di Pierluigi Cortesi –
Due uomini in bici
(per tacer del terzo)
Resoconto di una cicloavventura in otto giornate, un prologo e un epilogo Prologo La vigilia
Quinta giornata In Ősterreich !
Prima giornata Salitina dell’Abetone
Sesta giornata Großglockner űber alles
Seconda giornata Verso la Padania
Settima giornata Salzburgerland
Terza giornata Da Verona a Trento
Ottava giornata Lieber Siegfried…
Quarta giornata Alto Adige o Sùd Tirol?
Epilogo Il ritorno
ANTEFATTO
Il viaggio allo Stelvio con Alberto, l’indefettibile compagno di ciclo-scorribande, è ormai alle nostre spalle: i suoi momenti più buffi o più intensi, le fatiche più massacranti come gli aneddoti più lievi, tutto col tempo è stato ricoperto dalla duplice patina del mito e dell’autoironia. Ma dopo un anno sabbatico dal punto di vista ciclistico, ma stressante e ansiogeno da quello lavorativo, è rinato il desiderio di cimentarsi in una “grande impresa”, vissuta con spirito picaresco sul filo dell’avventura e dell’humour. Ed è ancora Alberto che si affida alla mia conclamata incapacità di pianificatore. La scelta dell’itinerario è condizionata dall’esigenza di percorrere almeno un migliaio di km, di superare i confini nazionali (siamo o non siamo cittadini d’Europa?) e, naturalmente, di misurarci con montagne di tutto rispetto. La meta ideale, a questo punto, mi è parsa, senza ombra di dubbio, l’Austria, tanto più che presso Linz vive Siegfried Mairhuber, un amico in grado di ospitarci e desideroso di unirsi a noi in qualche sgambata; ma soprattutto perché l’Austria ospita il celebre Großglockner, un passo di 2570 m. che supera un dislivello di 1470 m. in 23 km circa, degno quindi di rivaleggiare con lo Stelvio.
Anche stavolta, mi sono autocandidato come organizzatore del viaggio (Alberto lo lascia fare a me, probabilmente non tanto per fiducia nelle mie capacità, quanto per il piacere di fare poi tutto il contrario di quanto programmato), io studio e confronto minuziosamente i possibili percorsi, preparo e stampo le solite tabelle, le aggiorno e ristampo rivedute e corrette, fotocopio le cartine; infine dopo l’ultimo rendez-vous con A., nell’imminenza del viaggio, si butta tutto, puntando su un altro itinerario.
Di comune accordo, comunque, decidiamo di prendere il via da Rosignano, rifiutando sdegnosamente la possibilità di risparmiare 20 miseri km partendo da Livorno; anzi, per soprammercato, eviteremo il troppo morbido valico appenninico della Cisa, quello del viaggio allo Stelvio, optando per l’Abetone, poi, seguendo in gran parte la via del Brennero, scavalcheremo le Alpi a Dobbiaco e punteremo sul salisburghese, dopo aver domato il temibile Grossglockner; infine, dopo qualche slalom nella regione dei laghi, dilagheremo nell’Alta Austria fino a Gallspach, dove ai “due uomini in bici” si aggiungerà buon terzo Sigi, l’amico austriaco che ci ha invitato a pedalare con lui sulle sue colline al confine con la Repubblica Ceca o lungo il Danubio.
PROLOGO
Domenica 28 luglio
Vigilia febbrile di preparativi.
1 – Interrogativi esistenziali: Quante paia di calzini e quanti slip? Pesa di più lo shampoo o il bagnoschiuma? Meglio un bullone lungo con due dadi o due corti con tre dadi piccoli? Cosa portare per fare luce di notte o in galleria? Comprare integratori salini in loco o portarli da qui (e quanti)? Che medicamenti preparare? E per fronteggiare brufoli, arrossamenti o peli incarniti? Già, e la catena con lucchetto?
Promemoria di base su alcune cosucce da portare: mastice e toppini di 2 misure, kit-riparazioni (chiavi/ brugole/ cacciaviti/ tiraraggi/ estrattore/ smagliacatena), calamita, colla, scotch e nastro, fil di ferro grosso e piccolo, spago e cordami vari, cinghie ed elastici diversi, temperino multiuso, forbicine, ago & fili, guanti tipo Coop o da rigovernare, spille da balia , graffette, salviette rinfrescanti, pulenti e disinfettanti, cerotti, antibiotici e pasticche varie, Arnica, Mercurocromo, garze con graffette, fogli di Scottex e fazzoletti di stoffa, buste di plastica di vario tipo, depliants, tabelle e mappe del percorso italiano e austriaco, carta, taccuino, penne, lapis e gomma, caramelle, vestiti, scarpe, asciugamanino e beauty case, zainetto, K-way e mantella cinese, occhiali da vista e da sole, telefonino con caricabatteria, soldi, bancomat e documenti etc.
2 – Preparazione del mezzo: Cambiamo fascione e camera d’aria posteriori. OK. In solo 22’ (quando si dice l’esperienza…). Montiamo sacche posteriori; nonostante un bullone rotto, e due dita sbucciate, OK anche qui (c’è poco da fare: se uno è bravo, è bravo). Toh, il freno posteriore frena solo per finta, la ruota è un po’ messa di traverso i raggi delle ruote vanno regolati, però sono un po’ arrugginiti; che vuoi che sia per un meccanico esperto? Al lavoro! Track! Lo sapevo… si è rotto un nipple, i raggi non sono riuscito a tirarli e la ruota è più storta di prima; ma soprattutto è domenica.
Cicloriparatori aperti a Livorno? Nemmeno a pensarci. Corsa precipitosa a Solvay: chiuso! Castiglioncello: <<Certo, facciamo anche riparazioni. Ah, beh, no, queste non le sappiamo fare…>>. A Vada, allora? Nein. Ululati di disperazione, finché San Cicloforo protomartire fa il miracolo: a Rosignano per soli 5 € un negoziante, aperto per caso, mi cambia nipple e raggio, smonta e rimonta gomme, centra la ruota e mi dà 3 nipples e 3 raggi di riserva…
3 – Frenesie dell’ ultim’ora: se prima di caricare i bagagli, avevo un peso lordo (cioè oltre al mio, che tanto netto non è) superiore a 21 kg., vuoi che, ultimato il carico, non si siano raggiunti i 30? Operazione alleggerimento in atto: con grave sacrificio e sprezzo del pericolo si rinuncia a 1 paio di calzini, 2 bulloni, 3 bustine di sali minerali, 4 toppini col 2° mastice, 5 fogli di Scottex, il kit di sopravvivenza di riserva, 1 graffetta, 1 fazzoletto, monetine varie con l’incredibile risparmio di gr. 148. Soddisfatto per l’inatteso risultato, telefono ad Alberto che, data la lunghezza della prima tappa, concorda con me sull’ opportunità di partire moooolto prima del solito: si stabilisce perciò di ritrovarci da me non dopo le 10, così da anticipare la partenza nientemeno che alle 10,30; poi mi comunica di aver preparato la bici con soluzioni tecniche incredibili che mi sorprenderanno. La notizia mi sconvolge, non posso restare indietro anche in questo genere di gara; perciò mi arrovello, finché la soluzione geniale è quella di dotare le sacche posteriori di fasce riflettenti (che faccio preparare da moglie e suocera) e –tocco di raffinatezza- di paillettes (sono quelle della gonna da danza del ventre di Gea, ma ne avrà duemila, manco se ne accorge) che infilo e fisso personalmente alla bici in modo che, sculettando per il vento e il movimento, rendano più visibile il mio bolide. Domani, al concorso “BiciBella- Estate 2002”, la vedremo.
Deprecabile esempio di solidarietà femminile; madre e figlie si scannano quotidianamente, ma quando c’è da coalizzarsi per dare addosso all’ unico (per forza!) uomo di casa, si scoprono animate da un medesimo sacro fuoco: un’ ignobile spiata rivela che le famose 2000-paillettes-2000 si sono ridotte a 1990. Fatico ad arrampicarmi sugli specchi della dialettica per dimostrare come, per loro, l’estetica e la leggerezza ne abbiano tratto vantaggio.
Sono le 2 di notte quando, soddisfatto, mi guadagno il letto e un sonno simile a quello del Principe di Condè.
IL VIAGGIO
1° giorno – Lunedì 29 luglio
Sveglia, colazione e preparazione come da manuale: Alberto (per brevità d’ora in poi lo chiameremo A.) arriva con notevole anticipo sul solito ritardo e mi trova quasi pronto per davvero; show dei rispettivi mezzi , con tanto di “Oooh!” davanti alle soluzioni tecniche dell’altro (lui si è inventato delle magnifiche staffe reggi-borse, ricavandole dalle cassette da frutta della cooperativa “Poggibonsi Sud” o simile), gonfiaggio e controlli generali. Ripresa dei mezzi stracarichi e dei piloti con la nuova videocamera Sony di A.
Partenza verso le 11. Tardi? Macché! Solo i fanatici pseudo-ciclisti partono alle 7.30 del mattino; ma quelli sono dei fissati monomaniacali, basta vedere come si addobbano: tutti con gambe depilate da galletti amburghesi in libera uscita, calzoncini/maglietta/calzini firmati e sponsorizzati, beveraggi-bomba etc. Pecore in fibra di carbonio, sono, Profanum vulgus. Vuoi mettere con dei cultori della ciclosofia, dei romantici del pedale come noi?
Si supera la salitella del Sonnino (30 m. di dislivello) andando senza forzare, altrimenti cominciano subito le discussioni: <<Cosa corri a fare?>> <<Guarda che io non corro: pedalo dietro o di fianco a te>> <<No, sono io che sto dietro, tu corri avanti>> <<No, io ti sto solo accanto per ascoltarti>> <<Macché, la tua ruota anteriore è 11 cm davanti alla mia!>> <<No, sono solo 3,5 cm, considerando che io sono sul lato interno della strada, dove bisogna calcolare un 2,4% di strada in meno, perché in questo tratto la direzione di marcia si sposta mediamente di 1° 7’ 27” verso est; perciò se si calcola la deviazione standard tra la rotta…>> <<La rotta te la do io, ma sai dove? Smettila coi tuoi calcoli strampalati, razza di gesuita>> <<Gesuita sarai tu>> <<Prete!>> <<Intollerante!!>> <<Falso!!!>> <<Filosofo da strapazzo!!!!>> <<®*#*@שׂﺾﻞﭺﺶאָ*>> <<♂☼♫†▼◊♪!!>> <<&*$TЯцNZ☺*¥>> <<*♣ﻼﻲﮒﺙ♫♀>> <<&**¥©@ZZ®*#*!>> etc. etc. C’è forse un metodo migliore per entrare subito in sintonia con il compagno e con lo spirito del viaggio?
Si raggiunge prima Livorno, poi Pisa, con medie sotto ai 23 km/h, ma siamo soddisfatti e tranquilli, anche perché la giornata, che minacciava sfracelli, è tutto sommato abbastanza serena, anzi il sole, che fa capolino dietro il velo delle nubi, scalda e promette moderata tintarella alle nostre schiene rigorosamente scoperte e alle nostre zampe rigorosamente non depilate.
La strada, ombrosa e senza particolare traffico, comincia a inerpicarsi verso il foro di S. Giuliano, per la nostra prima prova in salita. Si rallenta, ma lo superiamo senza particolare affanno; anzi con la discesa miglioriamo la media portandola a 23,1 km/h.
Verso l’una si arriva a Lucca; dubbio davanti alle mura: svoltiamo a destra o a sinistra? La soluzione finale è un arabesco zigzagante che ci fa comunque guadagnare la via verso Bagni di Lucca. Qualche schizzetto preannuncia una pioggia che non arriva. Lentamente, ma senza sforzo, si procede e l’ottimismo cresce: di questo passo (siamo a 65 km sui 175 previsti per oggi) tra 55 km saremo all’Abetone e dopo altrettanti raggiungeremo Pavullo sul Frignano per passarvi la prima notte: da Sigmund (il mio medico e guru personale che ha incoraggiato il mio progetto di cicloviaggio in funzione scaccia-ansie), ho avuto una dritta per un albergo ristorante da quelle parti e devo farcela a tutti i costi; no, accidenti, non devo pormi degli imperativi categorici; diciamo allora che mi piacerebbe farcela; già, e chi mi garantisce che sono veramente io a volerlo e non un sedicente desiderio indotto da qualche super-io in agguato, come dice Sigmund? Sono o non sono autonomo? Come dice Sigmund, autonomia vuol dire non dover mai… accidenti ci sono ricascato! Basta, fare piani e progetti che somigliano a cambiali in scadenza! Carpe diem. Il soliloquio viene interrotto da A.: <<Ma che fai, borbotti da solo, adesso? Ma fatti curare!>> Ecco, appunto.
Sosta a Borgo a Mozzano per il pranzo: compriamo la frutta da un baffuto irpino in trasferta e ce la mangiamo in un cortile vicino a una fontana. La pausa anziché 45’ si prende il doppio di tempo, ma il caldo e l’euforia ci trattengono. Prima di rimetterci in marcia, la prima sorpresa: foratura alla mia gomma posteriore. Si ripara, si rimette a posto la ruota (che resta ostinatamente decentrata) in fretta e furia, ma intanto si sono fatte le 15 abbondanti e un po’ di ottimismo è sparito. Cominciano a salire leggermente sia la strada che la temperatura (e l’afa), ma le frequenti fontane alleviano (e interrompono) il percorso; ad una di esse poi troviamo mezza dozzina di susine appoggiate sopra: sono sicuramente un simbolico viatico per viandanti che percorrono una delle vie romee; ce le mangiamo rapidamente e via verso la Lima.
Dopo Bagni di Lucca la strada comincia a salire più decisamente, ma noi, ironizzando sui nomi locali tipo Popiglio, Piteglio, Cocciglia o Coreglia, teniamo duro, sapendo che, maggiore è la fatica ora, più dolce sarà quella che dalla Lima ci porterà ai 1388 m. dell’Abetone. Quando ci sembra di aver superato abbondantemente i 600-700 m e di essere ad un passo dalla Lima, la doccia fredda: discesa rapida fino al bivio che porta a destra a S. Marcello e a sinistra all’Abetone: ora siamo davvero alla Lima, ma a quota 450. Per riprenderci da fatica e, soprattutto, scoramento, ci vuole una sosta alimentare: un maxipanino con succo per ciascuno nell’unico negozio sulla strada e chiacchierata con l’alimentarista, un’appassionata di mountain bike, la quale un po’ ci conforta, un po’ ci spaventa nel descrivere la salita. Per non pensarci, in attesa che A. passi dal morso n°2 al n°3 (il mio panino io l’ho finito in 47 secondi netti, ma a lui, che da vero gourmet non potrebbe rinunciare a degustare neanche l’ultima patatina fredda e bisunta di un fast food, non bastano 47 minuti) , faccio qualche giro di ricognizione in zona. Peggio che mai, l’assaggio è sconcertante: la strada in direzione Abetone si inerpica da subito, senza preamboli, con una pendenza che sembra voler scoraggiare gli incauti dal proseguire. Sono un po’ scosso, ma per fortificarmi e per dimostrare che il vero eroe, a cavallo o in bicicletta, non ha paura di nulla, affronto l’ardua impresa di tornare a osservare i morsi di Alberto al panino.
Un’ora dopo inizia la salita, quella vera, e si capisce subito che c’è poco da scherzare: bisogna andar su di quasi mille metri in 17 km con il pezzo più duro nella seconda parte, avendo sul groppone 113 km e qualche decina di kg di peso (oltre al proprio). Dopo qualche curva ripida a 10 km/h ci troviamo davanti il limite a 50 km/h e, 100 metri dopo, una pattuglia di vigili; li rassicuriamo, rantolando, che cercheremo di non superare il limite, ma non capiscono l’humour inglese o, più probabilmente, non sono abituati allo spettacolo talebano di due strani straccioni stracarichi, strasudati, stravolti, stramazzanti e strapazzati dallo stress della strada.
L’arrampicata non perdona: A. cerca di economizzare energie andando a 7-8 km/h col 42/28, io non reggo l’equilibrio a una velocità così bassa e mi tengo sui 10 col 39/26, fermandomi ogni tanto e cercando di spiegargli il perché, ma il nostro teoreta ama poco sia le teorie (quelle mie, almeno) che il mulinare delle menti, quando è costretto al mulinare delle zampe, perciò, nonostante qualche tentativo di dialogo, vengo ammonito con tono feroce a non fiatare più. Non avendomi specificato la durata del divieto, dopo mezzora riprovo a riallacciare le comunicazioni, con bucoliche osservazioni sulla purezza dell’aria e la bellezza del paesaggio ora che “maioresque cadunt altis de montibus umbrae”, ma le risposte sono gentili grugniti o incoraggianti monosillabi. Ho capito: è in crisi psichica più che fisica, perciò devo stare attento nel mio ansimare a non emettere sibili che possano essere scambiati per fischi; non potremmo mai fare i pastori di montagna: già ai tempi dello Stelvio ho sperimentato la sua idiosincrasia per i sibili ad alta quota, dato che lui li interpretava sempre per allegri fischiettii irriverenti dell’altrui fatica e non per preagoniche esalazioni del penultimo respiro.
La strada sembra non finire mai; non c’ è nessuna traccia del pianoro che alcuni ci avevano preannunciato durante l’ultimo tratto.
È buio totale, dentro le nostre menti, ma anche nel cielo, quando raggiungiamo il punto più alto dell’Abetone, verso le 21. Breve sosta per tirare il fiato, io, e per prendere la Sony, lui, fresco e pimpante. Cerco di saggiare il terreno della socievolezza, chiedendo per l’ occasione al novello Coppi una frase da lasciare ai posteri, mentre lo riprendo con la telecamera, ma davanti al suo silenzio devo improvvisare io un orribile “Cantami o Fausto, del peloso Alberto, l’erta funesta, che infiniti addusse rutti al compare”, ma il rapido rannuvolarsi del cielo lo spinge a infilarsi il k-way e a buttarsi giù per le discese. In effetti è tardi, oltre che freddo (io, nell’euforia della meta conquistata, mi sono messo solo una canottiera traforata), perciò, quando a Dogana, tocchiamo la provincia di Modena e avvistiamo il primo posto dove pernottare, ci fermiamo con grande stridore di freni (io di denti per il surgelamento generale). Affare fatto: un prezzo onesto per dormire e cenare, anche se è tardi e non ci possono preparare altro che un po’ di minestrone e contorni freddi. Si spolvera il tutto alla velocità media di una cucchiaiata al minuto (una al secondo io e una all’ora A.) e si annaffia il tutto con abbondante vino. Dopo cena, doccia e alle 23,30 a dormire.
Abbiamo viaggiato per circa 136 km alla media generale di 18,3 km/h. La media è discreta e abbiamo percorso solo una trentina di km in meno rispetto al previsto, ma c’era di mezzo l’Abetone, mica la salita del Sonnino; e poi eravamo partiti tardi la mattina. Bene, bene, c’è di che essere soddisfatti dell’impresa (qualunque sia il suo esito futuro) e dello spirito. Anzi, questo mi fa venire in mente che sarebbe simpatico inviare un SMS, il mio primo in assoluto, al mio guru e mentore, ribattezzato come Sigmund, in omaggio al grande strizzacervelli viennese.
A proposito di austriaci, appena varco il confine, devo ricordarmi di chiamare casa Mairhuber per avvertir Siegfried: quando gli ho detto dell’impresa che stavamo per compiere, il buon Sigi mi ha assordato con un entusiastico <<Suppa! Suppa!>>, che nel suo inglese teutonico sta per “Super” (ci ho messo tre anni per capire che non parlava di minestre).
Ultimo pensierino della notte: vediamo di svegliarci prestino domattina, ché ci sono tanti chilo..m..e..t..r Ronf ronf ronf
2° giorno – Martedì 30 luglio
Sveglia – non prevista – alle 4 per il caldo (dovuto al vino in eccesso). Per non svegliare il bimbo che dorme, vado in bagno e, chiusa la porta e aperta la finestra ai refoli notturni, mi metto a leggere l’ Unità. Quando, un po’ rinfrescato, torno in camera, A. si è appena svegliato, ha tirato fuori la Sony, ha aperto la finestra e, anche se non sono ancora le 5 e c’ è un buio pesto che non si vede un accidente, si è messo a “filmare questa splendida alba sull’Appennino”. Sapendo che pazzi o sonnambuli (sul momento non riesco a classificarlo con sicurezza) non vanno contraddetti, gli rispondo “Bella, bella [l’alba che non c’è]”.
Alle 7,30 megacolazione, la prima della serie. Un nostro collega, un ciclomane anzianotto che ogni tanto, così, per passare il tempo, va all’Abetone da Pisa, ci illustra le meraviglie agonistiche consentite non dalla carnitina, dall’ eritropoietina o da beveraggi pseudomiracolosi, bensì dal mirtillo, di cui la zona è ricca; ci descrive poi la strada per Modena, spiegando che, a parte un trascurabile poggetto, il Barigazzo (un’ altura ignota alle carte stradali), è tutta una gran bella discesa. Confortati da queste informazioni ci buttiamo giù per la discesa, prima Fiumalbo, poi Pievepelago, scendendo di oltre 500 m, ma la gioia dura poco: il “poggetto” si rivela tutt’altro che trascurabile: si fatica discretamente e si suda per il caldo; meno male che un ciliegio selvatico sulla strada ci offre l’occasione di una discreta scorpacciata (casomai la colazione non fosse bastata…). Finalmente, dopo aver di nuovo superato i 1200 m, si scavalca il Barigazzo, sul quale vengono improvvisati poemi epici a rima – prevedibilmente – obbligata.
Si raggiunge Pavullo sul Frignano e, fuori dal paese, rapida sosta per il pranzo: 1 h: 55’, tripartita equamente tra masticazione/deglutizione (“prima digestio fit in ore” è il precetto della scuola salernitana, che A. porta alle estreme conseguenze e all’estrema disperazione dei camerieri), operazione di “taglia&cuci” nei confronti degli altri avventori (siccome, però, il tempo non è molto, si dedica solo alla popolazione femminile) e attività comunicatorie a mezzo telefonino (solo ora comincio a rendermi conto che tutte le volte che si fermava in salita e mi lasciava andare avanti, non era per stanchezza, ma per fare telefonate o mandare messaggini).
Ecco inizia la discesa, quella vera, verso la pianura: la strada ripida, ma ampia e scorrevole permette di pedalare a oltre 50 km/h, con punte oltre 60. Si raggiunge Maranello; inutile dire che, quando sfrecciamo davanti alla Ferrari, nemmeno Schumi ce la fa a riprenderci. Abbiamo superato la media globale di 20 km/h e tutto sembra filare liscio, fin troppo; anzi, ci sono sicure avvisaglie di tremende sciagure incombenti: 1) le previsioni fatte a tavolino prima del viaggio risultano esatte in maniera sconcertante; infatti sui 205 km preventivati abbiamo fatto solo 300 m in più, il tempo impiegato (soste a parte) risulta di 10 h: 20’ contro 10h: 25’; 2) per la prima volta da quando viaggio su 2 piedi, 2 oppure 4 ruote, non ho sbagliato né una strada, né un bivio; 3) ma il fatto più sconvolgente è che in 24 ore A. mi ha dato ragione due volte (allora è proprio vero che le onde elettromagnetiche dei telefonini sono gravemente nocive alla salute?).
Finalmente, a fugare ogni ansia, arriva il primo errore: nell’aggirare Modena, ci danno indicazioni sbagliate che ci spingono verso Modena Sud. Ci consoliamo con un megabeveraggio analcolico alla frutta, con tanto di cannucce e palmetta colorata. Distrattamente pesco un quadratino di pera con le cannucce a mo’ di bastoncini cinesi; mal me ne incoglie, perché A., voglioso di riprese con la Sony, mi costringe a cercare di pescare allo stesso modo anche gli altri pezzetti (rigorosamente sghembi) e gli acini d’uva. Approfitto di una chiamata al telefonino, per fregarlo e ingurgitarmi tutta la frutta; poi, nell’attesa che messaggi e chiamate telefoniche gli (ci) diano un po’ di tregua, ma soprattutto per la sana invidia di un sottoproletario della comunicazione come me, che non riceve mai messaggini, né telefonate, mi slancio a spippolare anch’io sull’infernale aggeggio. Non prendo bene la linea, perciò mi cimento in impari lotta con un messaggino, riuscendo a inviare a casa un epico “Tutto OK” nel tempo record di 22’.
Terminata l’ora di sosta [ormai il rapporto tra viaggio e pause di riflessione è sceso a 2 : 1 ] fissiamo a guisa di bandierina le palmette colorate alle borse della bici per guadagnarci in personalizzazione e visibilità (?!), quindi ripartiamo.
Per rendere omaggio alla par condicio, passiamo davanti alla sede della Maserati, salutando anche lei con signorile cenno bipartisan (la mano sinistra sul gomito destro).
Pedaliamo per un’oretta e, puntando direttamente a Nord, come i cavalieri erranti, sfidiamo l’inevitabile crescita di CTP (Caldo+Traffico+Puzza). La sete ci fa stabilire di fermarci alla prossima fontana; basta questo perché città, villaggi e case sparse scompaiano come per incanto. Finalmente raggiungiamo Sorbara. Qui tre tipici abitanti del luogo, un nordafricano, una vecchietta con badante filippina e un vigile molto urbano, ci inviano in una grande piazza in cemento con panchine, alberelli e grande fontana; peccato che sia secca. Mosso a compassione, un bimbo in bicicletta ci conduce ad un parco giochi provvisto di prato e soprattutto di acqua corrente: sacri lavacri, giochi acquatici e sbronza di acqua.
Cerimonia della spartizione delle cibarie: 2 banane, una a me e una ad A.; 1 pera, mezza a me e mezza ad A.; 1 merendino, mezzo a me e mezzo a me, perché A. ha detto <<Va bene così! E zitto!>> e mica lo si può contrariare; 4 pesche, divise veramente a metà, ma alla carabiniera: quattro mezze pesche a me e altrettante ad A. e, naturalmente, ciascuna tagliata in due parti rigorosamente identiche (ma mentre si distrae a riprendere un hymenopter gambiensis dipterus acefalus pedunculatus, o qualcosa del genere, lo frego rifilandogli ¾ di pesca. L’ultima mezza pesca, poi, la scambia con la mia, perché la sua è bacata e lui è vegetariano. Decido d’ora in poi di convertirmi anch’io al vegetarianesimo.
A. decide che bisogna fare una foto ricordo a noi due su altalena per bambini da 1 a 3 anni; perciò dà la sua telecamera (giapponese) a uno sventurato di passaggio (maghrebino) a cui spiega (in italiano) cosa e come fare, con citazioni in lingua originale, tratte dalla “Fenomenologia dello spirito”. Il maghrebino lo guarda a occhi sbarrati; <<Hmgh…>> è la sua risposta rassicurante. Quando al momento di ripartire lo salutiamo, gira lo sguardo di qua e di là, spaventato come don Abbondio alla vista dei bravi.
Giungiamo in vista di Mirandola, patria del mio altrettanto famoso omonimo, rallegrandoci che tutto sommato la giornata sia trascorsa positivamente, ma chissà perché mi viene in mente la misteriosa risposta che a Cesare diede l’indovino: <<Ricorda che le Idi di Marzo non sono ancora passate>>. L’arcano viene svelato poco dopo, in piazza: la molla della mia borsa destra finisce attorcigliata dentro gli ingranaggi del cambio. Un premuroso mirandolese (?) ci invita più volte a recarci da un meccanico prima che chiuda, ma noi sfoderiamo tutte le nostre arti e in breve rimuoviamo l’ostacolo, semplicemente tagliando via quel che resta della molla (senza però gettarla, perché –dico io- non si sa mai, tutto può servire).
Comincia a imbrunire, quando si riparte, perciò decidiamo che tra i primi alberghi che vedremo sceglieremo quello in cui fermarci a cenare e dormire. A. ne vede ben quattro, ma non dice niente, per non disturbarmi. In compenso 5’ dopo si arrabbia di brutto perché non mi sono voluto fermare. A malapena lo tranquillizzo dicendo che a Roncanova ne troveremo sicuramente uno, ma mento sapendo di mentire.
È’ tramontato. Arriviamo a Roncanova; sembra una fabbrica abbandonata. Chiedo al primo (e unico) che incontro nella metropoli e mi risponde che l’albergo non c’ è più da un pezzo, perché tanto non ci si fermava nessuno, però certamente ce ne sono tre, forse due, be’ di sicuro uno, a Nogara a una decina di km. Lo riferisco ad A. solo dopo essere ripartito, tenendolo a distanza di sicurezza e riducendo i km alla metà per non scoraggiarlo. Lo trascino a Nogara, ma delle indicazioni sbagliate ci fanno fare prima 2 km a ovest, poi 4 a est, prima di scoprire che l’albergo indicato è chiuso per ferie. Dramma nelle tenebre. Il mutismo di A. promette sfracelli. Raggiungiamo il secondo albergo alle 21,30; entro io e appena arrivo al bancone mi dicono che non ci sono stanze libere e che per la cena è tardi. È la fine. Mi accorgo oltretutto di essermi dimenticato a casa la spada per il harakiri. Come la fatina di Pinocchio, davanti al mio sguardo terrorizzato, interviene la moglie del gestore e in qualche modo ci procura stanza e cena.
A fine cena, rinfrancato anche da una dose doppia di vino e dal peperoncino che mette dappertutto, perfino sul dolce, A. finalmente parla e stabilisce che “domani faremo 4 ore scarse di bici [magari, penso tra me] e 5 di soste [questo è più probabile…] ed entro le 20 dovremo aver trovato l’albergo, fatto la doccia e cenato. Garbatamente gli chiedo se il lavaggio dei denti va considerato incluso in questa tempistica, ma mi guarda male.
Dopo cena, godimento epicureo sotto forma di gelato (pesca e yoghurt per lui, banana e mela per me, ma poi al posto della banana ci trovo lo yoghurt: stoicamente mi adeguo e lo faccio fuori con identica rapidità) passeggiata da peripatetici e discussione da sofisti sulla questione che, se ci si pensa bene, in fondo le donne non sono proprio identiche agli uomini.
Bucato, stesa dei panni sotto il condizionatore a tutto volume e scarpe doverosamente fuori dalla finestra. Abbiamo percorso circa 160 km alla media generale di 21,3 km/h. Il ritardo supera gli 80 km.
3° giorno – Mercoledì 31 luglio
Record assoluto di velocità ed efficienza:
sveglia + colazione dalle 8,10 alle 9,30;
preparativi-bagno-pagamenti; dalle 9,30 alle 10
partenza possibile alle 10;
partenza reale alle 10,40 per una serie di lapsus più o meno freudiani: carichiamo i bagagli sulle bici, mettiamo il casco, io indosso anche il mio chepì, controllo le mie cose, ma non trovo la mia carta di credito; l’avevo lasciata sul bancone; OK partiamo; altolà! Ci richiamano dalla finestra: A. aveva dimenticato il suo telefonino in camera (il brivido di chi ha sfiorato la tragedia: pedalare senza bicicletta è possibile, ma senza telefonino…); bene ora siamo pronti davvero, si sale in bici; contrordine compagni! Mi manca il contakilometri; ricerca affannosa nelle tasche, nello zaino, nelle borse, nel marsupio… è introvabile; fino a che mi accorgo che non era stato tolto mai dal manubrio. Sorriso alla Charlie Brown ad un A. con espressione da Lucy e finalmente partenza sul serio.
Sole e traffico sopportabili; si va in direzione di Verona per un’ora, ad andatura passabile e con pochi rallentamenti per telefonate e riprese: il paesaggio non è incoraggiante ed evidentemente la copertura del segnale è scarsa, per cui A. si accontenta di mandare una decina di messaggi.
Sosta di 15’ a Ca’ di David, per chiedere informazioni su come scavalcare il centro di Verona in direzione Trento. Un indigeno sin troppo premuroso ci spiega quali deviazioni compiere verso ovest, sud, ovest, nord, est, nordovest; diligentemente ringraziamo, salutiamo e prendiamo la direzione opposta.
Si entra in Verona, seguendo le indicazioni per Trento; sono numerose, impossibile sbagliare; e poi sono aggiornatissime: riportano le distanze da Verona, probabilmente variandole in funzione dell’ indice Mibtel; infatti vengono rilevati nell’ordine prima 101 km, poi 92, 94, infine 100; ma nulla può scalfire la nostra incrollabile certezza che Dio (almeno quello dei ciclisti) è con noi. Improvvisamente scompaiono i cartelli, ma niente paura, anche qui è impossibile sbagliare: non ci sono deviazioni, la strada è una sola, via, veritas et vitaci appartengono, no?. Il problema si pone quando ci accorgiamo di essere prigionieri di un raccordo a senso unico, il cui sbocco fatale è l’autostrada. Riusciamo ad evadere solo finendo dentro il deserto parcheggio dello stadio. Non è una gran soddisfazione per dei non amanti del calcio, tanto più del tifo veronese.
Ci salva una fanciulla in mt-bike, amabile di aspetto (la ragazza, non la mt-bike) e di carattere, benché veronese. Epico scontro tra la ragione e l’irrazionale pregiudizio, che dipinge tutti i veronesi come snob destrorsi (forzitalioti con venature leghiste), intolleranti, assidui frequentatori di logge massoniche e iscritti in massa a organizzazioni tipo “Ludwig”, pronte a dar fuoco a barboni, omosessuali o negri. Nella lotta tra etica e irrazionalità, ha la meglio la prima, solo perché supportata dall’ estetica: la ragazza è carina assai e pedala con grazia, ma anche con vigore; e noi le arranchiamo dietro ansimando, dobbiamo sembrare i vecchioni che rincorrono Susanna. Dopo pochi km attraverso parchi e viuzze nascoste e fascinose, miracolo! Ci ritroviamo fuori Verona, sulla SS 12, in direzione Rovereto. Gasati ci mettiamo a pedalare come forsennati: <<Tanto ora arrivano le salite…>>. Infatti la strada comincia a scendere.
Ai primi languori di stomaco, presso Chiusa di Ceraino ci fermiamo ad un ristorante lungo l’Adige, seguendo le indicazioni di una guida migliore della G. & M. anche se non scritta: come mostra il vicino parcheggio, il ristorante è prediletto dai camionisti. Mi tolgo la canottiera e infilo la polo, per evitare figuracce, mentre A. è impeccabile nei suoi pantaloncini all’inglese intonati con T-shirt e scarpe & calzini. Appena dentro, mi accorgo di essere praticamente l’unico non in canottiera!
Dopo un’ora e mezzo (il tempo minimo necessario ad A. per mangiare 28 spaghetti e un’insalata) siamo pronti per ripartire, ma sconvolto da tanta rapidità A. decide di informarne alcuni amici tramite messaggino. Disperato per la lentezza con cui procediamo (abbiamo pranzato più o meno all’altezza della zona in cui avremmo dovuto dormire la sera prima!) che rischia di far sballare definitivamente il piano elaborato a tavolino e al computer (13 ore tra cartine ed Excel), mi accascio su un muretto di fronte al ristorante. A., che ha appena riattaccato, lo interpreta come un invito a un meritato riposino postprandiale, si sdraia anche lui e ci schiaccia un’altra mezzora, che io impiego proficuamente a inviare a casa il mio 2° messaggino (“Tutto OK. Ciao”): vado forte, la prossima volta magari sarò capace di aggiungere anche la firma; si vede che ormai ci sto prendendo la mano.
Si riparte per Rovereto; la strada è buona, poco trafficata e non accenna ancora a salire (ma non aveva detto A. che da Verona a Trento la strada cominciava a inerpicarsi su per i monti?); oltretutto non solo non fa un caldo particolare, ma c’è persino un po’ di vento a favore. Come si fa a non esprimere la propria soddisfazione per la buona sorte meteorologica? <<Boia dé! Ganzo dé! Certo che il tempo finora c’ha assistit…>>. Prima secchiata di pioggia: come Sioux che appostati dietro le Black Hills escono allo scoperto e si lanciano al galoppo sulla malcapitata carovana di Quaccheri scagliando nugoli di acuminate frecce, così sui costoni di candida roccia, che sovrastano le due sponde dell’Adige, si affacciano rapide e minacciose nubi nere, gonfie di pioggia che impietosamente scaricano giù a gocce grosse come susine.
Ci sarebbe bisogno di un riparo, magari anche un albero, per aver il tempo di tirar fuori k-way e mantella e soprattutto proteggere telefonini e videocamera; ma il massimo di vegetazione che si riesce a scorgere sono cespugli o vigneti e dopo un po’ neppure quello, perché comincia a piovere così forte e da tutte le parti, che in meno di un minuto siamo “mézzi di strizzo” e non ha senso cercare di non bagnarci; la visibilità è ridotta al minimo; le poche auto che passano, vanno pianissimo (ma vanno quel tanto che basta per bagnarci anche dal basso in alto); pure noi procediamo a passo d’uomo (metà della pedalata si svolge sott’acqua, la strada è allagata e si vede male, ma soprattutto c’è qualche saliscendi e i freni sono del tutto inefficienti).
Dopo 5-6 km, troviamo un ponte sotto il quale rifugiarci per fare un primo inventario dei danni subiti e predisporre un’estrema difesa dei nostri beni più preziosi contro l’alluvione. Tutto sommato le borse hanno retto bene all’acqua e anche lo zainetto ha protetto almeno in parte carte stradali e tabelle (per quel che sono servite…) sia pure col sublime sacrificio di una “maglietta di rappresentanza” (quella, per intendersi, che sostituisce la canottiera ogni volta che si entra in un luogo civilizzato). In stato pietoso, invece si trovano le scarpe ai nostri piedi: dalle mie ad ogni passo fuoriesce uno zampillo di acqua grigiastra.
Anche se la situazione è quella che è, corriamo ai ripari in vista della sortita: con una cuffia da doccia e due elastici si salva il mio marsupio, con un guanto della Coop (visto che avevo fatto bene a portarli?) il cellulare di A., con una busta per surgelati la Sony e con la mantella quel che resta di me e dei bagagli; la mantella, un ricordo della Cina, è più lunga davanti per proteggere anche il manubrio e i polpacci, un po’ più corta dietro, dove serve meno, e aperta sui due fianchi per consentire la massima libertà di movimento a braccia e gambe. Il primo autoarticolato che passa su una pozza vicina si assume l’incarico di dimostrarmi che in Cina non conoscono i camion.
Agli occhi dell’automobilista di passaggio, noi, seduti sulle bici con i caschi indossati sul giallo dei nostri impermeabili sembriamo due crociati a cavallo prima dell’ ultimo assalto, o più probabilmente due scemi, che dopo essersi bagnati fino al midollo all’aperto, se ne stanno sotto un ponte protetti da un k-way, quando non piove più. In effetti, anche se il cielo è sempre nero, la pioggia è cessata; allora, imprudente come Ulisse mentre stava per allontanarsi dall’isola del Ciclope, mi rivolgo al cielo umido e cupo con alate parole accompagnate da un gesto irriverente: <<Tiè! Ora a noi la pioggia ci fa un baffo!>> In risposta dall’alto scocca un lampo improvviso, con relativo accompagnamento di tuoni rimbombanti. Intimiditi e resi più consapevoli dell’ umana fragilità, riprendiamo la via sotto nuovi spruzzi di pioggia.
Oltrepassata Rovereto, raggiungiamo anche Trento e fuori dal centro abitato ci rifocilliamo in un bar, in attesa che la pioggia cessi e il cielo schiarisca; poi, visto che tutto rimane com’è, decidiamo di tentare una sortita per sfuggire all’ accerchiamento delle nubi. Ci va bene e, inseguiti dal nuvolame e da qualche goccia, guadagniamo altri km.
Superato S. Michele in Adige verso le 19, memori del solenne giuro della sera prima, decidiamo di fermarci per tempo.
Hotel Lord, l’albergo è piuttosto pretenzioso come il nome e il prezzo è un po’ caro, ma non è il caso di fare gli schizzinosi e soprattutto di rischiare (in realtà domattina scopriremo che 700 metri dopo ce n’era un altro sicuramente più simpatico ed economico).
La prima operazione-sopravvivenza consiste in una sana doccia calda per A. prima e per me dopo (per tradizione e per tacita intesa la primogenitura spetta ad A., anche perché io ho bisogno di qualche pausa di riflessione per capire da dove cominciare); i turni si invertono per quanto riguarda il bucato: intaso quasi il lavandino col fango tolto dai pantaloncini e soprattutto dalle scarpe; i calzini sono ormai irrimediabilmente marroni e serviranno d’ora in poi per imballarci il caricabatteria. Il problema di far asciugare indumenti e scarpe per l’indomani viene superato costruendo una piramide sostenuta da un’ossatura di attaccapanni, alla cui base porre il phon a pieno regime dentro una scarpa, sovrapponendovi l’ altra e via via pantaloncini, maglietta, slip e calzini, procedendo dal pesante al leggero, in omaggio ai dettami della filosofia parmenidea (o democritea?).
Problema cena: il “Lord” è un hotel di classe e non si perde in quisquilie come quelle relative al cibo, però ci segnala 3 ristoranti, uno proprio accanto, caro, ma di buon livello, uno che è molto economico, ma di buona cucina e un terzo che però è chiuso per turno. Optiamo senza esitazioni per il secondo e ci facciamo due km di pista ciclabile lungo l’ Adige, per scoprire che quel ristorante è rimasto chiuso quel giorno per grave lutto. Non ci resta che far buon viso ai due km di ritorno e al ristorante caro.
Ambiente raffinato (di quelli coi camerieri che ti incombono come falchetti sulla spalla sinistra), ma con piante in plastica dentro i lumi e sui muretti; i tavoli sono ricavati da una sorta di doppia mangiatoia con scanalatura nel mezzo. A. ci mette il marsupio, io il k-way arrotolato. Ce li spostano con degnazione per metterci dei vassoini con il pane e l’olio-sale-aceto. Scelta alla cieca delle pietanze, in base al nome e alla qualifica di vegetariano. A me tocca un brodino di burro nel quale galleggia un paio di knödel ben fritti. Per renderlo più leggero e digeribile penso bene di aggiungervi un po’ di peperoncino che A. porta sempre con sé. Sbaglio dose e per spegnere le fiamme bevo vino su vino, tanto da non ricordare più quali sono le pietanze successive mie o di A., e neppure l’ ammontare del conto che intuisco essere comunque salato.
Passeggiata notturna lungo la pista ciclabile per smaltire la cena; anche a piedi, A. si interrompe per fare la solita dozzina di telefonate; non reggo alla stanchezza e nell’attesa mi sdraio per terra, “tanto a quest’ora non passano mica biciclette”. In effetti di biciclette non ne passa nemmeno una, ma in compenso passa un commando di formiche guerriere (o altri insetti sconosciuti) che, una volta insediatosi tra pantaloni e maglietta, decide di tenere la posizione e reagisce come può ai miei tentativi di sfrattarli. A. giudica un po’ rozza, ma suggestiva la mia improvvisata danza da tarantolato.
Ritorno in albergo per smaltire nell’insonnia burro fuso, vino e punture.
A. che ha ancora energie da spendere (sarà tutto merito del peperoncino?), oltre alle consuete telefonate, decide di andare a questionare col proprietario dell’hotel, perché le porte sulle scale antincendio non si aprono come dovrebbero. Il bello è che quello gli dà anche retta e si scusa pure.
Abbiamo percorso circa 150 km alla media generale di 22,1 km/h. Il ritardo supera la mezza giornata, anche perché ho fatto un errore di calcolo per difetto di una quarantina di km.
In attesa del sonno, provvedo a radunare i foglietti sparsi su cui ho appuntato i vari eventi nobili e ignobili accaduti finora. “Non fa scienza, sanza lo ritener, l’aver appreso” diceva a un dipresso il bardo; ed io che mi sento poco ferrato già nell’apprendere – figurarsi nel ritenere- sento il bisogno di fissare su carta quel che succede via via.
4° giorno – Giovedì 1° Agosto
Sveglia alle 7. Cielo sereno, testa e gambe rintronate, mentre A. è tutto sprizzi-sprazzi, almeno finche non si tratta di pedalare.
Colazione accettabile (dopo la rituale richiesta di supplemento), ma con sorpresa: non era compresa nel prezzo!. Decidiamo di cambiare il nome dell’hotel, dimostratosi così poco Lord, cambiando le prime due lettere in ME. Provo a rifarmi sul meleto che circonda l’albergo, ma le mele sono troppo verdi e il mio stomaco è ancora imbronciato con me. Se non altro riusciamo a partire verso le 10. È un record che non si ripeterà più, ma non lo sappiamo ancora.
Oggi dovremmo pedalare 11 ore per recuperare il terreno perduto. Comincia ad essere chiaro perfino ad un inguaribile ottimista come me che la cosa è poco probabile, visti i ritmi sempre più blandi. D’altra parte, oggi più che mai, A. proprio non va (“se non si corre ora che siamo in piano, quando saremo sull’innominabile Großglockner come si farà?” mi chiedo io sempre più preoccupato), non si sente motivato. <<Ohe, mica siamo in vacanza>> gli faccio per scuoterlo, ma lui, non so perché, mi guarda male. Giungiamo a una sorta di compromesso: lui va al suo passo (mi viene il sospetto atroce che la sua cadenza di pedalata stia diventando uguale a quella dei maccheroni che mette in bocca a pranzo), io vado a 30, poi lo aspetto per un paio di minuti; ma il risultato è che ci stanchiamo lo stesso tutti e due e la media è di 20 km/h (scarsi). Con questo andazzo temo che non solo la visita da Sigi, ma la stessa Salisburgo siano in forse.
In compenso il tempo ci lascia in pace; la strada sembra non salire mai, ma piuttosto scendere, promettendo sfracelli di fatica al momento delle prime vere salite. Comincio a sentire la fiacca anch’ io ed utilizzo le soste per farmi una sorta di training autogeno – seduta di autocoscienza, arrivando alla conclusione che, in effetti, chi ce la fa fare di “andare a duemila”, percorrendo oltre 200 km al giorno, magari senza nemmeno gustarsi il paesaggio e il viaggio stesso. Fulminato da questa improvvisa e inaspettata intuizione (stasera magari la invierò in SMS a Sigmund), rallento, anche per comunicare ad A. il portentoso risultato delle mie meditazioni, ma in quel momento lui mi sorpassa e comincia la volata. Mai una volta che si agisca in sintonia!
Comunque sia, complice il vento a favore, la media aumenta e una dopo l’altra superiamo varie località previste: Ora, Bolzano, Chiusa di Valgardena, vicino alla quale pranziamo. Le pendenze sono lievi e facilmente superabili, la strada è scorrevole, per quanto trafficata. Cominciano le prime gallerie; in una ci sarebbe il divieto di transito per le bici, ma la percorriamo lo stesso, nonostante lo strombazzare delle auto.
Dopo Bressanone si lascia la via del Brennero in direzione Brunico e col caldo del mezzogiorno inizia la prima vera salita dopo l’Abetone. Probabilmente non è poi così terribilmente ripida, né lunga, ma siamo ormai stanchi e, quando all’inizio della discesa intravediamo una piazzola con un chiosco di frutta, non mi par vero di assecondare A. e fare una sosta.
Ci sbrachiamo a bere succhi o acqua corrente e a mangiare frutta; naturalmente non ci troviamo d’accordo su quale comprare: A. punta a delle banalissime pesche o albicocche, mentre io adocchio un cestello da 1 kg di ribes, conveniente come prezzo e splendido a vedersi. Provo a convincerlo con la panzana che il ribes, cugino del mirtillo, è portentoso, soprattutto per le salite, ma figuriamoci se lui si fa persuadere; perciò va a finire che, oltre a della frutta comune ad entrambi, ognuno si sceglie quella che più gli pare. Io mi prendo il ribes, che è veramente eccezionale dal punto di vista estetico, abbastanza da quello economico, un po’ meno da quello alimentare, tanto più a mangiarselo tutto. Nella prima mezzora, comunque, vado forte: riesco a farne fuori quasi metà, standomene all’ombra, sdraiato su una panchina a mo’ di Trimalcione. Ovviamente A. non perde l’occasione di immortalare con la videocamera questo momento di presunto cedimento fisico (io non avevo ceduto un bel niente, ero proprio sfatto).
Discesa fino a Brunico; entriamo in città. Ritorna la pioggia, insistente e a raffiche; ci rifugiamo sotto la tettoia di un benzinaio, con la magra consolazione che anche alcuni motociclisti bardati di tutto punto devono fermarsi come noi. Un paio di volte azzardo un timido <<Mi pare che stia spiovendo…>> A. non risponde, ma mi guarda con due occhi ridotti a una fessura e, comunque, ricomincia a piovere. D’altra parte potremmo arrivare a Dobbiaco che dista solo una ventina di km. o un paese vicino. Alla fine convinco A. e, dopo esserci coperti a dovere (io mi sono fatto anche gli impermeabilini per le scarpe), affrontiamo una pioggerella e una salita sopportabili. Il paesaggio, cambia, si fa decisamente alpino, la strada presenta qualche modesto tornante che si apre su boschi di conifere o su un lago in cui si vedono remigare varie anatre in fila.
La salita si fa più dura; so che Dobbiaco si trova a oltre 1200 m., ma non voglio dirlo ad A. perché non si scoraggi. Un muro scrostato lascia intravedere una scritta tipo xx01 m. slm. Cerchiamo di capire a che quota ci troviamo, ma non dovremmo essere saliti oltre i 600-700 m; quindi zitti e pedaliamo.
Comincia a imbrunire, quando arriviamo a pochi km da Dobbiaco, decidiamo di fermarci per la notte al primo paesino; faremo domani la salita che si preannuncia micidiale, dovendo raggiungere 1241 m.
Giungiamo così a Niederdorf , che sarebbe, in lingua italica, Villabassa; ma il nome tedesco ci sembra più intonato all’idioma locale (prevalente in maniera nettissima), allo stile delle costruzioni e, diciamolo, all’ordine e alla pulizia, così poco italiani. Dopo qualche brivido, siamo in alta stagione e il “tutto esaurito” impazza, riusciamo a trovare alloggio presso l’ hotel Emma, più caro dei precedenti (116 € cena compresa), ma molto bello e monumento nazionale: è tutto in legno e risale senza modifiche al 1600, quando nacque proprio come albergo con quel nome. Lo vengo a sapere giusto un attimo prima di chiedere alla padrona se frau Emma è lei. Gaffe scongiurata per un pelo.
Mi informo sull’altitudine di Niederdorf e scopro che, senza saperlo, siamo già a 1200 m.. Incredibile! E noi che pensavamo di essere sotto gli 800! Ma allora siamo proprio forti.
A cena si scusano che, data l’ora, il cuoco non c’ è, ma ci procurano ugualmente dell’ottima passata di verdura e quando noi ne chiediamo ancora, mortificati per non averne altra ci riempiono di altre pietanze squisite, verdure di vario tipo, formaggi etc.
A dormire, tutto sommato soddisfatti. Domani sconfinamento e, se va bene, pernottamento ad Heiligenblut, prima del mitico Großglockner. Consueti messaggino e diario di bordo.
Abbiamo percorso circa 140 km; la media generale è buona, essendo scesa solo a 22 km/h. Il ritardo è ora di una giornata quasi intera.
5° giorno – Venerdì 2 Agosto
Frühstuck (un breakfast poco fast e soprattutto un petit dejuner poco petit): un litro e mezzo di latte, caffè a volontà, con pane di cinque tipi differenti (segale, papavero, cumino, bianco, con chicchi di sale), varie fette di formaggi locali, quattro tavolette di burro, due barattoli di marmellate fatte in casa. Davanti a tanto ben di dio, A. con espressione da S. Sebastiano martire pronuncia il voto di non mangiare più burro. Da mentitore qual è, in capo a 5 minuti, in omaggio alla Costanza, alla Coerenza e alla Continenza, ne ha già spolverato un paio di tavolette. Davanti alla notizia che un terzo barattolo di marmellata di frutti di bosco sarebbe stato gettato via, perché, apertolo, era apparsa un po’ di muffa, noi, costernati, vorremmo chiedere di lasciarcelo esaminare e analizzare per pochi minuti, ma, davanti alla nostra pancia piena e ai piatti vuoti non ne abbiamo il coraggio.
Mentre A. si prepara, faccio una rapida escursione per il paese; cerco, inutilmente, di comprare un quotidiano, ma in lingua italiana non ne sono ancora arrivati; prendo un cappuccino al bar (puoi essere pieno quanto ti pare, ma un caffè è sempre un caffè), dove non c’è nemmeno una persona che parli in italiano, e mi vien spontaneo un “Dankeschön”; infine vado in cerca delle pagine gialle per chiamare un’ agenzia turistica e sapere quali treni sono disponibili per il ritorno in Italia con bici al seguito. Trovo un paio di cabine telefoniche, ma – unica nota italiana in sinfonia austriaca – le pagine gialle e gli elenchi telefonici sono spariti.
Ore 10,30: si parte. Passiamo Dobbiaco-Toblach e qui siamo presi da una discussione di natura squisitamente linguistica (cioè etimologico-cioccolatesca) sul quesito se il Toblerone che ha dominato nei sogni della lontana infanzia – e non solo – sia da mettersi o meno in relazione con Toblach, talmente che dimentichiamo di cercare informazioni sui treni.
Arriviamo a S. Candido-Innichen (perché ci si ostina a chiamare la regione Alto Adige, anziché Süd Tirol? Mah! Ich weiß es nicht).
È’ un paesino molto carino, meno spontaneo e sobrio di Niederdorf, è un po’ leccatino stile Disneyland (con un tocco alla Riccione: c’ è pure l’ “aquafan”). Si raggiunge la stazione; A., incosciente, si fida a mandarmi a chiedere informazioni sui treni dall’ Austria a Firenze, che effettuino anche trasporto di bici al seguito. Come no?, ce ne sono persino troppi: da S. Candido a Livorno sono necessari 6 treni differenti (con 5-6 cambi) e oltre 22 ore di viaggio; quasi quasi si fa prima in bici; in effetti, ripensandoci, prendiamo sul serio la possibilità di una combinazione treno + bici. Per di più non ci è dato avere notizie sui possibili treni in partenza da Salisburgo per Dobbiaco, relativo al tratto austriaco. Ci informeremo a Lienz (speriamo). Per ora pensiamo ad arrivare al confine, che dista solo pochi km.
Raggiungiamo il confine tutti gasati. Riprese di rito con telefonate e messaggini spediti o ricevuti da mezzo mondo (l’hai bell’ e detto che A. poteva fare l’agente segreto). Ultima pipì sul suolo patrio e poi, azzerato il contakm, si varca il confine. In Italia abbiamo percorso 620,5 km ad oltre 22 km/h in 28 ore circa di pedalate, distribuite in tre giorni e mezzo.
La strada scende nettamente e noi filiamo giù per la statale austriaca n. 100 lungo la valle della Drava: discesa a 60 km/h io e a 59 A., che “deve” contemporaneamente pedalare, fare riprese e telefonare e quindi non ha mani libere per una cosetta così trascurabile come il manubrio (ma “pazzi e criature Iddio l’aiuta”). Il paesaggio è davvero splendido; anche solo per questo valeva la pena di fare il viaggio. In effetti troppe cose sono nettamente migliori in Austria, rispetto all’Italia: paesaggio, aria, traffico, comportamenti…. Ora A. occupa tutta la carreggiata, impedendo il passaggio ad un’ auto che ci segue; lo avverto, lui dice: <<Guarda come sono civili e pazienti, questi nordici, altro che in Italia…>> e, lentamente (molto lentamente), si scansa; sorpassandoci, l’auto ci mostra la targa: Bari. Trascorrono meno di 10’ che un’ altra auto suona ripetutamente per passare; A. lo manda a quel paese e, quando legge la targa, ovviamente austriaca, fa: <<Vabbè: il solito italiano, emigrato in Austria…>>. Dedico volentieri ad A. qualche affettuoso ironico cachinno e spassionate riflessioni sulla forza del pregiudizio.
Rapidamente giungiamo a Lienz, finalmente in pianura. Alla stazione chiediamo dei treni, io, come posso, e A. in un fluente tedesco; l’impiegato che dopo il mio pidgin-cockney sembrava un po’ smarrito, si rincuora e gli risponde a raffica; dalla faccia di A. ho l’impressione che qualche particolare importante rischi di sfuggirgli, oltre all’ oscuro presentimento che potremmo un giorno anche pentircene. Comunque la soluzione è di una teutonica semplicità ed efficienza: da Innsbruck a Firenze un solo treno senza cambi, in poche ore e con trasporto bici per soli 3,5 €. Meglio di così.. Senza perder tempo si fa la prenotazione. L’unica stranezza è che per andare da Salisburgo a Innsbruck si deve prima passare in Germania. Mah!
Ora di pranzo: breve spuntino in una pasticceria alla periferia di Lienz, a base di strudel e yoghurt, accanto ad un austriaco, un macigno rossocrinito che è appassionato del Brasile e parla con noi italiani in portoghese. A. gli risponde con naturalezza nella stessa lingua. Il macigno si illumina e risponde in spagnolo. A. replica in tedesco, l’altro ci prova con l’italiano, A. sfodera lo spagnolo, quello tenta una parata barcollante con l’inglese, ma poi, davanti alla raffica di polacco, ceco e russo di A., stramazza definitivamente, per tornare umilmente al portoghese. Durante questa rutilante kermesse linguistica io provo a inserirmi con qualche frase in inglese tipo “Uottaimisitte?”; ma mi guardano straniti tutti e due e allora mi limito a intervenire a monosillabi, o cenni del capo, cercando di sfoderare un’ aria intelligente.
Dal mio piano di viaggio (costruito sulle cartine e sulle testimonianze di chi ha fatto questo percorso) so che dovremo superare “una salita breve e non troppo impegnativa”, il passo di Iselsberg, prima di raggiungere la vallata del Möll e, in serata, il paese di Heiligenblut (nomen omen), da cui si inerpica la strada del Großglockner. Da Lienz alla cima del colle di Iselsberg c’è un dislivello di 540 m, diluito però in quasi 14 km , quindi la salita si prospetta davvero fattibile, se non trascurabile. Il fatto è che, prima di raggiungere la base del colle, si percorrono poco meno di una decina di km in piano e salire per 4 km ad una pendenza intorno al 10% è un tantino faticoso, specialmente alle due di pomeriggio.
Dopo un paio di km di tornanti in pieno sole, la simpatica salitina si rivela micidiale, mi squaglio letteralmente dal sudore, finisco fiato ed energie e alla fine scoppio (di caldo, fame, disidratazione e disperazione). A., pur sbuffando, pedala ad andatura moderata, ma costante; quando ormai mi ha perso di vista, torna persino indietro e si fa un km supplementare di salita, chiedendomi con un malcelato risolino se ho bisogno di qualcosa. Non so se detestare di più lui o quel disgraziato che su Internet parlava di una salita poco impegnativa. Tanto per vibrare all’ unisono, mentre io mi sgonfio fisicamente e quindi moralmente, A. si esalta sempre più, e lo ritrovo sulla cima del colle mentre esegue una TAC trapassando con occhiate a raggi X una moto BMW anteguerra, con tanto di sidecar, perfettamente conservata. Tiro appena il fiato e poi giù a 70 km/h per la discesa ripidissima.
Siamo nella Mölltal e ci dirigiamo verso Heiligenblut lungo un fondovalle moderatamente ondulato, circondato da prati ridenti, casette in legno coi balconi fioriti, stalle con relative mucche al pascolo: è un paesaggio tanto austriaco da sembrare svizzero.
Negli ultimi km la strada riprende a salire; però, sarà l’aria fresca oppure la vicinanza della stalla per quell’asino ciclista che alberga in noi, si trotterella con meno fatica del previsto e si raggiunge Heiligenblut (1301 m) sul far della sera. È’ il classico paesino turistico di montagna: nella piazza si affacciano alberghi sussiegosi, boutiques, gazebo per orchestrina, fioriere e naturalmente turisti, vestiti con diversi gradi di eleganza a seconda dell’ora. Per non farli sfigurare, davanti alle nostre fantasiose mises, per l’occasione A. ha sfoderato la maglietta a righe rosse e bianche (?) in omaggio alla nazione ospitante, mentre io ho riposizionato sotto il casco il mio candido chepi dal lato meno grigiastro.
Ricerca dell’albergo; dopo un paio di tentativi in centro (a 47 e 54 € a capozza), A. si convince a cercare più in periferia, anche se c’è da scendere di qualche decina di metri (che a scendere non creano difficoltà, ma da risalire sono drammatici). In effetti, abbiamo fortuna: troviamo alloggio in una graziosa abitazione, dove, non avendo camere a due letti disponibili, ci dànno una suite con due camere da letto a 25 €, colazione compresa. Bisboccia a un ristorantino nei paraggi, con ½ litrozzo di birra a testa. Telefonate a casa e a Sigi, a cui assicuriamo di arrivare, anche se con un giorno di ritardo. In camera commetto l’errore di lavare tutto il lavabile, ma mi resta tutto bagnato e non sarà certo asciutto per l’indomani; A. non ci pensa nemmeno: il furbastro farà il bucato da Sigi; non è mica scemo da portarsi dietro almeno 1 kg in più di umidità su per le salite di domani. Allora sparpaglio magliette, pantaloncini, mutande e calzini su tutti i paralumi della stanza e sul televisore, stando attento che non vadano a fuoco, come quella volta allo Stelvio.
Abbiamo percorso appena un centinaio di km di cui un’ottantina in territorio austriaco, ma questa doveva essere una tappa di riposo e di avvicinamento alla grande meta; la media dal confine è di 18,5 km/h, accettabile, considerando la crisi dell’ Iselsberg e i quasi 1000 m. di dislivello superati nel corso della giornata. Il ritardo è ora di una giornata esatta. Senza più patemi, ormai, io lo annoto sui miei foglietti e ne mando comunicazione a Sigmund: <<Una meta al giorno toglie il Sigmund di torno>>.
6° giorno – Sabato 3 Agosto
E’ la giornata fatidica, quella che riassume in sé tutta la grandezza e l’azzardo della spedizione: portare sulla montagna più alta dell’Austria un peso complessivo di quasi un quintale. Perciò, anche a costo di zavorrarci di qualche kg supplementare, sarà necessario incamerare quante più calorie è possibile. Ci avviamo perciò battaglieri alla colazione e, in effetti, riusciamo a polverizzare ogni record precedente: latte, caffè (lungo, ma non orzo), fette di pane scuro e panini di vario tipo, burro, tre marmellate fatte in casa, yoghurt, cumino, müsli, prugne cotte, macedonia e, per il più sfondato dei due, uova alla coque. Più saggiamente, io, avvertito dall’estroflessione dell’ombelico, mi fermo un attimo prima dello scoppio.
Alle 10 siamo pronti per l’ impresa, ma non si riesce a partire prima delle 10,30: prima io non trovo la mia carta di credito, che riappare misteriosamente nel marsupio, che pure avevo rivoltato da capo a piedi, poi l’operazione di carico dei bagagli risulta più lunga del previsto (anche perché con tutto quel che si è ingurgitato, muoversi non è agevole).
Alla partenza il dislivello che dobbiamo colmare per raggiungere dalla pensione il bivio per il Großglockner è evidente; cerco di minimizzare questo piccolo difetto, visto che la scelta era stata mia, ma A. non me la perdona tanto presto.
Raggiunto il bivio, un rapido sguardo negli occhi del compagno, un cenno e via: “qui si parrà la tua nobilitate”.
Comincia la salita, che si presenta, senza ipocrisie, col suo vero volto fin dall’ inizio: da 1300 a 1930 c’ è una pendenza media dell’ 11% per quasi 6 km (che comunque noi allunghiamo un po’, zigzagando). Sorprendentemente l’aria è tutt’altro che tersa e pura: c’ è un insopportabile puzzo di freni bruciati; effettivamente sono moltissime le macchine che scendono a freni tirati (in buona parte sono di olandesi, popolo notoriamente poco abituato alle discese, intuisce A.). Impariamo (o meglio, io imparo, A. lo sapeva già) che kehre significa “tornante” e il fatto di iniziare dal kehre 27 non ci tranquillizza tanto, pensando che dopo aver superato quello ce ne restano altri 26. Si incontra anche qualche altro ciclista; il primo lo raggiungo e lo supero; poi, un paio di tornanti più avanti, mi fermo con gli occhi strabuzzanti per la fatica, con l’apparente giustificazione di dover aspettare A. <<Es ist schwer; C’est bien dur, hein?; It’s rather hard; Durinha, eh?; Gli è ‘n po’ dura >>ci diciamo sorridenti e con aria di sufficienza in un grammelot linguistico improvvisato ogni volta che si incontra un collega, ma dentro si pensa (almeno io, visto che A. è un decoubertiniano puro, incontaminato dall’ agonismo) <<Accidentatté, ma ‘un ti viene mai da stiantà?>>; la fatica, si sa, favorisce la spontaneità linguistica.
Si va a 8-10 km/h, ma in seguito, in certi tratti, si scende anche a 6-7. Il contakm di A. si vergogna a indicare valori così bassi e preferisce sdegnosamente segnare 0.
Trillo di telefonino, tra un rantolo e l’altro; ci metto un po’ a realizzare che è proprio il mio. Saranno le mie figliole, le quali, saputo che A. è stato chiamato dai suoi 5 volte al giorno, hanno creduto di pareggiare il conto chiamandomi una volta in 5 giorni (ma in 5 giorni proprio ora dovevano chiamare?). Invece è Mauro, che vuole notizie. Sono così stravolto che nemmeno ho riconosciuto la sua voce e, dopo un paio di nomi buttati lì, devo chiedergli <<Oh, ma chi sei?>>. Solo per pietà e rispetto della mia canizie, non mi dice : <<Oggi ho fatto la Valle Benedetta. Te, l’hai vorsuto ‘r Grosgrocne? O pedala!>>
Salita sempre più dura, passano i minuti e passano le forze, ma per fortuna ho conservato due panini; in fondo alla borsa ci sono ancora alcuni chicchi superstiti di ribes, che mi assicurano un po’ di pane e companatico. Stringi i denti e vai. Dopo una breve sosta a Kasereck, si scende per un paio di maledetti km che ci toccherà recuperare puntualmente e con gli interessi subito dopo. Gli ultimi 6,5 km che portano da quota 1859 a 2503 sono duri, ma ormai ci abbiamo fatto il callo o siamo drogati di fatica; fatto sta che troviamo anche il modo di evadere dalla stanchezza, contemplando il panorama che è maestoso con le sue cime aspre e spesso coperte da ghiacciai perenni, i tornanti che si susseguono sempre più in alto e i prati che hanno sostituito i boschi di conifere; ma ugualmente splendidi sono anche i microcosmi che si rivelano ai lati della strada: erba verdissima, fiori dai colori straordinariamente intensi, rocce o sassi variopinti o dai riflessi dorati, sembrano schegge di granito, basalto o serpentino, venati di mica. Si va così piano che non è difficile osservare i particolari.
Imprecazioni contro le auto e manifestazione di solidarietà verso i colleghi ciclisti. A. colloquia con naturalezza e scioltezza pre-babelica con tutti e a Kasereck, a due passi dalla più alta vetta austriaca, parla in polacco con un tedesco, che lo prende per cecoslovacco, ma poi si intendono al suono della password universale “pivo”, mentre quando io dico “Hello” o “Guten Tag”, mi guardano con circospezione: non so se attribuirlo all’ accento o al mio aspetto (comunque non si salva nessuno dei due). Provo a salutare anche una mucca al pascolo con un “Muu” un po’ gutturale, alla tedesca, ma non mi considera neppure lei.
Recupero un po’ di assertività, mandandola a quel paese.
Un altro paio di soste per riprendere fiato, un ultimo sforzo e siamo finalmente arrivati all’Hochtor, al passo, al punto più alto, 2503 m slm, della Großglocknerstraße, che attraverso un tunnel sbuca nel salisburghese.
La missione è compiuta. La media dev’essere stata scadente, ma siamo abbastanza arzilli e soddisfatti lo stesso. Ci godiamo meritatamente il panorama e il sole, così finalmente mi abbronzo un po’ pure davanti e perdo il mio look da pinguino. Tentiamo le telefonate di rito, ma è molto difficoltoso per la mancanza di segnale. Ad onta delle sue dichiarazioni di stanchezza, A. si arrampica a piedi sul passo dell’antica via celto-romana, per esaminarla più da vicino. Io, più comodamente, mi leggo dei tabelloni con storia e leggende del luogo.
Non c’ è niente da mangiare da queste parti, perciò attraversiamo il tunnel (rumorosissimo e puzzolente, perché infestato da motociclisti in trial) e scendiamo a tutta birra verso quote più basse.
Sosta al Fuscher Lacke (2262 m): accanto a un laghetto c’ è un locale dove si può mangiare qualcosa; infatti ci facciamo servire rispettivamente 2 the e 2 cioccolate bollenti e poi una kaiserschammer (?) una specie di trippa di omelette con marmellata di amarene. Usciamo; fuori, a parte la curiosità di un tale che tiene in collo una bella volpacchiotta, come se fosse un gatto, non c’ è molto altro da vedere. In compenso, brutta sorpresa: A. mi indica la strada che torna a salire, con qualche centinaio di metri di dislivello. Pazienza. Supereremo anche quello. Gran faticata, tanto per cambiare, ma anche vedute spettacolari delle cime circostanti, molte ancora innevate dalla piattaforma del Fuschertorl I (a 2400 m circa).
Discesa precipitosa (170 m di dislivello in poche centinaia di m) fino al bivio che porterebbe all’Edelweißspitze. A. è stanchissimo, dice. Io mi frego le mani, per la contentezza di “doverci” rinunciare… infatti lui decide di scalare anche l’ Edelweißspitze ed io non ho il coraggio di lasciarlo andare da solo. È la salita più dura di tutto il viaggio: quasi 2 km al 10% di pendenza e per di più sul pavé.
Raggiunta la cima tra imprecazioni e anatemi (miei) contro quel Giuda Iscariota e beati sorrisi finto-stanchi di A., che trova anche la forza di arrampicarsi a piedi su una torre panoramica. È il massimo!
C’è il sole ed è magnifico, naturalmente, ma comincia a fare freddo, almeno per me, che ho dato tutto quello che potevo e anche di più. Perciò mi infilo un secondo pantaloncino, una canottiera seguita da un’altra traforata, la polo rossa ex-elegante (è tutta stinta e macchiata) e il k-way . Con tutto ciò sento ancora freddo.
Ultime raccomandazioni reciproche: <<Andiamo piano! Attento al bagnato! Bada alle curve strette! Ricorda che sei sovraccarico! Attento ai freni! >> Etc. Infatti, dopo due curve a 50 km/h, e relativi sorpassi azzardati, A. è già sparito. Ne intuisco il percorso solo dalle auto rimaste sul ciglio dei burroni e dagli sguardi stravolti degli automobilisti che hanno tardato a farsi da parte, quando lui voleva sorpassarli. Alcuni, poi, quando mi vedono nello specchietto, manifestano un evidente timore, pensando che io sia un altro Cavaliere dell’Apocalisse, e si affrettano ad accostarsi prudentemente ai bordi della strada. Li tranquillizzo abbinando uno stentoreo <<Hi!>> a un sorriso e a un gesto benedicente con le tre dita della mano destra.
Discesa precipitosa: la mia bici frena con ritardo e richiede uno sforzo notevole sui freni. Decido, per una volta, di prendermela comoda io e di contemplare il paesaggio circostante con tutta calma; che senso ha esaurire in pochi minuti di corsa folle un dislivello che è costato ore di fatica? Autocongratulazioni per il raro sprazzo di buonsenso; ma sono seriamente preoccupato per A., che non ho più rivisto, nemmeno nei punti più panoramici o negli spiazzi dove era possibile scattare qualche bella foto o inviare un SMS; anche se mi dico che sto esagerando, l’ansia è tale da costringermi a scrutare giù dalle spallette ad ogni tornante, col terrore di scorgere una bici o peggio.
Raggiunta la pianura dopo una ventina di km abbondante, ci ritroviamo: “Ah, sei arrivato?” mi fa l’incosciente, che subito dopo mi annuncia raggiante di esser riuscito a oltrepassare la soglia degli 80 km/h. Lo mando a quel paese senza tanti preamboli. A coronamento della discesa, in mezzo a un capannello di persone, troviamo anche un motociclista immobile a terra perinde ac cadaver, ma, onestamente, non è colpa di A.
A Fusch si prende la 311 in direzione di Bischofshofen-Salzburg: è ampia, poco trafficata e costeggia la Salzach, incassata in una lunga gola che ci costringe a qualche saliscendi, con prevalenza, comunque, di discese abbastanza veloci. Ora che la strada è tornata normale, il nostro eroe delle grandi imprese non si abbassa alla routine quotidiana e ritorna pigro e rilassato.
Ricerca di un albergo (si avvicina la sera), dopo un infruttuoso tentativo a Lendl, si arriva a Schwarzach, dove troviamo indicate varie pensioni per ciclisti. Ci buttiamo sulla prima, senza scegliere, data l’ora: è tardi per mangiare, ma si recupera ugualmente un bel piatto di patate, uova strapazzate e verdure. Quando ci portano il conto, io quasi svengo 67 € ! Poi A. mi spiega che comprende anche la camera, o almeno si spera.
Passeggiata e filosofica conversazione sotto le stelle; esprimiamo la nostra soddisfazione per quel cielo così sereno e stellato, ma una raffica di lampi in rapido avvicinamento ci zittisce. Meglio andare a dormire.
Abbiamo percorso solo 75 km; la media generale è buona, essendo risalita a 17,3 km/h. Il ritardo è aumentato di una ukteriore mezza giornata (erano stati previsti quasi 90 km in più), ma ormai ogni rigida pianificazione precedente viene guardata senza senso di frustrazione o ansia, ma con la benevola sufficienza di chi ha superato una paura infantile. Doveroso annotarlo e avvisare Sigmund della meta conquistata. Promemoria per domani: finiti i foglietti per il diario di bordo, occorre recuperare altra carta; scartata quella igienica, perché poco seria e soprattutto molto crespa, utilizzerò ricevute e scontrini più grandi (chissà se anche il collega Tolstoj ha incontrato problemi analoghi per “Guerra e Pace”).
7° giorno – Domenica 4 Agosto
Svegliati alle 6,30 – alzati alle 8 – partiti alle 11,30, dopo la solita megafrüstuck, che ci farà pedalare fino alle 14 senza morsi della fame. Cielo fresco e semicoperto, con strada spesso bagnata, ma senza pioggia. Qualche collina, ma prevale la discesa. Lasciata la 311 per la 159, sempre nella valle della Salzach, si scavalca Bischofshofen, poi il Paß Lueg (un colle di 550 m); quindi, superati Golling e Hallein, poco più che paesini, anche se sulla carta sembrano grossi centri, ci si avvicina a Salisburgo, pur senza fretta; il paesaggio è diventato più urbanizzato, ma ordinato e gradevole, alla tedesca.
Discussione su temi esistenziali: che fare? Entrare in Salisburgo o bypassarlo? A. mi fa scegliere: io sarei anche per scavalcarlo, ma al desiderio di procedere sempre più avanti mi fa velo un tarlo ansiogeno mai sopito (il bisogno di conferma definitiva al viaggio di ritorno in treno) e alla fine propendo per entrare in città. Lasciamo la 159 e puntiamo a ovest, dirigendoci verso la stazione con la sicurezza di un abitante del luogo.
Mai scelta fu più felice: allo sportello veniamo a sapere che la prenotazione al computer fatta a Lienz per noi e le bici, relativamente al tratto Rosenheim-Firenze, (noi avevamo chiesto di partire da Salisburgo per Rosenheim la sera di venerdi, così da arrivare a Firenze sabato mattina) era stata fatta sì con partenza venerdì notte, ma alle 0,20, quindi poco dopo la mezzanotte di giovedì. Se non ci fossimo fermati a controllare, avremmo perso la prenotazione. L’unica via d’uscita è di anticipare perciò la partenza da Salisburgo a giovedì sera, tornando in Italia un giorno prima del prestabilito. Peccato perché questo ridurrà le nostre uscite austriache con Sigi di un giorno intero…
Fatti i biglietti, si esce sul piazzale dove sono parcheggiate le nostre bici insieme a decine e decine di altre, affiancate in un ordine rigoroso e in uno spazio ampio e pulito che non le fa apparire le sorelle povere dei mezzi motorizzati (del resto che si tratti di un mezzo di locomozione di tutto rispetto lo dimostra il fatto che dalla stazione ne escono e ne entrano continuamente, in gran quantità); si mangia un generoso e saporito felafel (strettamente vegetariano, naturalmente) presso il meno affollato di due negozietti affiancati di kebab e affini, tenuti da due mediorientali; poi si riparte verso est, in direzione dei laghi. Abbiamo deciso di dormire verso S. Gilgen, sul Wolfgangsee e di raggiungere domani Sigi.
La strada dei laghi inizia con una salita abbastanza impegnativa. Il nostro discesista folle, che non se l’ aspettava, sbuffa, borbotta, borboglia, bofonchia, borborigmi incomprensibili, ma non amichevoli nei miei confronti, come se lo avessi portato sull’ Aconcagua.
Raggiungiamo Hof (a quota 725), nel pomeriggio; dopo un tratto pianeggiante, ancora saliscendi, ma grazie al paesaggio dolcissimo, A. si distrae riprendendo colline, prati e campi di tulipani self-service: un cartello ai margini del campo invita a cogliere i fiori, servendosi da soli; sotto il cartello le forbici e la cassetta dove depositare il denaro. Ovvio e scontato il paragone con l’ Italia.
Lungo la strada ci imbattiamo spesso anche in sagome di agenti della stradale ritagliati in cartone, che probabilmente oltre il 45° parallelo Nord hanno qualche chance di trattenere il comportamento degli automobilisti locali entro i limiti imposti dal codice, ma ben poche ne avrebbero da noi. Lontano, in mezzo a un campo, noto anche la sagoma, sempre in cartone, di un daino; ma non si riesce a darne una spiegazione attendibile. Molto più normale, invece, è scorgere animali selvatici sui prati che costeggiano la strada. Altro confronto, dalle conclusioni prevedibili, tra Italia e Austria. Ormai la superiorità conclamata del Paese che ci sta ospitando ci pare aver raggiunto punteggi tennistici, a tal punto che evitiamo di fare commenti, vuoi per carità di patria, vuoi perché l’atteggiamento esterofilo o addirittura autodenigratorio tipico di noi italiani, rischia di risultare alla lunga scontato e un po’ snob.
Tramonta quando arriviamo a S. Gilgen, classico paesino da villeggiatura per quattrinai di levatura medio-alta, molto carino e molto curato: fa venire in mente quelle ragazze ben vestite e molto graziose che sanno di esserlo e per le quali chiunque passi loro davanti è trasparente se non ha il Porsche. Difatti al primo hotel il maitre ci guarda dall’alto in basso (in effetti siamo un po’ brindelloni) e spara una cifra pazzesca (io non la capisco, al solito, ma per fortuna A. sì) e poi è pure antipatico. Al secondo, io mi levo casco e occhiali, mi metto la canottiera buona (A., sempre impeccabile, nel suo stile albionico, non ne ha bisogno) e tentiamo l’approccio col proletariato, affacciandoci direttamente ad una finestra delle cucine; ma, come ci vedono, i lavapiatti (che evidentemente ci tengono a distinguersi dallumpenproletariat) dicono subito che non c’è posto, anche se il cartello sulla strada proclamava chiaramente “frei zimmer”; allontanandoci, non mi resta che nascondergli, per dispetto, il cartello menzognero. Al terzo hotel, dopo essermi ben ripassata la storia del lupo e dei sette capretti, mi metto la polo delle grandi occasioni, il casco sul petto, a mo’ di cavaliere antico all’atto dell’investitura (in realtà per nascondere le immancabili patacche), e mi ravvio i capelli che il casco ha ripartito in tre creste molto punk, poi entro al fianco del lord Brummel mio collega, pronto a esibire la mia Golden Card. Faccio appena in tempo a dire: <<Guten..>> alla direttrice, che A. le chiede a mitraglia: <<… Abend, …Bitteschön … eine frei Zimmer… für zwei Personen… mit zwei Bette… für eine Nacht… Dankeschön>>. Lei impreparata a tanta facondia e a questa raffica di numeri, capisce “frei Zimmer” come drei “Zimmer” e risponde laconicamente: <<Nein>>. Nella pausa di gelo che segue, io consulto freneticamente il mio vocabolario mentale nella vana ricerca di un significato di “nein” diverso da“no”. Per fortuna tutto si chiarisce in breve. Gentile e sorridente (ma inesorabilmente sessantacinquenne), l’ostessa ci comunica anche il prezzo, cena compresa, ma figuriamoci se io lo capisco; anche A. non è molto sicuro se è “100 e rotti” oppure “rotti e 100”. Comunque non c’è molto da scegliere e poi l’albergo è bello, le persone sono gentili e a servire a tavola il personale è sorridente, disponibile, di figura slanciata, bel portamento, viso solare, occhi azzurri, capelli biondi, curve giuste al posto giusto… non essendo un pillaccherone tacerò sul trascurabile particolare del sesso maschile o femminile e su quanto questo possa aver influito sulle scelte di A. Sta di fatto che si crea un’intesa fenomenale: basta che lui dica soltanto che siamo vegetariani (questa è la frase che ha ormai sostituito il nostro “Buongiorno/Buonasera”) e ci portano un boccale di birra da mezzo litro a testa, un consommé di piselli con spruzzata di panna, due porzioni di strudel con patate e vegetali vari. Palatschinken (crepes) per finire.
Pieni come un uovo, ci lanciamo in un’ improbabile passeggiata notturna, finendo in una stradina tenebrosa fuori del paese davanti alla villa del reverendissimo maestro guru Sant Boh Singh (il Boh sta per la parte di mezzo del nome che non ricordo: ci tengo alla veridicità inappuntabile della cronaca, io). Evidentemente A. vi è stato sospinto dal richiamo dell’ energia cosmica. A giudicare dall’ampiezza della villa e del parco, nonché delle telecamere sul muro di cinta, mi viene da pensare che, più che cosmica, la forza del reverendissimo guru sia quella del quattrino.
Torniamo alla civiltà e, tanto per non smentirci, ci ritroviamo seduti davanti a una konditorei a svangarci una fettona di torta + drink per ciascuno. Anche il cielo, tanto per non smentirsi, ci elargisce la solita dose di pioggia notturna, che “a noi non ci fa un baffo”, finché siamo al riparo in un albergo. Rientriamo perciò all’hotel, che dentro come fuori è bello e di antica fattura, ma noi ci auguriamo che la fattura al momento del conto non produca gli effetti di una fattura stregonesca [vabbè, il gioco di parole è pietoso, ma anche noi, a vederci o a sentirci ragionare, mica siamo messi tanto bene…].
La camera è bella, con tre finestre che danno sulla piazza principale e su una piazzetta caratteristica, solo che gli “zwei bette” sono un matrimoniale; nessun problema: parte l’operazione smontaggio, separazione, trasporto su divano vicino di uno dei due materassi.
Messaggini, telefonate e diario della giornata a notte fonda, mentre fuori si leva un vento che porta via.
Abbiamo percorso 109 km; la media generale è risalita a 19 km/h. Il ritardo è cresciuto a due giornate nette, ma domani con altrettanti km dovremmo farcela a raggiungere Gallspach, patria del buon Siegfried, senza fretta né ansia veruna.
Ora che Parcifal ha ritrovato il Sacro Graal, l’impresa può considerarsi compiuta e la sensazione che ogni chilometro che avvicina a Siegfried allontani da Sigmund, vale sul piano letterale, ma ancor più metaforico (altro discorso astruso e contorto per dire che il completamento -ormai prossimo- del viaggio sta contribuendo a ridarmi quella serenità che nei mesi precedenti sembrava messa in discussione. Sarà bene che, da ora in poi, la sera mangi più leggero…).
8° giorno – Lunedì 5 Agosto
Sveglia ai rintocchi di campana; niente di strano, ma perché suonano una dozzina di colpi netti (sono le 7,30) seguiti da uno strascico di mezzi colpi? Cosa ci mette nel caffelatte il campanaro? <<Forse sarà una chiamata per la messa, o una giornata importante per qualche ricorrenza >>ipotizza A. Mah?! Il 4 di luglio in USA, il 14 di Luglio in Francia, il 25 Aprile in Italia e il 5 Agosto in Austria?. Folgorazione! Chi se ne frega degli scampanii austriaci! Oggi è l’anniversario di matrimonio mio. <<What a bottom to have remembered it!>> dico ad A., che subito ne fa la traduzione simultanea in 5 lingue, mentre io mi precipito a inviare a casa il mio messaggino record, dando mie notizie, gli auguri di buon anniversario e (visto che sono ormai diventato velocissimo) mettendoci pure la firma: “Tutto OK – B.A. – io”. Il matrimonio è salvo.
Alla colazione a buffet con la solita quantità industriale (oltre agli alimenti dolci, A. non si nega né il burro né i formaggi, né gli insaccati, né l’uovo: quando si dice la disappetenza unita alla lotta contro il colesterolo…) segue una lunga operazione “Vasi Comunicanti”, con probabile intasamento del sistema fognario salisburghese.
Pagamento del conto (onesto) di 100 e rotti € – come previsto – e partenza alle 10,45, direzione Au, per tagliare a metà tra il Mondsee e l’Attersee, costeggiare quest’ultimo, raggiungendo Vöcklabruck e infine Gallspach.
Ci dicono che la strada per l’Attersee è bloccata, per il pericolo che delle rocce, staccandosi dalla parete a picco della montagna, si schiantino sulla testa dei viaggiatori, ma noi li rassicuriamo: avendo noi il casco, le rocce non corrono rischi e dovrebbero rimanere intatte. Raggiungiamo perciò il bivio, dove è segnalato il pericolo e oltrepassiamo il divieto baldanzosi e impavidi, nonché fieri per l’ineguagliabile durezza delle nostre teste, frutto di un’ applicazione quotidiana, oltre che dote naturale. Arriviamo vicino alla parete a strapiombo: le rocce sono effettivamente incombenti e il loro aspetto minaccioso e cupo contrasta con la dolcezza del lago che ci si apre davanti. Purtroppo si dev’essere sparsa la voce del nostro arrivo, perché sulla strada c’è uno sbarramento davvero impenetrabile che ci impedisce di proseguire.
Cambiamo perciò itinerario; costeggeremo il Mondsee e poi taglieremo per Haslau e per la statale 1, prendendo una scorciatoia che so io (sono un uomo di mondo: ho fatto il militare a Cesano; vuoi che, con le mie competenze topografiche, non sappia leggere una carta stradale?). Ma la deviazione per Haslau è introvabile e così la scorciatoia si rivela un’ allungatoia.
Pranziamo ad un “Imbiss” all’aperto e ci facciamo servire oltre a un cestino stracolmo di panini e a un paio di bibitoni dai nomi strani (il mio si rivela essere una specie di spuma del discount), una passata di verdure ed una maxi insalata. Spolveriamo passata pane insalata e bibite in due ore + un battibaleno (indovinare, prego, chi impiega due ore e chi il battibaleno) e, mentre aspettiamo il conto, prepariamo 16 €, in base ai nostri calcoli, fatti sul menu. Ma sorpresa, sorpresa, il conto indica il doppio circa: la colpa sta nei panini che erano sì numerosi, ma non inclusi nel servizio e costavano 1 € ciascuno. In pratica abbiamo speso più per il pane che per tutto il resto.
Arrivati a Straßwalchen, telefoniamo a Sigi; lui, tutto contento strilla “Suppa!” e si offre di venirci a prendere lì, ma la proposta è assolutamente inaccettabile: due pedalatori folli come noi farsi trasportare al traguardo… in macchina! Figuriamoci. Nulla e nessuno ci può fermare, ormai, a due passi dalla meta finale del viaggio (prima di pronunciare, comunque, queste audaci parole, ho scrutato il cielo sereno e pacifico). Casomai, prepari, Sigi, il tappeto rosso, la banda del paese e una congrua folla plaudente.
Ripartiamo fiduciosi nelle nostre forze e nei nostri mezzi, astenendoci, per scaramanzia, dal fare previsioni sull’ora dell’arrivo. Si procede veloci, col vento a favore e in leggera discesa, senza sentire stanchezza e protesi con la mente al glorioso momento dell’arrivo. Così dev’essersi sentito, scorgendo da lungi le inclite sponde della sua petrosa Itaca, Ulisse.
Io mi sento particolarmente euforico e ora, a impresa praticamente compiuta, mi vien da sottolineare la fortuna che la mia bici, dopo un avvio alquanto incerto e qualche noia al cambio, abbia sempre funzionato perfettamente. Infatti nel giro di 5’ da quell’improvvida esternazione, mi si rompe la leva del cambio moltiplica. Deciso a non arrendermi, davanti a quest’ultima prova, e per non rinunciare alla moltiplica grande, indispensabile ora che si procede in discesa e col vento in poppa, decido di fissare il cavetto con un nastro di velcro alla massima velocità. Ma poco dopo iniziano i saliscendi (molto sali e poco scendi) ed è una faticaccia arrivare in cima ai poggi. Inutile dire che, mentre io sono costretto a pedalare duro, A. se la prende comoda senza fatica con rapporti morbidi e oltre tutto quando mi affianca, mi sfruculea dicendo: <<A te piace usare rapporti duri, perché così fai meno fatica, no?>> È’ solo per economizzare il fiato che non gli rispondo. I poggi sono tantissimi e la strada sembra non terminare mai , alla faccia di chi al mattino ci aveva detto che era tutta pianura. Quanto è vero che i percorsi giudicati da chi va in auto sono ben diversi per chi li percorre in bici!
A Schwanenstadt, al bivio per Linz, deviamo verso Nord e, come Dio vuole, arriviamo a Gallspach. Dopo un’affannosa ricerca della strada -sconosciuta a tutti- e dei Mairhuber (che è invece un cognome inutilmente conosciutissimo, essendo quello di mezzo paese) raggiungiamo casa di Sigi alle 17,30.
Baci/abbracci/festosità e primi colloqui in anglo-tedesco; meno male che c’è A. che non solo sa parlare di tutto, conoscendo ogni vocabolo, da Alici a Zucchino, passando per Salamoia [seguirà, appena possibile, per i tipi della Treccani, la pubblicazione di tutti i vocaboli tedeschi sfoderati da A. nel corso della sua permanenza in Austria], ma riesce a farlo con tutti, bambini compresi; questi, allevati secondo un metodo che avrebbe fatto sembrare autocratico e repressivo quello montessoriano, lo sentono così affine in spirito che lo eleggono immediatamente a loro “re del carnavale” o principe dei giochi, organizzando corsi di aggiornamento sul modo di fare a cuscinate o di rintronarsi a suon di martellate (sia pur di gomma) sulla testa (sia pur di granito) di A. Penso con un brivido di sollievo e un afflato di gratitudine verso A., che quel rintronamento, in sua assenza, sarebbe toccato a me, come già accaduto in passato.
A ora di cena (sono le sei), <<Mahlzeit>> (perché si ostinano a non dire <<Guten Appetit>> come tutti i germanici ammodino, invece di quel “Mahlzeit” quasi impronunciabile?), si va a tavola, dove passata di verdure, megainsalata e pane annaffiati da birra costituiscono un’originalissima alternativa al cibo mangiato in questi giorni. In realtà i tapini, vegetarische anch’essi di fatto, senza sapere che lo eravamo anche noi, avevano preparato affettati e würsteln di vari tipi, ma quando costernati hanno saputo delle nostre scelte alimentari, si sono affrettati a farli sparire dalla tavola, nonostante le mie timide proteste, che hanno interpretato per buona educazione o acquiescenza, mentre io avrei fatto volentieri eccezione alla regola alimentare degli ultimi tempi.
Nel dopocena breve passeggiata nei possedimenti di Sigi, il quale si lamenta del fatto che i cacciatori hanno definitivamente eliminato ogni traccia di animali selvatici nella zona; sarà anche vero, ma allora perché nel giro di pochi minuti vediamo una famiglia di leprotti saltellare tranquillamente nel prato di fronte e soprattutto un daino a meno di 200 m, ai margini del bosco?
Dopo cena, mandati a letto i bambini (obbedientissimi, non si sono mai rifiutati nessuna delle dieci volte in cui gli è stato detto e ridetto), un po’ di relax sotto le stelle con birra e patatine davanti, a dibattere la vexata quaestio se stia peggio l’Italia ad avere uno come Bossi o l’Austria uno come Haider. Vista l’impossibilità di trovare una risposta definitiva, ci prepariamo ad andare a godere del meritato riposo, lasciandoci con il programma, per i giorni seguenti, di escursioni ciclistiche, gite, scampagnate, visite alle città e alle bellezze naturali che l’area offre. Che c’è di male se, osservando la volta celeste trapunta di stelle, me ne esco con l’ osservazione <<Guardate che notte strepitosa: il cielo è sereno e tutto stellato; domani sarà sicuramente una giornata magnifica>>? … Come potevo sapere che quello del 2002 sarebbe stato ricordato come l’agosto “nero” del bacino danubiano? Poche ore dopo, al nostro risveglio, infatti, Sigi annuncia che c’è una delicata pioggerellina; vabbè, per oggi non se ne fa niente: riposo, ma domani… Domani la pioggerellina di marzo che bussa argentina, si è trasformata in pioggia fitta e battente, per poi diventare intenso acquazzone, nubifragio continuo, alluvione catastrofica, secondo diluvio universale.
Il resto è Storia.
EPILOGO
Venerdì 9 Agosto
Dopo tre giorni spesi ad aspettare che spiova, con terra, cielo, alberi, case e persone inzuppati d’acqua e ingrigiti dall’assenza di sole, mesto ritorno in patria bei zug. Dopo una notte insonne, passata contando le stazioni ferroviarie, con il capo ciondoloni tra il poggiatesta e il minitavolino ribaltabile, pigiati in 8 in uno scompartimento per 6, alla faccia delle prenotazioni, arriviamo verso le 11 a Livorno. La colazione alla stazione è in linea col livello del pernottamento: due miseri cappuccini con pezzo dolce; l’Austria ci manca di già.
C’è un treno con bici per Castiglioncello fra un’ ora circa; ma noi siamo uomini e non caporali e poi ciclisti si nasce (e io modestamente lo nacqui); così decidiamo, all’unisono per una volta, di raggiungere con le nostre forze (?) il punto di partenza, anche perché ai 1000 km esatti ne mancano solo 10 e dopo i giorni passati da Sigi in assoluta inattività con le bici immobilizzate in garage, a causa della pioggia, sentiamo il bisogno di un po’ di movimento.
Salvo qualche nuvola lontana, il cielo è bello, l’aria è piacevolmente calda e ventilata, non resta che partire. <<Pronti?>> <<Pronti! Vai!>>. Il tempo di inserire il contakm e di alzare la testa e… A. è già sparito. Guardo intorno, non lo vedo; si sarà già avviato. Mi avvio anch’io; un paio di giri intorno alla rotonda della stazione, macché! E’ il colmo! Non ci siamo persi in un migliaio di km e ci siamo persi in un migliaio di centimetri! Continuo a girare in tondo e a cercare, finché lo vedo in fondo al parcheggio, alla rotatoria. <<Dov’eri finito?>> <<Dov’eri finito tu?!>> <<Ma se io ero lì che ti aspettavo>> <<Ma se sei partito prima tu!>> <<No eri te che volevi ‘orrere avanti…>> <<Ma se’ ceo ? ‘un lo vedi ‘e sono arrivato ora e te eri già qui?>> <<Zitto, pretaccio!>> <<Intollerante!!>> <<Falso!!!>> <<Torquemada!>> <<Milingo!>> … Home, Sweet Home: che dolcezza esser tornati in patria.
In qualche modo si riparte; si passa da casa mia, ma non c’è nessuno, sono tutti al mare a Castiglioncello; è comunque l’occasione per registrare con la Sony il ritorno degli Ulissi. I rari passanti, a vedere due tizi buffi su buffe biciclette, che giocano a filmarsi mentre vanno su e giù per la via, guardano in tralice prima noi, poi, a cercare una spiegazione, il sole. Questo, però, si è velato; anzi, giusto il tempo di ripartire ed è completamente sparito dietro le nuvole; meglio, il cielo è diventato scuro.
A due passi da Barriera Margherita i primi schizzi, a un passo la prima catinella di pioggia. Tutti sotto il portico della ex-stazione del trenino, ad aspettare che spiova. Infatti, il cielo da plumbeo si fa nero ed un vero e proprio nubifragio si abbatte sulla città, mentre altre nubi cariche di pioggia sembrano convergere su di noi. A un certo punto si avvista una tromba d’aria, scura e imponente, che dal mare sembra puntare sulla città, muovendosi velocemente e in modo minaccioso verso di noi (le rimembranze dantesche non rincuorano); poi, sembra attenuarsi, prima di scomparire alla vista. Per ingannare il tempo chiacchieriamo con un mt-biker in attesa come noi. Schiarisce verso sud, ma sulle nostre teste c’è il raduno mondiale di tutte le nuvole di Fantozzi, che ci aspettano al varco non appena metteremo la testa fuori dal riparo.
Avanzo la prima proposta di tentare una sortita; A. mi guarda soltanto, in modo significativo, senza rispondermi e col vicino riprende a parlare di civiltà e paesaggi nordeuropei. Schiarisce ancora, verso sud, ma sopra di noi niente sembra voler cambiare, anzi, la situazione sembra peggiorare. L’ idea di dover utilizzare le camere d’aria come salvagente, non mi entusiasma. Ripeto la proposta ad A., spiegandogli come verso sud il tempo sia nettamente migliore; anzi tra Ardenza e Antignano sicuramente non piove già più e sul Romito la strada è ancora asciutta. Mugugna che “va a finire che ci si bagna”. Ripeto la proposta, approfittando del fatto che la pioggia su di noi si è (solo momentaneamente) attenuata: è il momento buono per la sortita. Alla fine, pur recalcitrando, si lascia trascinare e, opportunamente impermeabilizzati, lasciamo il rifugio. Qualche goccia cade ancora, ma è più l’acqua che sale dalla strada di quella che scende dal cielo: come previsto, ad Antignano non piove e sul Romito la strada è asciutta, ma una goccia ha raggiunto la sua spalla sinistra e qualche schizzo è finito sulle scarpe di A. (che peraltro non si erano ancora del tutto asciugate dall’ alluvione di Rovereto). A nulla servono le spiegazioni e i chiarimenti, secondo i dettami della migliore ermeneutica, sulle parole “bagnarsi”, “acqua”,“ pioggia” e“ umidità”. Si sprecano i <<&*$TЯцNZen☺*¥>> <<**♣ ﻼﻲﮒﺙ ♫♀>> <<&**¥©@TZ®*#*!>> <<®*#*@ שׂﺾ ﻞﭺ ﺶאָ *>> <<♂☼ VOGEL*&*KOPF♫!!>> <<†▼◊SCHEIßE*&*STUCK♪!!>> (e altre amenità che dimostrano come l’arricchimento linguistico in fondo fosse uno degli obiettivi sottintesi del viaggio). Siamo riusciti a litigare l’ultimo giorno più o meno nello stesso punto del primo. Che bella cosa, però, possedere una intesa profonda e fraterna! Beh, l’anno prossimo, allora, si va a Istanbul, a Capo Nord o a Gibilterra passando da Santiago di Compostela?
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