di Fausto Toccaceli –
Bale Terarauòch – Monti Bale
I laghi della pianura si interrompono – proseguiranno solo verso sud – nel momento in cui si sterza a sinistra, verso est, e si abbandona la Rift Valley. Colline dolci sotto un giallo oro che avvalora stoppie di grano, declinano con la semplicità d’un tratto di lapis. Catene di euforbie, a recintare insediamenti umani, e sparuti eucalipti persi qua e là, macchiano di verde la distesa immobile. Una serie ininterrotta di tucul determina residenze ben posizionate intorno ai ruscelli – vista la stagione solo ruscelli – che scorrono e danno vita ai terreni adiacenti altrimenti polverosi.
Pochi sono gli agglomerati lungo la strada asfaltata che corre diritta come una ferrovia. Si va verso Dodola, seguendo il percorso che poi conduce alla vicina Somalia.
“Chi contempla una volta una sì pura / bellezza, eternamente se ne accende / e nell’anima impressa eterna dura”
“Povero è chi ha bisogno di molto” ripete spesso l’ audace Josè Mujica, Presidente dell’Uruguay, ex tupamaro e fervente comunista. Potrebbe essere il suo paese questo: contadini e pastori costituitisi in cooperative gestiscono al meglio il territorio e si degnano di una vita dura ma del tutto naturale. Il mietuto è stato abbondante. I consorzi hanno permesso a questi uomini – Oromo – di organizzare il raccolto; per questo, hanno in dotazione macchine per l’aratura e per la raccolta del frumento…Non tutti… quasi tutti.
Ventimila anni fa l’ultima glaciazione. Anche i Monti Bale ebbero i loro ghiacciai. Ben evidenti, nella scalata al versante nord ovest, sono le valli dei sedimenti nevosi; grandi conche sovrastate da picchi rocciosi che, causa gli eventi atmosferici, stanno andando in frantumi. Quando si abbandona la fertile piana appaiono i primi ginepri africani (juniperus procera). Dolci tornanti mi riportano al passo dello Stelvio e a qualche ciclista in piedi sui pedali – non si è mai in gruppo sullo Stelvio. Qui, in vece dei ciclisti, a scalare o a scendere la perfida strada, ci sono baldanzosi muli carichi di grano seguiti a passo veloce dai loro padroni.
Ad ogni cambio di marcia, la Toyota di Natnael che ci precede, emette sbuffi neri e puzzolenti. L’ossigeno non è più sufficiente alla carburazione del mezzo: è evidente. La strada si appiattisce prima di scollinare. Scendiamo dall’auto; assaporo una certa leggera assenza di gravità. Affondo la respirazione: peggio di prima; i polmoni sembrano rimpiccioliti al pari di due fagioli. Rifletto un attimo e capisco che accelerare il numero dei respiri, rendendoli più corti e meno profondi, aiuta e molto. Siamo a 3.600 metri. “Vedi quella capanna” dice Nati “E’ famosa per essere stata il covo di uno shifta (bandito), che depredava qualsiasi individuo passasse nei paraggi”. “Davvero?! E di cosa viveva…” “Appunto, viveva con le cose e i denari che rapinava” “Sì certo, e dove li spendeva i soldi! nel bar che vende granite al limone e sandwich dietro il roccione!!”
“Quei picchi lassù, sono le cime più alte dei Monti Bale?” “No, dovremo fare tutto il giro – traccia nell’aria un semicerchio. Scenderemo per di qua – indicando la curva imminente – e poi dopo Goba si risalirà fino ai 4377 metri della punta Tullu Deemtu. Quelle vette che vediamo raggiungono i 4000 metri”. “L’ altimetro che porti al polso, perché non lo usi invece di dare numeri a casaccio?”. Lo guarda; poi lo scuote come un uovo di pasqua, lo porta all’orecchio, lo scrolla ancora.“Ho l’impressione che non funzioni…” “Tu non hai l’impressione… hai la certezza!”. Sorride. Sandro lo spinge amichevolmente, e poi: “Aiò, andaussindi innanti chi arribidi cussu delinquenti e sindi furidi s’acqua e is’ ousus tostausu”.
La strada scende alla maniera di un serpente in movimento. Curve dolci accompagnano un asfalto da far invidia ad una pista di formula 1. “Fino a sei mesi fa la strada era una pista sconnessa, ora sembra di volare”. Così è, sembra di volare quando improvvisa si apre la vallata sottostante, sgombra da alberi ma verde di un prato fresco.
Quando tutto si distende, compaiono i primi cespugli e alcuni dossi, ben fatti, che rallentano il cammino: “Qui inizia il parco – indica una garitta costruita in cemento, presidiata da colombe -, quello è il vecchio ingresso; ora è stato spostato più a monte, ci arriveremo tra un po’. Da qui si possono già vedere animali selvatici”. Due uomini, abbigliati come se stessero prendendo parte ad una battuta di caccia grossa, hanno posizionato macchine fotografiche e binocoli su dei cavalletti al bordo della strada – sembrano geometri intenti a prendere misure. “Fanno birdwatching” precisa Nati. “Ma cosa stanno guardando! C’è solo una pozza malsana; che vuoi che uccelli ci siano lì!”. Un paio di colibrì indispettiti frullano e si alzano in volo. “Ecco! Gli unici due uccelli presenti li hanno fatti scappare. Bravi… Non è che niente niente sono pure inglesi!”. Natnael rallenta. Si ferma ad indicare qualcosa in movimento nella prateria: “Sono nyala(stambecco etiopico)”. Poi ancora, “Quello un facocero”. Animali qua e là, nei pressi di ruscelli che scendono dalla montagna, pascolano indisturbati e completamente indifferenti a chi sta intorno. Cavalieri in transito su dei pony, lascito inglese – alcuni cavalli, anche questi di piccola stazza, sono ex cavalli selvatici del Kondudo, altri Arabi -, bardati di rosso e blu, sfiorano le bestie selvatiche su sentieri che tagliano la prateria: ognuno segue la sua strada; ognuno guarda diritto verso il suo scopo: rispetto reciproco, di spazio ce n’è.
Un’altra sosta. Siamo al cancello dell’ingresso del parco, un grosso segnale ne è testimone. Natnael contatta una guida – una grande fortuna per noi averla conosciuta – e paga il ticket che utilizzeremo l’indomani. Ci stiamo trasferendo verso Goba dove pernotteremo per tre giorni (Hotel governativo Wabe Schebele. Questo albergo prende il nome dai due maggiori fiumi che sgorgano dai Monti Bale – che poi si uniranno più a valle -, il Wabe e il Schebele: nomi ben conosciuti dagli italiani dell’occupazione). La guida verrà in città – L’uomo sembra un Adighè (circasso), con la sola eccezione del colore della pelle; la sua figura ricorda i leggiadri e leggendari cavalieri del Caucaso -, non torneremo indietro a prenderla. Bene, tempo risparmiato. Nel mentre aspettiamo la consegna del ticket, un maschio adulto di facocero transita lentamente sotto l’insegna del parco e se ne va indisturbato – Italia Germania 4 a 3, ecchissenfrega!
Robe e Goda sono vivaci – A Robe sta la sede dell’università della ex provincia del Bale. Le due città distano circa 10 km l’una dall’altra, mostrano il dinamismo che in questo tempo caratterizza l’Etiopia intera. Questo paese negli ultimi anni si è rinnovato e trasformato forse più di ogni altro nel continente africano – e non solo nella capitale -, con incredibile confusione. In questa scomposta energia ci si muove e si vive in un medioevo postmoderno, globale e adulterato, che trasforma tecnologicamente il paese a ritmi vertiginosi, ma non riesce a dargli un senso. L’Hotel, a Goda, si presenta silenzioso e ben curato. E’ sera.
Accomodati nelle stanze, decorose, ci dirigiamo verso il pasto serale (Gli hotel governativi in Etiopia si somigliano tutti. Lo stile sembra indicare un compromesso tra architettura ospedaliera e militare – responsabilità da dividere tra Hailé Selassié prima e Menghistu poi. Camere ad aprirsi su una corte quadrata o circolare, giardino ben curato al centro, hall semplice ed essenziale, con l’immancabile tv sintonizzata su partite di calcio del campionato inglese. Sala da pranzo molto spaziosa illuminata da abbaini al posto di finestre, alti, a segnare il soffitto ancor più alto; tende spesse e polverose; colonne latine qua e là). Nella sala ritroviamo i presunti inglesi molestatori di uccelli, attestati su piatti non ben definiti, e un gruppo di francesi che con scrupolo ed impegno, stanno cercando di capire cosa sia quel cibo colorato che gli è stato servito.
Non siamo ancora al top delle meraviglie: sta arrivando la cameriera – direttrice, manager… Non lo sapremo mai. Una gagliarda signora si attesta nella posizione di capotavola: gambe divaricate ben piantate sul pavimento, in mano blocchetto e penna. Nessun sorriso, niente che possa trasmettere serenità. Aspetto inquietante: somiglianza a progenitori di ere passate: mascella larga e zigomi e glutei che possono reggere senza tremare colpi di nerbo nocchiuto. Statura e larghezza delle spalle, la medesima. La signora emette un colpo di tosse che sa di ruggito; sta sollecitando l’ordine; è lì ed aspetta il comando. La nipote africana di Jack lo squartatore?! Ci guardiamo; al momento nessun commento; solo occhiate atterrite, nel mentre un forte dubbio (guardando ancora per una volta gli altri commensali, come si guarda qualcuno che va sulla forca prima di te) sopravviene alla comitiva sulla qualità di quello che si andrà a mangiare. Un’ora dopo, ogni presentimento sarà confermato. Nessuna alternativa si presenterà per i successivi tre giorni – ribattezzati poi ‘i tre giorni delle uova sode’- considerato che nessun altro ristorante consigliato è presente in zona.
Un momento prima di pregustare un dolce sonno, prendiamo appuntamento con gli autisti – L’ormai amico Natnael e Tafarra – per l’indomani. Ore otto, gita al Sanetti Plateau e poi a godere la vista dalla cima del Tullu Deemtu (montagna rossa).
Colazione internazionale sotto lo sguardo attento di Jack jr – a nessuno è passato per la mente di lasciare residui di cibo e men che meno di imbrattare la tovaglia -, decisi si parte. La strada in terra rossa – poca polvere, il giorno prima è piovuto – si inerpica quasi subito in mezzo a due ali di eucalipti giganti. L’auto scarta sul fondo dissestato e duro. Un fumo bianco inizia ad uscire dal motore, sembra un geyserdel Dallol; ci fermiamo. Attento esame e: “Niente di che – confessa Tafarra -, questa mattina ho rimboccato l’acqua nel radiatore e mi sono dimenticato di avvitarlo”. Ce la caviamo con due litri d’ acqua potabile prelevata dalla nostra scorta giornaliera. Il primo albero che riceve attenzione è il cosso (Kniphofia foliosa). Natnael dice che è un albero miracoloso nei suoi frutti pendenti a grappolo color rosso granata. Sostiene che il frutto, prima fatto bollire poi ingerito, curi problemi di stomaco e intestino. Viene usato come disintossicante per la presenza di diversi antrachinoni; non per niente il termine amarico cosso, ha il corrispondente italiano in ‘purga’. Si sale e questo lo dimostra il fatto che la vegetazione si accorcia sensibilmente. Gli alberi sono occasionali qua e là; nel contempo una radura costituita principalmente da un ginepro nano, prende il loro posto. Sui tornanti si scorge la pianura sottostante: mosaico suggestivo di appezzamenti diversamente coltivati.
La strada spiana: ecco il Sanetti Plateau. (Il nome Sanetti – da quello che ci dirà poi la guida circassa –non sta a ricordare un esploratore o un qualsivoglia essere umano. Scomponendo la parola Sanetti in San e Etti, si determina ciò: San – in Oromifa – sta ad indicare il numero otto, e Etti, designa l’equivalente di mucche. Bene, riepilogando: Sanetti sta per otto mucche disperse sul Plateau – la storia sarebbe lunga ed eccessiva, visto il contesto. Momenti di grazia li chiama qualcuno, quando un altro ‘qualcuno’ pensa che ascoltare sia la cosa migliore da fare: saper ascoltare: contatto con gli dei sotto un cielo azzurro vero)– L’uomo è sbarcato sulla luna, chissenefrega!
Un laghetto alpino. Uccelli che sguazzano e si muovono come papere (oca aliceleste) dentro una vasca da bagno. Intanto l’acqua è blu e verde: dipende da dove la si guarda e in quale sua altezza, sotto una minima increspatura o dove è piatta, contro il sole o sotto il sole. Su di essa si specchiano le lobelie giganti: sembrano quasi implorare solitudine e nel contempo sorvegliano ciò che accade. Vento teso, freddo: si respira meglio quando muove l’aria; bisogna coprirsi però! (Il nostro autista è rimasto in maniche corte per tutto il viaggio; non so spiegarmi perché sia ancora in salute) .
“Cresce al sole, col crescere del dì, / la sete, e fuor dal carcere gelato / scioglie il rivo il rumore in armonia.”
Incomincia la caccia al lupo. Armati di macchine fotografiche prendiamo a seguire lo scout circasso – non sappiamo dove stiamo andando. Dubbiosi ma fieri, talloniamo lo smilzo caucasico dentro una piana che non si può limitare, neanche con lo sguardo (Il parco complessivamente misura oltre 2.400 kmq e questo dice tutto). La prima sorpresa è una capanna isolata – punto di controllo – abitata da un rappresentante amministrativo del parco. Collocata in un avvallamento in mezzo la piana, è attorniata da tronchi di eucalipto presi a valle: legno per la manutenzione del ricovero, cucinare e riscaldarsi. L’ Adighè ha un non so ché di terribilmente ‘umano’. Porta due libri con sé: di flora e di fauna; li stringe come fossero cuccioli bisognosi di calore. Non parla, farfuglia solo parole – in latino – che indicano fiori e piante, quadrupedi ed uccelli, dietro sorrisi che fanno incurvare un curioso pizzetto grigio. Si capisce che quello è il suo habitat: cammina veloce, si ferma a volte ad aspettarci; quando si volge per vedere la nostra posizione ci conta, ogni volta: and, huleutt, sost… fino a sei; poi riparte a testa bassa schivando buche di topi e talpe, assai numerose.
“Molle e contorto. Dispari e sonoro, / tu scivoli segreto in mezzo ai fiori, / il corso tuo sottraendo ai colori, / bianco di spuma, biondo come l’oro”
Il lupo etiopico (Canis simensis, in amarico Ky Kebero, ‘sciacallo rosso’) è il canide più raro del mondo. Animale endemico dell’Etiopia vive solo sui Monti Bale e Semien (Regione di Gondar). Un’ora è trascorsa dal nostro passaggio al rifugio. Un lago alpino della dimensione di un campo sportivo, si apre all’orizzonte a specchiare la cima del Tullu Deemtu. Diversi esemplari di uccelli lo stanno popolando: L’oca aliceleste, l’ibis caruncolato, la pavoncella petto macchiato e altri, che il buon scout elenca senza interruzione e non senza una certa emozione. Stiamo girando in tondo alla ricerca del canide. La guida punta il binocolo qua e là senza sussulti, dentro un silenzio turbato solo dalla brezza tesa. “Eccolo! Eccolo!”. Non è la guida ma Sandro, che in cima il poggio più alto, tra lobelie alte tre metri, indica un punto lontano non ben definito. Pochi minuti e tutti lo vediamo, compreso l’incredulo caucasico. E’ lontano almeno cento metri; sta scavando in una secca di un laghetto alla ricerca di roditori. Scappa poi, con la tipica andatura di un canide (nel pomeriggio ne vedremo altri e ben più vicini).
Ad attraversare la piana – sempre costantemente sopra i 4000 metri – ci impieghiamo almeno mezz’ora. Prima di affondare nella discesa che ci porterà alla foresta, Nati vira a destra, e seguendo un sentiero al limite del praticabile cominciamo a salire. La cima del Tullu Deemtu par di toccarla. Massi imponenti – basalto – si stagliano lungo la costa del picco che sempre più si avvicina ad un azzurro puro: chiara testimonianza degli ultimi flussi vulcanici. (In un tempo più moderno e democratico del nostro, sui monti più alti vivevano gli iddii; in uno successivo, dopo la comparsa di un salvatore, vi dimoravano croci o statue imploranti; croci e statue di ogni tipo: di ferro, di legno, basse, alte arrugginite o mangiate da tarli – La vicinanza dell’uomo a dio. Oggi, nei nostri tempi fugaci e voraci, sui picchi solitari, si sono insediati freddi feticci a ricevere segnali e comunicazioni. Non pensiamo più, più non si riflette; si ha solo bisogno di veloce distrazione, di correre nell’etere, senza sapere il perché e verso dove. Ecco dunque, orribili ripetitori al posto di residenze di dei, di croci e santi: il Tullu Deemtu non è da meno). Dalla cima si vede tutto: anche ciò che non c’è. E’ un cocuzzolo; ovunque ti giri c’è il vuoto. 4377, afferma la lapide in legno scolpita. Un ragazzo si avvicina: “E questo chi è! Come è arrivato quassù!!” “E’ il guardiano. Vive da solo nella baracca sotto il ripetitore. Ogni settimana viene rifornito di acqua e cibo. Il padre viene dal villaggio, dieci chilometri qui sotto, carica un mulo di cibaglie e gliele porta. Vedi com’ è contento oggi che ha compagnia!” “Auguro a lui che ogni tanto qualcuno venga a dargli il cambio…” “Penso di sì… ma sì, certo che sì, altrimenti impazzirebbe” “Potrebbe ballare coi lupi, o magari, studiare astronomia” “Cosa?!” “No… Niente, niente”. Il vento in quel momento è aumentato nella sua forza, un paio di folate vigorose – son contento che nessuno mi abbia sentito. La nebbia – versante ovest – sbatte sul costone sottostante e, compiendo una piroetta, torna indietro come respinta da un’ energia invisibile. La piana è sgombra di nubi, bianca di elicrisi: sembra una coltre di brina mattutina.
“il corpo lasceranno, non l’ardore; / anche in cenere, avranno un sentimento; / saran terra, ma terra innamorata”
Appena ripreso il piano, la strada inizia a scendere verso la grande forra della foresta di Harenna.Buchiamo la nebbia che sbatte sul dirupo e da un tornante scorgiamo la vallata umida, tropicale. Ricompaiono i ginepri africani, le prime eriche giganti e una selva di bambù. Un villaggio è annunciato dal transito, a noi contrario, di alcuni muli. Intorno ad esso piccoli appezzamenti coltivati a orzo recintati da canne di bambù per evitare che gli animali ne facciano incetta. “Quando mangiamo?” “Bene, ci fermeremo tra un paio di chilometri, là dove incontreremo uno spiazzo”. Siamo scesi di molto, la foresta è compatta, silenziosa. Un bambino si avvicina al nostro campo, improvvisato su un prato disseminato di scadoxus multiflorus , una bulbosa endemica africana, di una bellezza e insieme complicanza incomparabile.
Abbiamo aperto i contenitori di cartone preparati da Jack jr. Nessuna novità: tre uova sode e due banane a testa – anche il bambino dividerà con noi il ricco pasto. Lo scout sembra tarantolato, gira a destra e a manca indicando arbusti, fiori, alberi, frutti; con gesti dissennati indica di seguirlo verso il sentiero che conduce dentro la foresta. Attraversato un trasparente ruscello, un pascolo fa da preludio al percorso che ci condurrà all’interno della selva. Cavalli a pascolare, stormi di ibis caruncolato – che si alzano e si riposano a ondate regolari -, scimmie colobus che saltano e si rincorrono sui rami della hagenia… Ho sempre pensato che queste cose non avessero da esistere sul serio – nella realtà intendo; pensavo solo esistessero tra i colori della pittura, prigionieri di una semplice cornice. Entriamo nel bosco e la luce dilegua: Hagenia, Celtis e Podocarpus si dividono il terreno. E’ un incanto la boscaglia di tronchi nodosi rivestiti di licheni (usnea barbata). Tutto par annunciare la comparsa di elfi, gnomi, folletti, troll… Niente accadrà; solo il sinistro ronzio intorno a un favo, ci farà restare all’erta.
Il circasso vorrebbe proseguire, addentrarsi ancora, ma è tardi, dovremmo ripercorrere la strada segnata nel mattino, due ore almeno. Tornati sulla pista maestra, superiamo non senza difficoltà un’ amazzone a cavallo, coperta di un manto blu e con il figlio piccolo aggrappato alla schiena – la sagoma del bambino, a formare una sinuosa gobba, è ben evidente sotto la cappa. Sale al galoppo, veloce. “Rallenta!, rallenta un attimo…” “Non fare foto, non lo gradirebbe…, e poi non lo merita”. Guardo un attimo Nati e, senza riflettere: “Non penso di aver mai condiviso, in maniera così veloce, una sì legittima invocazione” (L’egoismo di chi passa, osserva e mai più ritorna. Infame egoismo. Io, attore stonato e giustamente biasimato). L’auto passa con un’ accelerazione; Antiope si perde dentro una diafana nuvola di polvere (pare Maria di Magdala in fuga dalla sua sorte… ma senza peccati). Ora è certo: non la rivedremo più.
“Senti caucasico, c’è qualcuno che vende miele da queste parti?” “Certo che sì; tra non molto incontreremo un villaggio, lì vendono il miele”. Neanche il tempo di sorseggiare un po’ d’acqua e Nati si ferma. “Vuoi il miele?! Ecco, qui lo vendono”. Un arco di legno, a fianco della strada, indica l’ingresso ad un campo attrezzato; sopra c’è scritto “honey and affinity”; siamo nel posto giusto. Quattro capanne colorate danno vita ad un luogo altrimenti anonimo.
In un baleno, lo spiazzo arricchito da nasturzi giallo e arancione, si riempie: uomini, ragazzi, bambini. Come da copione ben studiato, una ragazza ancora in pubertà – ma già ben formata – seguita da un torma lievitante d’ormoni – dall’aspetto incarnato di robusti giovanotti -, entra nel recinto ancheggiando. E’ vestita da sera: colori giallo e nero; borsetta di plastica a tracolla bianca e nera. Danza su uno ‘zatterone’ da 15 centimetri sopra un terreno a dir poco sconnesso, credendo forse di stare in Via Condotti; in testa un foulard a coprire i capelli… ma!, con al petto uno scavo da vertigine. Chissà qual è la sua percentuale sugli introiti dalla vendita del miele? Simbiosi con la natura circostante; fervente credo; continuità della tradizione; rispetto verso parenti e genitori; dedita al lavoro; certo! al lavoro. Il lavoro ognuno lo sceglie come… e soprattutto quel che vuole… Occorre solo non ammazzar nessuno e, in un luogo come questo, credetemi, è la professione più facile da praticare – Italia Germania 4 a 3, ecchissenfrega!
Tutto procede all’incontrario, tra lepri ben mimetizzate e lupi a riposo dopo il pasto serale. La luce è matura: il terreno pare più secco e i picchi neri meno espressivi – diversamente espressivi. C’è silenzio in macchina, mentre tutti registrano i particolari. Mick Jagger prende il sopravvento, accompagnato da qualche pigro controcanto. Gli elicrisi svampano e vanno a dormire.
“Contemplo il monte che gennaio stinse, / a bianca miro rovinar di neve / la cima, che tremante, scuro e breve / guarda il sole che un tempo la dipinse”
La mattina dopo si torna a Robe, la guida ci attende al distributore di benzina. “Saremo come ieri in cinque in una macchina” – Ci guardiamo – “Ho capito, non la portiamo. A Sof Omar ne avremo un’altra del loco”. Il circasso arriva sorridente zaino in spalla: all’interno bottiglia d’acqua semivuota e gli immancabili libri che spuntano dal sacco, occhialetto scuro. Nati lo informa che lo lasceremo lì; lui a malincuore saluta tutti, stringendo mani, sfiorando fronti e spalle: par ungere per una benedizione. Lo ritroveremo nel pomeriggio per la visita alla foresta del parco. La pista verso le grotte inizia annunciata da un vortice di polvere: pazienza, solo 120 chilometri, quattro ore circa (Di fatto l’amico circasso non lo rivedremo che all’ingresso del parco l’indomani, solo per i saluti e per soddisfare il suo servizio).
La pianura del Bale: campo aperto: perfetta esteriorità del pianeta. La verità non risiede nell’interiorità. Di contro essa è nelle cose: colori, odori, nelle urine sparse al vento, nel sudore e nelle rughe di pietra che tracciano i visi dei contadini. In questa zona – completamente bionda, il grano è stato raccolto da poco tempo – la ricchezza degli abitanti, percepita attraverso le distese coltivate, è ancor più evidente.
“Tu più non sia tu e tutto non sia più confusamente / che terra, fumo, polvere, ombra, niente”. (Gòngora)
Un dubbio mi sovviene dietro una visione, in un attimo di dissolvimento della mente. Brancaleone da Norcia, il principe Teofilato dei Leonzi, Matelda, avranno qui duellato, brandendo spade e asce prima di raggiungere il Feudo di Aurocastro?! Bah!!! Lasciamo la fantasia scorrere a dettare i ritmi e ad alleviare le botte subite causa ammortizzatori sfiniti. E’ impegnativo stare in sella ad una macchina sopra una pista sconnessa – Sembra di viandare sopra un interminabile pettine; uno sballottamento continuo; tutto ciò che può venire in mente contrario ad un massaggio orientale; una presa da parte di un lottatore di sumo. Molto meglio il calesse, leggero e agile. Ne incontreremo a centinaia, di legno e in pelle, colorati, con cappotta, trainati da muli, a volte da cavalli. Polvere; tra di essa camminatori instancabili, si dirigono verso il vicino mercato – percorrono anche 20 chilometri per raggiungerlo -, con in mano un pollo per avere un sacco di grano, alcuni; altri con in spalla un sacco di grano per avere un pollo. I vortici nebulosi li avvolgono; si materializzano pian piano le figure dietro un lento dissolvimento dell’ oblio: prima ombra indistinta, poi uomo, o donna, ciuco o bue, cammello… bus – Hanno preso la Bastiglia: ecchissenfrega!
Finisce il piano. La strada tende a salire tra acacie e alberi sparuti – non più distese di grano. Vicino, molto vicino è ben visibile la vallata del fiume Ueib. Stiamo arrivando. Uno slargo sulla sinistra ci indica l’approssimarsi delle grotte. Il fiume è giù sotto di noi: grande, verde, emblema di vita. Capanne poche, donne uomini e bambini, tanti; insieme ad essi, a guazzare nell’acqua, cammelli, vacche e capre; tutto lì si svolge, tutto lì, compreso il bucato e l’ approvvigionamento d’ acqua in taniche di plastica; nessuno è escluso – a parte gli uomini, totalmente inoperosi seduti all’ombra – dal suo compito e nel contempo, dal refrigerio quotidiano. Disinteressata a tutto ciò, una donna all’ombra del suo tucul, sta seduta di presso a chioccia e pulcini: dolce commistione… quasi magia.
“Poiché seppi conoscervi e stimarvi, /e meritai la sorte di vedervi, / non vi offenda, signora, ch’io vi guardi”
Camminiamo su dei massi enormi – granito –, scalfiti dall’acqua, con un effetto pari a delicati colpi di scalpello. Colonne naturali si ergono a reggere la montagna, là dove l’acqua ha trovato un pertugio e si è insinuata nelle viscere. Incavi naturali e ristretti appezzamenti sabbiosi permettono ai ragazzi del villaggio di lavarsi e prendere il sole – sembrerà strano, ma alcuni di essi sono distesi al sole; forse ad imitare qualche immagine venuta chissà da dove… o per abbronzarsi!! (A vedere i vestimenti e la separazione tra i bagnanti, ben distinta tra ragazzi e ragazze, non penso che ad oggi nella regione del Bale ci sia alcuna legge per l’attribuzione delle ‘quote rosa’)
Dopo diverse descrizioni di ciò che avremmo visto all’interno – Il fiume Ueib tornerà alla luce solo dopo 16 chilometri, di cui, solo 1,5 esplorabili -, la mia mente incarna i ricordi di alcune pagine del cap. XXII del II° libro del Don Chisciotte – vista anche la mia paura, causa claustrofobia, ad addentrami in anfratti ciechi e bassi – “Dove si rende conto della grande impresa della caverna di Montesino, situata nel cuore della Mancia” che così recita:
“E subito si inginocchiò e recitò una preghiera a voce bassa, chiedendo a dio che l’aiutasse e gli concedesse di menare a buon fine quella al parer suo assai perigliosa e straordinaria avventura, e subito dopo disse a voce alta: – O signora d’ogni mia azione e d’ogni mio moto, o illustre e impareggiabile Dulcinea del Toboso, se è possibile che arrivino al tuo orecchio le preghiere e le suppliche di questo tuo avventurato amatore, in nome della tua inaudita bellezza ti prego d’ascoltarle… Io sto per gettarmi, precipitarmi, sprofondarmi nell’abisso che qui mi si presenta dinanzi, solo perché il mondo sappia che, se tu mi proteggi, non ci sarà cosa impossibile che io non ardisca intraprendere e condurre a buon fine -”.Così dicendo si avvicinò alla voragine.
Voragine è il termine giusto per definire il buco che conduce all’interno delle grotte. Senza appoggi o protezione alcuna, gradini di granito scendono verticalmente fino al fondo sassoso, sei sette metri non di più. Un vecchio e un bambino, seduti all’ombra dell’ingresso, paiono svolgere il compito di custodi: non è così, sono venuti solo per salutare, per darci il benvenuto.
“Senti Nati ma sotto è buio o è illuminato artificialmente?” “Domanda giusta… risposta sbagliata?!” “Che ti metti a fare indovinelli adesso!!” – Prende tempo, c’è qualcosa che non va – “Nessun indovinello né supposizioni, solo certezza. L’impianto elettrico c’è ma non funziona” “A! bene! Complimenti…” “Il ragazzo che ci sta accompagnando dice che l’ultima piena, dopo le grandi piogge, ha raggiunto il livello dell’impianto e le relative lampade; puoi immaginare le conseguenze” “E si può conoscere il talento naturale che ha progettato l’impianto! Oppure, è già stato scorticato!” “Vedi!… Girati!” – Mi giro, siamo ancora in fondo al buco appena disceso; c’è luce naturale. Un groviglio di fili, che sarebbero sufficienti ad illuminare il Colosseo e il Circo di Massenzio contemporaneamente, fuoriescono da un tubo di metallo, spezzato in più parti, all’altezza del mio ombelico. Le lampade, poste qua e là, dieci centimetri più in alto. “Chi ha fatto l’impianto, il capo villaggio?!” – non posso trattenere meraviglia, ilarità – “Quello è il livello che raggiunge il fiume nel periodo delle piogge?!” – indico un tronco incastrato nella volta della grotta almeno tre metri sopra di noi – “Uhm!!, ha sbagliato di poco il calcolo…” Nati non mi fa finire, comincia a ridere e a piegarsi stringendo la pancia tra le mani “Certo, c’è proprio da ridere. Intuisco che lo scenografo Cesarini da Senigallia – il progettista dell’illuminazione nelle grotte di Frasassi (Ancona) – al momento della gara d’appalto del lavoro a Sof Omar non fosse disponibile… Ma almeno si poteva chiamare un elettricista, non un pastore che di fili ha visto solo quelli intrecciati della cavezza del suo asino”. Non ci perdiamo d’animo, muniti di pile e cellulari accesi si va avanti.
“Pianto armonioso in lagrime sonore / piange un monte ricurvo in fredda grotta, / e distillando liquida armonia / fa dei macigni suoi, cetre canore”
E’ un dedalo. Dopo pochi metri, un circolo creato da piccole pietre a recingere dei bracieri di coccio, ci appare davanti. Le grotte sin dai tempi antichi hanno ospitato cerimonie e riti pagani (Sof Omar, lo sceicco da cui prendono il nome le grotte, negli anni della ‘discesa in campo’ di Maometto, pare proprio si sia rifugiato al loro interno). Un bello spettacolo: si procede tra i cunicoli che comunque e ovunque hanno sbocco verso il fiume; questo si sente scorrere piano; gioca coi sassi increspando l’acqua – Nel canal grande c’è ancora luce, proviene dall’imbocco del fiume e permette ai titani di granito di riflettersi nei gorghi.
Le volte dei soffitti sono alte, piatte, quasi artificiali tanto sono levigate. Non riesco a non far tacere la mia paura, atavica, del non saper nuotare. Guardare in alto, e vedere materiale inerte (soprattutto rami e tronchi) sopra la mia testa mi inquieta. Immaginare il fiume in piena che arriva ai soffitti, fa rabbrividire. Faccio un conto approssimativo di quanto tempo potrebbe impiegare a gonfiarsi il fiume se dovesse iniziare a piovere: ho bisogno di elementi: “Quanto tempo ancora per arrivare al limite del praticato?” “200 metri e poi torniamo indietro”. “Uhm!, – penso – non c’è da temere”. Ora è buio pesto, le torce che abbiamo illuminano appena i piedi e i fragorosi ciotoli sotto di essi; il rumore dell’acqua è scomparso sostituito dallo stridio ultrasonico dei pipistrelli. Nessuno osa alzare il tiro delle lampade, è sufficiente l’immaginazione. Siamo al limite del percorribile. Una sala – per fortuna sarà l’ultima – è attrezzata con dei pietroni squadrati a dovere; il centrale serve da altare, gli altri di lato a far sedere gli astanti che (immagino in penitenza) assistono le funzioni. Suggestivo, fuori dal mondo – dentro il mondo. La via del ritorno – come sempre – sembra più breve. Nel momento che ricompaiono i primi bagliori sull’acqua i respiri diminuiscono e la sudorazione cessa all’improvviso: non per niente siamo uomini e non pipistrelli. Un’ultima pausa prima della risalita, quasi a dimostrare che lì dentro potremmo starci tutto il tempo che vogliamo: “Finita la visita!” “Sì finita. Vogliamo fare un altro giro!” “Come no! Magari stavolta in barca…” Non finisco neanche la frase che già ho guadagnato il primo gradino; in un attimo siamo tutti fuori. Luce, beata luce. Sto al sole cocente, senza cappello… Pochi minuti e il mio equilibrio si ricompone: “Belle, belle ste grotte, uniche”. Che piacere ricordare una gita sull’Acheronte ed anche constatare che tutto è andato bene.
“Sul sole, nudo spirto, puro amante, / arderò, mentre il corpo mio gelato / discorrerà d’Amor con fango e terra”
Solite tre uova sode (Jack jr si è dimenticata i pomodori), mezza bottiglia d’acqua e poi a ricalcare il ritorno. – Prima di salire e partire, Nati ci fa presente che a poca distanza, verso nord (due ore in macchina), c’è una cittadina di grande interesse per i musulmani etiopici. Sheikh Hussein è il suo nome. Essa è centro di pellegrinaggio per tutti i musulmani del sud Etiopia. Nati sostiene che la moschea principale è tra le più attraenti di tutto il Paese; tombe, santuari e grotte, arricchiscono le bellezze storiche ed architettoniche. 500 anni fa, il sant’uomo Hussein fece proseliti tra le popolazioni del Bale e Arsi Oromo. Peccato non averla potuta visitare, avremmo dovuto avere a disposizione un altro giorno -.
Il sole picchia; stiamo muovendogli contro, direzione ovest; il sole è rovente; entra in macchina senza permesso. Il transito dei bus è aumentato, il mercato è ormai al termine e chi se lo può permettere torna a casa seduto, con i propri acquisti approssimativamente sistemati sopra i grandi portapacchi. Per alcuni si và di briglia; a cavallo, altri a dorso o dietro un mulo; i più a piedi. Le vesti colorate e lunghe, a coprire tutte le parti del corpo, contraddistinguono le donne musulmane. Sorrisi che tagliano come un rasoio, sguardi impietosi tra una polvere impietosa. Ragazze svecciano il grano con dei grandi crivelli; sono ai bordi della strada nei pressi dei mulini: si lavora per mangiare.
“Ma non c’è parasole in questa macchina?!” “Si che c’è! – ribatte Tafarra – Scusa Sandro, guarda lì dietro, vicino gli zaini” Sandro mi passa un pezzo di cartone tagliato a forma di trapezio – non senza sorridere -, con l’aggiunta di uno stecco di plastica per poterlo incastrare nei fori predisposti per l’originale “Cavolo! Ideona! E chi sarebbe stato l’inventore?” “Un tedesco. Un signore che ha viaggiato con questa macchina” “Uhm!! Immaginavo. Si sarà abbronzato, magari cotto, prima di arrivare a questa soluzione”. Il sole non entra più: questo è l’importante. Incontriamo diversi dromedari intenti a sfogliare i rami delle acacie. Uno di essi, adulto, trotterella al margine della strada, finché, non so se spaventato o cosa, scarta sulla sinistra e viene contro la macchina: un attimo di panico. Le lunghe gambe arrivano a due centimetri dal cofano; l’occhio a un centimetro dal vetro, quasi a curiosare sul mio parasole di cartone. Freno e sterzo, nessun contatto. L’abbiamo vista brutta. La bestia (un dromedario adulto pesa sui 600 chili. Immagino la macchina che danno avrebbe subito) ancor più spaventata se ne va al galoppo. ”Cavolo! per un pelo! Se l’avessimo investito quanto avremmo dovuto risarcire al proprietario?” “Circa 20.000 birr – 800 euro” “Pensavo di più. Ma l’animale lo avremmo portato via noi, o no!” “No, non è usanza, e visto che qui son tutti musulmani, se lo sarebbero mangiato stasera” – C’è da considerare che su ogni strada etiopica, ed in particolare sulle piste sterrate, l’attraversamento di animali è costante. Dromedari, vacche, asini, capre. Chi ha la sfortuna di investire un animale è obbligato (legge non scritta ma assolutamente da rispettare se si vuol evitare un colpo di machete in testa) a pagare il suo valore: capra 8000 birr, asino 12.000, vacca 15.000, dromedario 20.000; i prezzi sono variabili da zona a zona, dipende dall’ opportunismo delle etnie. A me non è mai capitato di vedere, ma c’è chi dice che alcuni contadini bisognosi di contante, spingano gli animali sotto i veicoli .
Torna la piana e le dolci valli accese dal colore della sera appaiono più quiete e riflessive. Fumo bianco si alza da alcuni appezzamenti di terreno: incendi controllati; contadini, che assistono l’evento, hanno dato fuoco alle stoppie per concimare: ci si prepara all’aratura.
Se i tucul somigliano a mulini a vento monchi di pale, nei declivi gialli e arsi, un mulo carico di paglia si atteggia, nel suo movimento del ventre destra e manca, al ciuco di Sancio Panza. I due uomini che lo accompagnano sembrano proprio ricalcare la scena del ritrovamento del ciuco da parte di Sancio dopo il furto perpetrato da Ginesino…
“Ladro d’ un Ginesino, lascia il mio bene, rendimi la mia vita, posa il mio tesoro, lascia il mio ciuco, lascia la mia fortuna… Come sei stato, ben mio, ciuco degli occhi miei e compagno mio?” e così dicendo lo baciava e lo accarezzava come se fosse stato una persona.
Ecco, questa era la Mancia del ‘500, non diversa dalla piana del Bale nel 2014.
Gli ultimi calessi prima del tramonto (nulla si perpetua dopo il tramonto) spingono sull’acceleratore, senza usare la frusta. Saluti cordiali a noi che respiriamo gli ultimi lampi scagliati da dietro le nuvole.
Si rientra. La cena infima e indigesta conduce ad un collo di vetro: Vodka di qualità. Jack jr, con in mano un machete che rifletteva la luna, è stata vista tra garofani rose e mimose blu; sta aspettando la sua vittima. La sera è fredda; quel grande o piccolo freddo che si sente quando, alla fine di un viaggio, la contemporaneità che ha unito fraternamente alcune persone lentamente si dipana. L’amicizia si è consolidata, ma quelle immagini e l’atmosfera da esse create non si ripeteranno. Si scioglie un momento, un momento irripetibile – come il contorno di un fiocco di nebbia – i cui riflessi, ridenti al sole, ignorano la paura ma conoscono la malinconia.
“Un color gaio e azzurro in cielo regna, / sgombro di nubi e immagini brumali, / e se Pallade a suoni più marziali, invita Flora al sonno spettinata.”
Ricordo quel giorno che Moenco mi disse: “Il suono di una parola svanisce nel momento in cui se ne pronuncia un’altra. Nel momento in vece, che la parola esprime musicalità – suono e melodia – questo non accade; il cervello ricorda non il significato del termine ma la vibrazione del suono; lo collega a una successiva vibrazione e lo trascina dentro un pentagramma: l’eccellenza dell’armonia”. Poesia e musica: ”Piacere mio, nell’avervi presentato lo spirito libero del popolo e della terra dell’Oromia”.
I versi sparsi in corsivo non battezzati, sono di Francisco de Quevedo
Le foto, in ordine sciolto, sono di: Fausto, Marcella, Lucilla, Patrizia, Sandro
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