di Cristina Chiappinelli –
Faceva freddo e tirava vento; mi strinsi nel mio cappotto e mi riavvolsi la sciarpa. Stavo tornando dal circolo Arci dove avevo preso parte allo spettacolo teatrale “Risveglio di primavera” di Wedekind, in cui io avevo recitato due ruoli: il bidello “Vengosubito” (personaggio comico che aveva riscosso molto successo) e “Robert” amico del protagonista; entrambi i ruoli erano maschili, ma io mi trovavo a mio agio e poi mi è sempre piaciuta la parte del maschiaccio come la Jo March di “Piccole donne” di Louisa May Alcott. Ero stanca morta, avevo fatto due spettacoli di fila senza neppure una pausa, però mi ero divertita tantissimo; il teatro è sempre stata una mia grande passione come del resto il cinema.
Ero contenta e la testa risuonava ancora dei fragorosi applausi e dei “bis” del pubblico: sembrava di essere una celebrità e alcune persone mi avevano perfino stretto la mano e fatto i complimenti!
Ben presto, però la felicità e l’euforia svanirono e al loro posto si insinuarono a poco a poco la tensione (che si è sempre manifestata in me sotto forma di mal di stomaco)e la preoccupazione: infatti il giorno dopo sarei partita per l’Etiopia per andare a prendere il mio futuro fratellino adottivo.
Per 18 anni siamo sempre state solo io e la mia sorella gemella Olga e l’arrivo di un fratello era un qualcosa di assolutamente nuovo, meraviglioso, ma nuovo e non sapevamo con certezza a cosa stavamo andando incontro, sicuramente avrebbe rivoluzionato la vita di tutti noi.
Erano passati più di tre anni da quando avevo saputo che la nostra famiglia si sarebbe allargata: un giorno ero entrata in cucina a fare merenda e la mamma stava vicino alla credenza a tagliare il pane; le detti un bacino e lei di punto in bianco disse :-Presto avrai un fratellino-:.
Il piatto con l’arancia mi stava per cadere di mano e avevo assunto un aspetto terreo, poi ripresami un poco balbettai, leggermente imbarazzata
:- Da…davvero …ma come…( non credevo potesse avere ancora figli).
Lei, leggendomi nel pensiero, mi spiegò che avremmo adottato un bambino etiope. Ero veramente sorpresa, non mi sarei mai aspettata che mamma e babbo volessero un altro figlio, voglio dire due gemelle sono già un gran peso!
Da quel giorno aspettammo quasi quattro anni, e dopo diversi incontri con vari psicologi e con il tribunale minorile, finalmente arrivò la notizia che gli assistenti sociali a cui ci eravamo rivolti avevano trovato un bambino adatto a noi: Yohanes di 7 anni.
Poco tempo dopo arrivarono alcune foto accompagnate da una lettera e da dei disegni firmati da lui. Dalle foto appariva un bellissimo bambino, sorridente e con due grandi occhioni birichini e sembrava piuttosto alto; i disegni erano notevoli per un bambino di sette anni e pareva proprio che avrei avuto un artista rivale (modestia a parte me la cavo piuttosto bene nel disegno).
Dopo un paio di mesi arrivò finalmente il fatidico 20 Febbraio 2005, il giorno della partenza. Da parte mia devo dire che ero veramente indecisa se partire oppure no, avevo la scuola, l’esame di maturità e non potevo perdere tante lezioni; poi capii che se non fossi partita, me ne sarei pentita per tutta la vita: i miei professori, le mie amiche e soprattutto i miei genitori mi convinsero dicendo che un occasione del genere non avrei dovuto farmela scappare per niente al mondo!
L’Etiopia! Era così lontana, così diversa, e evocava un non so che di esotico, un posto dove solo i leoni possono vagare indisturbati. Poi man mano che i giorni passavano, sogni popolati da alte figure nere vestite con colori sgargianti, e da animali strani che non avevo mai visto prima, si facevano sempre più frequenti e la voglia di partire si era fatta insostenibile.
Partenza…
Il 20 febbraio i miei genitori ed io (mia sorella doveva andare in gita scolastica in Portogallo; non sa che cosa si è persa!) partimmo per Roma per prendere all’aeroporto di Fiumicino l’aereo per Addis Abeba.
A Roma ebbi l’opportunità di vedere le mie cugine che non vedevo da molto tempo , con le quali mi divertii un mondo.
All’aeroporto ci accompagnarono mio zio Franco e le mie due zie Gianna e Nicoletta. Li salutammo un po’ commossi sapendo che quando ci sarebbero venuti a riprendere sarebbe stato diverso.
Babbo mi fece prendere un carrello sul quale scaricammo tutte le pesanti valigie e poi entrammo: il terminal era enorme, sembrava una piccola città, con scale mobili ovunque, negozi vari, bar ben forniti ecc.
L’aeroporto a quell’ora era semivuoto: il nostro volo era all’1:45 e ancora mi domando come ho fatto a non addormentarmi in piedi come i cavalli.
Dopo un piccolo snack andammo al check –in, dove in fila c’erano delle donne, probabilmente etiopi, splendidamente vestite con lunge vesti bianche con le cuciture e i risvolti azzurri, che chiacchieravano animatamente tra loro in amarico: mi piacevano molto il suono di quella lingua e gli ampi sorrisi che mettevano in mostra la loro candida dentatura.
Dopo che le nostre valigie furono spedite nell’aereo, andammo al posto d’imbarco e qui incontrammo i baresi, ovvero l’altra coppia che sarebbe venuta con noi in Etiopia per adottare anch’essa un bambino, Abraham, di poco più di un anno: Filippo, camionista perennemente abbronzato e Paola, insegnante di scuola elementare.
Erano una “strana coppia”: lui tarchiato e ben piantato con la faccia da bravo ragazzo, lei imponente e dallo sguardo truce. Era la prima volta che si trovavano ad avere un figlio: poveretti, ne avrebbero passate delle belle! Ancora oggi li ammiro per la loro tenacia e per il loro coraggio di buttarsi in una esperienza completamente nuova che gli avrebbe dato la gioia e la felicità che solo un figlio può dare.
Aspettammo diverso tempo al posto d’imbarco e io stavo seriamente per addormentarmi; la sala si stava riempiendo a poco a poco ; la maggior parte delle persone aveva la carnagione scura. Accanto a me invece era seduta una ragazza con
pelle e occhi chiari che aveva tutta l’aria di essere nordica o americana ; aveva un foulard troppo grande e che si era avvolta a più giri intorno alla testa così da sembrare un turbante: era la copia spiccicata di Alison Lohman, l’attrice che interpreta la figlia di Nicolas Cage in “Il genio della truffa”. Chissà (facevo congetture assurde per non addormentarmi) magari era proprio lei in persona che, stanca della vita da star, aveva deciso di nascondersi in uno sperduto villaggio africano e starsene in pace per il resto dei suoi giorni !
Finalmente fu annunciato il nostro volo, con un po’ di ritardo ed erano le due passate quando entrammo nell’aereo. Trovammo i nostri posti e, sistemati i bagagli a mano, ci accasciammo sui sedili e quello che poi successe non lo so perché Morfeo mi aveva già da tempo invitato a cadere nelle sue calde e confortanti braccia.
Una cosa è sicura: non credo di aver mai dormito peggio di quella notte; quando mi svegliai all’alba del giorno dopo, avevo il collo completamente addormentato e non riuscivo a muoverlo e la schiena era veramente a pezzi, come se avessi dormito su un letto di sassi. All’improvviso, mentre mi lamentavo per il dolore, vidi uno spettacolo stupendo!Il sole infuocato appena sorto, illuminava il deserto tingendolo con sfumature di colore che andavano dal violetto al rosa misti all’ocra con qualche pennellata di pervinca, turchese e cremisi; era veramente incredibile, sembrava l’inizio de “Il Re leone”, quando tutti gli animali salutano il nuovo giorno.
Sul sedile anteriore c’era un bambino che guardava stupito anche lui quello spettacolo di colori, mentre i genitori e il fratellino dormivano ancora.
Non molto tempo dopo, cominciammo a planare ed ecco che all’improvviso il deserto si interruppe e cedette il posto alla città che ora capisco perché si chiama Addis Abeba che in amarico vuol dire “ Fiore del deserto”!
Si cominciarono a vedere le baracche e i palazzi che si reggevano per miracolo, le macchine che sfrecciavano per le strade vecchie e piene di buche, i radi hotel di lusso e i giganteschi mercati coloratissimi e affollatissimi famosi in tutto il mondo.
Era così strana la vista di quel paesaggio così arido e povero: di solito dall’aereo vedevo grandi campi verdi coltivati con i trattori che facevano la spola da un lato e l’altro, oppure campi da calcio e stadi enormi, strade fiancheggiate da alberi e grattacieli a non finire. Capii che quel posto dove stavo per atterrare sarebbe stato molto diverso da quello in cui ero abituata a vivere.
Finalmente l’aereo, dopo una discesa piuttosto turbolenta, atterrò bruscamente e poco dopo si fermò.
…e arrivo
Scendemmo sgranchendoci braccia e gambe indolenzite per il lungo viaggio.
Una navetta ci portò al terminal che era un edificio enorme sormontato da delle piramidi di vetro.
Prima del ritiro dei bagagli andammo a farci controllare i documenti e ad informarci. Siccome la coppia barese non parlava l’inglese ci occupammo noi del controllo dei loro documenti. Dopo il ritiro dei bagagli, babbo andò al cambio e io gli detti tutti i soldi che mi ero portata. Tornò con un grosso fascio di piccole banconote e una serie di strane monete: il “birr” è la moneta etiope e babbo per fare lo spiritoso disse :-
Hai visto quante “birre” abbiamo? Siamo ricchi sfondati!-:
In realtà il birr vale molto poco: occorrono dieci birr per raggiungere il valore di un euro.
All’uscita alcuni inservienti in divisa ci dissero di svuotare le borse per il controllo: manco fossimo stati dei fan assatanati di Bin Laden!
Per fortuna andò tutto liscio ed ecco che due donne, una di mezza età e una molto più giovane ci vennero incontro: erano Azeb e Zion, le assistenti sociali che lavoravano con gli orfanotrofi dove stavano Yohanes e Abraham ( e che erano state in contatto con gli assistenti sociali italiani).
Azeb, era un’affascinante signora matura, molto ben vestita e curata con la pelle luminosa e lucida come quella di una ventenne; Zion avrà avuto al massimo venticinque anni: era minuta e sembrava una ragazzina; era vestita all’ultima moda con un elegante completino molto aderente e tacchi alti e portava occhiali da sole colorati che mandavano riflessi ovunque. Erano gentili e simpatiche e ci avrebbero fatto da guida per tutto il tempo.
Uscimmo al sole: faceva molto caldo e la stagione delle piogge era ancora lontana; in Italia faceva freddissimo e mi ci volle un po’ per abituarmi ad un cambiamento di clima così improvviso.
Il parcheggio dell’aeroporto era grande però non c’erano molte macchine; le nostre guide ci portarono fino ad un pulmino bianco il cui autista si chiamava Tafez , un colosso dal faccione rotondo con i baffetti alla Clark Gable e occhi sprizzanti allegria e gioia. Mi strinse la mano quasi stritolandomela e ci disse che sarebbe stato il nostro autista per i dieci giorni che dovevamo stare lì.
Mentre lui sistemava i bagagli vidi con terrore un essere vivente che strisciava per terra: era uno storpio che si muoveva solo con le braccia e sulla sua faccia vi lessi tutto il dolore e la sofferenza che lo tormentavano. Ebbi paura: sapevo che l’Etiopia era uno dei paesi più poveri di tutto il mondo ma le terribili immagini della miseria e della povertà le avevo viste solo nei documentari e vederle dal vivo mi faceva stare male.
L’albergo era molto distante dall’aeroporto ed essendo la città enorme e le strade trafficate, ci impiegammo più di mezz’ora.
Guardammo senza parole tutto quello che scorreva davanti ai nostri occhi: uomini e donne dai vestiti laceri che si facevano ombra con la mano o nel migliore dei casi con ombrelli rotti e rattoppati, bambini scalzi in divisa scolastica che tornavano da scuola tenendosi per mano o abbracciati, altri storpi, ciechi e capannelli di gente vicino alle macchine che chiedevano l’elemosina; baracche con tetti di lamiera, palazzi in costruzione con le impalcature di legno e tantissime altre cose che sarebbe troppo lungo elencare.
Due cose mi colpirono di più: la prima è che la maggior parte dei veicoli era costituita da taxi bianchi e blu, molto vecchi e scassati, tutti modello Fiat e da pulmini esattamente identici al nostro e dello stesso colore; la seconda è che i tantissimi bambini che vedevamo uscire dalle scuole, avevano una divisa di un colore diverso per ogni istituto e siccome arrivai a contare più di dieci colori solo nella parte di città che attraversammo noi, dedussi che ci dovevano essere tantissime scuole in tutta la città e che quindi l’istruzione era molto importante benché la situazione sociale fosse in gravissime condizioni.
L’albergo si chiamava “Ghion Hotel” ed era uno dei migliori della città: in effetti quando arrivammo, aveva l’aria di essere un posto quasi di lusso, con un parco enorme e meraviglioso dove molti giardinieri lavoravano senza sosta: c’era chi innaffiava, chi potava, chi toglieva le erbacce e chi puliva le fontane; vedemmo di sfuggita anche la piscina e un paio di ristoranti. Un anziano signore in livrea ci accolse gentilmente e ci aiutò a scaricare i bagagli; entrammo nel nostro “appartamento” che era costituito da due stanze, il bagno e il cucinotto; dentro non era bello come fuori: non era molto pulito, per terra c’era qualcosa di appiccicaticcio che quando camminavi produceva uno sgradevole rumore, i letti sembravano delle brande, i divani della stanza principale avevano la tappezzeria in condizioni pietose, e per finire mancava il letto per il bambino che portarono solo dopo ripetute e insistenti richieste. I baresi erano nell’ “appartamento” accanto al nostro e anche a loro mancava la culla per il piccolo.
Facemmo giusto in tempo a posare i bagagli e a metterci qualcosa di più leggero visto che come minimo fuori c’erano trenta gradi: dovevamo correre all’orfanotrofio a prendere Yohanes!
L’incontro più bello
Nel pulmino, durante il tragitto nessuno parlò: eravamo tutti troppo tesi, comprese le assistenti sociali e Tafez, l’autista. Io assaporai la mia ultima mezzora di solitudine (senza offesa per il piccolo Yo) e feci posto al mio animo per accogliere una nuova presenza. Ancora non riuscivo a crederci! Non solo ero una sorella gemella, ma stavo per diventare anche una sorella maggiore !Saremmo stati in tre: io, mia sorella e questo piccolo ragnetto troppo abbronzato che stavamo andando a prendere.
Pensai a mia sorella che in quel momento stava per partire per il Portogallo: chissà che cosa stava provando in quel momento, forse era tesa pure lei, anche se era a migliaia di chilometri di distanza. Io ero spaventata ma allo stesso tempo felice: un grande evento stava per accadere e il mio povero stomaco dolorante me lo faceva ben comprendere.
L’orfanotrofio era nella parte più alta della città, dove ormai non c’era più la strada asfaltata, ma solo un viottolo sconnesso e pieno di buche che durante la stagione delle piogge sarebbe diventato un torrente limaccioso.
Il pulmino arrancando con fatica finalmente giunse ad un cancello, preceduto da un cartello con scritto sia in amarico che in inglese “Orfanotrofio” il cui nome era
“Kidane Mereth”.
Attraversammo il cancello, scendemmo dal pulmino e tremanti salimmo dei gradini che costeggiavano un orticello dove un vitellino e una capretta brucavano indisturbati. Giungemmo al portone dell’edificio che dava su uno spiazzo dove c’era una piccola giostra arrugginita e malandata e degli stendi panni stracolmi di vestiti che stavano lì ad asciugare; più in la una ragazza con un panno avvolto sulla testa stendeva altri vestiti guardandoci di sbieco.
Ad un certo punto una bimbetta di al massimo due anni trotterellò verso di noi sorridendo, ma una suora che in quel momento usciva dal portone la richiamò indietro; questa era una donna tarchiata, dal viso pieno e dietro le lenti degli occhiali si scorgeva uno sguardo severo, deciso e determinato: si chiamava Suor Luthgard, era originaria di Malta (come tutte le altre suore del posto) ed era la fondatrice di quell’istituto. Non mi ricordo il nome della loro associazione, ma aveva a che fare con “Sacro Cuore” . Parlava benissimo l’italiano e ci condusse in una saletta carina, adibita agli incontri delle famiglie adottive, le cui pareti erano tappezzate di fotografie scattate durante il primo incontro tra genitori e figli adottivi. Alla destra del divano dove ci sedemmo c’era un grosso orsacchiotto di peluche che teneva tra le zampe un orso più piccolo: era così carino!
La tensione era ormai al massimo: i miei genitori ed io eravamo pallidi come cenci e tremavamo, il mio stomaco era contratto e mi mancava l’aria.
Ad un certo punto una piccola ombra si stagliò sulla porta e un istante dopo entrò un piccoletto che corse verso di noi a testa bassa: era così piccolo che mamma si dovette inginocchiare per abbracciarlo, babbo lo strinse a sé mentre le lacrime gli rotolavano giù per le guance: non lo avevo mai visto piangere a quel modo, era così ….così bello e commovente!. Poi le manine rugose del bimbo mi si allacciarono al collo e prima di capire quello che stava succedendo, scoppiai a piangere come una fontana, non riuscendo proprio a trattenermi. Le assistenti sociali e suor Luthgard sospirarono e sorrisero fra di loro.
Ero come impietrita seduta sul divano e quelle manine erano ancora allacciate al mio collo; mamma e babbo mi guardarono e io guardai loro, troppo emozionata per parlare……non c’era bisogno di parole per descrivere quel momento.
Yohanes era così piccolo, mentre dalla foto sembrava molto più alto; così magro che i jeans rattoppati che indossava, se non avessero avuto l’elastico, gli sarebbero scivolati via, e così timido, che teneva sempre la testa bassa e gli occhi rivolti a terra, qualche volta alzava lo sguardo per scorgere i nostri volti commossi.
Ci fecero una foto che io sapevo sarebbe finita attaccata insieme alle altre sulle pareti.
Ad un certo punto Azeb disse qualcosa in amarico a Yohanes e lui annuendo timidamente uscì: andava a prendere le sue poche cose da portare via.
Nel frattempo si sentì un vocio e un rumore di passi… tanti passi: mi affacciai alla porta e vidi una ridda di bimbetti sui quattro o cinque anni che correvano verso la mia direzione, gli sorrisi e dopo aver preso un pacco di caramelle che avevamo portato con noi, cominciai a distribuirle a tutti mentre cento manine erano tese verso di me.
Qualche birichino ne aveva prese già due o tre mentre qualcun altro non riuscendo ad infilarsi tra gli altri e raggiungere la mia mano, non ne aveva presa nessuna. Era così bello avere tanti bimbi attorno ed essere frastornata dalle loro vocine acute e incessanti. All’improvviso Suor Luthgard uscì dalla porta e con un gesto brusco mi levò di mano il sacchetto delle caramelle, poi mi indicò la ragazza che prima stendeva i panni, e che ora stava mettendo in fila i ragazzini per fargli lavare le mani vicino ad una bacinella d’acqua : avevo capito, era l’ora del pranzo e i bimbi non si dovevano ingozzare di caramelle. I piccoli mi salutarono e raggiunsero i loro coetanei.
Rientrai dentro la sala e mi risedetti sul divano; poco dopo Yohanes tornò portando
una busta marrone tutta ciancicata con dentro le sue cose: si sedette pure lui e cominciò a tirare fuori i regali che gli avevamo mandato pochi mesi prima : dei colori, un blocco da disegno ( sulla prima pagina avevo fatto un suo ritratto) dei giocattolini e un bellissimo album di fotografie che aveva richiesto tempo e fatica.
Noi sorridemmo alla vista dei regali e la mamma prendendo il sacchetto di caramelle ne offrì qualcuna a Yohanes, che ne mise alcune in tasca e altre nella sua busta marrone; poi ne scartò una e se la ficcò in bocca..
Intanto Suor Luthgard ci disse che Yohanes era il più bravo della sua classe e che la sua pagella era piena di voti alti, poi per darcene la prova (non che ce ne fosse bisogno, ci fidavamo lo stesso) disse qualcosa in amarico a Yohanes il quale cominciò a contare, con l’aiuto delle dita, i numeri da uno a dieci sia in italiano che inglese: senza nemmeno un errore! Impressionante.
Stemmo lì un altro po’ a chiacchierare con le suore, poi Azeb fece cenno che era ora di andare via: dovevamo andare a prendere Abraham e i baresi erano così impazienti!
Dunque risalimmo sul pulmino e Tafez dette un buffetto sulla guancia a Yohanes e poi gli disse non so cosa, che lo fece sorridere.
Durante il tragitto, Yohanes tenne lo sguardo sempre rivolto verso il basso e solo di rado alzava la testa per guardare fuori; quando gli detti una caramella speciale a forma di orso, che mi ero portata, finalmente mi guardò e mi sorrise, ma non disse niente, ma avevo preso quel sorriso per un grazie. Poi tornò a giocare con un orsacchiotto di peluche che mamma gli aveva regalato all’incontro.
Il piccolo Abraham
La strada per arrivare all’orfanotrofio di Abraham era ancora peggiore dell’altra: bisognava reggersi per non sbattere la testa contro il soffitto o sui finestrini; era piena di buche enormi e le galline che ogni tanto attraversavano la strada non erano certo d’aiuto. All’arrivo avevo lo stomaco decisamente sottosopra..
L’orfanotrofio si chiamava Almaz ed ad aprire il cancello venne un ragazzo alto vestito di bianco; l’edificio era in condizioni penose, quello dove stava Yohanes era molto più decente.
Azeb e Zion ci fecero entrare in una saletta dove c’era una scrivania stracolma di carte con un vecchio computer ancora in funzione; anche qui le pareti erano tappezzate di fotografie che raffiguravano per lo più bambini molto piccoli: ho pensato che fosse un brefotrofio, ovvero un orfanotrofio per neonati o poco più. Filippo e Paola si sedettero su un piccolo divano, troppo tesi per parlare.
Poco dopo entrò un signore barbuto dall’aspetto molto distinto, molto gentile e dai modi affabili che doveva essere il fondatore di Almaz o qualcosa del genere.
Dovemmo aspettare parecchio tempo e io e il mio nuovo fratellino ne approfittammo per fare una merendina con le fette biscottate, ma Yohanes aveva talmente tanta fame che andò alla mensa del posto e tornò dopo un po’.
Al suo ritorno Abraham non era ancora arrivato, così uscii a fare due passi nel cortile davanti all’ingresso ed ecco che mentre stavo finendo l’ennesima fetta biscottata, vidi in lontananza una ragazza con un fagottino tra le braccia, che stava venendo giusto nella mia direzione; feci un urletto di gioia e avvisai gli altri dell’arrivo. Filippo e Paola balzarono in piedi raggianti in viso.
Poco dopo la ragazza entrò nella sala con il piccolo Abraham in braccio, un bimbetto dal faccino tondo con la nuca piatta e con gli occhi tristi. Paola, emozionatissima, disse:
:-Vieni qui piccolino di mamma!-:
e prese in braccio Abraham che con le sue manine si strinse forte a lei.
Era davvero commovente e Yohanes dalla sua sedia ridacchiò. Filippo aveva tirato
fuori dalla sua borsa un giocattolone a forma di bruco e Abraham in un primo momento ne fu attratto, poi riappoggiò stancamente il suo testone sulla spalla della madre.
Devo dire che era un gran pigroncello, se non stava in braccio a qualcuno e se non appoggiava la testa sulla spalla di qualcuno, cominciava a fare le bizze.
Ecco perché trovò nel pancione di Tafez, il posto ideale per schiacciare i suoi numerosi pisolini!
Rimanemmo lì ancora per un po’ poi Filippo e Paola andarono a vedere la camerata dove stavano i bambini e ne tornarono stravolti: ci dissero che c’era sporcizia ovunque e che la maggior parte dei bimbi avevano un’aria malaticcia e che le donne che li accudivano non se ne curavano più di tanto.
Poco dopo andammo via e Azeb raccontò la vicenda di Abraham: era stato abbandonato davanti al cancello dell’orfanotrofio quando aveva venti giorni e grazie ad una cordicella blu che aveva al polso, erano riusciti a rintracciare la madre; quel braccialetto era il segno di una sorta di setta religiosa se non mi ricordo male, ma non dico altro perché non ne sono tanto sicura.
Tornati al “Ghion Hotel” , diverso tempo dopo, salutammo le assistenti sociali, chiedemmo a Tafez di tornare dopo un po’ , sistemammo i bagagli e andammo a pranzare all’ “Unity” uno dei ristoranti dell’albergo con i tavolini fuori e gli ombrelloni della “Pepsi”.
Io, Paola e Filippo prendemmo un omelette al prosciutto, Yohanes un piattone di rigatoni al ragù e mamma e babbo se non sbaglio carne e insalata (mi ricordo bene il menù perché di quel giorno mi ricordo quasi tutto nei minimi particolari, essendo stato uno dei più importanti giorni della mia vita).
Poi andammo a fare shopping per Yohanes; le strade e i negozi erano così affollati da essere quasi impraticabili: fortuna che c’era Tafez con noi, era la nostra guardia del corpo! Qualcuno ci fissava: i bianchi erano molto rari da quelle parti; certo l’Etiopia non è come le Hawai: per lo più i pochi bianchi che abbiamo visto erano lì per affari o roba del genere. Entrammo in vari negozi, la maggior parte dei quali erano piccolissimi e pieni di roba fino al soffitto: uno in particolare era talmente minuscolo che noi quattro occupavamo tutto lo spazio e la commessa si trovava in difficoltà a prelevare le cose dai vari scaffali. Non mi trovavo molto a mio agio, soffrivo quasi di claustrofobia e mi dava fastidio l’aria calda e immobile.
Yohanes fu vestito a nuovo da capo a piedi e tutte quelle mani che gli stavano addosso, levavano e mettevano i vestiti, dovettero turbarlo non poco, perché all’uscita aveva un’aria decisamente stravolta. Ogni volta che ci fermavamo frotte di bambini sporchi e laceri, venivano a chiederci l’elemosina e a me facevano talmente tanta pena, che ci stetti male per giorni. Finalmente terminammo lo shopping e risalimmo sul pulmino; dopo un po’ che viaggiavamo, Yohanes improvvisamente, si agitò, si sporse dal finestrino con veemenza e vomitò : la tensione, il pranzo e il fatto che non era abituato a viaggiare avevano sortito il loro effetto. In realtà anche io stavo male e quel giorno fu particolarmente stancante.
Tornammo all’ hotel distrutti e ci sedemmo pesantemente sul divano; finalmente noi e Yohanes eravamo soli ed ecco che in quel momento una ridda di domande assalì tutti noi: e adesso? Il bambino c’è, ma che facciamo? Che succederà? Come è bene cominciare? Yohanes dal canto suo guardava a terra, timidissimo.
La mamma si alzò e prese dalla borsa da viaggio una scatola nuova di Lego, e dopo un quarto d’ora che stavamo lì a cercare di costruire un carro dei pompieri, era come se ci conoscessimo da una vita: ci divertimmo un sacco ed era bello vedere l’espressione concentrata di Yohanes sui mattoncini colorati.
A cena andammo in un altro ristorante, quello dove avrebbero servito la colazione e durante il tragitto tenni per mano mio fratello: mi sentivo così orgogliosa che non riuscivo proprio a non sorridere!
Quando tornammo nel nostro appartamento, avevano portato il letto per Yohanes, così lui si infilò in fretta il pigiama e si ficcò nel letto tirandosi le coperte fin sopra la testa: così rannicchiato sembrava un cucciolo spaesato e smarrito che aveva tanta paura; beh anche noi avevamo paura ma eravamo sicuri che con il passare del tempo, tutto sarebbe andato per il meglio.
Coccodrilli sotto spirito, leoni affamati e nostalgia di casa
Il giorno dopo, il 22 di febbraio, mi resi conto che non era stato un sogno, ma che avevo veramente un fratellino e che ero davvero in Etiopia a non so quanti chilometri di distanza dalla mia piccola e adorata Siena, la città più bella del mondo!
A colazione rimasi a bocca aperta: nella sala dove i camerieri facevano su e giù portando vassoi e caraffe di latte e caffè, c’erano diverse coppie con bambini adottati, ne contai almeno sei, solo in quella sala! Incredibile. Una delle coppie era spagnola, aveva l’appartamento vicino al nostro e aveva una bimba all’incirca dell’età di Abraham; un’altra era americana e aveva due bambini, fratelli credo perché si somigliavano molto e c’erano anche dei francesi. Gli altri non so, ma avevano tutti bimbi e bimbe bellissimi!
Tafez ci portò al Museo delle Scienze Naturali e dopo allo zoo dei leoni.
Vicino all’albergo c’era la piazza più grande della città e vi erano ancora le decorazioni per il mega concerto in onore di Bob Marley. Era stupefacente! Sembrava un anfiteatro moderno e dietro agli spalti c’erano grossi manifesti e bandiere con i colori dell’Etiopia: giallo, verde e rosso.
Durante il tragitto, ogni volta che ci fermavamo c’erano bambini e storpi a chiedere l’elemosina e io non ero ancora riuscita ad ignorarli, non potevo far altro che fissarli e trattenere a forza le lacrime. Tafez, invece, il più delle volte chiacchierava amabilmente con loro. Ogni volta che si allontanavano lasciavano una scia di quell’odore inconfondibile di sporco, sudore, polvere, lacrime e dolore.
Arrivati al Museo, il mio mal di stomaco non era ancora passato e la vista di coccodrilli sottospirito e di teschi di gnu e animali vari, certo non aveva contribuito, e alla fine babbo mi accompagnò fuori a prendere un po’ d’aria. Mi sedetti contro il muro, accanto al portone d’ingresso e Tafez mi tenne gentilmente compagnia, facendo smorfie e facce buffe per sdrammatizzare.
Babbo intanto era stato “abbordato” da una vecchietta inglese con tanto di cappellino a fiori e scarponi da montagna, con la quale chiacchierò per un bel pezzo: lei faceva parte di una spedizione di escursionisti che avrebbero esplorato l’interno della regione; ci invitò ad andare con lei, ma babbo non era sicuro che sarebbe stata una buona idea così declinò l’invito.
Quando gli altri uscirono dal museo, stavo leggermente meglio, ma la strizza allo stomaco era ancora molto forte. Risalimmo sul pulmino e andammo in direzione dello zoo dei leoni. Io non avevo mai visto uno zoo con una sola specie di animali: voglio dire, in uno zoo che si rispetti ci sono tante varietà di animali: dalle scimmie ai coccodrilli, e dagli orsi ai pesci tropicali!
I leoni di quello zoo, facevano paura solo a vederli: sembrava che non mangiassero da giorni ed erano così magri che gli sporgevano le costole; facevano avanti e indietro per le gabbie furiosi, ringhiando e mostrando le zanne. Non mi trovavo tanto a mio agio e poi la gente ci guardava, mi sentivo un’estranea, come una Biancaneve tra i neri; certo è come se un nero venisse da noi. Yohanes si sarebbe abituato con il tempo al colore diverso degli altri, ma noi dovevamo stare lì per poco più di una settimana e mi dava fastidio che la gente mi guardasse così!
Poco dopo tornammo in albergo e andammo a pranzo. Prendemmo dei tramezzini con ripieni diversi che forse non avrei dovuto prendere perché il mio stomaco stette peggio di prima.
Dopo aver riposato un po’ andammo alla piscina e non potendo fare il bagno per via del mal di pancia, mi portai il libro d’esercitazione per l’esame del P.E.T. che avrei dovuto sostenere il mese successivo.Gli altri invece andarono a farsi il bagno, contenti di riposarsi dal caldo e dalla stanchezza giornaliera.
Tornati a casa, stavo ancora male e una forte nostalgia di casa peggiorò la situazione: mi rannicchiai sul letto e cominciai a singhiozzare in silenzio; il caldo, l’orfanotrofio, i poveri e gli storpi che chiedevano in continuazione l’elemosina e la sensazione di essere fuori posto, mi fecero entrare in crisi ed ecco che scoppiai veramente a piangere. Mamma venne da me e si accoccolò ai piedi del letto e accarezzandomi mi chiese che succedeva: io tra i singhiozzi balbettai
:- Sono così poveri qui! E io non ce la faccio…non ce la faccio a vedere la miseria e la povertà!Un conto è guardare i documentari, un conto è…è essere assillati sempre da bambini sporchi e laceri con le mani tese ad elemosinare!
L ’hai visto quel bambino prima, che portava sulle spalle il suo fratellino…e come mi guardavano! Con quegli occhi pieni di lacrime e di dolore! Non ce la faccio, non dovevo venire, voglio tornare a casa!-:
Ero arrabbiata e frustrata; la mamma cercò di tranquillizzarmi, poi cominciò a piangere pure lei. Ci abbracciammo e continuammo a piangere per diversi minuti
Babbo era nel salotto e stava insegnando a leggere a Yohanes e sentire quella vocina che spesso si inceppava e che non riusciva ad andare oltre mi fece tenerezza e mi tranquillizzò un po’.
Andammo a cena con i baresi, che mi permisero di portare Abraham in braccio: era così piccolo e paffuto, una patatina bruciata dal sole!
Andammo a mangiare una pizza in un buio ristorante francese; una pizza più cattiva di quella non credo di averla mai mangiata! Era gommosa dentro e bruciata fuori, uno schifo!Invece Abraham parve apprezzarla molto: era un spettacolo vedere un bimbetto di un anno chinare la mano, afferrare un pezzetto di pizza e ficcarselo in bocca, masticarlo sbavando dappertutto e sorridere compiaciuto!
Tornati all’albergo guardammo il telegiornale (c’era un canale italiano) e poi andammo a dormire. Ero così stanca e scossa che mi addormentai subito.
Ma il mio sonno venne interrotto verso le due di notte, quando sentii un fastidioso prurito proprio sopra l’occhio sinistro; feci per grattarmi, ma le mie dita trovarono una specie di grossa protuberanza. Spaventata corsi in bagno, mi guardai allo specchio e per poco non urlai: il mio occhio era completamente coperto da quello che sembrava un enorme bozzo, tutto liscio e lucido, di un orribile colore bluastro ;anche sotto, l’occhio si era gonfiato ed era di un bel viola acceso. Stavo per scoppiare a piangere vedendo il mio occhio ridotto in quello stato!Sembravo il gobbo di Notre Dame!Credo che sia stata una zanzara a pungermi, ma doveva avere un famelico appetito per avermi gonfiato l’occhio in quel modo! Avrà invitato le sue amiche e si sarà fatta un banchetto degno degli dei (delle zanzare), sghignazzando come una vecchia megera. I miei genitori probabilmente mi avevano sentito perché ad un certo punto entrarono in bagno e mi guardarono un tantino schifati e scioccati; non credevano che un insetto potesse causare quell’orrore! Mi spalmarono delicatamente un po’ di crema sulla palpebra e mi consolarono con carezze e dolci paroline! Adoro i miei genitori!
Una cena molto piccante
La mattina dopo (il mio occhio stava meglio ma era ancora un po’ gonfio e tutto intorno c’era un alone dal colore indefinito che era un misto di viola, blu e verde acido; era ancora orrido, ma almeno non prudeva più) scoprimmo che Abraham stava male : aveva il mal di stomaco e la febbre ed era ancora più mogio del solito.
Le assistenti sociali, dopo essere state informate del fatto, dissero a Tafez di accompagnarci dal dottore. Così andammo da un pediatra che aveva l’ambulatorio vicino ad un pollaio malmesso dove il penetrante odore di gallina si faceva sentire anche da dentro. Diverse mamme con pargoli entravano e uscivano, scambiandosi saluti.
La dottoressa, una donna molto giovane e simpatica, visitò Abraham, il quale pianse come un ossesso per tutto il tempo: scoprimmo che aveva una leggera otite, causata da un raffreddore persistente e mal curato. Quando Paola uscì dallo studio della dottoressa, teneva un Abraham decisamente stravolto e con il viso rigato di lacrime. La dottoressa visitò anche Yohanes, che avevamo notato avere una brutta tosse: di quelle grasse, come il catarro. Infatti il piccoletto aveva i sintomi della bronchite: solo dopo 10 giorni di antibiotico cominciarono a passare.
Il medico disse che Yohanes poteva essere più grande di sette anni: aveva visto la sua dentatura ed era arrivata a sostenere che era quella di un bambino di dieci anni!
Il fatto è che nei villaggi quando nascono i bambini, non li censiscono, così non si conosce l’età esatta..Yohanes anche se avesse avuto veramente dieci anni, non li dimostrava: era piccolo e magro e sembrava davvero un bimbo di sette anni.
Quando andammo via era già ora di pranzo, così Tafez ci riportò al “Ghion”. Andammo a pranzo e Abraham aveva l’aria di stare meglio, mangiò pure qualcosa.
Il pomeriggio andammo in piscina a poltrire e a prendere il sole; poi tornammo in albergo e io mi misi a disegnare e ad ascoltare la musica.
Babbo e Yohanes coloravano un libro pieno di figure e mamma andò a trovare i baresi.
A sera noi quattro andammo al ristorante Etiopico che era un edificio circolare con il tetto di paglia e costituiva un’ala dell’albergo. Dentro era uno spettacolo! C’erano gruppetti di bassi divani e sgabelli foderati di velluto color porpora e nel mezzo degli strani vasi di paglia molto grandi con il coperchio a punta tutto decorato con forme geometriche. Sulle pareti in legno erano appesi splendidi arazzi raffiguranti scene di caccia o donne intente a filare la lana e utensili di legno dall’aria molto antica. C’erano anche delle lampade con paralumi decorati con immagini di ibis del Nilo e scene di battaglia.
Ci sedemmo e poco dopo, una cameriera cicciotella con un grembiulino di pizzo si avvicinò ai nostri divanetti e ci dette il menu che fortunatamente aveva anche la traduzione in inglese. Certo i nomi dei cibi erano alquanto strani ma noi prendemmo un po’ di tutto, tanto per provare.
Dopo non molto arrivarono non uno, ma addirittura tre camerieri: un uomo e due donne, l’uomo tolse il coperchio del vaso, e così scoprimmo che la sua sommità aveva la forma di piatto, molto largo; una delle due donne posò nell’apertura del vaso un piatto enorme coperto di quelle che sembravano grandi crêpes scure, e un’altra ancora con un mestolo adagiò un certo numero di salse in vari punti del piatto e dopo con un forchettone sistemò della carne di vari tipi.
Alla fine quando smisero di armeggiare vidi che il tutto aveva un’aria non molto invitante. Chissà quelle salse che cosa sono, pensavo tra me e me e nel mezzo del piatto c’era un uovo sodo tutto unto di salsa che mi faceva un po’ ribrezzo.
I miei genitori che non sono schizzinosi come me si guardavano con aria interrogativa, come per dirsi: come si mangia questa roba? La risposta venne da Yohanes che con aria avida aveva preso un pezzo di quella strana crêpe, che si chiama “ngeera” ( è come il pane da noi) e con questo aveva afferrato un tocco di carne e l’aveva ben ripassato nella salsa, dopodiché con tutte le mani sporche se lo era ficcato in bocca con aria compiaciuta. Lo posso dire con sincerità, lo spettacolo era un tantino orrido! Ma poi, visto che il mio stomaco brontolava dalla fame, non mi restò altro che farmi coraggio e mangiare quella roba: presi un pezzetto di “ngeera” e di carne, ma evitai le salse che non mi ispiravano molto. Il tutto era così piccante che per poco non soffocai!Sul serio avevo la bocca in fiamme e non mi sarei stupita più di tanto se da questa fosse uscita una bella fiammata, come succede ai draghi. Era incredibile come un bambino di sette anni mangiasse cibo così piccante senza battere ciglio! Probabilmente era una questione di abitudine; magari all’orfanotrofio mangiava sempre quel piatto tradizionale. Però mangiando, mi abituai a poco a poco e dopo una mezzora riuscivo a inghiottire i bocconi senza diventare rossa come un pomodoro e con gli occhi che lacrimavano.
Durante la cena io e Yohanes ci mettemmo a disegnare le cose che vedevamo intorno, come gli ibis dei paralumi e le immagini degli arazzi appesi al muro. Il ragazzo era davvero bravo e una cameriera si era fermata per fargli i complimenti.
Alla fine della cena, ritornò lo stuolo di camerieri. Una cameriera portava una brocca d’acqua, l’uomo una bacinella e l’altra cameriera una pila di asciugamani, e così a turno ci lavammo le mani che erano luride come quelle di un bambino dopo aver divorato la pappa.
Dopo andammo a fare un giretto per il parco dell’ Hotel e visto che Yohanes dava segni di stanchezza, tornammo in camera e io dopo aver visto il tg alla tv me ne andai a letto domandandomi che cosa sarebbe successo il giorno dopo.
Il C.I.A.I.
Il 24 febbraio era il quarto giorno e a me sembrava di stare lì da una vita, e ancora mancava parecchio al ritorno a casa.
Quel giorno andammo agli uffici del C.I.A.I (Centro Italiano Aiuti all’Infanzia); per fortuna il posto non era molto lontano dall’albergo: la strada era in condizioni veramente pietose; dopo un breve tratto uscimmo dalla strada asfaltata mal messa ed entrammo in uno spiazzo pieno di buche (tanto per cambiare) circondato da baracche; sulla destra c’era una sorta di macellaio con la carne appesa fuori, ricoperta di mosche e in alcuni casi da un colorito verdognolo che nauseava! Sulla sinistra c’erano dei rottami di macchine e vecchi pneumatici impilati uno sull’altro che alcuni ragazzi trasportavano facendoli rotolare. Poco più in là c’era un pastore seduto a terra che con sguardo sonnacchioso controllava il suo gregge di capre.
Un uomo dall’aria malandata venne ad aprire il cancello e aiutò Tafez a fare manovra. Ad accoglierci c’erano tre ragazzi italiani: Fabio, un altro di cui non mi ricordo bene il nome, forse Dario e la ragazza, credo che si chiamasse Marta, ma non ne sono sicura .Il presunto Dario era il più grande, aveva una corporatura robusta e due grandi occhi azzurri e il faccione incorniciato da una corta barbetta ; era simpaticissimo e molto gentile. Fabio e Marta, avevano più o meno la stessa età e sembravano fratelli, si somigliavano molto: lui era alto, magro e molto carino; aveva i lineamenti molto delicati e sembrava un ragazzino. Anche Marta era alta e molto bella, con lunghi capelli corvini e la pelle bianchissima ( con il sole dell’Etiopia dovrà starci attenta!): Erano molto simpatici, ma non avevano l’aria bonaria di Dario.
La sede del C.I.A.I, era costituita da un basso edificio, diviso in piccole stanze, gli uffici appunto, circondato da un rigoglioso giardino con alberi da frutto che gettavano un’ombra ristoratrice; si stava benissimo, soprattutto seduti ai tavolini della piccola veranda.
La sala principale era adibita agli incontri tra le famiglie e gli assistenti sociali: era una stanza piccola, ma molto carina e accogliente: c’erano comodi divanetti che circondavano un tavolino basso; vicino alla porta c’era un tavolo con un computer e vari libri tra cui diverse guide e sulle pareti erano appesi poster, cartine del Paese e attrezzi artigianali dall’aspetto molto antico. Nell’aria aleggiava un intenso aroma di caffè.
C’erano altre persone che lavoravano lì: alcune ragazze etiopi, tra cui Marija, che parlava benissimo l’italiano.Le altre non mi ricordo come si chiamavano, ma mi
fecero divertire un mondo: spettegolavamo a tutto spiano e in inglese poi! Roba da matti.
Gli etiopi hanno un modo di fare il caffè che è del tutto singolare e il risultato è che è il caffè più buono del mondo! La preparazione richiede una sorta di cerimonia che è molto importante per loro.Tostano il caffè sul momento e la ragazza che lo preparava, passava da uno all’altro di noi, con un pentolino fumante che lo conteneva, per farcene sentire l’aroma. Era così penetrante e buono che sembrava di essere trasportati in un luogo bellissimo e sconosciuto! Poi si macina il caffè, si prepara e lo si versa in certe tazzine minuscole e senza manici, che vengono sistemate in un vassoio tradizionale, con i buchi per infilarle (sembrava il portauova del frigorifero). Quel caffè era la fine del mondo! Ne avrò presi come minimo tre, io che non lo bevo quasi mai! Le ragazze etiopi mi prendevano in giro, perché dicevo loro che troppo caffè fa male, loro erano alla quinta tazzina, e dicevano che fa bene e che non disturba i nervi. Però dopo tre tazzine cominciavo a sentirmi un po’ strana. Portarono anche un vassoio di pop corn fatti sul momento, buonissimi, e diversi da quelli nostri perché erano più scuri e più saporiti.
Come in Inghilterra si beve il tè con i pasticcini alle cinque del pomeriggio, in Etiopia si beve caffè con i pop corn…. Sono meravigliose le tradizioni dei paesi!
Restammo lì per un bel po’ a chiacchierare e a fare le foto. Io mi divertivo con le ragazze a spettegolare: dissi che Fabio mi sembrava carino, e loro subito a dire:
:- Ma è troppo grande! Ha 27 anni! -:
Non potevo crederci! 27 anni! Ma se ne dimostrava al massimo 19!
Marija era molto amica di Fabio e non potevo non essere un pochino gelosa: quei due ridevano sempre e facevano le smorfie ad Abraham per farlo divertire.
Le ragazze dal canto loro vedendomi tutta imbronciata, si sganasciavano dalle risate.
Quando stavamo per andare via, non resistetti alla tentazione di chiedere a Marta se lei e Fabio erano davvero fratelli ; lei stupita esclamò
:- Fratelli, noi? Siamo fidanzati!-:
Così scoprii che Marija non aveva niente a che fare con Fabio, e che era Marta il nemico! Che bella figuraccia ci feci.
Il Top View
A pranzo andammo al ristorante “Top View” chiamato così proprio perché stava molto in alto e da lassù, si poteva vedere il panorama dell’intera città. Ci volle parecchio per arrivare, e durante il tragitto vedemmo bambini uscire da scuola, pastori con le loro capre , donne che stendevano panni, uomini sull’uscio delle baracche che si facevano ombra con la mano e con pezzi di giornale.
Man mano che salivamo, il paesaggio diventava sempre più selvaggio e disabitato: non si vedeva niente, se non il polverone alzato dal pulmino che sobbalzava ad ogni buca, facendoci sbattere la testa contro il tetto.
Il ristorante era enorme ed era in mezzo ad un giardino bellissimo e molto curato, con piante strane e mai viste.
Il panorama invece non era affatto bello: anzi da lì si poteva vedere ancora meglio lo squallore e la povertà di quella città così triste e piena di miseria.
Si mangiò bene e io e babbo cercammo di insegnare a Yo qualche altra parola italiana, mediante dei disegni. I baresi poveretti, mangiarono a turno perché Abraham quel giorno era in vena di bizze e doveva essere portato fuori per farlo calmare.
Tornammo all’albergo e ci riposammo: qualcuno andò a fare una passeggiatina al parco, qualcun altro si mise in giardino a prendere il sole e qualcun altro rimase dentro a leggere e a disegnare.Di sera andammo a mangiare in un ristorante cinese vicino all’albergo. Di cinesi neanche l’ombra: i camerieri erano decisamente etiopi e anche le decorazioni in parte non erano cinesi. Le cose da mangiare erano abbastanza buone ma alcune non avevano niente a che fare con la cucina cinese.Quel posto era talmente buio che a stento si vedevano i camerieri portare i vassoi. L’illuminazione era precariamente affidata a delle tremule candele che gettavano ombre un tantino inquietanti.In uno di questi giorni, non mi ricordo quale, forse quello della prima cena etiopica (ce ne è stata un’altra), mentre stavamo a casa a riposo, il cielo da azzurro divenne in poco tempo nero e cominciò a tirare un vento fortissimo, che trascinava foglie, rami, pezzi di lamiera e altre cose anche più pesanti e poi così, senza nessun preavviso, venne a grandinare. Non avevo mai visto una tempesta in vita mia, ma quella lo era e anche pericolosa! Chicchi di grandine grandi come acini d’uva picchiavano così forte contro il vetro che sembrava che da un momento all’altro si potesse rompere! Faceva veramente paura, durò una ventina di minuti al massimo, ma per me sembrava fosse passata un’eternità e poi così com’era venuta, se ne andò. Forse gli etiopi ci sono abituati, ma io no! Una paura!
Il giorno successivo, Venerdì 25 Febbraio, fu particolarmente intenso e pieno di emozioni.
Andammo a fare acquisti e Tafez ci accompagnò, ci portò in tanti negozietti pieni di souvenirs da terra fino al soffitto. Era impressionante! I negozi erano dei veri e propri cubicoli dove non si poteva entrare in più di quattro persone insieme.
Comprai per le mie amiche delle collanine fatte a mano, molto carine, con i colori dell’Etiopia: giallo, rosso e verde; presi dei vasetti di paglia colorati di cui alcuni con coperchio; comprai anche una borsetta di stoffa. Tutte queste cose costavano pochissimo, tutti i vasetti insieme costavano 18 birr, quindi poco più di un euro! Tafez fu molto gentile, mi consigliava che cosa prendere e di tanto in tanto mi faceva l’occhiolino.
Quel simpaticone aveva proprio un cuore d’oro: scendeva sempre con noi e non ci perdeva mai di vista; certe volte volevo stringermi al suo forte braccio e non lasciarlo più, perché avevo paura che mi aggredissero. Ci fermammo anche da dei venditori ambulanti che esponevano la merce per terra, su dei teloni colorati, come quelli che stanno a Piazza Navona.
Babbo comprò un vaso dalla forma strana fatto con la pelle di capra, era una specie di otre e anticamente lo usavano per farci il burro o qualcosa del genere.
Comprò anche una collana antica, di quelle che si mettevano le mogli dei capitribù. Mamma comprò anche lei delle collanine e dei vasetti di paglia, poi una statuetta di legno dipinta a mano. A Yo regalammo un cappello di quelli che usava Bob Marley, con i colori dell’Etiopia, e con scritto sopra “Ethiopia”. Da allora il ragazzetto non se lo tolse più: se lo teneva tutto il giorno e se lo toglieva solo all’ora di andare a dormire!.
Quel giorno tanti ci vennero a chiedere l’elemosina e Tafez non poteva fare niente per allontanarli, erano in troppi e noi cercavamo di guardare altrove. Una bambina di nemmeno tre anni, tutta sporca e lacera tendeva la sua manina, piangendo, ci tirava i vestiti e gemeva. Io stavo per scoppiare a piangere, ma mi trattenni, la mamma invece, le sorrideva e continuava a ripeterle che non aveva niente. Giuro che quegli occhi pieni di lacrime che mi guardavano, non me li scorderò mai. Quella bimba era così piccola, avrei voluto abbracciarla, con tutta me stessa, ma non potevo, il mio inconscio me lo impediva! Il problema era che se ti giravi da una parte per non guardare uno storpio, ti ritrovavi davanti un cieco e quindi non potevi fare a meno di guardare, se non chiudendo gli occhi.
Quando tornammo dai negozi, un capannello di storpi, bambini e donne circondavano in massa il nostro pulmino, in attesa che noi tornassimo; ad un certo punto, un uomo ben vestito, con un completo di lino bianco, con anelli alle dita e con un bastone pomellato, che passava di lì, così all’improvviso, imprecò e picchiandoli con il bastone, cacciò i mendicanti, che corsero via impauriti. Provai un odio profondo per quell’uomo, un odio profondo che non avevo mai provato prima!
Quell’uomo non aveva nessuna giustificazione per come si era comportato! Era un barbaro, ma non era l’unico.
L’Etiopia purtroppo è un paese che sta attraversando un periodo difficile, è uno dei più poveri al mondo, dove vige il disordine e la miseria. Dopo la morte dell’imperatore Hailè Selassiè, per un lungo periodo c’è stata una sorta di dittatura militare, che ha causato guerre senza fine che hanno fatto un sacco di vittime. Poi la dittatura fu rovesciata e fu instaurata la Repubblica, ma lo sfacelo e la miseria causati dalla dittatura portarono al disordine sociale ed economico che sono tutt’ora presenti.
Ayannesh
Dopo il pranzo (consumato di nuovo all’ “Unity, il ristorante del primo giorno) Azeb e Zion ci accompagnarono di nuovo al “ Kidane Mereth” . Suor Lutgard, contro il parere degli assistenti del C.I.A.I., aveva organizzato un incontro con l’unica parente di Yohanes: sua zia Ayannesh.
Secondo la suora era una buona cosa che le due famiglie si incontrassero, ci dovevano essere contatti. Invece gli assistenti sociali ritenevano che le famiglie non dovessero contattarsi: era meglio per il bambino dimenticare il passato; doveva pensare al futuro, alla sua nuova vita, che sarebbe stata finalmente felice.
A quanto ho capito, suora e assistenti si sono litigati di brutto! A quanto pare, gli assistenti sociali hanno più autorità delle congreghe religiose e Suor Lutgard aveva chiaramente violato questa autorità.
L’incontro con la zia fu tremendo: lei ci raccontò la sua triste storia e la sua vita piena di miseria; non disse niente a proposito dei genitori di Yohanes, forse erano morti, forse non lo sapeva neanche lei. Ci disse di come era andata avanti con questo bambino a carico e di come non potendo allevarlo ancora per molto tempo, lo aveva portato lei stessa all’orfanotrofio. Lo andava a trovare spesso, erano molto legati.
Ayannesh era una donna matura, che la dura vita che era costretta a vivere aveva precocemente invecchiato e indebolito. Un tempo doveva essere una bella donna, ma ora nei suoi occhi leggevo solo tanto dolore e tanta sofferenza.
Ci disse che era malata, soffriva di crisi epilettiche e che durante una di queste, era caduta e si era rotta una gamba, ci fece vedere la cicatrice: era spaventoso!
Durante il colloquio, che era avvenuto nella mensa dell’orfanotrofio, Yohanes guardava a terra e non alzò mai la testa: era impietrito, e anche io lo ero. Azeb faceva da interprete ed era evidente che non era affatto contenta dell’idea di Suor Lutgard.
All’uscita facemmo delle foto.
Poi Ayannesh abbracciò per lungo tempo il nipote piangendo e sussurrandogli qualcosa nell’orecchio, dopodiché corse via verso il cancello e non si voltò mai più. Yohanes rimase lì sconvolto a guardarla e poi scoppiò a piangere. Mamma lo prese in braccio, cercando di calmarlo. Io guardai altrove, non riuscivo proprio a sopportare la scena! Azeb era pazza furiosa, e mamma a ragione le disse che non era stata una buona idea l’incontro con la zia. La suora dal canto suo continuava imperterrita a sostenere la sua teoria e ci fece entrare , tutta pimpante, nella saletta dove avevamo incontrato Yo. Facemmo altre foto e lei si mise in posa stringendo me da una parte e Yo dall’altra. Non mi sentivo molto a mio agio.
Yo per la prima volta chiese qualcosa: chiese se poteva fare le foto ai suoi amici, che si misero in posa sulla giostra malandata e arrugginita: uno di questi era cieco e suonava sempre un flauto giocattolo. Il migliore amico di Yo si chiamava Tesfu, un ragazzetto dagli occhi birichini, molto loquace: quando lo accarezzai sulla testa, mi chiese ridendo :-“Como” ti chiami?-: non potei fare a meno di ridere anche io, e mi sentii un po’ meglio. Tesfu e suo fratello sono stati adottati anche loro, e adesso si trovano a Monza, felici e contenti con la loro nuova famiglia!
Yo ci fece vedere la stanza dove dormiva: una camera, poco illuminata e poco arieggiata, piena di letti a castello uno attaccato all’altro, tra i quali non si poteva passare. Ci indicò il suo letto: era in fondo alla stanza ed era la branda superiore.
Yo ci presentò pure una donna delle pulizie che si chiamava Azeb pure lei, con la quale aveva legato molto.
All’uscita il bimbo salutò tutti i suoi amichetti e anche alcuni ragazzi più grandi lo salutarono e abbracciarono.Salutammo la suora e le altre persone che lavoravano lì; accarezzai per l’ultima volta la capretta e il vitellino dell’orticello.
All’ Hilton Hotel
Andammo a fare un po’ di spesa in un supermercato vicino, dove c’era un grande parcheggio. Dopo andammo a visitare l’Hotel Hilton, ovvero l’albergo più lussuoso della città!
Credo che il proprietario,che ha fondato questa catena di lussuosi hotel sparsi per tutto il mondo, sia un famoso miliardario americano, padre di Paris Hilton, ereditiera spendacciona che a causa della sua vita disastrata, finisce sempre sui tabloid americani.
L’albergo era un edificio enorme di circa dieci piani, circondato da un parco esteso e affollato, nel mezzo del quale vi era una sontuosa e meravigliosa piscina triangolare. C’erano ovunque uomini in livrea che portavano vassoi di aperitivi ai bagnanti o a coloro che erano sdraiati sull’erba o a chi era comodamente seduto ai tavolini dei bar. Dentro l’hotel, era uno spettacolo: sembrava che una città intera si fosse trasferita lì! C’erano un sacco di persone, soprattutto uomini d’affari con le valigette ventiquattrore che salivano in massa sugli ascensori. La hall era veramente enorme e sensazionale e giusto di fronte alle scale che portavano ai piani superiori, vi era una scintillante macchina in mostra, posta su una piattaforma drappeggiata. Se la hall era grande come la navata di una chiesa, figuriamoci il resto.
C’erano degli interi negozi che vendevano di tutto e dei ristoranti raffinati con prezzi da capogiro! C’erano anche gli uffici dell’Ethiopian Airlane dove noi andammo per farci fare il biglietto aereo del ritorno. Girammo per un altro po’ in quella specie di reggia megagalattica, dopodiché tornammo in albergo stanchi morti.
Io ero veramente spossata e a cena mangiai poco. Fu un sollievo per me appoggiare la testa sul cuscino e cadere in un sonno profondo senza sogni.
Rosa, blu, verde, bianco, rosso e celeste
Il giorno dopo Abraham aveva di nuovo la febbre, così tornammo dal dottore che visitò anche Yo: la tosse era migliorata decisamente, ma dovevamo continuare la cura. Abraham aveva ancora l’otite, ma la dottoressa disse che era quasi guarito. Durante l’attesa lo tenni in braccio, per un po’, ma volle tornare ben presto tra le accoglienti e poderose braccia della madre. Ad un certo punto entrò una donna che stava cercando di tenere in piedi il figlio malato, un ragazzo di circa 12 anni, dall’aria sbattuta e dagli occhi gonfi. Poverino!
Mi stufai di stare lì a guardare bimbi malaticci che piangevano in continuazione,così uscii e trovai Tafez che stava armeggiando nel pulmino.
Chiacchierammo un po,’ mi raccontò di quando era andato in Russia e di come non aveva mai patito il freddo in quel modo. Io ridevo perché lui faceva il buffone. Grand’uomo Tafez.
Tornammo all’albergo per l’ora di pranzo e scoprimmo che c’era un matrimonio, anzi i matrimoni: si festeggiavano cinque o sei matrimoni in contemporanea!
Era un cosa sensazionale! Non so se è un uso etiope festeggiare più matrimoni insieme, ma quello era un vero spettacolo. Le coppie sfilavano una dietro l’altra con il loro seguito di damigelle e paggetti. Ogni coppia aveva un colore specifico: se mi ricordo bene c’erano il rosa, il rosso, il bianco, il blu e il verde e forse anche il celeste ma non ne sono sicura. Le spose erano vestite di bianco con una fascia in vita del colore corrispondente; gli sposi erano in smoking con una coccarda del loro colore attaccata al taschino e le damigelle avevano i vestiti completamente colorati ( rosa, rossi, bianchi,blu verdi e celesti) ed erano bellissime! Era un tripudio di colori che occupava tutto il grande parco del Ghion Hotel , che per l’occasione era stato risistemato e curato: le fontane che erano sempre state inattive adesso facevano allegramente zampillare l’acqua, come se anche loro partecipassero a quell’atmosfera di festa e felicità.
Dopo pranzo, rimanemmo a guardare quello spettacolo meraviglioso. Anche Abraham si divertiva; ridacchiava come un matto, lanciava dei gridolini di gioia, batteva le manine e si dondolava avanti e indietro sulle ginocchia del padre: a quanto pare stava molto meglio!
Poi tornammo in albergo e giocammo a Memory. Yo era un asso, indovinava sempre e ci stracciava! E siccome non era contento di batterci con un punteggio di 10 a 3, gli era venuta la bella idea di imbrogliare, facendo con la matita gli stessi segni dietro le figure uguali. Per fortuna lo scoprimmo e la mamma arrabbiata gli disse che se l’avesse fatto di nuovo, non avremmo più giocato con lui.
Il ragazzo capì l’antifona e pensò bene che era meglio giocare in compagnia che da solo, così smise di barare.
Gli insegnammo anche qualche gioco a carte e fu impressionante la velocità con cui imparò a giocare! Quel ragazzino era davvero sveglio, a dire la verità, troppo sveglio!
Stemmo lì un altro po’ e siccome avevamo comprato dei libri in amarico per Yo, ci mettemmo insieme a sfogliarli e a guardare le figure .Erano molto interessanti, anche se noi non ci capivamo assolutamente niente; per fortuna le illustrazioni aiutavano molto: raffiguravano donne che preparavano la ngeera, il burro, e tingevano i bellissimi tessuti etiopi, ragazzini che portavano al pascolo le mandrie di pecore e
capre, utensili di vario genere per lo più adibiti alla lavorazione della terra, ecc…
La caccia al leopardo
Ad ora di cena, passammo a prendere i baresi e ci avviammo al ristorante etiopico per la seconda volta. Abraham era in vena di capricci e aveva fatto arrabbiare Filippo perché non voleva stare in braccio a lui, ma soltanto in braccio alla mamma. Era una cosa alquanto insolita e Filippo era in qualche modo geloso. Tenne il muso a tutti fino a che non arrivammo al ristorante.
Dentro era molto più affollato dell’altra volta perché quella sera ci sarebbero state le danze tradizionali etiopi. Avevano messo ovunque delle favolose decorazioni per l’occasione.
Eravamo tutti eccitati! Poco dopo, tra gli applausi del pubblico, arrivò un quartetto di musicisti che si posizionarono non molto lontani dai nostri divanetti e cominciarono ad attaccare un allegro motivetto.Erano tutti vestiti di lino azzurro e suonavano degli strumenti tradizionali, di legno e dall’aria molto vissuta. Uno suonava quella che sembrava una specie di lira, un altro un assortimento di tamburi, il terzo una sorta di flauto a doppia canna e l’ultimo, che non riuscivo a vedere tanto bene, strimpellava una specie di banjio.
Erano bravissimi!La musica etiope è bellissima, molto ritmica e coinvolgente, ti entra nel corpo e ti spinge a ballare come un dannato!
Ed ecco che ad un certo punto, mentre finivamo di ordinare (prendemmo un po’ di tutto ma evitammo accuratamente le cose più piccanti che avevamo assaggiato la prima volta), arrivarono, accolti da un’ovazione da far tremare i muri (che purtroppo non avevano l’aria di essere tanto robusti) i ballerini! Erano due coppie di uomini e di donne, vestiti in modo sensazionale: gli uomini avevano una maglia a righe bianche e celesti, stretta in vita da una fascia di lino, pantaloni bianchi, con le estremità decorate con disegni geometrici verdi; intorno alle braccia, alla testa e al collo, avevano delle cordicelle con i colori dell’Etiopia; e infine tenevano tra le mani un bastone di legno.
Le ragazze dal canto loro davano anche più spettacolo! Indossavano un lungo vestito di lino con gli orli decorati e dai colori bellissimi; sull’apertura del collo c’erano disegni geometrici che si allungavano fino a metà vestito e formavano delle specie di fiori di diversi colori che erano un piacere per gli occhi; anche loro avevano una fascia stretta alla vita, ma era di un colore simile al viola e non bianca. Avevano al collo un formidabile assortimento di collane, fatte di conchiglie, di pietra, di metallo e di legno. Se quelle collane l’avessero messe a me, sarei caduta subito in avanti per il gran peso!Come facevano a sopportare quei tre chili di roba?
I ballerini cominciarono a danzare, man mano che la musica diventava più movimentata.Quei ragazzi erano formidabili!Si muovevano in tutte le direzioni, agitando testa, braccia e gambe in modo così frenetico da far girare la testa. Muovevano gli arti in direzioni opposte, facevano vorticare i loro bastoni, facevano una sorta di danza del ventre e correvano come degli scalmanati lungo tutto il perimetro del ristorante! Sembrava che avessero tutte le parti del corpo scollegate fra di loro, perché non c’era un movimento che fosse legato a quello successivo! Una cosa formidabile! Erano completamente snodati come le mandibole di un boa.
Yohanes rideva come un matto e si agitava sul divano su cui era seduto.
Abraham si era finalmente deciso a sedere sulle ginocchia di Filippo ( che era molto più contento adesso), e lanciando dei gridolini di gioia, batteva in continuazione le sue manine paffute!
I ballerini tra schiamazzi e applausi se ne andarono e noi cominciammo a mangiare di gusto e avevamo fatto proprio bene a una decidere con ponderazione quello che bisognava ordinare: infatti mangiammo carne di montone buonissima e tenerissima, accompagnata con salse “innocue” e formaggi etiopi.
Filippo apprezzò il tutto e fece assaggiare qualche bocconcino ad Abraham, che naturalmente non si accontentava del “bocconcino” visto che era un pozzo senza fondo anche se aveva soltanto un anno. Paola purtroppo aveva il mal di pancia ( tutti noi abbiamo avuto il mal di pancia in quei 10 giorni!) e si dovette accontentare di un insipido riso alle erbe amare.
Poco dopo, tra applausi più numerosi di prima, tornarono i ballerini che avevano cambiato d’abito, ed erano ancora più belli di prima ( gli uomini erano davvero i più attraenti e affascinanti che avessi mai visto).
Scoprimmo che le danze avevano un significato simbolico e che rappresentavano un’azione o una scena specifica. Il primo ballo non ricordo di preciso che cosa volesse rappresentare, forse una cerimonia religiosa, un rito sacro, non lo so; invece il secondo ballo rappresentava una scena di caccia al leopardo: era assolutamente fantastico! Le ragazze interpretavano il leopardo ed indossavano una maglietta di pelle di leopardo appunto (spero vivamente che la pelle fosse finta) e una gonna con i colori dell’Etiopia che somigliava molto a quella delle ballerine delle Hawaii.
Si muovevano sensualmente e a scatti, proprio come un felino in pericolo.Gli uomini dal canto loro rappresentavano i cacciatori e indossavano un vestito lungo a strisce rosse, bianche e gialle. Essi ballavano attaccati alle ragazze, proprio come se dovessero braccare i poveri leopardi. La scena era veramente sensazionale: sembrava di assistere realmente ad una scena di caccia nella savana calda e arida.
Questa danza piacque molto di più dell’altra e il pubblico era decisamente in delirio!Noi (io in particolare) eravamo super eccitati, contenti come delle pasque.
Yo continuava a ridere e ad agitarsi come un forsennato ed io e mamma andammo a turno a fare le foto ai ballerini e ai musicisti, mentre gli altri (compreso il piccolo Abraham) continuavano a battere vigorosamente le mani.
Quando finalmente finimmo di mangiare, i ballerini tornarono ad eseguire altre due danze. L’ultima danza fu anche un pochino commovente perché come gran finale, i ballerini cercavano di coinvolgere anche il pubblico a ballare con loro e a turno si avvicinavano ai divani e mostravano tutto il loro talento.
Da noi venne una delle ragazze che sorridendo, muoveva tutto il corpo come una contorsionista. Nessuno di noi però, ebbe il coraggio di alzarsi e di andare a ballare!
La stessa ragazza si avvicinò al tavolo accanto al nostro, dove c’era un omone grande e grosso che indossava un’orrenda camicia hawaiana, che sedotto dalla sensualità della ragazza, si alzò e cominciò a muovere pure lui le sue elefantesche anche e a volteggiare su se stesso, muovendo le braccia. I due sembravano Obelix e Falbalà che ballavano la samba. Poi lui attaccandosi a lei, le ficcò nella mano una banconota e la cosa mi fece rabbia e allo stesso tempo pena! Non eravamo mica in un locale di strip-tease. Però lei se ne andò con aria soddisfatta e con la sua banconota ancora stretta nella mano.
Poco dopo, stanchi e sazi, ci alzammo e andammo nei nostri appartamenti. Abraham, nonostante l’ora tarda, straordinariamente era ancora vispo e sveglio e muoveva i suoi scuri occhietti, in tutte le direzioni!
Dopo aver visto il telegiornale ( la notizia che il grande poeta Mario Luzi era morto, mi sconvolse non poco) andammo tutti a dormire per affrontare il nuovo giorno con tutte le forze necessarie.
Mancavano ormai pochi giorni al nostro ritorno a casa, ma io mi stavo abituando al posto e cominciava a piacermi. Dunque, non tutto il male viene per nuocere, dopo tutto!
Una mattinata in piscina
Il giorno dopo si rivelò uno dei più gradevoli, anche se non mi piacquero alcune cose. Era il 27 di Febbraio, tre giorni dopo saremmo partiti per l’Italia.
Quel giorno non avevamo impegni così ci godemmo la giornata a nostro piacere. Passammo l’intera mattinata alla piscina dell’albergo. Si stava da Dio e il sole era veramente caldo.Io fui l’unica che non si fece il bagno, stetti per circa tre ore di fila in costume da bagno a cuocermi al sole.
Mamma e babbo nuotarono nella piscina vera e propria, mentre il piccolo Yo che non sapeva nuotare, sguazzava nell’acqua bollente della piscinetta affianco; si divertiva un mondo e rideva come un matto.
Dalla mia posizione di vedetta (si fa per dire), osservavo quello che succedeva intorno: c’era un sacco di gente quel giorno, veramente tanta; famiglie con bambini, uomini bianchi in affari che parlavano sempre al telefono, vidi addirittura due fidanzatini con la pelle color gambero, bruciata dal sole e i capelli così biondi da sembrare bianchi; probabilmente erano nordici e chissà come erano finiti lì in vacanza. Più in là c’era un bianco che bianco più non era! Doveva stare lì da un sacco di tempo, era così abbronzato da sembrare etiope pure lui!Faceva impressione e si era spruzzato un po’ di crema solare soltanto intorno ai capezzoli e non se l’era nemmeno spalmata!Mi faceva un tantino ribrezzo!iiiiiiiih!
La piscina era bellissima e l’avevano costruita in mezzo al verde del giardino e si sentiva il profumo penetrante di certi fiori che crescono solo in Etiopia..
Quando non sonnecchiavo, passavo il tempo a contare il numero delle vasche che
facevano i miei genitori e ad osservare un gruppo di ragazzi di circa la mia età che si tuffavano tra mille schiamazzi e che di tanto in tanto guardavano dalla mia parte.
Dopo un po’ di tempo chiamai la mia amica Alessandra per sentire come andavano le cose all’altro capo del mondo e per aggiornarmi sulle novità di scuola: a quanto pare il Lifodi, il professore di Latino e Greco, stava attraversando una fase acuta di isteria a causa dell’esito disastroso dell’ultimo compito in classe. Poi Alessandra mi disse che a Siena aveva nevicato e che lei non era potuta andare a scuola per due giorni a causa della strada ghiacciata.Quando le dissi che in quel momento mi trovavo sul bordo di un’affollata piscina, a prendere il sole, sospirò tristemente. Era davvero strano stare così lontana da casa e il fatto che in Italia nevicava e che in Etiopia ci fossero come minimo 35 gradi me lo faceva ben comprendere.
Indovinate quale fu il risultato di essere stata tre ore sotto il sole?
Avevo assunto una tonalità simile al rosa shocking con sfumature rossicce sul naso e sulle guance!
Potevo fare tranquillamente invidia ai due fidanzatini nordici di cui parlavo prima!Che ragazza sconsiderata che sono! Eh sì, non c’è alcun dubbio!
Circa mezz’ora dopo ce ne andammo e tornammo all’appartamento; sulla strada del ritorno incontrammo i baresi che a loro volta andavano in piscina.Il piccolo Abraham era di buon umore e indossava un cappellino rosso che lo rendeva assolutamente adorabile!
C’era ancora del tempo prima dell’ora di pranzo, così ci cambiammo e io ,babbo e Yo andammo a giocare a ping- pong vicino ad uno dei ristoranti dell’albergo. Ci divertimmo un mondo sopratutto perché non sapevamo giocare un granché e perchè ognuno sfotteva gli altri e viceversa!
La dimora dell’imperatore e il taxi malandato
Verso ora di pranzo, quando i baresi tornarono dalla piscina, prendemmo un taxi e andammo alla ricerca di un posto per mangiare. Stavamo strettissimi in quella specie di trabiccolo con le ruote ! Eravamo in cinque sul sedile posteriore tutti ammucchiati gli uni sugli altri mentre Paola con Abraham e l’autista stavano davanti. Ebbi modo di rimirare la mia abbronzatura da gambero attraverso lo specchietto che stava sopra la testa dell’autista. Sembravo un pomodoro troppo maturo!
Finalmente dopo 20 minuti buoni di taxi, ci fermammo davanti ad un ristorante abbastanza carino, chiamato “The Blue Tops” perché il tetto era per l’appunto di un blu intenso.
Dentro c’erano molti bianchi e proprio dietro al tavolo dove ci sedemmo noi, c’era una numerosa famiglia olandese composta da mamma, babbo e una nidiata di cinque piccoletti tutti rigorosamente biondissimi.
Invece accanto a noi , c’era una famiglia multirazziale: lui era europeo, francese se non sbaglio, lei era una bellissima donna etiope molto più giovane di lui e avevano due figli adorabili, un maschio ed una femmina entrambi color caffè e con gli occhi chiari.Gli incroci tra razze danno sempre i risultati migliori!
Ordinammo delle pizze e dei piatti di pasta; devo dire che la mia pizza “Margherita” era buonissima e cotta al punto giusto; non come la pizza del buio ristorante francese!
Dopo pranzo uscimmo dal ristorante e anche se babbo aveva chiesto al taxista di prima di tornare dopo poco più di un’ora a prenderci, quello non si fece vivo per un bel pezzo e mentre aspettavamo, stanchi e seccati, la solita calca di mendicanti ci circondò e non se ne andarono che molto tempo dopo; uno cercò persino di venderci degli ombrelli che erano perfettamente inutili con un clima come quello!
Ad un certo punto un uomo sporco e lacero, ci passò davanti, si fermò, ci squadrò da testa a piedi con un misto si odio e di disprezzo e cominciò ad imprecare come un ossesso verso di noi; io misi istintivamente una mano sulla spalla di Yo che dal canto suo guardava a terra. Chissà quell’uomo che voleva ma di sicuro aveva delle buone ragioni per essere così arrabbiato con noi! Forse era perché eravamo i famosi “bianchi dominatori”, ma non ne sono convinta.
Finalmente, dopo molto tempo, ritornò il taxista che non mi ricordo se si scusò e ci fece risalire sul quel maledetto trabiccolo a quattro ruote. Eravamo tutti un po’ turbati; mi mancava tanto il pulmino di Tafez!Ma quel giorno lui non ci scortò in giro.
Poco dopo arrivammo al Museo Etiopico: un imponente edificio con le colonne sulla facciata, dove c’erano degli uomini armati che controllavano l’entrata. In origine questo edificio era la reggia dell’imperatore Hailè Selassiè; dopo la sua morte fu trasformato in Museo Nazionale. L’edificio attualmente fa parte dell’area universitaria che è veramente molto estesa e in buona parte è costituita da un enorme e rigoglioso giardino, con palme, alberi e fiori tipici e rinfrescato da grandi fontane.
Vicino all’entrata c’è una sorta di monumento fatto costruire dai fascisti: è costituito da venti gradini in marmo, che rappresentano i venti anni di regime fascista e di predominio sull’Etiopia e poi, sull’ultimo gradino, con le fauci spalancate, vi è un leone anch’esso marmoreo, ma dall’espressione molto realistica, simbolo dell’Etiopia e della libertà finalmente riacquistata!
Entrammo nel Museo sotto gli sguardi vigili degli uomini armati.
Dentro era assolutamente fantastico: i soffitti erano altissimi, sulle pareti erano appesi quadri enormi e il pavimento era tutto un tappeto. Yo era molto stanco e quindi si sedette a terra e si sdraiò sul tappeto, ma la mamma lo fece subito alzare e gli permise di sedersi ad ogni sedia che vedevamo.
Nel corridoio dell’ingresso vi era un’esposizione fotografica sulla vita e l’epoca dell’ imperatore, poi più avanti vi erano delle teche con abiti bellissimi e finemente ricamati, tra cui molte divise militari; poi gioielli sensazionali indossati una volta dalle mogli dei capi dei vari villaggi. Una sala era interamente dedicata alle tribù primitive e a quelle che ancora vivono come tali: vi erano attrezzi agricoli antichissimi, utensili da cucina, vasellame, delle specie di cuscini cervicali che dovevano essere di uno scomodo tremendo visto che erano di pietra e nel migliore dei casi di legno.
Poi vedemmo un video molto interessante e a tratti divertente in cui si illustravano le usanze delle tribù: una di queste era rappresentata da un gioco in cui la concentrazione e l’abilità erano fondamentali; era il cosiddetto “salto della vacca”che consisteva nel saltare dal dorso di una vacca all’altra. Gli animali erano sistemati uno accanto all’altro, come una specie di ponte; non bisognava né perdere l’equilibrio né cadere tra una vacca e l’altra! Mi sono fatta un sacco di risate!
Poi andammo al piano di sopra e ci riposammo su delle poltroncine e andammo anche al bagno. Non c’era lo sciacquone e quindi un ragazzo ci accompagnò portando un secchio d’acqua: non potei fare a meno di ridere anche in quell’occasione.
Continuammo il giro e Paola mi fece tenere Abraham per un po’; era stanco anche lui, come Yo, e poggiava il suo testone sulla mia spalla, e chiudeva gli occhi, poi li riapriva, sì, insomma si stava preparando ad uno dei suoi numerosi sonnellini.
Proseguimmo il giro e visitammo la camera da letto dell’imperatore, dove c’era un piccolo letto a baldacchino e numerosi mobili di legno pregiato. Sulla parete c’era un ritratto a grandezza naturale dell’imperatore: era piccolo di statura e aveva un paio di baffi da far invidia ad un tricheco. A fianco al suo ritratto c’era quello della consorte che in confronto a lui sembrava un’orchessa, grossa e dallo sguardo truce.
Il bagno era assolutamente fantastico ed era collocato più esternamente rispetto alle altre stanze; era tutto ricoperto da piastrelle blu con la vasca e il lavandino d’avorio.
C’erano anche delle grandi finestre che facevano entrare la luce a fiotti e conferivano al luogo un’atmosfera quasi cristallina.
Mentre proseguivamo la visita, andò via la luce e rimanemmo completamente al buio, incapaci di andare avanti; per fortuna venne uno dei custodi a salvarci portando con sé una grossa lampada. Fu così gentile da farci da guida per il resto della visita. L’ultima stanza era dedicata ai dipinti tradizionali. L’arte etiope è molto stilizzata e le figure sono poco definite. Gli artisti usavano molto l’oro come da noi i trittici religiosi del medioevo. I colori erano bellissimi e non erano mai sfumati, ma corposi e con mia grande sorpresa luminosi, sì, emanavano una luce propria.
I dipinti spaziavano dalla sfera religiosa, in cui le figure di Cristo e dei Santi erano tutte rigorosamente nere, alla sfera più sanguinaria della guerra. Vi erano gli affreschi della battaglia di Adua in cui l’esercito abissino guidato dal negus Menelik sterminò il nostro esercito. L’affresco era molto realistico e a tratti faceva molta impressione.
In alcune teche di vetro erano conservate le divise militari, le armi e le munizioni, in altre, vi erano diversi piviali vescovili, e il sacro bastone che il vescovo porta sempre durante le cerimonie liturgiche. La croce di ferro che viene applicata sopra al bastone è veramente sensazionale: è riccamente incisa con figure geometriche e umane. Noi ne abbiamo comprata una in una specie di negozio di antiquariato.
Terminata la visita uscimmo e andammo a fare una passeggiata per il parco, dove c’erano gruppi di studenti che chiacchieravano, passeggiavano o studiavano seduti sul bordo delle fontane.
Il tempo purtroppo stava peggiorando (il tizio degli ombrelli doveva essere uno stregone potente!!) e così decidemmo di tornare in albergo.
Mentre aspettavamo un taxi davanti all’enorme cancello dell’Università che era dall’altra parte del giardino, passò un gruppo di ragazzi stupidi che schiamazzavano, importunavano la gente e cercarono di attaccare bottone con Yo, mentre ci squadravano dall’alto in basso.
C’era un traffico tremendo e stufi di aspettare, facemmo un pezzo a piedi e giungemmo in un luogo più tranquillo e finalmente trovammo un taxi, dove l’autista da ladro che era ci fece pagare un sacco la corsa. Se il taxi dell’andata era un trabiccolo, non era niente in confronto al taxi del ritorno: era un rottame sbilenco che si reggeva a stento sulle quattro ruote sgonfie, aveva il paraurti staccato da una parte che strusciava per terra con un rumore assordante, le portiere erano decisamente poco rassicuranti e dentro i sedili erano piegati in posizioni alquanto improbabili ed erano pieni di buchi. Poi, quando finalmente salimmo, un tantino spaventati, e il dannato autista mise in moto, una fumata nera e puzzolente ci invase. Era una cosa veramente da pazzi ! Poi durante il tragitto, la macchina ballò parecchio e il didietro sbattè più volte a terra, con un rumore molto , molto sgradevole.
Quando finalmente giungemmo sani e salvi all’albergo, lanciammo un lungo sospiro di sollievo e io ringraziai in silenzio tutti gli dei!
Ci riposammo per un paio d’ore, leggendo e guardando un po’ di tv, dopodiché andammo a cena. I baresi non vennero perché Paola aveva ancora il mal di pancia.
Non mi piacque quello che ordinai, era una specie di bistecca tutta bruciata, invece il pesce del Nilo che la mamma mi fece assaggiare era veramente favoloso!
Dopo cena tornammo in albergo e dopo una patita a carte e a Memory, tutti a nanna!
Bancarelle infernali
Il giorno dopo era il 28 di febbraio. Si rivelò uno dei giorni più caldi di tutto in nostro soggiorno in Etiopia, l’aria era secca e non c’era nemmeno un filo di vento. Anche se facevi un movimento minimo, sentivi le vampate di caldo e cominciavi a sudare come un cavallo.
Decidemmo di andare a visitare il famoso mercato di Addis Abeba, uno dei mercati più grandi ed incredibili che ci siano al mondo. È qui che i mercanti che provengono dai villaggi più lontani e dalle oasi più remote vengono a vendere la loro mercanzia.
Il mercato se non ho capito male occupa un quarto della città e si trova al confine con il deserto. È di dimensioni veramente colossali ed è affollato e vivo come una città.
Tafez a dire la verità non era molto contento di accompagnarci perché ci disse che era il luogo più pericoloso della città e che ladri e mendicanti erano gli incontri meno pericolosi che potessimo fare. Però alla fine accettò così salimmo sul pulmino e ci dirigemmo verso il grande mercato.
Ci volle parecchio tempo per arrivare, era molto lontano dall’albergo e in più c’era un traffico tremendo. Mentre ci avvicinavamo, notammo che le baracche si facevano sempre più numerose, e che sempre più gente bloccava il traffico.
Vedemmo diversi pastori, con le loro carovane di asini che portavano la merce e greggi belanti di pecore. Alla fine, riuscimmo a scorgere a fatica, tra la folla , le prime bancarelle e i primi capannoni.Era incredibile la quantità di gente e di confusione che c’era!Sembrava di essere sulla torre di Babele! Tafez dovette fare un sacco di giri prima di trovare posto per parcheggiare; alla fine quando lo trovò, dette istruzioni ben precise: non allontanarsi per nessun motivo da lui e rimanere sempre compatti nel gruppo. Prese Abraham in braccio (con lui era più sicuro) mi avvicinò a sé afferrandomi per un braccio mentre Yo stava ben attaccato ai miei genitori; Filippo e Paola avevano un’aria decisamente spaurita.
Così tutti compatti, ci incamminammo verso la prima bancarella. Ci si muoveva a fatica e la gente spintonava per poter passare; tenevamo le borse ben strette e cercavamo di non allontanarci troppo dai braccioni possenti di Tafez.
C’era così tanta merce sui banchi, così tanti colori e così tanti odori da far venire il mal di testa anche ad un fachiro! Non avevo mai visto un posto del genere: c’erano bancarelle che vendevano vestiti, stoffe, vasi, animali, formaggi, spezie, aromi, carne (la maggior parte andata a male), gioielli, verdure, oggetti d’arte, utensili vari, libri,
ecc…. Non mi sarei stupita se ci fosse stato qualcuno che vendeva donne o bambini!C’erano anche banchi dove si lavorava la merce: vedemmo una donna anziana accovacciata a terra che pestava con una pietra i chicchi di caffè, un’altra che li tostava in un pentolino fumante, altri uomini che costruivano cesti di vimini e tanti altri impegnati nelle occupazioni più varie. Era tutto un via vai, tutto un chiacchiericcio assordante, richiami di qua, urlacci di là! Era davvero un casino! E quando uno abbandonava la strada principale per entrare in un vicolo parallelo, si ritrovava tra muri di merce, alti tre o quattro metri.Era un tantino claustrofobico. Vedevi facce, facce e ancora facce, vestiti sgargianti, cappelli di vario tipo, turbanti; il suolo era ricoperto di verdure marce, di merce abbandonata e di sangue di animali macellati.
C’erano ovunque storpi e mendicanti, galline che razzolavano libere, polli macellati buttati con noncuranza in cesti di vimini, cani randagi che abbaiavano e altri che facevano la siesta sotto il sole cocente. Alcuni soldati armati pattugliavano la zona. C’era davvero da sentirsi male in quella bolgia incredibile! Per fortuna c’erano dei veri e propri negozi, così entrammo in alcuni di questi: visitammo una gioielleria dove comprammo degli orecchini per mia sorella e poi un negozio di antiquariato dove prendemmo la croce vescovile come quella che avevamo visto al museo.
Poco dopo stanchi e sfatti, tornammo al pulmino e andammo a fare un giro in un luogo meno affollato e più sicuro. Ci allontanammo parecchio e giungemmo in luogo abbastanza periferico, dove c’erano dei piccoli bazar. In uno di questi vendevano i vestiti tradizionali, tutti decorati con colori bellissimi. Sia io che Yo li trovammo della nostra taglia e i baresi ne comprarono uno in versione mini per Abraham.
Babbo non mi ricordo bene, ma mi sembra che abbia preso una maglia con dei disegni blu.
Vendevano anche stoffe e tovaglie per la casa. Una cosa che non ho detto è che all’orfanotrofio di Abraham, c’erano le donne che ricamavano e cucivano le tovaglie tradizionali e che poi vendevano ai visitatori. Noi ne comprammo un paio, una più bella dell’altra; la loro lavorazione richiede molto tempo e fatica.
Finiti gli acquisti tornammo in albergo e facemmo delle partite a ping pong;
c’era un gruppo di ragazzi che giocava al biliardino a fianco, avevano più o meno la mia età , e uno questi che mi fece notare la mamma, aveva uno sguardo quasi ferino, era impressionante, aveva degli occhi bellissimi di un taglio molto particolare e l’iride era di una tonalità tendente all’ocra. La sua concentrazione sulla palla da mandare in buca, era la stessa di una tigre sulla sua preda, un attimo prima di scattare e catturarla.
Un ragazzo un po’ più grande venne a giocare con noi. Era alto, robusto, aveva un pizzetto degno di un satiro e portava gli occhiali da sole colorati, di un bel viola acceso. Era molto bravo a giocare e anche simpatico: chiacchierammo in inglese e disse che era al secondo anno di università, non mi ricordo che cosa studiava, mi sembra fisica o qualcosa del genere.
Dopo il ping pong Yo ed io tornammo in camera mentre i miei genitori andarono a farsi un giro. Ad un certo punto chiamò Azeb e con mio grande stupore capii tutto quello che aveva detto (io l’inglese lo capisco abbastanza, ma non molto bene): aveva
chiesto come stavano Abraham e la sua famiglia e mi aveva pregato di riferire ai miei genitori che una degli assistenti sociali di Milano, aveva chiamato per avere notizie.
Fonduta di carne e pantaloni bagnati
Ad ora di cena prendemmo un taxi (eravamo soltanto noi quattro) e andammo in un ristorante fuori mano; ci mettemmo una ventina di minuti per arrivare.
Visto da fuori sembrava un cottage inglese, e dentro era arredato tipo trattoria. Sembrava un luogo dall’apparenza modesta, ma in realtà era quasi di lusso.
I commensali erano praticamente tutti bianchi, la maggior parte tedeschi, che bevevano birra e si sganasciavano dalle risate. Prendemmo posto e ci fecero aspettare un po’ prima di ordinare.
Quando arrivò il cameriere, io e babbo chiedemmo una fonduta di carne, la mamma non mi ricordo che cosa prese, forse un primo e Yohanes un dolce ( se il dolce non bastava, avrebbe assaggiato qualcosa da noi).
Attendemmo, e io nell’attesa pensavo al nostro soggiorno che stava per volgere al termine; in fondo non era stato tanto male, avevo visto cose nuove, posti nuovi, appreso nuove lezioni di vita…
La fonduta arrivò ed io e babbo guardammo con stupore il pentolino con l’olio caldo e con il fornelletto acceso sotto di esso, poi il cameriere ci aveva portato i piatti con i bocconcini di carne cruda, i lunghi forchettoni per immergerli nell’olio bollente e poi aveva poggiato in mezzo a noi un vassoio con diverse eleganti tazzine contenenti salse varie. Era tutto così buono, mi feci una mangiata degna degli dei! Una vera e propria grande abbuffata!
Yohanes assaggiò qualcosa e poi si mangiò il suo dolce, la mamma mangiò il suo piatto, senza la conseguenza di un bel mal di pancia come successe a me.
Dopo mangiato tornammo in albergo, giocammo a carte e poi andammo a dormire.
Una sera, purtroppo non mi ricordo quale, andammo di nuovo in uno dei ristoranti dell’albergo, che non so se era l’Unity o un altro dove mi capitò uno sgradevole incidente. La cosa andò così: dopo aver ordinato ( io un’omelette ai funghi), un cameriere venne ad apparecchiare; sistemò le tovagliette, portò da bere, versò l’acqua nei bicchieri e poi venne dal mio lato a sistemare meglio la tovaglietta , sulla quale c’era il mio bicchiere pieno d’acqua; fatto sta che quell’imbecille, per fare le cose male e in fretta, tirò troppo la tovaglietta e il bicchiere cadde e tutta l’acqua si rovesciò sulla mia maglietta e sui pantaloni: aprii la bocca dallo stupore (avevo anche la macchina fotografica in mano, che per fortuna non si rovinò) e il cameriere mi guardò con un’espressione assolutamente indecifrabile, tra il mortificato e il divertito.
Mi alzai lentamente, sgocciolando acqua dappertutto, e lanciando un’occhiataccia al cameriere, uscii accompagnata da babbo per andare a cambiarmi. Feci tutto il percorso camminando con le gambe larghe e i pantaloni arrotolati perché mi dava
fastidio il contatto con il bagnato; per fortuna non mi vide nessuno. Arrivati all’appartamento mi cambiai e scoprii che i miei pantaloni di lino rossi, zuppi da far paura, avevano lasciato il colore sulle mutande che da bianche diventarono rosa e mentre mi levavo le scarpe, vidi che usciva l’acqua anche da lì! Quel cameriere mi aveva fatto una vera e propria doccia fredda!
Una volta asciutta e cambiata, tornammo al ristorante e notai che il cameriere aveva asciugato tutto alla meglio, e per di più l’omelette ai funghi si era raffreddata e non mi piacque per niente, così quella sera andai a letto incavolata e affamata!
In quei dieci giorni me ne capitarono proprio tutte!
All’ambasciata
Il 1 Marzo era l’ultimo giorno e naturalmente la cena pantagruelica della sera prima
aveva sortito il suo effetto: ero piegata in due dal mal di pancia e mi lamentavo come una vecchia di 80 anni. Quel giorno andammo all’ambasciata italiana per farci dare tutti i documenti di espatrio per Yo e Abraham e per il soggiorno in Italia.
Quando Tafez arrivò con il pulmino, vedemmo che Azeb e Zion erano con lui e ci accolsero con affetto; era da diversi giorni che non ci vedevamo.
L’ambasciata era molto lontana e si trovava nella parte alta della città; il traballare del pulmino e le buche della strada non fecero certo bene al mio povero mal di pancia.
Il paesaggio diventava sempre più desolato e inabitato man mano che ci avvicinavamo, ed ecco che ad un certo punto, sul bordo della strada fangosa, scorgemmo un palazzo, con la bandiera americana…no non era la nostra ambasciata, a fianco c’era quella inglese, di fronte quella tedesca e irlandese e un po’ più avanti vedemmo l’ambasciata spagnola, quella francese e finalmente quella l’italiana, la nostra! C’e ne erano naturalmente molte altre, ma non ricordo di che Paese erano. Era la prima volta che vedevo così tante ambasciate tutte insieme, era alquanto insolito e strano. Scendemmo davanti al cancello dell’ingresso dove c’era una guardia dallo sguardo truce e arrabbiato. Superato il cancello entrammo attraverso una serie complicata di porte che avevano allarmi e luci lampeggianti. Manco fosse stato il quartier generale della C.I.A.! Ci fecero accomodare in una accogliente e graziosa sala d’aspetto con le pareti tappezzate di avvisi e depliant e con comode sedie rosse dove ci sedemmo.
Paola mi porse Abraham per fargli fare un giretto, così lo presi in braccio e lo portai vicino alla bacheca dell’ingresso e lui con le sue tozze manine toccava i fogli, balbettava, poi sorrideva; era un amore. Poi cercò di strappare un depliant che aveva sulla copertina una donna sorridente che portava un cesto sulla testa, ma lo fermai appena in tempo. Dopo averlo portato in giro per tutta la sala d’aspetto, lo detti a Zion che cominciò a fargli il solletico e le smorfie per farlo ridere.
Ad un certo punto la porta si aprì e una coppia uscì e ci salutò; una voce disse dall’interno:
:- Avanti il prossimo! -:
Andammo prima noi e poi i baresi. C’era un lungo corridoio con alle pareti delle mappe e dei quadri, ma la porta dell’ufficio era una delle prime sulla sinistra: dentro c’era una donna che era una sorta di officiante dell’ambasciatore; non ricordo
assolutamente il suo nome ma l’aspetto fisico sì: era una donna imponente sulla quarantina, dalla carnagione molto scura e gli occhi chiari che per un primo momento presi per un’ etiope, poi ci disse che era siciliana, eh già!
Ci preparò i documenti, ci spiegò quello che dovevamo fare all’aeroporto e come comportarci una volta giunti in Italia; non seguii molto, c’erano delle pratiche burocratiche di mezzo e io non ci capisco niente di questa roba. Poi ci fece alcune domande su come ci eravamo trovati in quei 10 giorni, se ci era piaciuta l’Etiopia e infine che cosa facevamo nella vita. Lei ci lavorava da tanto lì e non so come poteva vivere in quel posto, io non ci vivrei mai in Etiopia! Quando si ritenne abbastanza soddisfatta sul lavoro svolto ci congedò e fece entrare i baresi con Abraham.
Poco dopo uscirono anche loro e così ci dirigemmo tutti verso il pulmino dove c’era Tafez che ci aspettava. Prima di salire, facemmo una foto ricordo davanti all’ambasciata, guadagnandoci gli improperi della guardia: a quanto pare era vietato fare le foto in quel luogo: vedi quante cose si imparano!
La festa al C.I.A.I.
Al C.I.A.I. avevano preparato una festa di addio e così ci dirigemmo lì.
Lungo la strada ci fermammo e facemmo salire una delle ragazze con cui spettegolavo l’altra volta e l’ uomo barbuto dall’aria distinta che avevamo visto ad Almaz.
Quando arrivammo, si sentiva un profumino delizioso venire dall’interno, e io che avevo il mal di pancia non avrei mai potuto assaggiare la prelibatezza che emanava quell’invitante effluvio.
Dentro c’era diversa gente: gli italiani Marta, Fabio e il presunto Dario, Marja, l’altra ragazza con cui spettegolavo, un uomo minuto e con i baffi che non avevo mai visto che si presentò come Enoch, molto gentile e simpatico, la ragazza che preparava il caffè, e un via vai di donne che venivano e andavano dalla cucina sul retro.
Per l’occasione avevano addobbato un po’ la sala e per terra , vicino al vassoio con le tazzine del caffè, avevano sparpagliato dei petali di fiori e dei fili d’erba. Una volta entrati, nella stanza non c’era davvero più spazio per nessuno.
Su un tavolino dietro ai divani, c’erano già a disposizione bibite e piatti con gli antipasti: vi erano delle specie di felafel e di involtini triangolari, ripieni e molto piccanti, e degli altri stuzzichini. Poco dopo con un grande grido di giubilo degli astanti Fabio sbucò dalla cucina tenendo tra le mani un gigantesco ciotolone con una quantità enorme di spaghetti al pomodoro; dietro di lui una ragazza portava in una mano un piatto con la “ngeera” e con l’altra un pentolino con la carne immersa nella salsa piccante. Poi furono portate altre pietanze e a me arrivò un “bel”piatto di riso, che per fortuna era condito con una salsa che lo insaporiva un po’. Enoch che era seduto vicino a me sul divano, se la stava godendo della grossa, riempiendosi di felafel e di “ngeera” e quando vide la mia espressione schifata davanti al desolato piatto di riso, si sganasciò in una risata che sembrava non finire mai; lo guardai arrabbiata, poi mi feci coraggio e infilai la prima cucchiaiata in bocca: non era poi così male in fondo!
La sala risuonava di chiacchiere e risate e la gente andava avanti e indietro con bicchieri di vino in mano.
Di fronte a me Paola cercava di imboccare Abraham che invece voleva fare tutto di sua iniziativa: allontanava il cucchiaio che la mamma cercava di infilargli in bocca, con la mano prendeva un po’ di pappa, dopodiché se la infilava tra i denti; alla fine Paola cedette a quel suo modo di fare.
Più in là, vidi “Dario”, Filippo e babbo che osservavano con interesse una cartina dell’Etiopia e indicavano certi luoghi, mai sentiti nominare.
Yohanes aveva mangiato buona parte della sua “ngeera” e insisteva nel voler fare le foto a tutti chiedendo a mamma:
:- Foto! Foto! -:
E lei alla fine gliele fece fare, così per 10 minuti buoni flash e rumori di scatto invasero la sala!
Alla fine del pranzo e dopo aver preso il caffè (io non potei!Maledetto mal di pancia!Quanto mi manca quel magico caffè!) Azeb richiamò l’attenzione di tutti e fece un lungo discorso sul perché eravamo lì, come erano andate le cose tra noi e loro, e su come era bello quello che stavamo vivendo ed infine tra gli applausi generali dette un regalo a noi ed uno ai baresi; io che ero andata a ritirare il nostro avevo ringraziato in amarico:
:-“Ameseghenallo”-:
e naturalmente tutti gli etiopi giù a ridere. Chissà quanto avevo storpiato la povera parola “grazie”! I regali si rivelarono essere due cassette di due cantanti etiopi, che a detta di Tafez erano il Robbie Williams e la “Madonna” di Addis Abeba. Beh, se lo diceva lui, allora doveva essere così! Rimanemmo a chiacchierare un altro po’ e io feci qualche schizzo da regalare a tutti i nostri cari amici etiopi.
Addio!
Dopo uscimmo e facemmo le foto di gruppo nel cortile, foto piene di facce sorridenti, che ancora oggi guardo con nostalgia. Eravamo lì tutti insieme, abbracciati e felici!
Dopo Azeb e Zion, ci fecero visitare gli uffici del C.I.A.I: erano stanzette piccole, con scrivanie stracolme di scartoffie e di libri, vi era qualche computer e occasionalmente qualche pianticella posta vicino alle finestre; sulle pareti c’erano fotografie, avvisi, cartine, e appeso nell’ufficio di Enoch, vi era una specie di tessuto, tutto decorato e ricamato: era molto bello.
Con grande tristezza, giunse il momento di dire addio alle assistenti sociali:eravamo tutti commossi e abbracciammo con calore Azeb e Zion e le ringraziammo di tutto; avevano fatto così tanto per noi! Poi loro due fecero una foto ricordo con Yohanes.
Salutammo tutti gli altri e raccomandammo buona fortuna ai tre ragazzi italiani, che sarebbero dovuti rimanere lì per altri sei mesi, poveracci. Quando Fabio mi abbracciò e mi baciò sulla guancia, sobbalzai un poco, ma non avevo più nessun rancore verso Marta, era così gentile e carina!
Saliti sul pulmino, guardammo sorridendo Azeb, Zion e gli altri che ci salutavano con la mano. Non me li sarei dimenticati mai, erano delle persone eccezionali.
Ci dettero anche l’indirizzo così potevamo scriverci e spedirci le cartoline.
Arrivammo in albergo abbastanza stanchini, così ci riposammo sul divano con la tappezzeria rovinata e giocammo a carte e a Memory. Poi preparammo le valigie, il che richiese diverso tempo perché dovevamo sistemare anche le cose che avevamo comprato, che erano in gran quantità. Però dopo circa un’ora, le valigie erano già tutte belle e pronte all’ingresso, in attesa di essere caricate sul pulmino di Tafez l’indomani. In attesa dell’ora di cena, guardammo la tv e colorammo qualche altra figura del libro di Yo. Il ragazzetto era eccitatissimo all’idea di salire su un aereo e continuava a ripetere incessantemente e con euforia:
:- Awroplan, awroplan! -: (in amarico significa aereo).
Poi prese i suoi libretti, mi fece sedere vicino a sé e cominciò a leggermi qualche brano, mi indicava le figure, poi parlava, parlava e scoppiava a ridere vedendo la mia espressione interrogativa; non capivo una parola di quello che diceva, ma lo ascoltavo con interesse lo stesso e a lui questo fece molto piacere.
Finalmente con mio grande sollievo, arrivò l’ora della cena, perché avevo un mal di testa pazzesco: la vocina acuta di Yohanes mi aveva penetrato il cervello per circa un’ora. Ci preparammo per uscire e andammo a prendere i baresi, dopodiché ci avviammo al ristorante dell’albergo, lo stesso dove facevamo colazione e dove avevo mangiato il pesce del Nilo.
Durante il tragitto, portai Yo sulle spalle ma non lo apprezzò molto, aveva paura di cadere.
Cenammo chiacchierando e parlando del giorno dopo, del viaggio e dell’arrivo in Italia.
Yohanes era arcicontento e rideva in continuazione! Era davvero eccitato! Giocherellò con Abraham e con il permesso di Paola e Filippo, se lo mise sulle ginocchia e lo sbaciucchiò dappertutto :erano così carini insieme! Proprio teneri.
Dopo cena facemmo un po’ di foto e andammo a fare un giro per il parco, poi ci augurammo la buona notte e andammo a dormire.
Il ritorno
Il 2 di Marzo era il giorno della partenza: io ero allo stesso tempo sollevata, perché ero stanca e un po’ stressata (mi erano anche venuti due herpes e il mal di pancia non era sparito del tutto) e allo stesso tempo triste di lasciare un posto che mi sarebbe per sempre rimasto nel cuore e che ancora sogno con nostalgia.
Portammo fuori le valigie, controllammo di non aver lasciato niente in giro e poi Tafez che era già lì ad aspettarci, caricò le valigie una ad una, fece salire noi e i baresi, chiuse lo sportellone, si mise al volante e partimmo di gran carriera. In poco più di mezzora eravamo all’aeroporto.
Tafez ci aiutò a scaricare le valigie e poi quando ci salutammo, scoppiò a piangere dalla commozione; un uomo grande e grosso come lui che piangeva come un bambino! Era così tenero; salutò tutti con vigorose strette di mano e calorosi abbracci, mentre cercava di asciugarsi le lacrime con il dorso del braccio; prese Abraham in braccio per l’ultima volta, lo riempì di bacini e ripeté più volte il suo nome:
:- Abraham! Abraham! -:
Poi lo ripassò a Paola.
Quando passò a me, mi abbracciò forte , quasi stritolandomi e mi baciò sulle guance, i suoi baffi mi fecero il solletico e io gli sorrisi, commossa.
Poi Tafez salutò Yo dandogli un sacco di pizzicotti, poi con un’aria seria, gli disse qualcosa in amarico: doveva essere tipo un sincero augurio di buona fortuna.
Poco dopo mettemmo le valigie sui carrelli, salutammo per l’ultima volta Tafez (non me lo dimenticherò mai) e ci dirigemmo verso il terminal con il tetto costituito dalle grosse piramidi di vetro.
Una volta entrati, andammo al check-in, dove fecero passare le nostre valigie, dopodiché compilammo dei foglietti rosa che non avevo idea di che cosa fossero e servissero: forse facevano da sorta di documento; beh comunque era una norma da rispettare in quell’aeroporto.
Avevamo almeno un paio d’ore prima di imbarcarci e così andammo in un bar a fare una piccola merenda e a bere un caffè; poi visitammo i negozietti e i duty free che c’erano là intorno: la mamma comprò a Yohanes una simpatica maglietta gialla con due giraffe.
Dopo aver fatto un giro (che comprendeva una visita al bagno), andammo al posto d’imbarco, ci sedemmo e aspettammo per un altro bel po’ di tempo. La nostra fila di
sedie era davanti ad una grande vetrata dalla quale si poteva vedere il nostro lungo aereo che in quel momento stavano caricando.
Abraham poverino si era un po’ innervosito così la mamma si offrì di fargli fare un giro nei dintorni ; c’è una foto molto simpatica di lei che tiene in braccio il piccolo ed entrambi sorridono amabilmente.
Finalmente, quando cominciavo a stufarmi pure io, chiamarono il nostro volo e ci mettemmo in fila, con documenti e biglietti. Salimmo sull’aereo e ci mettemmo nei posti assegnati: io babbo e Yo eravamo in una fila, mamma, Filippo e Paola con Abraham erano dietro a noi. Abraham non si era del tutto calmato e anzi aveva cominciato a strillare come un ossesso: andava cambiato e non potevamo alzarci finché non avremmo preso quota. C’erano molti altri bambini, molti dei quali piangevano e urlavano anche loro. Tutti presero i loro posti e dopo diversi annunci all’altoparlante, legammo le cinture e l’aereo finalmente si mosse. Dal finestrino vidi il terminal che si allontanava e mentre l’aereo acquistava velocità ebbi quasi nostalgia di quel posto. Poi tra gli urli eccitati di Yohanes e i miei che non lo erano affatto, (odio il momento della partenza, quello dell’arrivo lo trovo più eccitante) l’aereo decollò e in pochi secondi l’aeroporto, la pista d’atterraggio e tutta la città, con le sue baracche e le sue strade affollate, si ridussero a tanti puntini colorati e poi scomparvero dalla vista.
Non mi sarei mai dimenticata di quella città così povera e piena di miseria, che mi rimarrà sempre impressa ed avrà per me sempre un incredibile fascino esotico.
Non molto tempo dopo le hostess ci portarono il pranzo, che non fu tanto male: mangiai tutto tranne una cosa giallognola che non riuscii bene a definire.
Paola, babbo, Filippo e la mamma fecero a turno per portare Abraham su e giù per l’aereo (eh sì, bisognava farsi in quattro per quel piccolo demonietto).
Quando la mamma tornò dal suo giro, le chiesi se potevo tenere per un po’il pupo, lei acconsentì, così per un quarto d’ora il piccoletto stette sulle mie ginocchia giocherellando con i miei capelli e tirandomi la maglietta, poi rendendosi conto che non era cullato tra le possenti braccia della madre, con una forza sovrumana, piagnucolando, si issò sulle gambe e attaccandosi ai miei capelli (mi strappò via mezzo scalpo che è pure molto folto) si arrampicò sulla mia testa, poi sul sedile e finì incolume tra le braccia di Paola! La mamma è sempre la mamma!
C’era anche un film in programmazione: “Io robot” con Will Smith alle prese con migliaia di robot antropomorfi, molto, molto cattivi. Non era male, uno spettacolone per gli occhi pieno di effetti speciali; era in inglese e riuscii a captare il significato di qualche dialogo.
Alla fine del film, c’eravamo lasciati alle spalle il deserto illuminato dal disco solare che aveva fatto da panorama per circa tre ore di volo; vedemmo anche il Nilo, il fiume più lungo del mondo e gli altopiani egiziani.
Man mano che ci riavvicinavamo all’Italia, il sole calava sempre di più e fu uno spettacolo volare tra spirali, volute e mulinelli di nuvole, candide come la panna
montata, che si tingevano di rosa, poi di rosso, di cremisi e di colori sempre più infuocati, fino a che il sole non tramontò del tutto e il cielo assunse una tonalità
violacea e bluastra. Faceva sempre più freddo e ci infilammo felpe e maglioni; ormai non mancava molto all’arrivo. Infatti non molto tempo dopo l’aereo cominciò a entrare in turbolenza e a planare, mentre Yohanes lanciava grida di giubilo (adesso sì che ero eccitata pure io!) e si poterono vedere le prime luci della città di Roma e quelle della pista di atterraggio. Pochi istanti dopo, l’aereo atterrò con un grande rombo di motori e dopo aver rallentato gradualmente la corsa sulla pista, si fermò.Ci togliemmo le cinture, prendemmo le nostre poche cose e ci mettemmo in fila per l’uscita. Mentre camminavamo lentamente, scorsi la famiglia seduta davanti a noi all’andata e il bambino che avevo visto in realtà era una bambina con tanto di orecchini e pantaloncini rosa!I genitori ci salutarono sorridenti, mentre l’altro figlioletto era in braccio alla mamma, profondamente addormentato.
Finalmente a casa!
Scendemmo dall’aereo e la hostess che stava vicino allo sportello ci sorrise a mo’ di saluto. Entrati nell’aeroporto, ci mettemmo cappotti e sciarpe perché faceva un freddo della miseria! Poi andammo all’ufficio locale di polizia dove ci dovevano firmare il permesso di soggiorno di Yo e di Abraham; un po’ di tempo dopo avevamo sistemato tutte le pratiche e quando il poliziotto che si era occupato di noi scoprì che eravamo di Siena, disse rivolgendosi a Yo in forte accento romanesco::- Siena eh, rigatino bbono, vino bbono, se magna bbene eh?! -:
Yohanes semplicemente sorrise mentre noi scoppiammo in una fragorosa risata.
Quando i baresi finirono pure loro con i carabinieri, corremmo a ritirare le valigie.
Paola e Filippo erano in ritardo, stavano per perdere il loro volo per Bari e cercarono di intrufolarsi nella folla in attesa; Paola mi appioppò un confuso Abraham e stetti quasi per cadere, con lo zaino dietro che pesava un quintale e il sacco di patate che era quel bambino. Riuscii a metterlo in una posizione più comoda, poi finalmente i baresi tornarono trafelati, si ripresero Abraham (con mio grande sollievo) e ci salutarono in fretta ringraziandoci di averli aiutati in quei giorni, dopodiché detti un ultimo bacino al piccoletto, prima che la famiglia corresse via a gambe levate per non perdere l’aereo.
Quando uscimmo, all’ingresso trovammo un gruppetto di persone che ci aspettava: zia Nicoletta, zio Franco, zia Gianna e mia cugina Cecilia che ci salutavano freneticamente con la mano e ci sorridevano con le lacrime agli occhi! Abbracciai la mia adorata Nico che fece commenti satirici sulla nostra abbronzatura; tutta invidia! Salutai gli altri zii e la mia cuginetta che era venuta lo stesso nonostante fosse raffreddata e avesse la febbre alta. Il piccolo Yo fu coccolato da tutti e sbaciucchiato in tutti i punti possibili e immaginabili.
Lui era così timido, che guardava per terra senza dire niente. Lo zio Franco ci aiutò a portare i carrelli e ci fece strada verso la nostra macchina che lui si era offerto di tenere mentre noi eravamo via; caricammo le valigie nel bagagliaio e sistemammo tutti i numerosi pacchi e pacchetti.
Gli zii Franco e Gianna regalarono a Yo un game-boy con i giochi di “Monster & Co” e di “Alla ricerca di Nemo”. Lui disse un timido grazie e i due zii gli sorrisero. Nico invece gli regalò un grazioso quaderno con una foto di lui stesso in copertina e una grossa matita multicolore. Salutammo il gruppetto romano, con abbracci e baci affettuosi e salimmo nella macchina gelata. Partimmo e gli zii e mia cugina continuarono ad agitare freneticamente la mano per un bel pezzo, poi scomparvero dalla nostra vista.
Durante il viaggio verso Siena, mostrai a Yo come funzionava il videogioco e poi gli insegnammo delle altre parole in italiano grazie anche agli schizzi che facevo sul quadernetto appena regalatogli. Poi il piccoletto, stanco morto, si addormentò.
Dopo tre ore arrivammo a Siena, veramente spossati per il lungo viaggio della giornata. Scaricammo la macchina e salimmo le scale di casa: mia sorella Olga era in cima ad esse, in trepidante attesa e quando vide Yohanes, si presentò e lo abbracciò calorosamente.
Poi noi tutti ci facemmo una bella doccia ristoratrice e cenammo. Olga ci raccontò della sua favolosa gita in Portogallo e noi le raccontammo la nostra rocambolesca avventura etiopica.
Poco dopo, stanchi morti ci preparammo ad andare a dormire; i miei genitori prepararono il letto di Yo nella mia stanza: per un periodo avrebbe dormito con me, perché stavamo facendo sistemare la sua cameretta al piano di sopra.
Dopo che il piccolo, si fu lavato i denti, tutti noi eravamo pronti ad augurargli la buona notte ; lui si svestì, si tolse il suo inseparabile cappello alla Bob Marley, si infilò il pigiamino e si ficcò sotto le coperte tirandosele fin sopra la testa, poi a turno ci chinammo per dargli il bacino della buona notte, mentre ridacchiava come un matto. Quando gli detti il mio bacino, capii che la vita sarebbe cambiata e che sarebbe diventata più allegra e spensierata come quel bambino che ora dormiva profondamente sotto il mio sguardo commosso.
Cristina Chiappinelli
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