di Massimo Romandini –
Eccomi a Gurgussùm, l’incontaminata spiaggia del litorale eritreo che si apre nella sua splendida e selvaggia bellezza a una manciata di chilometri dalle prime povere case dell’abitato di Massaua. Sono qui in riva al Mar Rosso per i ormai tradizionali bagni di Capodanno: la temperatura è… ragionevole, si attesta sui 30°. Gurgussùm è un luogo isolato e – direi – unico nel suo genere: la spiaggia è sporcata solo dai mucchietti di alghe che il movimento notturno del mare porta di tanto in tanto sul lido e segnata qua e là da qualche grossa e violacea medusa, che non ce l’ha fatta a sfuggire alla bassa marea, un fenomeno che da queste parti posso godermi in tutta la sua bellezza. Le acque si ritirano con una puntualità che mi colpisce e l’andare e il venire del mare, nell’arco della giornata, mi affascinano.
Gurgussùm è sempre uguale a sé stessa, con il chioschetto di canne e paglia in riva al mare nel quale uno stanco nativo vende fute variopinte ed monili di metallo non prezioso; con i suoi sedili di legno appena laccato posti lungo la riva; con le improvvisate coperture per le auto che rischiano di arroventarsi, nonostante la temperatura relativamente mite della stagione più felice in questo tratto di bassopiano. Le stanze rudimentali, nelle quali alloggio e situate a pochi metri dalla riva a formare con altre identiche una lunga teoria, sono tipicamente arabe: i muri esterni bianchi di fresco, rigati da qualche buganvillea violacea o rosso-arancione e forati secondo un disegno geometrico altrettanto arabo, delimitano il breve spazio antistante in cui poche piante verdeggiano per scommessa.
C’è vento oggi: il mare è mosso, ma nel silenzio del pomeriggio mi godo il brusio di alcuni venditori arabi seduti lungo la riva, sulla battigia ben visibile. L’umidità, qui elevatissima, mi appare ragionevole. In Italia fa freddo in questi giorni e da più parti nevica, qui un albero di Natale troneggia sulla sabbia calpestata da uomini di religioni diverse.
Decido di recarmi a Dogali. Da tempo, provenendo da Asmara sull’altopiano (2400 mt.) per dirigermi a Massaua, passo accanto a questo luogo che molti hanno dimenticato da un pezzo. Molti italiani, nati o residenti da tempo sull’altopiano, non hanno mai visitato il celebre colle. Tutti lo sfiorano, si accontentano di indicarsi l’un l’altro il luogo storico e proseguono oltre. Provenendo dall’altopiano e dopo aver superato grandi pendenze, si ha sempre fretta d’arrivare perché la via Asmara-Massaua, arditissima come concezione, stanca chi guida. Dogali resta, purtroppo, dimenticata.
Corro nella mia stanzetta dove, tra le poche cose che mi sono portato dietro da Asmara, c’è la mia mediocre macchina fotografica. Ho un rullino in bianco e nero, solo questo, e neanche dei migliori. Pazienza. Ho lasciato la cinepresa ad Asmara e me ne dolgo. Ma è inutile stare ancora a pensare. Mi avvio e percorro la strada asfaltata che, in sei o sette chilometri, mi porta all’incrocio delle vie, di cui una, sulla sinistra, conduce alla periferia di Massaua (le misere case del sobborgo indigeno di Edagà Berhai) e l’altra, sulla destra, direttamente al posto di blocco, passato il quale si può procedere oltre per Dogali.
Fa caldo, anche troppo. Una cosa è starsene in riva al mare, un’altra invece prigionieri di un’auto infuocata. L’asfalto è bollente ed per effetto del calore appare come bagnato in lontananza. Supero un piccolo agglomerato di tucul indigeni e giungo al posto di blocco. Mi ferma un poliziotto eritreo con fare tranquillo. Mi sorride e mi invita a scendere dall’auto, perché entri nella stanzetta appena squadrata ed improvvisata per gli opportuni controlli amministrativi. Entro e firmo sul registro, che è posto su un tavolo sgangherato: indico anche il tipo dell’auto e la targa. Chiedo al poliziotto se vuole controllare, come è d’uso, l’interno e il portabagagli, ma mi sorride ancora e mi fa capire che non ce n’è bisogno. Lo ringrazio e filo via.
Supero anche il punto da cui si dirama il sentiero che, per un terreno sabbioso e coperto di sterpi, conduce fino al nuovo cimitero italiano che finalmente raccoglie decine di ignoti, militari e civili, caduti in Eritrea negli anni Quaranta e qui trasportati da più parti della regione. Proseguo a moderata velocità. Il noto paesaggio che mi accompagna, piuttosto secco ed uniforme, con sfumature chiare, mi invita a guardarlo. Da Ghinda, località a maggiore altitudine sulla via Asmara-Massaua, arrivano alcune auto: sono altri villeggianti, soprattutto italiani, che scendono a godersi il fine anno in riva al Mar Rosso. Il fondo stradale, che regge bene il peso degli anni nonostante venga trascurato, sembra di tanto in tanto come incassato tra le prime isolate alture: diverse le curve a gomito, dalle quali si esce in rettilinei luminosi e lo sguardo indugia in lontananza su acacie ombrellifere. Pendono dai rami spinosi i nidi dei tessitori.
Al ventesimo chilometro devo dapprima rallentare, poi frenare. Ho appena superato l’ampia curva che mi si è parata davanti che, alla mia destra, biancheggiano i primi sassi che delimitano la breve pista di Dogali. Sono giunto ai piedi della collina dove il 26 gennaio 1887 i cinquecento uomini del colonnello De Cristoforis furono annientati dalle bande del fiero ras Alula. Poco più in là si vede il celebre “Ponte di Dogali”, a tre arcate, sul torrente Desset che appare quasi del tutto asciutto.
Sono passate da poco le 15,30. Curvo a destra: ho deciso di risalire con l’auto la via polverosa, almeno fin dove mi sarà consentito dal terreno secco, che viene fuori in dense nuvolette dalle ruote posteriori della mia auto. Comunque, scendo e scatto la prima foto, dopo aver percorso pochi metri. Fa molto caldo anche qui e il sole picchia inclemente. Il fondo della via è rossiccio, ma non come sull’altopiano, e i margini segnati dai grossi e rozzi sassi tinti di calce servono a delimitare in modo chiaro il percorso che sto seguendo: al centro, la via di Dogali (chiamiamola pure così), ai lati la restante parte della collina che appare subito nella sua struttura generale. Lungo i cigli del sentiero polveroso e ingombro di sassi ben più numerosi di quel che potesse credersi dal basso, lo sguardo corre alle poche e isolate acacie. Non vedo altri segni di vita, tranne alcuni uccelli di passaggio e il vento piuttosto forte e caldo. Il colle è come addormentato.
Risalgo in auto e mi fermo dopo poche decine di metri. Scatto una seconda foto. Il paesaggio è sempre lo stesso, solo il sentiero si è fatto meno regolare ed i suoi margini appaiono ora più sottili e appena segnati di bianco sul lato destro. Percorro in auto pochi altri metri e mi avvicino alla sommità della collina. Devo annotare adesso la scomparsa dalla mia vista del cippo marmoreo che ho intravisto all’imbocco della salita, anche se mi era possibile scorgerne appena l’estremità superiore. Giunto sulla sommità, fermo l’auto sulla spianata che mi si apre davanti. Proseguo a piedi. L’aria è sempre calda: il vento, più forte, batte sul viso e muove i pochi cespugli e le acacie. Non c’è nessuno intorno. Avvicinatomi al monumento ai caduti italiani, che ricorda ancora oggi il tragico scontro agli inizi della colonizzazione italiana di questo territorio, ho una visione d’insieme del luogo della battaglia tra gli armati di ras Alula e i soldati del De Cristoforis, accerchiati senza scampo. L’immagine è suggestiva e, per quanto siano trascorsi tanti decenni, il luogo ha un fascino che altri mi hanno descritto. Sui fianchi della collina dal colore della terra eritrea, vedo diverse tombe contornate da blocchi di pietra tinti dì bianco e di forma quasi circolare, alcune, ed ovale, altre. La disposizione delle pietre è approssimativa. I massi sono posti alla rinfusa l’uno sopra l’altro. In alcune tombe le pietre appaiono disposte su due strati e sistemate con una certa regolarità. Altre tombe sono affiancate e in un angolo della collina, a sud-est del cippo, nei cui pressi mi sono portato, ne vedo molte di più. Preso come sono dal desiderio di osservare e di scattare fotografie, non calcolo l’esatto numero delle tombe, ma sono tante. Nella maggior parte di esse c’è una corona di ferro battuto ormai ricoperto di ruggine. Accanto alle tombe, ad una delle loro estremità, con pochissime eccezioni, vedo anche delle croci di ferro, piantate su un basamento imbiancato. Alcune croci hanno dei fiori insecchiti da un pezzo (dunque, qualcuno si è ricordato di Dogali…). Non noto altro di particolare in queste tombe, tranne che il loro fondo è costituito da un ammasso dì sassolini di varia dimensione e da erba molto secca.
Dopo aver giralo tra questa e quella tomba, mi riporto più su nei pressi del cippo marmoreo. Un isolato albero verdeggiante, l’unico che cade sotto il mio sguardo, è come un tocco di vita nel luogo silenzioso e battuto dal vento.
Osservo il tratto di via che mi è possibile scorgere dall’alto e che porta, oltre Saati, fino ai monti Digdigtà. Di lì la via comincia a salire più rapidamente. Intorno, le alture di Dogali sembrano tutte uguali a quella su cui mi trovo, scarse di vita e di vegetazione. Lo sguardo va oltre ed abbraccia estensioni considerevoli. E’ il paesaggio che si osserva nel bassopiano laddove cede alle propaggini dell’altopiano.
Sono ancora vicino al monumento. L’osservo attentamente. Accanto ha un’altra croce in ferro piantata nel terreno: elementare nel suo disegno, solo alla base si allarga a formare due ali ricurve. L’architettura è semplice e tale mi appare anche ora che la fisso da pochi passi. La base marmorea presenta due gradoni (quello inferiore è più ampio) su cui s’innalza il monumento vero e proprio con la lapide, sovrastato da una colonna, semplice anch’essa, all’estremità della quale è posto un simbolo, rappresentante una stella a cinque punte, intercalate da altrettanti raggi di sole. La lapide, che è appena sfiorata da una corona di fiori ormai secchi ma che mi pare deposta da no
n molto, ricorda ai pochi visitatori che il monumento fu eretto da Eumene Tomagnini di Pietrasanta sotto gli auspici di Francesco Crispi e di Ettore Bertolè-Viale.
Sono passate le 16 e la mia visita a Dogali può dirsi conclusa. Mi guardo ancora in giro. Soffia il vento caldo e sono sudato. Osservo ancora la collina che mi sta ai piedi. Continuerei a fotografare, ma il rullino è finito. Me ne vado dunque, anche se il silenzio quasi prepotente è una sorta di invito a restare. Salgo sulla mia auto e ripercorro la strada polverosa in senso inverso. Mi rimetto sulla via per Massaua, volgendo le spalle alla collina. Altre auto passano, ma non una che si fermi dopo superato il Ponte di Dogali. Ora che sto per ripassare dal posto di blocco per rientrare a Gurgussùm, ho l’impressione di aver trascorso qualche minuto in un’altra epoca.