuse, nonostante il caldo), affollate anch’esse di balconcini, insegne, segnali luminosi, stendardi, targhe, lampioncini, cartelli, bandierine, decorazioni che sembrano non voler lasciare un centimetro di spazio libero.
Gironzoliamo per un po’ con le bici a mano, poi le leghiamo a un palo e andiamo a sederci in un elegante Weingarten, dove concludo con un ottimo cappuccino e una fetta di torta da un milione di Kcal un pranzo a base di omelette alle erbe ed insalatona stile “di- tutto-di-più”, mentre gli altri due compari hanno scelto un piatto di carne dal nome impronunciabile. Dopo pranzo (ma è ormai pomeriggio avanzato), abbiamo giusto il tempo di una passeggiata digestiva, poi andiamo a riprendere le bici e lasciamo i vicoli di Rüdesheim che ci salutano con un “Auf wiedersehen” su uno striscione.
Costeggiato un camping, percorso un viale di castagni fino allo Yacht Club cittadino, imbocchiamo uno stretto sentiero sterrato che ci porta fino alla Rheinuferweg, la ciclabile che corre su questa sponda del fiume fino al centro di Wiesbaden. In realtà siamo già a un tiro di schioppo dalla periferia occidentale della città, che si allunga verso Ovest con un susseguirsi di piccoli centri abitati, ma non se ne ha assolutamente percezione: a sinistra alberi, siepi, prati ci tengono separati dal mondo meccanizzato e l’unico rumore è lo sciacquio del fiume che lambisce l’erba della riva a due passi da noi. Tre anatre e due cigni candidi sembrano quasi aver l’intenzione di salire anche loro sulla ciclabile; mentre rallento per fotografarli, una barca coperta da un incerato e senza nessuno a bordo scivola via all’indietro, con un pezzo di legno attaccato alla catena dell’ancora: evidentemente la piena del Reno per le recenti piogge l’ha strappata all’ormeggio; in mezzo al fiume infatti decine di alberi, un tempo all’asciutto su qualche isolotto, spuntano dall’acqua come canne di palude.
Questo Eden bucolico sembra non terminare mai, poi di colpo ci si ritrova in città, alle prese con i soliti problemi di orientamento nel traffico urbano. In mezz’ora raggiungiamo l’Hotel Toskana, giusta alternanza dopo uno tedesco e uno greco, anche se non so quanto il nome corrisponda alla nazionalità di chi la gestisce. Si tratta comunque di un moderno ed efficiente albergo posto nella più che tranquilla periferia collinare di Wiesbaden, con l’unico difetto di non avere un ristorante all’ interno, per cui dobbiamo girare un po’ nel quartiere prima di trovarne uno. È un ristorante italo-thailandese; questo abbinamento è alquanto insolito e anche all’interno non riscontro elementi di italianità; la ragazza che ci accoglie ha dei tratti solo vagamente orientali; poi però ci spiega che effettivamente solo la madre è originaria della Thailandia; quanto all’Italia dipende dal fatto che il precedente proprietario dal quale hanno rilevato il locale era italiano. Bah, evidentemente l’anima del commercio sta anche in queste “infiorettature”… Però -ed è questo che conta- il cibo è buono e tutto sommato c’è davvero qualcosa di (vagamente) italiano: una sorta di panzerotti, delle simil-pizzette, verdure miste grigliate, pinzimonio, accompagnati da focacce tagliate a spicchi e dall’immancabile birra.
Dopocena non vedo l’ora di andare a dormire: non è stato, quello di oggi, un percorso di particolare impegno, tutt’altro: molte pause, nessuna salita, tempo discreto; ma un’improvvisa spossatezza e il riacutizzarsi del dolore alle ginocchia cancellano ogni altro interesse o velleità che non sia quella del riposo.
Percorsi oggi 132 km in 6h circa

4 giorno: Wiesbaden – Meckesheim
Stamani seguiremo il Reno fino a Mannheim, poi lo lasceremo per puntare su Heidelberg e concluderemo la tappa poco lontano. J. assicura che non ci saranno salite o quasi (e quel “quasi” mi preoccupa più che se ne avesse preannunciate molte), ma sarà la tappa più lunga del tour (e quel “lunga” mi preoccupa ancor di più, tanto più che anche le precedenti hanno sempre comportato dei km supplementari rispetto a quelli previsti), per cui raccomanda di fare il pieno di calorie, prima di ripartire. L’esortazione è superflua, per quanto mi riguarda, però a colazione ci do dentro più che posso, anche per scongiurare la classica crisi da quarto giorno: dormo poco e male in questi giorni a causa ora dei temporali notturni, ora della luce che all’alba entra dalle finestre; così mi alzo più stanco di quando mi sono coricato. I miei compagni, invece, mi sembrano ogni giorno più in forma e, se il maggior peso degli anni è una scusa che può valere nei confronti di J., non è così con L. che ha la mia stessa età e sembra un grillo sempre scattante.
Ripartiamo verso le 9:30, un po’ più tardi del solito. La mattinata è velata di umidità, ma non troppo calda, almeno all’inizio. Anche se oggi è domenica, mi sorprende il traffico intenso a cui dopo giorni di ciclabili, sentieri e strade secondarie non sono più abituato; ma ancor più mi sorprende il fatto -già notato a Treviri e a Coblenza- che i mezzi a due ruote si dividano tra moto e bici, senza nemmeno l’ombra di motorini, che fanno invece la parte del leone nelle nostre metropoli come nelle città di provincia. Gli adolescenti, qui, se non hanno l’età per guidare un’auto o una moto, vanno in bicicletta, a piedi, al limite in skate o sui roller; ma evidentemente le famiglie tedesche non si sono fatte condizionare come da noi dal must del ciclomotore da regalare al ragazzino allo scattare dei suoi quattordici anni (a volte anche prima e indipendentemente dai suoi meriti scolastici), perché “così fan tutti” oppure perché ” gli serve per andare a scuola” (magari a 500 m. di distanza soltanto).
Perdiamo molto tempo per orientarci tra il groviglio di strade e svincoli, cercando di evitare le vie più battute; così però, in un continuo stop and go non riusciamo nemmeno a sfruttare la discesa verso il fiume, che finalmente raggiungiamo dopo quella che mi pare un’eternità in una periferia di nessun interesse paesaggistico. Finalmente, sul ponte Theodor Heuss, attraversiamo il Reno; ho perso ormai il conto di quante volte lo abbiamo fatto.
All’improvviso, o forse ero io che mi ero distratto, le abitazioni si infittiscono di nuovo e la città sembra ricominciare. Chiedo a J. come sia possibile e lui mi spiega che non si tratta più di Wiesbaden, bensì di Mainz, ovvero Magonza; il Reno divide infatti sia il Land di Hessen dal Rheinland-Pfalz, sia le due città, altrimenti unite, e proprio a Magonza avviene la confluenza del Meno nel fiume maggiore. Ben presto attraversiamo la città vecchia di cui riesco a fotografare in corsa il duomo romanico, con tutte le sue torri dal caratteristico colore rossastro dei mattoni; e il centro storico con le caratteristiche case a graticcio.
Usciti da Mainz, con qualche difficoltà per mantenerci sulla ciclabile (ma non siamo i soli cicloviaggiatori a incontrare problemi), ci attende una dura galoppata verso Sud con un forte vento trasversale che rende faticoso pedalare anche in fila indiana. A Nierstein benedico la decisione di fermarci per uno spuntino, scambiare quattro chiacchiere e riposarci qualche minuto, che poi tra una fetta di torta e un cappuccino, uno strudel e un Apfelschörle , diventa una buona mezzora.
L’amabile conversazione si interrompe quando – calato il vento – cominciano a cadere minuscole gocce di pioggia. Ripartiamo su una stradina che si lascia prima di fianco e poi alle spalle il Reno: probabilmente la ciclabile su questa sponda si interrompe o passa più all’interno. La pioggia non si decide a cadere e rimane come sospesa in un limbo di piombo. Il caldo è intenso come non è mai stato finora, o forse sono soprattutto l’umidità e la bassa pressione a dare questa sensazione.

Tre ore dopo aver lasciato Wiesbaden, raggiungiamo finalmente Worms. Ci fermiamo in una piazza del centro; guardo il contakilometri: sono appena una sessantina di km da stamani. Rapida consultazione e poi, a entusiastica unanimità, la decisione: sosta pranzo. Non so esattamente in che punto della città ci troviamo: è una piazza pedonalizzata rettangolare con un lungo edificio religioso in mattoni rossastri e di origine medioevale su un lato e un moderno porticato sull’altro, dove si trova il nostro ristorante all’aperto. Il contrasto tra le epoche è evidente, ma Worms, pesantemente bombardata durante la II Guerra Mondiale, è stata in buona parte distrutta e poi ricostruita. Come Treviri o Colonia, anche Worms oltre ad essere una delle più antiche città tedesche, fu una colonia romana, ma ridesta anche altre remote reminiscenze storiche relative alla lotta tra Papato e Impero col famoso Concordato, o all’affermazione del Luteranesimo, ma anche riferimenti culturali alla più antica tradizione germanica, come a Re Gunther e Sigfrido della Saga dei Nibelunghi ai quali ha dedicato un museo e un ponte sul Reno, il Nibelungenbrücke. Si tratta di un ponte a più corsie, comprese quelle riservate su ciascun lato ai ciclisti e ai pedoni, che è sormontato da una massiccia torre, vuota alla base per permettere il passaggio dei veicoli. Ed è appunto su questo ponte che transitiamo per riattraversare il Reno per l’ultima volta e lasciare alle nostre spalle città, fiume e Renania-Palatinato, riaffacciandoci temporaneamente in Assia.
La direzione è approssimativamente quella di Mannheim, a cui ci avviciniamo attraversando una zona boscosa (forse un parco naturale) su un ampio viale sterrato coperto da un tetto di alti alberi che non lasciano trapelare la luce del sole. Il fondo statale, inaspettatamente malandato ci costringe a un’andatura ridotta e a continui zig zag per evitare le buche, ma vedo che anche altri ciclisti percorrono la nostra stessa strada. Probabilmente non ci sono piste ciclabili utili, in questo tratto, lungo il Reno e, d’altra parte è ad Heidelberg che siamo diretti, non a Mannheim, che infatti aggiriamo a Est.
Pochi km dopo incontriamo una altro corso d’acqua, il Neckar, affluente del Reno e molto più piccolo, ma comunque di tutto rispetto coi suoi 370 km di lunghezza (ben più dell’Arno e quasi come il Tevere, credo) e con una navigabilità (di oltre 200 km per chiatte e cargo, legge J. sullo smartphone) oltre a una limpidezza delle acque che noi ci sogniamo.
Con il Neckar, dovremmo ormai aver lasciato l’Assia ed essere entrati nel Baden-Württenberg. Seguiamo il fiume per una quindicina di km, finché ci conduce direttamente ad Heidelberg. Proseguiamo finché non si entra nel centro storico, l’Altstadt, lungo la Hauptstraße; qui scendiamo dalle bici, portandole a mano, anche perché non sarebbe possibile continuare a pedalare su una strada letteralmente invasa dai pedoni, in prevalenza turisti, che, da un lato all’altro della via, fanno la spola tra un ristorante, un negozio, un monumento e un caffè all’aperto.
Come Tübingen, pure Heidelberg è percorsa dal Neckar, è una città universitaria di grande prestigio e altrettanto antica (forse anche di più). Ma per il resto la differenza è netta: quella è una piccola città in cui almeno un terzo degli abitanti è costituito dagli studenti, questa un centro urbano col doppio di abitanti e con un solido apparato industriale alle spalle; a Tübingen l’urbanistica e l’architettura conservano un’impronta nettamente medioevale, con strade tortuose e le caratteristiche case a graticcio di uno o due piani, mentre in Heidelberg, che soprattutto nel XVII sec. ha subito più volte invasioni, distruzioni e ricostruzioni, prevale l’aspetto barocco, evidente nella vecchia Università, nella JesuitenKirche, nel Seminario dei Gesuiti, negli edifici lungo l’Hauptstraße, o nelle piazze come la Marktplatz e la Kornmarkt, da cui tra l’altro si gode la vista delle rovine dell’imponente castello che sovrasta la città. J. e L. si mostrano compiaciuti ed entusiasti di Heidelberg, ma io, nel mio piccolo, pur apprezzandone la bellezza, le preferisco la tranquilla grazia di Tübingen.
Arriviamo in fondo alla lunga strada principale, che costituisce l’arteria vitale di questo centro storico stretto e allungato (l’Alt Stadt, infatti, a Nord è stretta dal fiume, a Sud dalla collina Königstuhl su cui si trova il castello, per una larghezza di tre-quattrocento metri al massimo contro una lunghezza di un paio di km), quindi raggiungiamo il lungofiume, al di là del quale sulla collina opposta si trova il cosiddetto “Sentiero dei filosofi”, una passeggiata nel verde, arricchita da piante d’ogni genere, anche rare, a cui il microclima della zona consente di prosperare. Noi però ci limitiamo a costeggiare il Neckar fino al “Vecchio Ponte” con la sua suggestiva Porta a due torri, che attraversiamo dirigendoci a Sud.
A Wieslock svoltiamo verso Est, raggiungendo dopo una dozzina di km Meckesheim, la nostra tappa finale di oggi . L’albergo, il Martinsklause, è nel centro del paese -del resto Meckesheim è poco più di un modesto villaggio- e mi sembra che sia anche l’unico del posto, ma ha tutto quello che ci serve: è comodo, pulito, tranquillo, di prezzo contenuto (38€ a testa) e accetta carte di credito; il che mi permette di pagare con la mia per tutti e tre, evitando così di dover cercare domani un bancomat in cui rifornirmi di contanti.
La cena è stranamente silenziosa, il clima, pur mantenendosi sereno e cortese, è meno conviviale del solito; forse è la stanchezza che affiora, o la consapevolezza che siamo arrivati alla “ultima cena”, ma ognuno è un po’ più assorto delle sere precedenti e meno incline alle chiacchiere e alle battute. Così, quando anche quest’anno il discorso cade sulla situazione politica in Italia e sul fatto che loro, come la maggior parte degli Europei, trovano incomprensibile che ancora adesso il 20% circa degli Italiani abbia scelto Berlusconi, non trovo di meglio che rispondere, un po’ piccato, che non mi pare che i suoi compagni di schieramento a livello europeo (e quindi anche tedeschi) lo abbiano in qualche modo sconfessato o respinto, salvo qualche ironica risatina. Al che l’argomento, che in altri momenti avrebbe dato vita a uno scambio di idee più vivace, viene lasciato cadere. La passeggiata dopocena si limita ai duecento metri che separano il ristorante dall’Hotel; tempo mezzora siamo tutti e tre a dormire..
Percorsi oggi 133 km in 6h circa

5 giorno: Meckesheim – Jettingen
La colazione della mattina è “normale” secondo gli standard tedeschi (per i nostri sarebbe principesca), ma sufficiente a restituirci quella carica di entusiasmo che sembrava scarseggiare ieri sera. Nel briefing mattutino emerge che i km da coprire oggi dovrebbero essere un po’ meno di quelli di ieri e presentare solo un punto di moderata difficoltà, laddove c’è da superare un pendio che porta su un altopiano a poca distanza dall’arrivo. Io che ho imparato a diffidare dell’ottimismo profuso a piene mani da J., ma con un tono che lo smentisce, non mi lascio incantare. E faccio bene perché dopo neanche mezzora la strada prende a salire, anche se il paesaggio tutt’intorno tende a distrarre piacevolmente. I vigneti sono sempre presenti, ma alternati ad altre colture e le macchie verdi dei boschi tappezzano il territorio a macchia di leopardo. Non so di che tipo di vitigni si tratti, probabilmente siamo ai margini della cosiddetta area del Riesling, sta di fatto che in tutto questo tour dalla Mosella al Reno non ho ancora avuto l’occasione di fare una conoscenza ravvicinata né di vini, né di castelli.
Si passa da Sinsheim, si sfiora Eppingen, si attraversano senza fermarci vari centri minori, Kümbach, Sternenfeld, Dieffenbach… e altri di cui non mi resterebbe in memoria nemmeno il nome, se non lo annotassi, tanto sembrano, a un frettoloso viaggiatore come me, tutti ugualmente lindi e ordinati, ma sostanzialmente indistinguibili e anonimi, tanto più se raffrontati a tanti caratteristici paesini dell’Italia centrale.
L’altitudine varia dai cento ai trecento metri, senza mai eccedere in impennate troppo dure, ma pedalare allo scoperto, sotto il sole, è diventato faticoso e ben presto finisco l’acqua della borraccia. Attraversiamo qualche villaggio lungo la via principale, qualche altro lo costeggiamo, quasi sempre utilizzando Kreisstraßen o Gemeindesstraßen, cioè strade asfaltate più o meno equivalenti alle nostre “provinciali” o comunali, ma senza quasi mai incrociare ciclabili vere e proprie.
Spesso le siepi che dividono la strada dai campi sono costituite da macchie di arbusti carichi di piccoli frutti bluastri che a un esame meno distratto si rivelano essere prugne selvatiche. Mi sembra strano che vengano lasciate cadere e marcire a terra senza che nessuno si curi di raccoglierle; quando ne chiedo il motivo a J., mi risponde che si tratta di frutti selvatici che non appartengono né interessano ad alcuno. La cosa mi pare ancor più strana e approfitto di un rallentamento per assaggiarne qualcuno: sarà la sete, sarà la fame che comincia a farsi sentire, ma sono deliziosi. Riparto a malincuore, tanto più che il sole ormai alto e le salite ora più ripide, anche se brevi, mi fanno sudare abbondantemente, mentre i due compari non sembrano risentirne e pedalano veloci chiacchierando davanti a me. A un certo punto, prima di una salita più minacciosa del solito che porta a un paesino arroccato su un poggio, mi lascio distanziare da loro e mi fermo presso un cespuglio di prugne che provvedo ad alleggerire mangiandone a crepapelle e riempiendomene il marsupio, poi riparto affrontando rinfrancato (ma anche un tantino appesantito) la salita. Verso la fine incontro J. che, non vedendomi, era tornato indietro a cercarmi; taccio delle prugne e mi giustifico con la scusa del ginocchio dolorante, senza nemmeno sentire un briciolo di vergogna per la vil menzogna.
Dopo un buon paio d’ore giungiamo a Maulbronn, città secondo la classificazione tedesca, paese secondo la nostra (avendo appena 6.000 abitanti), caratterizzato da un bizzarro blasone: un asino bardato che si abbevera ad una fontana. Mi spiega L. che si tratta di un cosiddetto “stemma parlante”: come in un rebus le due parole che formano il nome del paese indicano un asino (Maul) e una fontana (Bronn); non sa tuttavia spiegare l’origine di tale inconsueto abbinamento. Ma non è per questa curiosità che ci siamo fermati qui; varcato un muro di cinta entriamo in quello che si rivela un complesso abbaziale molto ben conservato e forse tuttora attivo, anche se non vedo monaci in giro. Mentre J. e L. si siedono ai tavolini di una birreria all’aperto, io parto per un rapido giro di perlustrazione, per scattare qualche foto e dare un colpo di telefono a casa. Il monastero, leggo sui cartelli, è stato costruito a metà del XII sec. e comprendeva numerosi edifici, religiosi e non: magazzini, cantine, refettori e dormitori, sala del Capitolo e naturalmente la chiesa, in stile romanico con aggiunte gotiche; non mancano imponenti costruzioni a graticcio, a più piani, dagli alti tetti spioventi. I monaci che vi abitavano (qualche religioso vi abita tuttora?) erano cistercensi e formavano una comunità autosufficiente che si manteneva grazie ad una fiorente agricoltura. Tornato al tavolino, faccio compagnia agli altri due, trincando anch’io la mia weißbier quotidiana accompagnata da un sostanzioso apfelstrudel. Ne approfitto anche per approfondire le mie conoscenze, più nulle che superficiali, sulle birre; ma J. e soprattutto L., un erudito “birrologo”, mi riversano nella testa un tale profluvio di informazioni con termini anglo-tedeschi, che ne esco più confuso di prima, forte della sola certezza che se weißbier significa letteralmente “birra chiara”, non vuol dire che non possa essere più scura della birra non-weiß.
Ripartiamo dopo una buona mezzora e in una ventina di km raggiungiamo Pforzheim, dove confluiscono due corsi d’acqua minori, l’Enz e il Nagold. Costeggiamo quest’ultimo, dapprima lungo la statale (sfiorando il Burgruine Kräheneck, ciò che resta dell’antico castello di Pforzheim), poi su una piacevole sterrata che corre su e giù a lato del fiume completamente immersa nella vegetazione. Più di una volta -ma mi era già accaduto in precedenza, soprattutto lungo la Mosella- ho avuto modo di notare che dove lo spazio tra il fiume e la pista si allarga tanto da permettere la presenza di una panchina, è facile vedervi seduti due innamorati o un gruppo familiare, che poggiate a terra le loro biciclette discorrono serenamente o contemplano assorti il fluire delle acque; è uno spettacolo, almeno per me, insolito e commovente che mi fa affiorare un lieve senso di colpa: mi chiedo quante volte io abbia saputo cedere alla tentazione di rinunciare ad un’ora al computer o a qualche altra delle più o meno frenetiche attività che svolgiamo ogni giorno quasi in automatico, per invitare mia moglie o le mie figlie a una passeggiata nel verde. Anche queste forme di “ozio”, che troppo frettolosamente spesso ascriviamo alla categoria della “perdita di tempo” sono un aspetto di civiltà della lentezza che stiamo perdendo.
Dopo qualche km su un ponte di legno coperto che sembra di un’altra epoca, lo attraversiamo passando sull’altra sponda, dove la ciclabile diventa un sentiero in terra battuta così stretto che quando si incontrano altri ciclisti occorre fermarsi e lasciar passare. Il Nagold si dirige a Sud verso l’omonima città e finché seguiamo il suo corso so che la pendenza non potrà bruscamente impennarsi. Verso Bad Liebenzell ritorniamo su asfalto, ma si tratta comunque di un tratto tranquillo e senza traffico, che affrontiamo senza particolare affanno. Un cartello annuncia che nelle vicinanze si trova il Burg Liebenzell, cioè la locale fortezza; a ben pensarci, dopo averne fatto indigestione lungo la Mosella e il Reno, è da ieri che non ho più visto un castello, anche se credo di capire il motivo. In ogni caso non riesco a scorgere nessuna fortificazione.
Non rinuncio comunque a chiedere, magari un po’ tardivamente, a J. e L. la differenza tra Burg e Schloss e loro mi chiariscono che mentre il primo (un esempio fra i tanti il Burg Pfalzgrafenstein) è un termine più antico che si riferisce a una fortezza di tipo medioevale, cioè a un luogo fortificato di importanza militare, spesso con una sua guarnigione, per il controllo di un territorio, il secondo (ad es. lo Schloss Heidelberg) è piuttosto un palazzo con funzione residenziale (cioè abitato da principi e aristocratici con le loro famiglie, non da truppe), spesso lussuoso e raffinato ed è solitamente di epoca posteriore, indicativamente dal Rinascimento in poi. Ciò non toglie che possano esserci delle commistioni fra i due termini; ad esempio, il Burg Eltz che avremmo dovuto visitare il secondo giorno non è mai stato una vera fortezza militare, bensì un castello abitato ininterrottamente dall’XI sec. ai giorni nostri.
Prima di Calw, J. avverte che tra pochi km dovremo affrontare il tratto più duro che ci era stato preannunciato al mattino, salendo di qualche centinaio di metri in breve spazio, dopodiché però il resto della strada sarà molto più agevole. Detto fatto, lasciamo la stradina e iniziamo a salire su una ciclabile che si inerpica decisamente nel bosco; ma dobbiamo stare molto attenti: la strada è malridotta per la presenza di frequenti buche o di ammassi di piccoli rami, foglie e fango dovuti ai recenti temporali; alla fine quando ad un ponticello troviamo un avviso di strada interrotta per frana e il divieto a continuare, ci dobbiamo arrendere. L. e J. sembrano dispiaciuti; dentro di me io lo sono molto meno, anche perché, nonostante la bugia di prima (o forse è proprio la giusta punizione a causa di quella) adesso il ginocchio ha ripreso davvero a dolermi un po’. Perciò torniamo indietro fino alla strada asfaltata e in breve raggiungiamo Calw; nella piazza principale, troviamo un caffè in cui mangiare un boccone prima di affrontare l’ultimo tratto che ci porterà fino a Jettingen.
Ripartiamo, lasciandoci alle spalle le acque del Nagold, che risalirà fino all’omonimo capoluogo. Non capisco quale sia la strada che J. prevede di percorrere, dato che da Calw parte una tranquilla regionale che segue pedissequamente il corso del fiume salendo di quota molto gradualmente fino a Nagold e da qui ci sono circa 5 km di falsopiano per Jettingen. Ma mi sono sufficienti due minuti per rendermi conto di cosa ci aspetta: subito dopo aver lasciato Calw a quota 330 m., la strada sale con decisione arrivando a toccare i 600 m. poi precipita a 370; infine, poco dopo Wildberg, ristrettasi ormai a sentiero, prima affonda in una foresta, peraltro molto bella, di conifere altissime, poi prende ad arrampicarsi con una pendenza inizialmente dell’8/10%, che man mano diventa proibitiva per i miei mezzi. Ci diamo appuntamento alla fine della salita, che ognuno raggiungerà secondo le proprie possibilità; ma solo cinque minuti dopo L. mi precede già di un centinaio di metri, mentre J. è sparito. Io provo a continuare al mio passo, utilizzando da subito il rapporto più agile, ma poi, quando devo fermarmi a rimettere a posto la catena uscita fuori sede, non riesco più a ripartire. Immerso in una penombra verde e silenziosa, proseguo a piedi accompagnato dal un odore pungente di muschio e di legno marcio, sentendomi quasi disconnesso dal resto del mondo e, una volta tanto, in pace con me stesso. Raggiungo senza fretta il colmo della collina, dove gli altri due mi stanno aspettando; da un calcolo approssimativo coi dati forniti da contakm e altimetro mi risulta un dislivello di 120 m. in 1 km esatto, ma la sensazione, dovuta forse al pessimo fondo stradale e alla stanchezza, è che la pendenza fosse ben superiore al 12%.

Ormai si respira aria di casa, non chiedo quanto manca all’arrivo e mi godo la discesa iniziale e i lievi saliscendi successivi insieme agli ultimi scampoli di paesaggio tedesco, finché tra il verde dei boschi, il marrone dei campi o il giallo delle stoppie non si insinuano il rosso e il bianco delle case di Jettingen. Un ultimo affondo e raggiungiamo il paese e la casa di J.
L’accoglienza della sua famiglia è calorosa: siamo in tre, ma l’ obiettivo di ogni premura sono io, probabilmente anche per l’espressione stravolta che mi si legge in volto. Anche quando dopo la doccia e un primo ristoro (a base di succhi di frutta e cocomero col gelato) riprendo un aspetto più umano, mi colmano di attenzioni e dopo avermi aiutato a imballare la bici in uno scatolone, non vogliono sentir ragioni e decidono che domattina presto mi accompagneranno prima in auto e poi in treno fino all’aeroporto di Stoccarda. La serata termina dopo esserci rilassati sul divano con l’ultima birra a vedere le foto mie e di J. scaricate sull’home video e a commentare i momenti più salienti di questi quasi 600 km pedalati nel cuore della Renania-Palatinato lungo i suoi fiumi, tra vallate ridenti, vigneti a picco, boschi ombrosi, angoli romantici, colline, castelli, borghi e città ricchi di storia e cultura. E la delusione nel confronto tra le sensazioni o le immagini regalatemi da quei luoghi, ed ancora vivide nella memoria, e le foto con cui abbiamo creduto di catturarle, è inevitabilmente cocente, almeno per me: quelle venute meglio sono delle banali foto-cartolina, altre non riescono a trasmettere quasi nulla di significativo di quell’esperienza per chi non l’ha vissuta personalmente. Ma sbattere il naso contro la consapevolezza dei propri limiti, ogni tanto, può essere salutare… D’altro canto –mi dico- non devo render conto a nessuno: non sono proprio io il destinatario ultimo delle immagini e delle impressioni raccolte come del viaggio stesso? Se produttore, regista, attore e unico spettatore sono la stessa persona, poco male se l’opera è mediocre.
Prima di addormentarmi, dentro di me decido che questa sarà l’ultima impresa del genere e che è l’ora di appendere al chiodo questo tipo di cicloturismo che sta diventando quasi “estremo” per le mie forze; ma sono anche consapevole di non essere sincero fino in fondo e che, una volta tornato, magari mi metterò a progettare il prossimo viaggio.
Percorsi oggi 122 km in 6h circa

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Pubblicato da
Marco

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