di Elisa Bertani –
Non si spostavano. Immobili nel centro della strada mi guardavano stupite: muso bianco e nero e macchia fucsia sul manto candido, quasi si fossero rotolate nell’erica che ricopre le colline circostanti. In questa isolata strada costiera dal nome emblematico, Bothan na Speire (sky road), nella penisola di Dingle, le pecore erano, assieme alle nuvole bianchissime in perenne movimento, l’unica presenza e non si sarebbero certo fatte intimorire da una piccola auto giapponese.
Finalmente riesco a proseguire. La destinazione è Galway da cui mi sarei imbarcata per le isole Aran. Avevo lasciato alle spalle il paesino di Dingle, la cittadina più ad occidente d’Europa. Luogo affascinante: punta estrema di un continente che SOLO l’oceano divide dalla costa americana. Mentre passeggiavo tra le case del paese dalle più incredibili sfumature pastello, avevo ripensato a tutti coloro che erano partiti alla ricerca di una terra promessa, una frontiera che si era spostata sempre più ad ovest e promessa di felicità solo fino a quando era rimasta irraggiungibile.
A Dingle tutto e permeato di cultura gaelica. Il caffè-libreria dove mi ero fermata, per esempio, era un posto strano costituito da un’ampia stanza che accoglieva i tavolini di un piccolo ristorante e tutto intorno scaffali di libri che potevi leggere o comprare. Il menù era rigorosamente scritto in gaelico ed i libri stessi si rifacevano alla cultura celtica ed alla letteratura irlandese moderna. Avevo sfogliato alcune short stories di Edna O’ Brien e mi era rimasta impressa una frase in cui definiva la sua terra” a land of murder and a land of strange sacrificial women”. A dire il vero quelle donne non le avevo ancora incontrate o forse, semplicemente, non le avevo sapute riconoscere.
Trascorro la notte a “Panorama”, un bellissimo cottage affacciato su una baia da cui si gode un’incantevole vista sull’oceano e, grazie al potente cannocchiale posto davanti alla vetrata del salotto, una scintillante visione notturna del cielo. Alla mattina, dopo la solita deliziosa colazione che sembra non avere mai fine, mi rimetto in marcia e giungo a Galway appena in tempo per prendere il traghetto per Inishmore, l’isola più grande delle Aran, e già il viaggio è duro e aspro come la terra che mi aspetta.
Il cielo si fa cupo e la linea dell’orizzonte, che fino a poco prima era stata un bagliore accecante colore argento, scompare. Le onde alte e nere ed il vento sferzante sospingono la barca che sembra solo risalire un’onda per poi inabissarsi prima di quella successiva, senza riuscire a procedere. Mentre i membri dell’equipaggio, impassibili e dallo sguardo un po’ beffardo, ci raccontano storie vere di navi scomparse in questo tratto di mare e mai più ritrovate, noi, i turisti, ci rifugiamo sottocoperta soffocati dalla puzza di gasolio e terrorizzati dal muro di oceano che ci avvolge.
Quando arriviamo a Inishmore tutto si è placato e sull’isola splende il sole. Lascio il mio bagaglio nell’unico bed&breackfast a pochi passi dal molo e mi affretto verso il negozio di noleggio biciclette, unico mezzo di trasporto obbligato, ma, mi accorgo ben presto, non particolarmente adatto al vento che spazza l’isola. Ed improvvisamente capisco perché non ho visto alberi, ma solo erba e distese di fiori gialli e perché tutte le biciclette procedano a fatica. Mentre arranco lungo la strada costeggiata da una fila ininterrotta di muretti a secco, con lo sguardo perso tra il giallo ed il blu, una biciclette mi affianca. Sulla ruota davanti è fissato un cestino che contiene un grosso pesce e l’uomo che la guida mi ricorda quei folletti delle mie fantasie di bambina : magro, non molto alto, capelli ricci, lunghi e bianchissimi, barba che incornicia il volto e occhi blu che mi trafiggono. Con parole dal suono dolce, che a volte perdo, mi parla di monkfish, di pub, di birra, di fiddles e capisco che mi invita per quella sera ad una festa di musica e danze. Poi, sorridendo, si allontana e scompare tanto misteriosamente come era arrivato.
La mia meta è vicina. I fiori scompaiono e rimangono solo lastre rocciose e sassi. Ormai si può proseguire solo a piedi. DUN AENGUS è di fronte a me: sono i resti di un forte preistorico a forma di semicerchio che si affaccia su una scogliera alta 100 metri a strapiombo sull’oceano. Sono alla prima cinta di blocchi di pietra e mi avvicino alla seconda. Adesso di quella fortificazione non è rimasto molto, ma doveva essere imponente e inaccessibile. Per terra si vedono tracce di quelle che sembrano fondamenta, perse tra l’erba verdissima. Poi alzo lo sguardo e rimango incantata. Nulla si frappone tra me e l’orizzonte, solo un altopiano roccioso che divide mare e cielo come una netta, esatta riga disegnata con la squadra. Le scogliere in lontananza sono nere e frastagliate, sferzate da onde violente.
Entro nella terza ed ultima cinta di mura, costituita da un semicerchio più piccolo. Il vento è così forte che cammino a fatica, ma siccome non c’è nessuna recinzione riesco ad andare oltre. Ho difficoltà a stare in equilibrio e quando sono ormai a pochi metri dal limite della scogliera mi sdraio per terra e mi trascino avanti. Sporgo la testa e guardo nel vuoto sotto di me. Il fragore del mare risuona nella mia mente e laggiù l’acqua ha degli splendidi colori cangianti: nera, blu e improvvisamente bianca. Sporgo le braccia e il vento mi abbraccia, mi prende, mi afferra. Mi sento leggera e migliaia di gocce d’acqua mi bagnano il viso. Volare qui, adesso, in questo istante è facile, basta lasciarsi andare, lasciarsi cadere – un attimo.
Quello che terrorizzava gli antichi Celti si avvera per me, ma con dolcezza: il cielo mi crolla addosso e così sarà fino alla fine.
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