di Daniele Manno –
Avete paura di ragni e pipistrelli, v’intimorisce il buio e non avete voglia di bagnarvi ma siete curiosi di visitare un acquedotto di quasi duemila anni fa? Gli speleologi del Gruppo U.T.E.C. di Narni hanno esplorato e fotografato per voi questo gioiello d’architettura idraulica, lungo circa 13 km. parte dei quali scorrono interrati sotto colli e montagne.
L’acquedotto romano della Formina, nella bassa Umbria, fatto costruire da Marco Cocceio Nerva, tra il 24 ed il 33 d.C. fu la soluzione agli approvvigionamenti idrici della città di Narni, da sempre soggetta ad estati siccitose, ove anche le cisterne urbane poco servivano a soddisfare i fabbisogni dei suoi abitanti. Scaricato l’equipaggiamento dalle auto iniziamo la marcia d’avvicinamento verso uno dei pochi accessi rimasti agibili. Pur non aspettandoci grosse difficoltà tecniche, cerchiamo di non lasciare niente al caso, ed oltre ad una dotazione speleologica sufficiente, alcuni di noi indossano anche delle mute subacquee in neoprene per sopportare meglio l’inevitabile “bagno”!
Una volta conquistata l’entrata, un piccolo pertugio poco più largo del nostro bacino, ci troviamo stretti nei 45 cm. scarsi di distanza tra le due pareti.
L’acquedotto non è più in uso dagli anni trenta ma non per questo è carente d’acqua, anzi! Camminiamo costantemente in ammollo, ora immersi solo fino alle caviglie, ora fino alla vita, costringendoci alla massima attenzione verso la nostra attrezzatura fotografica e di ripresa.
Ci troviamo sotto Monte Ippolito e la nostra entrata è coincisa con il 65° accesso all’acquedotto, numerati dalla sorgente presso il paese di S. Urbano in località “capo dell’acqua”, a soli 356 m. s.l.m.
Procediamo lentamente nel silenzio rotto solo dallo sciabordio dell’acqua mentre la luce non molto potente dei nostri caschetti si perde nel buio profondo dell’acquedotto. Molte situazioni potremmo studiarle adeguatamente solo una volta tornati in superficie, grazie alle immagini che stiamo registrando con cura.
La pendenza dello scavo, intorno al sei per mille, non è in pratica percepibile. Tale inclinazione, oltre ad angoli a gomito appositamente distanziati, fu studiata al fine di evitare all’acqua di prendere velocità ed erodere la muratura interna.
In ambienti ipogei particolarmente umidi non è difficile incontrare una fauna quanto mai interessante. La “Formina” non fa eccezione: un piccolo pipistrello, animale emblema dei sotterranei, è appeso al soffitto dello scavo. Avvicinandoci prestiamo attenzione a non turbarlo con rumori eccessivi: la sensibilità di questi animali è tale che potrebbero rischiare un arresto cardiaco se svegliati improvvisamente!
Improvvisamente tra gli spruzzi ed un anomalo frastuono siamo quasi investiti da un istrice impaurito, che schiamazzando si fa largo (si fa per dire visto le dimensioni del tunnel) fra noi fuggendo verso l’ormai lontana uscita!
Dopo poco siamo nuovamente immersi nel silenzio. Nulla del mondo esterno trapela sotto decine di metri di montagna. Continuiamo così l’esplorazione dell’acquedotto, fermandoci poco dopo davanti ad un graffito che riporta la data del 1611, evidente testimonianza di un restauro ultimato proprio quell’anno. In corrispondenza di quest’iscrizione il tratto è anche rinforzato da un’opera di muratura.
A circa metà percorso una sorta di “S” raccorda i due tratti della galleria. Questo deriva dal fatto che lo scavo fu intrapreso contemporaneamente dai due versanti opposti, inoltre la squadra di monte era scesa troppo in profondità di circa cinquanta centimetri, mentre quella di valle era salita di oltre un metro, tanto da portare a raccordare il cunicolo per diverse decine di metri. L’assenza di pozzetti proprio in questa zona deve aver complicato l’opera di non poco.
Una leggenda, narrata dagli abitanti del posto, parla dell’ingegnere romano preposto agli scavi che avendo calcolato il giorno esatto dell’incontro delle due squadre si tolse la vita perché esso non avvenne come stabilito!
Ma dopo poco c’è impossibile proseguire: una frana blocca l’acquedotto. L’unica maniera di portare avanti l’esplorazione è tornare indietro e scavalcare la frana rientrando più a valle.
Anche se la distanza percorsa è di poche centinaia di metri, la stanchezza e l’umidità si fanno sentire: in un ambiente come quello ipogeo i parametri variano molto da quelli di superficie.
Il tratto che riusciamo e riconquistare sotto il livello del suolo è quello denominato di S.Silvestro, distante poche centinaia di metri da Monte Ippolito.
A dispetto del precedente, questo è quasi completamente asciutto, a causa dei detriti depositati sul fondo. Anche la progressione è più difficile: per molti metri siamo costretti carponi, trascinando i sacchi e gli zaini.
In arrampicata esploriamo un pozzo, tappato sulla sommità, se non altro serve a sgranchirci un po’ le gambe! Non siamo ormai molto distanti dall’ultima fenditura che dovrebbe riportarci in superficie concludendo così la nostra esplorazione.
Difatti, pochi metri più avanti, s’intravede uno spiraglio di luce. La risalita non è difficoltosa e non ci obbliga ad “imbragarci”. Uno dopo l’altro guadagnamo l’uscita. La frescura del pomeriggio ci rinfranca un poco. Raccogliendo ordinatamente le nostre cose ci apprestiamo all’ultima camminata di ritorno verso le auto. Nelle nostre menti già stiamo montando il documentario, già stiamo selezionando le diapositive…già stiamo preparando la successiva esplorazione!
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